Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Monday, January 20, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z S SE

 

Luigi Speranza -- Grice e Sebasmio: la ragione conversazionale della classe romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sebasmio is a philosopher mentioned on a list of philosophers belonging to the Roman aristocracy. SEBASMIO.

 

Luigi Speranza --Grice e Secondo: la ragione conversazionale della gnosi romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a gnostic who believes that the world is divided into light and darkness. Secondo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Secondo: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Tacito. A Pythagorean, he acquires the nickname on account of a vow of silence he takes. Although some regard him as a Pythagorean, he appears to have led the life of the Cinargo. Even Adriano can not get to break his vow – although S. may have provided written answers to some of the philosophical questions Adriano poses.

 

Luii Speranza -- Grice e Selinunzio: la ragione conversazionale della scuola di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean. Giamblico.

 

Luigi Speranza --Grice e Sellio: la ragione conversazionale dell’allievo di Filone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Sellio. Pupil of Filo at Rome. Gaio Sellio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sellio: la ragione conversazionale del fratello – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Pupil of Filone at Rome – possibly Gaio Sellio’s brother. Lucio Sellio.

 

Luigi Speranza -- Grice Selvatico: la ragione conversazionale estense – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. Estense.

 

Luigi Speranza -- Grice e Semerari: la ragione conversazionale e il principio del dialogo in Socrate – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo Italiano. Taranto, Puglia. Grice: “Whereas it would be considered in bad taste at Oxford, the Italians pun on names – and there is an essay on the ‘seme’ of ‘semerari’ Witty!” -- Grice: “Perhaps Semerari is right and the philosopher MUST metaphorise. What better title to an essay on Carabellese than ‘La sabbia e la roccia”?” -- Grice: “I like Semerari: His ‘principio del dialogo in Socrate” is reprinted in his invaluable collection on “Dialogo.”” – Grice: “In a way, we may say that Calogero, Semerari, and myself, belong to the school of the philosophy of conversation – not to mention Apel!”. Si laurea a Roma sotto CARABELLESE. Insegna a Bari. Collabora ad Aut Aut, Critica storica, Giornale critico della filosofia italiana, Clizia, Historica, Rivista di filosofia del diritto, Rivista di filosofia, Il pensiero, Archivio di filosofia e altre riviste specialistiche. Fonda Paradigmi. Si dedica per lo più a Spinoza, a Schelling, alla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty e al materialismo storico di Marx. Altri saggi: Lo spinozismo,Vecchi, Trani; Storia e storicismo: saggio sul problema della storia in CARABELLESEC, Vecchi, Trani; Storicismo e ontologismo, Lacaita, Manduria, Dialogo, storia, valori: studi di filosofia, Ciranna, Siracusa; Interpretazione di Schelling, Libreria scientifica, Napoli;  Esistenzialismo italiano (Grice: “This reminds me of parochial Warnock and his “English philosophy,” or Sorley for that matter!” -- Cressati, Bari; “Questioni di etica, Adriatica, Bari; Responsabilità e comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria; La filosofia come relazione, Quaderni di cultura, Sapri; Natale, Guerini, Milano; “Scienza nuova e ragione, Lacaita, Manduria; S., Guerini, Milano; Da Schelling a Merleau-Ponty; Cappelli, Bologna; La lotta per la scienza, Silva, Milano; Valerio, premessa di Papi, Guerini, Milano, Spinoza, Marzorati, Milano; Esperienze, Argalia, Urbino; La filosofia dell'esistenza in Kant, Adriatica, Bari;  Introduzione a Schelling” (Laterza, Bari); Filosofia e potere (Dedalo, Bari); Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona;  La scienza come problema: dai modelli teorici alla produzione di tecnologie” (Donato, Bari); “Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano); “La sabbia e la roccia. L'ontologia critica di CARABELLESE” (Dedalo, Bari); “Dentro la storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Sartre. Teoria, scrittura, impegno” (Sud, Bari); Novecento filosofico italiano. Situazioni e problemi, Guida, Napoli; “Scesi. Studi husserliani” (Dedalo, Bari); Filosofia Guerini, Milano Confronti con Heidegger (Dedalo, Bari); La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, Frammenti di diario; l'anno di Istanbul, Schena, Fasano. “La cosa stessa.” Seminari fenomenologici (Dedalo, Bari); “Dommatismo e criticismo”, “Deduzione del diritto naturale” (Laterza, Bari); Pensiero e narrazioni. Modelli di storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Frammenti di diario; l'anno del Messico, Schena, Fasano); “Fenomenologia delle relazioni, Palomar, Bari); “Ragione e storia. Studi in memoria” Tateo, Schena, Fasano;  Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo, Tatasciore, Guerini, Milano; ‘La certezza incerta” Scritti su Semerari con due inediti dell'autore, S., Guerini, Milano; Ponzio, Il significato della filosofia per S., in "BariSera", Niro, S.. Il problema morale, Atheneum, Firenze, Silvestri, Il seme umanissimo della filosofia. Sul pensiero di S. (Mimesis, Milano). Treccani  Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per la illuminata iniziativa del Prof. Antonio Corsano e con  il consenso della Signora Irene Carabellese, appassionata e vigile  custode dell’opera di uno dei più forti pensatori italiani del nostro secolo, l’Istituto di Filosofia della Università di Bari ha promosso e realizzato, con questo volume, la pubblicazione dei corsi  organicamente tenuti da Pantaleo Carabellese su La filosofia dell’esistenza in Kant, negli anni accademici 1940-41, 1941-42, 1942-43,  presso la Università di Roma e mai editi finora.   Nel piano delle ‘Opere Complete’ del Carabellese, annunciato il 1948 ma non più portato a compimento (uscirono soltanto  i volumi Da Cartesio a Rosmini e Critica del concreto), era previsto, coi numeri 16-18, un « Kant (in parte inedito) ». Tale pubblicazione avrebbe dovuto comprendere unitariamente e il volume  del 1927, La filosofia di Kant. L’idea teologica — frutto, con l’altro  libro del 1929, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, delle  lezioni degli anni 1922-1925 alla Università di Palermo — e i  corsi romani del 1940-1943,   La presente edizione è stata condotta su un testo conservato  nella Biblioteca privata del Carabellese.e costituito da fogli dattiloscritti relativi ai paragrafi 1-7 e 38-104 dell’opera e da un gruppo di bozze di stampa corrispondenti ai paragrafi 8-37. Nel testo  sono riprodotte fedelmente le dispense autorizzate dei corsi svolti  dal Carabellese, negli anni 1940-1943, quale Ordinario di Storia  della Filosofia (Professore di Filosofia Teoretica a Palermo dal ’22  al ’25, il Carabellese ebbe la Cattedra di Storia della Filosofia a  Roma dal ’26 al ’43 e passò alla Cattedra di Teoretica il ’44,  quando subentrò al Gentile, occupandola sino alla morte avvenuta  il 1948).   L’Autore non poté riesaminare, ai fini di una regolare pubblicazione, il testo. Sono pertanto restate, qua e là, delle ripetizioni    Vv    inevitabili, del resto, in un corso universitario che si è sviluppato,  sul medesimo tema, per più anni di seguito. Anche lo stile della  esposizione, talora un po’ trascurato, riflette la immediatezza e  quasi estemporaneità di un discorso al quale è mancato l’ultimo  ritocco letterario.   L’approntamento del volume per la stampa è stato curato dalla  Dr. Valeria Novielli, che ha sottoposto il testo a un’attenta e paziente revisione, rendendone più precisa la punteggiatura, emendandolo, nelle parti dattiloscritte, di numerose sviste formali, controllando e rettificando tutte le citazioni. Con la Dr. Novielli è  doveroso ricordare i giovani, che con lei hanno diviso la non lieve  fatica della correzione delle bozze: Teresa Angelillo, Teresa Massari, Cosimo Tinelli e Anna Verzillo.    *o d*o*    Nel presentare al pubblico questa grossa e ardua opera kantiana del Carabellese, mi corre l'obbligo di accennare brevemente  al suo significato nel quadro del pensiero teoretico e metodologicostoriografico dell'Autore, sì che quanti vorranno studiarla o consultarla possano partire, nella lettura, col piede giusto.   Sulla formazione della filosofia personale del Carabellese l’insegnamento di Kant ebbe influenza decisiva. Carabellese considerò  sempre la sua ‘critica del concreto’ o * ontologismo critico’ il risultato di un ripensamento profondo e ostinato della dottrina  kantiana. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica del  concreto, che è del 1939, Carabellese dichiarava esplicitamente  che Kant gli « fu d’aiuto » a scoprire la ‘critica del concreto’ e  aggiungeva: « questa mi fu poi d’aiuto a riscoprire Kant »!. Le  suggestioni ricevute da Kant per la scoperta e la strutturazione  della ‘critica del concreto” così come il ritorno a Kant attraverso  tale critica precisano il carattere di lettura teoretica, che rivelano  gli scritti kantiani di Carabellese.   Convinto che il Kant della corrente tradizione storiografica, il  Kant cioè raffigurato quale punto di convergenza e di fusione di  razionalismo ed empirismo, fosse una falsificazione dell’autentico  Kant e che, al contrario, la verità di Kant fosse l’affermazione  della inesauribilità dell’ ‘essere’ o ‘cosa in sé’ rispetto alla na     1 CARABELLESE, Critica del concreto, Firenze, 1948, Sansoni, p. XIX.    tura, Carabellese ricostruiva Kant assumendo a criterio d’interpretazione l’esigenze proprie della ‘critica del concreto’: l’essere in  sé (Dio, Oggetto, Idea) e l’essere in altro (Io, Soggetto, Esistenza).  Il volume del 1927 era dedicato appunto alla ‘idea teologica’ ed  era concentrato nell’analisi del processo onde Kant, pur nei limiti  dogmatici e realistici del suo criticismo, aveva posto la idea quale  oggettività e ragione e, quindi, la schietta idealità della ragione.   Per intendere correttamente la relazione dell’opera del ’27  con La filosofia dell’esistenza in Kant, è utile ascoltarne un passo:  « Per ora constatiamo che Kant ha finalmente scoperto la natura  dell’oggettività nella sua distinzione dalla esistenza. L’oggettività  è risultata la necessità e universalità di coscienza: ciò che nei singoli pensanti c’è di identico (...). L’oggettività dunque è universale astratto nella coscienza. Ecco la grande scoperta che Kant ha  fatto, ma non ha visto. È l'America, che egli crede India (...). E  con la scoperta dell’oggettività, Kant ha scoperto anche l’esistenza  nella sua distinzione dalla oggettività. Infatti, l’oggettività, l’essere  identico della coscienza è astratto, perché ci sono le singolari qualificazioni della coscienza nelle quali... ci è dato tutto ciò che di  esistenziale può mai risultare » 2. Non diversamente da Colombo  che, credendo di aver trovato una nuova via per raggiungere un  continente già noto, in realtà aveva scoperto un continente prima  sconosciuto, anche Kant — pensava Carabellese —, incamminatosi nella ricerca critica intorno alla conoscenza, era approdato, senza rendersene adeguatamente conto, alla individuazione della dimensione oggettiva o ideale della coscienza e alla sua distinzione  dall’altra dimensione, che è la esistenza, la soggettività. Questa  1‘ America’ scoperta ma non riconosciuta da Kant, che, « al di là  di questa oggettività ed esistenza che ci risultano e che costituiscono la coscienza », si intestardiva « ad ammettere ancora una esistenza. che concretizza l’oggettività fuori della coscienza » 5.   A giudizio di Carabellese, Kant, impegnato a risolvere il problema capitale della filosofia moderna, quello gnoseologico, aveva,  di fatto, impostato vin nuovo problema, il problema della coscienza  nella concretezza della sua struttura e delle sue esigenze trascendentali: universalità e singolarità, oggettività e soggettività, idea ed    2 CARABELLESE, La filosofa di Kant. L'idea teologica, Firenze, 1927,  Vallecchi, pp. 166-167.  3 CARABELLESE, La filosofia di Kant, cit., pp. 167-168.    VII    ì    esistenza, Dio e Io, ecc. Il ‘ vero’ Kant era ritrovato da Carabellese nella ‘Dialettica Trascendentale’ della Critica della ragion  pura, dove etano stati definiti i grandi temi metafisici di Dio (idea  teologica) e della esistenza (idea cosmologica, idea psicologica). La  improponibilità di quei temi in termini conoscitivo-positivi, il loro  eccedere dai limiti della ‘ Estetica’ e dell’‘ Analitica’, che costituivano formalmente il campo del ‘conoscibile’ e dello ‘scientifico’, davano a Carabellese la conferma che, con Kant, era accaduto qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. nella storia della filosofia moderna, il passaggio di fatto, implicante un rovesciamento  prospettico, dalla filosofia del conoscere alla filosofia della coscienza  e del concreto, passaggio solo di fatto e non ancora di diritto, ché  Kant continuava a restare impigliato nella logica della filosofia del  conoscere, confondendo oggettività ed esistenza, di cui pur aveva  sentito la distinzione a livello di coscienza comune e di sapere  concreto. La filosofia di Kant « perciò s’incentra nei tre problemi  della Dialettica, scrive Carabellese nella Prefazione all'opera, Di questi tre problemi adunque noi faremo centro per  esporre criticamente il pensiero filosofico di Kant nella sua integrità, prendendo ciascun problema dal momento in cui esso si formula nella mente kantiana fino a quello in cui dal problema, risoluto o no, questa si libera. L’avvertimento di quella che, per lui, era stata la più originale scoperta kantiana e, insieme, dell’imzpasse logico in cui era  stata bloccata dalle contraddizioni della filosofia ‘storica’ di Kant  metteva nelle mani di Carabellese il filo rosso del suo incontrarsi  e scontrarsi con Kant e fissava i termini e il metodo del suo discorso critico, che si veniva organizzando nei modi di una lettura,  come oggi si direbbe, ‘sintomale’, di Kant, orientata a valorizzare, contro il Kant letterale, la sua scoperta critica liberandone il  contenuto dall’involucro formale e linguistico della tradizione precriticistica, che ne distorceva il senso e ne strozzava lo sviluppo. Prescindere da Kant oggi, in filosofia, è fare opera nulla. Ora  per una determinazione di problemi che non prescinda da Kant,  io credo che bisogna rifarsi dallo stesso Kant senza trascurare quelle CARABELLESE, La filosofia di Kant che sono le conquiste dal kantismo, e non dallo stesso Kant, già  fatte. Rifarsi quindi da Kant combattendolo nei suoi residui dogmatici. Ma per combatterlo appunto bisogna intenderlo nella sua  profondità, e per intenderlo bisogna avere una concezione della  realtà da contrapporgli (concezione sia pure nata da Kant; che anzi  deve esser nata da Kant), bisogna avere un pensiero con cui indagarlo. Solo così si può fare la storia, sia essa della filosofia che  di una qualunque determinata attività concreta dello spirito.   In tal modo, Carabellese progettava la sua lettura di Kant  come controllo di una più vasta e generale interpretazione del  rapporto tra la filosofia e la sua storia. La filosofia, voleva dire  Carabellese, non nasce se non sul terreno dei problemi maturati  storicamente (impossibilità di filosofare oggi prescindendo da Kant  e dalla storia del kantismo). La filosofia, nondimeno, non eredita  passivamente dalla propria storia (necessità di combattere Kant nel  suo superstite dogmatismo). Anzi gli stessi problemi proposti dalla  storia non possono essere compresi fino in fondo, nella loro verità, se non si sia in grado di fare uso di un punto di vista diverso, andando al di là del giudizio strettamente storico con un  giudizio teoretico (Kant non può essere combattuto, cioè proseguito e superato, se non venga prima inteso, e non può essere  inteso, se non si sia in grado di opporgli un differente pensiero).  Insomma, se la filosofia dipende dalla sua storia, questa, dalla sua  parte, è anche condizionata e anticipata dalle opzioni teoretiche  della filosofia.   Il proposito di far emergere dall’interno della dottrina kantiana ciò che appariva essere il suo contributo più originale e  importante, dando, per questa via, espressione a quanto Kant  aveva lasciato inespresso, rendeva la indagine storiografica di Carabellese altamente drammatica e rischiosa, provocava il mutuo coinvolgimento dello storico .e del suo autore, al punto che il dovere  di capire l’autore finiva col coincidere col diritto di correggere,  reimpostare o risolvere i problemi da lui lasciati aperti, e sollecitava al salto al di là dei limiti della filologia, quando ciò sembrava  necessario alla risolutiva espressione dell’inespresso. Lo stesso Carabellese era ben consapevole di ciò e non fu certo un caso che,  introducendo il volume del ’29, difendesse il suo scrupolo filologico: « M’auguro che l’amore della tesi non abbia mai forzato l’in- [CARABELLESE, La filosofia di Kant] dagine storica ad una interpretazione che non sia quella voluta  dalla intima coerenza logica dei pensatori studiati. Certo ho messo  in ciò la massima cura. E perciò mi son sempre rifatto direttamente alla lettera stessa dei loro scritti, perché i concetti risultassero sempre nella loro maggiore possibile determinatezza.  In definitiva, ciò che principalmente importa a una ricerca quale  Carabellese proponeva e perseguiva non è tanto la relazione, che  Kant ebbe con le sue fonti e coi suoi contemporanei, quanto la  relazione che può instaurarsi tra Kant e i suoi successori e, soprattutto, tra lui e noi nell’orizzonte della odierna problematica filosofica.   Era questo il senso della contrapposizione a un Kant morto,  congelato nel linguaggio delle sue opere, di un Kant vivo che, diceva Carabellese, « io voglio rivivere e far rivivere, e col quale  quindi io ho bisogno di discutere scendendo nelle profondità del  suo pensiero e analizzando questo sia nei suoi germi nascosti, per  i quali egli rivive in noi che con lui discutiamo, sia nelle grossolanità esplicite dalle quali egli non seppe e non poteva liberare  la sua costruzione, e di fronte alle quali quindi egli deve rinnegare se stesso e darci ragione » ”.   A questo punto può essere interessante ricordare come un’analoga impostazione alla comprensione di Kant dava, due anni dopo  la uscita del libro carabellesiano del ’27, ma in totale indipendenza da Carabellese, Martino Heidegger con Kant e il problema  della metafisica. Non è questa la sede per istruire il confronto tra  il Kant di Carabellese e il Kant di Heidegger e illustrarne le  differenze pur nella comune ispirazione ‘ metafisica ’ dei due approcci®. Vale, piuttosto, la pena di sottolineare la identità, nel  metodo, delle due letture, che risalta oggettivamente alla luce della  seguente dichiarazione di Heidegger: « Un’ ‘interpretazione ’, la  quale si limiti a ripetere ciò che Kant ha detto testualmente è  destinata in partenza a fallire il suo scopo, almeno finché il compito di una vera interpretazione resti quello di rendere visibile  proprio ciò che nella fondazione kantiana traspare al di là delle CARABELLESE, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, Palermo, Trimarchi, CARABELLESE, La filosofia di Kant, Lo stesso Carabellese volle precisare tali differenze in una lunga  nota della Prefazione alla Il edizione della Critica del concreto: cfr. Critica del concreto    Xx    formule. È vero che Kant non è giunto a pronunciarsi direttamente  in proposito, ma è anche vero che in ogni conoscenza filosofica il  fattore determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì  l’inespresso immediatamente suggerito dalle enunciazioni esplicite.  Così, l’intento esplicito di questa ‘interpretazione’ della Critica  della ragion pura era di rendere visibile il contenuto decisivo dell’opera, tentando di porre in evidenza ciò che Kant ‘ha voluto  dire’. Nel seguire questo procedimento, la nostra interpretazione  fa propria una massima che lo stesso Kant voleva veder applicata  alla ‘interpretazione’ di opere filosofiche (...). Naturalmente, per  strappare a quel che le parole dicono, quello che vogliono dire,  ogni ‘ interpretazione’ deve necessariamente usar loro violenza. Ma  tale violenza non può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione dev'essere mossa e guidata dalla forza di un'idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù di una tale idea, una  ‘ interpretazione’ può osare l'impresa, ognora temeraria, di affidarsi  al segreto impulso che agisce nell'intimo di un’opera, per essere  aiutata a penetrare l’inespresso e forzata ad esprimerlo. È questa  una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi  pienamente, manifestando il proprio potere di chiarificazione » °.  Chi abbia presenti i passi dianzi riferiti di Carabellese, ove si  parla di discesa nelle « profondità » del pensiero kantiano, di  « germi nascosti », a cui fanno velo « grossolanità esplicite », della  « concezione della realtà » da contrapporre a Kant per capirlo e  della necessità « di avere un pensiero con cui indagarlo », può rendersi conto di come Carabellese e Heidegger concepissero, entrambi, il lavoro storiografico, in filosofia, fondamentalmente come interpretazione, interpretazione da tentare come sforzo di esplicitazione del senso profondo e intenzionale, restato nascosto, delle parole espressamente dette. Di tale sforzo, la cui realizzazione può  anche comandare l’esercizio della violenza sulla filologia, il pre  L    9 HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, tr. it, Milano, 1962,  Silva, pp. 264-265. Nella Prefazione alla II edizione dell'opera, che è del  1950, così scriveva Heidegger: «C'è sempre chi si sente urtato dalle forzature che riscontra nelle mie interpretazioni. Questo scritto potrà offrire  buoni argomenti per un'accusa in tal senso. Coloro che dedicano le loro  ricerche alla storia della filosofia hanno sempre il diritto di muovere quest'accusa a chi tenta di aprire un dialogo fra pensatori. Un dialogo di  pensiero obbedisce a leggi differenti, rispetto ai metodi della filologia storica, legata a un suo compito preciso. Più grave è, nel dialogo, il rischio  di fallire, più frequenti sono le mancanze. supposto è un'anticipazione teoretica (non casuale, non arbitraria  secondo Heidegger, necessariamente derivata dal filosofo stesso del  quale si fa la storia, secondo Carabellese), capace di trasformare in  parole chiare e determinate la ‘intenzione’ del filosofo oscurata e  contraddetta dal suo stesso discorso storicamente esplicito. Secondo Carabellese, il compito della filosofia dopo Kant, nella  misura in cui Kant veniva riconosciuto come ponte di passaggio  obbligato nella storia del pensiero moderno, era di andare avanti  sulla strada di una ‘metafisica critica’, che Kant aveva appunto  dischiuso ma non percorso. Sin dalla edizione, che cura, degli Scritti minori di Kant, il Carabellese aveva fermamente battuto sul fatto che, a suo parere, il criticismo kantiano  non rappresenta la liquidazione della metafisica, bensì la esigenza  e anche il modello, in qualche maniera delineato, di una sua nuova,  ‘ critica ’, reimpostazione. « Nello sforzo tenace e fortunato che Kant  ha fatto per rendersi conto esatto della possibilità della filosofia  come metafisica, cioè come scienza, che ha oggetti non dati dalla  esperienza, si possono distinguere due aspetti: quello per cui lo  sforzo tende, diciamo così, ad individuare con la maggiore possibile esattezza questi oggetti nella loro essenza, e l’altro, che è  come il riflesso di quel primo, per cui lo sforzo torna continuamente a misurare se stesso » 1°, L’errore di Kant, il suo limite storico, a giudizio di Carabellese, era consistito nell’aver dimenticato  che la Critica, nel suo stesso programma, era destinata a fungere  solo da propedeutica (‘prolegomeni ’) a ogni futura metafisica e  non poteva, perché non doveva, elevare se stessa a filosofia. L’errore del pensiero postkantiano era stato quello di non accorgersi  dell'errore kantiano e di aver assunto come ovvietà non più discutibile né problematizzabile la presunta negazione kantiana della  metafisica. Metafisica positivistica, criticismo metafisico idealistico,  storicismo, attualismo, esistenzialismo, ecc. — tale era la convinzione di Carabellese — erano tutti prodotti diversi di un medesimo perseverare nell’errore di Kant: la confusione del problema  dell’oggetto della filosofia (il problema cosiddetto esterno) col KANT, Scritti minori, a cura di P. Carabellese, muova ed., Scritti  precritici, Bari, Laterza. problema del rapporto della filosofia con se stessa (il problema  cosiddetto ‘interno ’). Esauritosi nel mero esercizio della Critica,  finita col diventare fine a se stessa, Kant fu costretto a occuparsi  unicamente del problema ‘interno’ della filosofia e non vide come  la sua soluzione sarebbe stata impossibile fino a quando non si  fosse affrontato e formulato correttamente, secondo le indicazioni  della Critica, il problema ‘esterno’. « Il problema che Kant impostò riguardo alla filosofia », scriveva il Carabellese il 1929, «e  che è sostanzialmente il problema di tutta la Critica, non fu quello  della essenza, ma soltanto quello della possibilità di essa. L'essenza  della filosofia come scienza era presupposta e dogmaticamente accettata. Perciò il criticismo kantiano non è la piena posizione di  quello che abbiamo detto il problema interno della filosofia; ne  è invece la posizione consentita da un preconcetto essere intellettualistico » !.   In altre parole, Kant, nonostante la Critica, non seppe rinunciare al pregiudizio pre- e anti-criticistico di un essere sussistente  al di fuori della coscienza e del soggetto e all’uno e all’altra contrapposto e continuò a pensare la filosofia come uno dei modi,  certamente il più fallimentare, di raggiungere conoscitivamente questo essere. « Come Cartesio aprì quello delle origini, Kant ha  aperto soltanto il problema della possibilità della conoscenza. E  tutti gli indirizzi post-kantiani, che di Kant veramente tengano conto, cercano di rispondere a questa domanda, ma solo a questa. E  a me paiono ora esauriti i tentativi per darle una risposta. È ora  di cambiar aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A furia di dimostrare la possibilità della conoscenza,  abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare  a vedere che cosa è questa conoscenza di cui vogliamo dimostrare  la possibilità » 1. La ragione principale della filosofia di Kant, alla  luce della interpretazione carabellesiana, stava proprio in quel bisogno di « cambiare aria », di conquistare « una nuova dimensione  dello spazio speculativo ». Il che, per Carabellese, significava che  Kant aveva toccato il limite estremo dello gnoseologismo moderno,  da un lato circoscrivendo, una volta per tutte, l’area del conoscibile, di ciò che può essere ‘scienza’, e dall’altro provando che  filosofare non è conoscere. li CARABELLESE, Il problema della filosofia CARABELLESE, Il problema della filosofia Che cosa la filosofia potesse mai diventare, dopo essere stata  affrancata da compiti di conoscenza — questo, secondo Carabellese,  era il problema posto da Kant, che Kant non ebbe la forza di risolvere, in quanto lasciò che i potenti strumenti della Critica restassero inceppati dallo stesso pregiudizio realistico messo in crisi  appunto dalla Critica. Il pregiudizio restò ancora abbastanza saldo  per la svista di Kant, che non si accorse della grande scoperta ‘critica’ e ‘metafisica’, da lui fatta, dell'oggetto quale universalità e necessità della coscienza e non più  suo ‘al di là”. Proclamandola impossibile come scienza, Kant mostrava di considerare la metafisica pur sempre come ‘scienza’. Per  lui, gli ‘oggetti’ della metafisica (Dio, anima, mondo) continuarono a valere come l’‘al di là’ della coscienza, conoscitivamente  inattingibile. Eppure il senso della Critica spingeva a inglobare quegli oggetti nella coscienza, a ‘ immanentizzarli’ non quali ‘ contenuti” bensì quali ‘essere’ della coscienza, come la stessa coscienza  nella sua originaria e necessaria struttura !8, infine come l’apriori metafisico di ogni determinato e concreto sapere, essere e fare.  Dopo Kant, quindi, anzi attraverso Kant, fare metafisica, fare cioè  filosofia e non soltanto propedeutica alla filosofia doveva voler dire,  per Carabellese, null’altro che riflettere (riflettere, non conoscere),  sempre più a fondo, sulla coscienza comune, sulla struttura del concreto essere/fare naturale e storico dell’uomo. Nello spirito, anche se contro la lettera della Critica e contro la dominante tendenza del pensiero postkantiano, Carabellese pensava tale struttura  immanente e trascendente allo stesso tempo: immanente, perché  intrinseca al concreto, trascendente, perché non esaurita né esauribile in alcuna determinazione del concreto (la inesauribilità della  kantiana ‘cosa in sé’ rispetto al fenomeno o natura). Per rivalutare a pieno il kantismo bisogna guardare anche «.. coscienza è il sapere insieme, noi molti soggetti, un oggetto,  nella unicità del quale conveniamo » (CARABELLESE, La coscienza, nel vol.  collettivo Filosofi italiani contemporanei, Milano, 1946, Marzorati, p. 210).  Oggetto umico e noi molti soggetti insieme costituiscono, per Carabellese,  la struttura o essere della coscienza. Fusi e, tuttavia, distinti nella sinteticità originaria della coscienza, della coscienza l'oggezto è principio 0  fondamento e noi molti siamo i termini esistenziali. Tutto ciò Carabellese  ricavava dalla Critica, ora direttamente ora mediandola storicamente, ma  sempre sostituendo all’abituale lettura di Kant in chiave gnoseologistica  la interpretazione ‘metafisica’ ossia, nel linguaggio di Carabellese, ‘ ontocoscienzialistica '.  questi oggetti della ragione pura, non per tornare a ripetere la  metafisica kantiana di noumeni sconosciuti e inconoscibili e pur  validi come regolativi, ma per guardarli nel nuovo concetto di co-  scienza maturatosi da Kant, e rivalutare così di nuovo il presup-  posto trascendentale della esperienza. Del nuovo concetto di  coscienza, in cui venivano trasposti e semanticamente rigenerati i  vecchi oggetti metafisici della ragione, La filosofa di Kant. L'idea  teologica e La filosofia dell’esistenza in Kant furono la riflessione,  tematizzandone l’una l’aspetto oggettivo (Dio, Idea) e l’altra l’a-  spetto soggettivo (Io, Esistenza). Le due opere furono i due tempi  di una medesima ricerca, i due momenti di una medesima analisi  e anche le due direzioni diverse di una stessa polemica. Infatti,  ambedue — come, del resto, tutti gli scritti teorici e storici di  Carabellese — rappresentavano altrettante prese di posizione nei  riguardi di quelle che Carabellese pensa essere le conseguenze della mai denunciata svista di Kant e,  più in generale, le manifestazioni estreme, nel pensiero contempo-  raneo, del non ancora debellato realismo dogmatico. In partico-  lare, il libro del ’27, attribuendo a Kant, tradizionalmente fatto pas-  sare per il progenitore dell’idealismo moderno soggettivistico, la sco-  perta della oggettività di coscienza, serviva a Carabellese anche come  arma di lotta contro l’attualismo gentiliano — allora al culmine del  suo successo storico —, che di quell’idealismo si protestava l’esito  più coerente e rigoroso e che fu appunto il bersaglio permanente della  polemica filosofica di Carabellese. Analogamente, La filosofia del-  l’esistenza in Kant, con il discutere la confusione kantiana di esi-  stenza e oggettività realisticamente intesa, consentiva a Carabel-  lese di contrastare l’esistenzialismo, che in quegli anni si andava  diffondendo anche in Italia, e di condannare in esso la sopravvi-  venza del preconcetto realistico e dogmatico « che il singolare sia  fuori dell’essere, e che l’essere sia al di là della singolarità » !9 e,  soprattutto, l’errore teoretico di presupporre la esistenza senza chie-  dersi che cosa mai essa sia, a quale esigenza strutturale del nostro  essere/fare concreto essa risponda.   Esula dal compito assai limitato e modesto di questa introdu-  zione l’esame critico della ricostruzione carabellesiana della filo-    14 KANT, Scritti minori, cit, p. VI.  15 CARABELLESE, L'esistenzialismo in Italia, in « Primato » 1943, p. 65.  16 V. segnatamente i paragrafi 3, 13, 43’ e 84 di questa opera.     sofia di Kant. Tale esame, ove fosse tentato, implicherebbe l’apertura della discussione sulla generale metodologia storiografica del  Carabellese e, quindi, sulla sua posizione teoretica, che di quella  metodologia è motivazione, supporto e guida. A me premeva solo  di dare al lettore alcune indicazioni elementari e, a mio avviso, es-  senziali per un suo primo orientamento sull’impegno programmatico  e sul carattere di questa opera, indubbiamente originalissima e ri-  gorosa, in una epoca che, forse, non è la più favorevolmente di-  sposta a comprendere un lavoro storico condotto con la tecnica  usata da Carabellese e ad accettare un discorso teoretico redatto  nel linguaggio che era proprio di Carabellese. Il lettore vaglierà e  giudicherà per suo conto. Quali che siano, però, le conclusioni di  ciascuno di noi, possiamo essere tutti sicuri che la intera ricerca  di Carabellese, nella quale, in primo piano, si pone la sua lunga  meditazione kantiana, è, per tutti noi, uno stimolo potente a li-  berarci dai consunti schemi storiografici e a tirarci fuori dai luoghi  comuni in cui la nostra intelligenza filosofica può essersi impigrita.    GIUSEPPE SEMERARI    Bari, 12 novembre 1969. Giuseppe Semerari. Semerari. Keywords: fascismo, Gentile, neo-idealismo come intrinseccamente fascista, Croce, Vico, intersoggetivo, io-tu, dialogo, dialogo autentico, comunita, valore comunitario, comunita umana, vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semerari” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Semmola: I FONDAMENTI DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE --  la ragione conversazionale della filosofia come istituzione – la scuola di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I find it difficult to decide if Semmola endorses formalism or informalism in his monumental “Logica.”” Grice: “While Ayer never liked it, metaphysics is very popular in Italy, as Semmola’s monumental “Metafisica” testifies.” Grice: “It’s good to see philosophy as an institution, in the Italian way of using this word, as per Semmola, “Istituzione di Filosofia.” Uno dei più grandi esponenti della scuola napoletana. Partecipa ai moti di Marigliano. Saggi: “Istituzioni di Filosofia,” “Logica,” “Metafisica”, Biblioteca, Napoli. Mente divinatrice ardente spirito investigatore che nello studio della natura morbosa dell'uomo produsse miracoli di arte e di scienza scolare e presto emulo del suo gran più ai giovann conchiuse alla novità delle dottrine una sapienza antica procacciandosi fama in patria e fuori di sommo maestro in medicina ne rifulse lo ingegno incomparabile dalla cattedra nell'università napoletana nelle accademie e negli ospedali nei consessi legislativi e nei congressi scientifici nella parola negli scritti membro della commissione legislativa riunita in Firenze principale autore di un codice sanitario italiano inviato unico plenipotenziario alla conferenza sanitaria internazionale di Vienna deputato e poi senatore nel patrio parlamento onorato due volte di medaglia d'oro dal proprio governo per le cure ai colerosi da quello del Brasile per la guarigione del suo imperatore Socio di gran numero di accademie italiane e straniere Insignito di molti tra i maggiori gradi cavallereschi. Muore nella fede catolica avita. Questo marmo per voce del comune Si fa eco della pubblica solenne onoranza cittadina. Le spoglie mortali riposano nella cappella mortuaria di famiglia ove le vollero la vedova ed i figliuoli a rendere vieppiù paghi la loro pietà ed il riconoscente affetto. INSTITUTIONES PHILOSOPHICAE AUCTORE IN USUM SUORUM AUDITORUM I CONCINNATÆ INSTITUTIONES METPAHYSICES. Napoli Micliaccio. Superiorum permijfu y  i  PRÆCLARISSIMO VIRO CORRADINO   marchiOni spectatissimo  S. D. t  T l itterario operi, PrjBclarifllme Vir  jam jam (in publicam lucem prodeunti,  nihil majus, nihil honorificentius ab Au«  ^ore fuo exoptari poteft, et fehcius accidere, quam ut infigni aliquo nomina  decoratum emittatur. Jam vero nullum  illufirius, ac vere inclytum nomen, niii ^ quod Mentis prsfiantia, ingeniique  2 felicitate 'fit comparatum t quod dein  integritate fumma, maxima lUe fapieQtia  in graviflimis expediendis muneribus fit  et >'perfe6lum, atque firmatum.* quod tandem egregio animi candore, atque incorrupta religione fit numeris omnibus abfolutum. Qui funt hujurce generis Viri,  (funt enitn vero admodum pauci) fummi. profefto funt, &, vere magni.* hi cum  ceteris emmeant, fintque de Societate be-. nemerentiffimi, jure ab omnibus fincere  colendi.* et cum xqui fint, atque idonei  rerum zftimatores, in 'eorum fententiam  libentiflime reliqui defcendunt, ut nec au-. dax obtre£latorum manus alfurgere 'contendat. Solent et alia publicæ exiftimationis capita percenferi :at cu 2 a proprio  cujufque merito non repetuntur, et fortunam, non jam virtutem comitem habent, natura fua et funt nimis fiuxa, et  eb omnibus, qoeis cor fapit, parvi penduntur. Certe, qui ftulte hifce gloriantiir,  haud recogitant Horatianum illud   Ne cum forte fuas repetitum •venerit  olim ''   Crex avium plumas, moveat cornicula   rtjum  Furtivis nudata coloribus. Bene homines intelligunt, quid inter adfcitum, et proprium decus interfit; et ut  huic juftam, meritamque habent venerationem, ita illud defpiciunt, et averfantur. Hinc fi qui fplendidis decepti_ nominibus aliquem hujufmqdi Vmum honefti laboris fui patronum inconfulte deleeerint, tantum abeft, ut bene rei fua!  profpexerint, ut potius in fe publicam  hominum tontemptionem ftultiffime concitent. Hsc quum ita fint, nemo proteao non probabit, cur tantopere exoptaverim, ut meus ifte labor qualiscunque  Tibi, Przclariifime Vir nuncuparetur |  tantoque conceffo honore fummopere mi  caudeam', atque triumphem. Nomen enira  tuum tot tantifque de caufis illuftre, at^  que cohfpicuum, eo profero illujtriuf  jure, meritoque celebratur, quod mp*"*  reliquorum hominum fortem, non nmofis imaginibus referta atria, non.  gia majorum facinora, fed tu*. Te virtutes unice extulerunt. Tu apriraauiqu  ætate fori curriculum ingrelfus, tantum  ingenii acumine, legum fcientia, gravitate, pfobifque moribus ceteris prsluxifti, ut inde aufpicium faaum fit, Te ad   ‘grandia natum, quod dein-mox comprobavit eventus. Re quidem vera, quum  tot, tantarumque virtutum tuarum fama  diutius fori ambitu contineri non potuerit, faftum eft, ut Ferdinanjjus providentiflimus ReXj nofter regiorum Hetruriæ prasfidiorum AflTeflorem, et mox  etiam Auditorem in Teates, et Aquilæ  Tribunalibus deftinaverit. Qua vero in hiice muneribus (apientia, integritatis, ac  folida probitatis argumenta praftiteris,  ex eo plane intelligi poteft, quod non  multo poft Neapolim fis revocatus,, et in  fupremo totius Regni Tribunali a fapientilTimo Principe Criminum Judex conftitutus.^Per holce veluti gradus fellinatis  honoribus Te a fecretis Regni, Te Realis  Camera Sanfla Clara Confiliarium, Te  ternum Confiliarium, et fupremum Sa*  erarum Rationum Curatorem vidimus. Tn  vero omnibus hifce muneribus major, re  olfendilli, Urenuam in laborando alTiduitatem tuam nec fene6lute remitti, nec  negotiis opprimi pofle. Hinc illa eadem  Regis Sapientia, qua Tibi probe cognito tanta demandaverat, ad majora protinus_ extulit. Te fibi a fecretis in Ecclefiafticis, et Sacri Patrimonii rebus afllimiit,ut in ampliori theatro collocatus clarius enitefceres. Qua duo graviffima omnium onera ira per Te adminiftras, ut  et Principi probanffima procuratio tua femper extiterit, et reliquis omnibus admiratione digniffima. Tot, tantaqua dignitates cura honorum continuatione habita,  eo Tibi majori funt Ihudi, quod certum  eft, non gloria Majorum, non aliena  ope, non caco /orruna 'impetu, non externis fubfidiis, fed tuis virtutibus, et  fapientiflimo 'Regis Cbnfilio efle • confequutmn.vin hac tua tam multiplici, tara  iolida honorum, 8c gloria fegete nihil  fane erat, quod operi meo melius potuiffem optare, nifi ut tuo nomine fuperbum, tua claritate decoratum, patrocinio  tuo tutum in manus hominum prodiret.  Voti compos effe6lus, reliquum nunc eft^  ut Te facilitatis in me tua non poenitear, potiffimum cum Adolefcentium edu~ationr, cui tantopere, 8c fine intermif[ione ftudes, fit illud infcriptum'; et ego  3e tanta in me indulgentia gratias. agam  immortales. Sis latus, et Te Deus virutum omnium exemplar fofpitet femper,  ic pro publico hujus Regni bono in avum  'ervet incolumem. I  I    IN UNIVERSAM METAPHYSICAM PRAEFATIO.  I. Icet MET^mSICES nomen forte olim fuifle cufum videa*|h e W tur; tamen facultati, quam elucidandam fufcipimus, apprime  51 ^ confonum cflfc, nemo profecto   ambiget. Si enimPhyfices nomine a Græco vocabulo Sutrii tPhyJis, quod naturam fignificat, rerum fenlibilium pertractatio infignita fuit ; jure  Metaphyfica dicenda erat, (itrei Titr puur ^ (cientia nimirum fupra Naturam, facultas illa, quæ  res a materia (ecretas, neque fenfibiles rimatur, abftractionis et ratiocinii ope.   II. Equidem, cum noftræ naturæ conditione  fiat, ut prima; rerum omnium notiones e lenfibilibus, et materia concretis exordiantur, tum  gradatim progrediendo ad infenfibilia afeendamus,  et fecreta a materia; ordinis ratio poftularc videtur, ut nullus Metaphyftces T^erxXva\\2i adeat,  nifi Phyficis cognitionibus antea inftructus. Atqui Majores noftri contrarium tenuere iter ; qui  mos, poftquam ad nos ulqiie devenit, veluti lacer fuit, et religiofe fcrvatus ; quantum enim  icio, nemo hactenus illum adgredi «ft aufus,  five id nimia antiquitatis veneratione faftum llr,  five ex animi imbecillitate, five alia quacumque ex caulfa. Nolim rectas licet sententias no-»  •vitate in alicujus cadere offenfionem ; quilibet jure   A uta   a Jn Unlverf. Metapb. utatur fuo, &, quam libuerit, fequatur fcmitam.  At illud faltem indigitare ex munere meo duxi,  ut difcant Tyrones planum, et magis profuturum emetiri, quem alias lalebrolum experiri  folent, ftudiorum curriculum. Quæ fupra fenfibilia adfcendunt, et a materiali compage funt fecreta, diverfa (refpicere  poffunt, atque ideo non immerito hinc Metafhyfices partitionem defumemus. Nempe, quas  fola mentis abftractionc affequuntur, fi  quidem  generales rerum omnium proprietates fpectant,  Ontosophia, prima fcilicet Metaphysices parte,  continentur, Quæ vero fpectant Mundum in genere, atque ideo extra fenfuum aciem conftituta folius ratiocinii vi agnofei poflunt, alteram  ejufdem partem conftituunt, quam Cofmolagiam  dicimus. Sunt vero quæ fuapte natura ab omni  materijB concretione funt fejuncta, Mens fcilicet  humana, et Deus, duafque alias fiftunt ejufdem  facultatis partes, Pfycologiam fcilicet, et Theologiam Naturalem. Poftrema tandem pars hominis  relationes erga Deum, feipfum, fuique fimiles  expendens, quæ inde fequantur officia monet,  morumque præcepta decernit tum artem edocet re6fe vitam inftituendi-, ut felicitatem confequamur j* eaque Jus natura y ifthæc Ethica nuncupari confuevit. Quinque itaque partibus Metapbyftca continetur, quarum priores quattior  modo vobis exhibeo, Adolefcentes optimi, no»  exuccas, nec vanis, garrulifque fubtilitatibus fcatentes, Icd doctrinis, quæ veram redolent fapientiam, refertas. Has partim quidem collectas, partim mihi in meis meditationibus fponte veluti   fua Pnefatle 3 fua occurrchtcs, elucubrare, et ingenio veftro,  quantum cognovi adcomodare fategi. Poftremain  vero partem, favente Deo, mox ut otium ^ 8c  vires fuppetent, adjiciam.   IV. Ex ipfa objecti explanatione, quam modo  breviter profcquuti fumus, abunde quifque intelligit, quanta fit hujufce facultatis, quam per, quam pro^  ba, ac JubaHa mediocris ingenii cultura trihua's,  quam afiiduis, atque providentiffimis curis Praclarijftmi, ac beneficentifftmi Nolani olim %4nti~  flitis, mox vero, benemereniifftmi Panormitani */irA chiepijccpi, ac Sicilia Prafidis probatiffimi PHl~  LIPPI LOPEZ^Y ROYO in eodem Nolano Se• minario ‘ alumnus excepi. Equidem fi quid in  litteris y In morum difciptma profeci y' libenti  ac grato y/fnimd, ncc non ingenuo pudore fateor^  me Ei acceptum referre. Vale.    \ jit ea pofita ponatur etiam id, cujus ed  ratio sufficiens, fecus rurfum infufiiciens foret :  quippe præter illam rationem aliud quidpiam  modo requireretur ad ponendum illud, quod noa  dum ed politum. NIHIL ejl fine fufficlenti ratione. Hnjufcc  principii indubia veritas cuilibet fponte fua occurrere autumamus. Si quis vero demondrationem requirat ex principio contradictionis facile  eruemus. Sane infit enti A quasvis affectio N  præter effentiam, ita nempe ut Contradictoria  affectio — N, vcl alia quavis diverfa M eidem  ineffe poffit. Ex duabus contradictoriis affe6lionibus N, et  N, quas feorfim in eodem Ente  ineffe poffunt, nec non 'ex diverfis N, et M in  eodem Ente asque poffibilibus, vel aded fufficiens  ratio cur altera infit, vel non. Si primum, addruitur propofiti principii veritas.Si fecundum,   A 4 quia     8 ONtOSOPHIA.   quia contradictoriæ affectiones N, et N, nec  non diverfx N, &T'M lint in Ente A cx hypothefi seque pofTibiJes, vel utraque, vel neutra  infidere deberet: par enim eft pro utraque ratio Sed utrumque eft contra hypotefim. Quare fi  enti A infidet affectio N, cum, ejus infpecta  natura, ex sequo infidere poiTet vel contradi£ioria affectio — N, vel alia qusevis M, id aliqua  ratione, et quidem fufficienti, fieri oportet. Nihil ergo eft abfque fufficienti ratione.   Hujufce principii veritatem quam maxime commendat illa in omnium animis ingenita prurigo quærendi femper cw hoc} cur illud}  a qua numquam conquiefeimus, nifi fufficiens  hujus, et illius ratio non occurrat. Eft hxc  fine dubio tacita qusedam naturx vox, nihil effe  fine fufficienti ratione. . §. lo.Ex diftis liquet, nullum dari, nec dari  poffe furum Cafum. Puri cafus nomine intel-ligitur eventus, cujus nulla fit fufficiens ratio.  Equidem hujufmodi notio nullo prorfus pa£fo  concipi poteft, et ex iliis eft, quæ omni humanæ rationi pugnant. Quod fi quandoque plura cafu, et fortuna fieri dicuntur, id ex eo  eft, quod cauffas p rationefque, e quibus illa  continuo, et certo nexu pendent, minime  pervidemus. Prop/er ohfcuritatem y fapienter Tullius ^q. *Acad. l. 2. ignorationemque cauffn^  tum fortuna efficit multa improvifa, nec opinata^ et Juvenalis Sat. lo. fed te  Nos facimus   Fortuna Deam, Coeloque locamus. Nempe, ne  noftram ignorantiam fateamur, malumus   fortuna inania verba proferre, et ita nosmet-. p   ipfos deludenfcs, ignorantiæ noflr* acquiefcere.  Inveftigatio fane cauflarum, et rationum mentis  aciem exigit, et improbum laborem. Hinccft,  ut qui minus ingenio valent, vel funt laboris  magis impatientes, plurima cafui, et fortunæ  tribuant, quæ acutiores, et laborioft per fuas  rationes, et caulTas facile expediunt.   II. SufRcientes rerum rationes invefligare  proprium eft Philofophi. Nam ut inquit Genuen»  iis „ populus renun phænomenis efl contentus/  „ philofophus in rerum cauflas, et principia in„ quire debet, quod egregie vocant Platonici  „ mundum intelligibilem, et populo ignotum  „ vedigare. Qua Philofopbia nihil validius eil,  „ atque^ efficacius cum ad vitam pacate ducen-,, dam t um quoque ad reipublicx tranquillU  „ tatem. /frop. Xy II. El. Met. par. prior,   II. Caveant vero Tyrones I. ne aniles reputent fabulas omnia, quorum incomperta ed,vel  impervia fufficiens ratio. Meminerimus imbecillitatis nodra;, et ingenue fateamur, innumera  ciTe, quorum rationes neque perfpeximus ha6lenus, neque in sevum comperiemus. Ecquis  hactenus novit cur Magnes ferrum trahit ? cur  Gymnotus, non eseteri pifees, clectricitate polleat? cur Jovi quatuor fatellites, non plures,  neque pauciores fint conceffi, tum feptem Saturno, nullus Marti, unus Telluri ? &c. Recogitemus vetus illud ac lapiens Epicharmi decretum „ Nervos ede fapientia:, nihil temere cre„ dere „ fed neque oblivifcamur nimis temerarium, immo dultum ede, rerum veritates ex  xnodulo. nodro metiri. Itaque nihil gratis aderendum, aut gratis affirmanti concedendum * at  ubi prxfto fint exteriora momenta, quibus aliquid fuperftruitur, hajc prius difeutienda funt,  ne illud pertinaciter negantes temeritatis notam  merito incurramus, et veritati fponte contradicere velle videamur.   II- Haud putent Tyrones fufficientes rationes,  quibus Cauflfæ ad agendum determinantur femper ipfis cauffis extrinfecus quærendas effie, quum  pluries queant effe internæ. id quod præfertim  de agentibus libero arbitrio pr*ditis di£lum velim. Qua de re animadvertant, quod licet ultro fatendum fit, fapientis elTe nihil agere, nihil deliberare, nifi ex omnium, quæ occurrere  poffiunt, rationum calCulo : haud tamen putandum eft, has. rationes veram, et internam fufheientiam continere, qua liberarum cauflarum  indeclinabilem live flagitent, flve extorqueant  aflenfum. Equidem fl ita res fe haberet ( id  quod vifum efl Leibnitianis ), cauflæ illæ nequaquam liberæ dici poflent. In ipfa natura cauffarum liberarum, five in ipfo earum libero arbitrio ratio fufficiens continetur, cur fe cieant,  determinentque, quin ulla requiratur alia ratio.  Externæ rationes, fi qux adfunt, fuam sufficientiam ex ipfo libero arbitrio confequuntur,  fi quidem confequuntur. Sapienter Cicero de  Fato c. I. Motus enim vohntarius tam naturam  in feipfo continet, ut fit in nofira potefiatty nokifque pareat / nec id fine caujfa, ejus enim rei  caujfa ipfa natura eji.De Ejfenfia ^ et Attrthuus, .Xj.y^Uamlibet nobis notam rem acutius per»  'V^/ luftrare velimus, notio Menti obveriabitur plurcs conceptus complectens/  cumque nihil fit abfque fufficienti ratione, mo«  nemur hinc totidem veluti realitatibus rem ipfam conflare, feu totidem didinctis notis. Has  duplicis ede generis, nofcimus ; aliæ Tiquidem  perpetuo res fuas comitantur, aliæ non item :  abeunt enim, pereuntque ipfa tamen re perma»  nente, queis aliæ fuccedunt, atque aliæ, vel  primæ iterum redeunt. Deinde notarum, quæ  res perpetuo comitantur, quædam videntur veluti primæ, quarum nempe fufficiens ratio nequit ab aliis derivari ; et hæ appellantur profrie.tates rei ejfentiales. Aliæ, quæ ci primis  fluere videntur, et in ipfis habere lufficientem.  rationem, attributa dicuntur. Notæ vero rem  non comitantes perpetuo, fed quæ continuo abeunt, et queis aliæ fuccedunt, mox vel numquam rediturz, modificationes, affeQiones., qua.  litates, vel tandem accidentia folent nuncupari. Indivifibilis complexus omnium proprietatum edfentialium, quæ rei cuique infunt, dicitur ejufdem rei E(fentia ^dc quandoque etiam  Uatura, licet minus proprie. Effentia igitur inliar unius coniideraiu^ venit, cui fcilicet nihil addi poted, nihil demi, quin ipfa res pereat j  et alia atque alia continuo fiat: atque adeo notio eflentix pendet ab adsquata cognitione omeciei, et generis notione minime ingrediuntur ^ inter  ie diferiminentur, facile intelligitur, efsentias ctmeretas  magis compoliras efse, abftra^las autem fimpHciofres; feu,  quod idem eft, primas plurium proprietatum else 'complexiones, fecundas autenx pauciorum..   qualis a nobis concipitur, conftituit- Hæc me. i  rito fecernenda eft ab eflentia reali • quippe  ip. Reales rerum dTentias omnes ad unam  nos latere, aut faltem certo non conftare, ultro '  fateri debemus. Ecquis enim completam ullius  rei notionem fibi comparaffe contendet ? Qui  reddi poffumus tuti vel in ipfis magis obviis rebus nullam ruperefle adhuc latentem proprieta*  tem ? Confer, quæ in Logica diximus. Deinde ea  ipfa, quæ nolfe putamus, non funt nifi mentis  noflræ phænomena, pendentia quidem ab objectis externis utpote renfuum fibras irritantibus ;  fed quæ nulla prorfus ratione patefaciunt, quid  intrinfecus ipfa fint objecta externa * qua de re  alibi opportunius. Hinc quæ in Scholis definiri folent Effentiæ, notiones rerum fpeflant, non  res ipfas. Cum ergo noflræ notiones, pr*fertira  fubfiantiarum, numquam fint adæquatæ, tum varient quamplurimum pene pro numero mentium;  facile intelligitur, quantopere in hominibus effentiæ rerum notionales fint tum inter fe diverfæ, quum a realibus diferepent. 7 iai»»   GAP. II.   De variis Entium generibus,   ^.lO.^^Um Entis notio tum rebus, quæ actu  exiftunt,;tum quæ non exiftunt quidem,  at exiftere pofsunt,ex sequo conveniat; hinc   P“ Entis vocabulum emphatice a Platonicis ufurpar  tum  w.^rOSOPHIA. IS   prima, 5 c gcneraliffima Entis divifio cfl: in Ens  Icu exiflens ^ et potentiale ^ leu pojjihite»  zi. Ens actuale vel ita exiftit, ut tota fuat  exiftentiæ ratio fufficiens in fua efsentia contineatur, feu ut ejus exiftentia in Iu* cfscntiæ  conceptu includatur, et Ens a fe, feu Ens neceffarium appellatur. Hujuimodi eft foius Deus.  Vel exiftendi fufficiens ratio in altero Ente continetur, et Ens alio dicitur, leu Ens cow-.'Hujufmodi funt przter Deum cætera  quavis Entia - Utriusque entis caracteres alibi  opportunius expendendos rejicio,   ^.22. Quiecumque hujus Mundi Entia contemplari velimus, innumeris ea mutationum viciffltudinibus perpetuo obnoxia efse deprehendimus :  interim in tanta pereuntium, ac fe invicem fuccedentium mutationum ferie, Entia illa adhuc  perdurare intelliguntur. Merito hinc conficimus,  tot tantifuue mutationibus aliquid perdurabile  fubftare, cujus diverfæ fmt modificationes quotquot excipit mutationes. Porro primum illud  fubjectum perdurabile, ac modificabile Subjlantia dicitur. Quod vero hujufce fubjecti modificatio efi, et concipitur, Modus appellatur.   astum legimus, pro eo fcHIcet, quod ærernum eft, et perfeflilTimum ; hinc res facias non entia ^ fed entium umiras iidein appellarunt. Hajc equidem loquendi ratio fublimior elt, et vere philofophica ; Deus enim eft Ens  abfolutiflimum omnes entitatis rationes in fe uno coniple« 5 lens. Quis ex factis Scripturis illam hauftam no»  dixerit ! fane Exod. III. v. 14. Ipfe Deus, quis efset,  fcifcitanti Moyfi refpondens, dis it: Ego Jam, qui fum. Primam fubftantiæ notionem ex entium  contigentium contemplatione mentibus noftris  informamus : hinc eft, quod fubftantiam concipiamus tamquam fubjectum aliquod primum perdurabile ac modificabile. Cæterum nequit hxc  fubdantiaz notio ex azquo aptari Enti necefsario,  nempe Deo, cui nullas inelsc pofsunt modificationes. Deinde animadvertendum notionem fub*  ftantias mox traditam penitus abftractam efse:  nullibi fiquidem reperire eft ejufmodi fubjectum,  quod nullas actu modificationes habeat. Quot  quot exiftunt, funt undique determinata, et fin»  gularia ; univerfalia, qucd fxpe dictum eft, non  1 'unt nili Mentis noftræ abftractioncs. Cum fubftantia primum fit fubjectum &c.  ^.2a.quodvis aliud fubjectum, cui infit,& inhxreat,  excludit,-( ipfa enim fibifubftat, et fubjc6tum  eft quarumvis modificationum, quas ei obtingere pofsunt) non vero excludit quodvis aliud  fibi externum fubjectum, in quo fola infit fufficicns ratio fuas exiftentias. Quid enim implicat fubftantiam principium fuas cxiftentijc extrinfecus habere, interim vero ipfam fibi 1'ubftare„quin indigeat eidem principio inhzrerc  ad inftar modificationum ? Ex, gr. decora Palladis  forma, quam faxo infCliTp|am miramur, lui principium feu fufticientem exiftentias rationem ab  artifice petit ; at interim faxo, non artifici inhsrret. Qui ergo fubllantia ab externo principio  fufticientem fuas exiftentias rationem petens eidem principio inhasrere debet? porro ad differentiam modificationum ipfa fibi fubftare nihil  vetat - f   S' Dio»: V t/  E contrario MqM nequeunt Jpfi fibi;  fubdare, feci neceflTario natura fua alicui  Subjc£lo inhærere debent. Operæ pretium eft heic expendere impiam non minus, ac abfurdam Subftantiæ deii*  Ditionem, quam Benedictis Spinoza ex fuo je«  cinore c^mpo^’uit. Verfutus Homo pantheifti*  eam molem flfuere contendens, definitionum,  theorematum, ac corollariorum exteriori appa«  ratu Geometrarum morem mentitus eB,utLe«,  Cot ibus facile poffet illudere. Quare hanc præfniiit Subflantiæ definitionem : per Subjiantiar»  ^intdligo id j quod in fe eji ^ et per fe- concipi’*  tur ; tum explicationem fubdit. hoc efl, id,  cujus conceptus non indiget conceptu alterius rei f  s quo formari debeat. ^  I. Verbis illis quod in fe efl duplex fubjicl  poteft fenfus : i. quod in Je efl, nempe a fe%  quamlibet excludens externam caufam, a qua  producatur; a. in fe efl ^ nempe flbi ipfum  Jubflaty quodvis intriniecum SubjeCum, cui in«  hæreat, excludens, contra id quod proprie Modorum efi. Hic fecundus Subfiantiæ conceptus»  verus efl, fed nihil Pantheifmo, cui fludet   B Spi  (a) Nemo mihi calumniam inferat eo, quod in au»  guflilKnio Eucarifti* Sacramento, permanentibus panis et   vini accidentibus, fide Divina tenendum fit, nullum re.  manere panis, et vini fubjeflum. Nam, quos vulpo mo»  dos, et accidentia in hoc Ven. Sacramento appellamus,  >ro meris habeo adparentiis, et phsnomenis. Nen^,  leficiente fubftantia panis', et vini, Divina virrute fup.,Ienrur in fenfibus noAris illz ezdem impreffiones, ou^  ierent a reali panis, et vini TubHantia. Hinc profe^Q  (l, ut ilU fe^biles reprxfentationes oobis occiuraot. Spinoza, favet. Primus, cui foli pantheifticam  molem inzdificare fatagit, falfus e(l, qui neque ab ipfo Spinoza, neque a quovis ejus Af*  Iccla ha£lenus e(l demonfiratus.   ir. Neque minus fallax e(l explicatio definitionis ab eodem allata. ( inquit ) concep»   tus non indiget conceptu alterius rei, a 'quo foy  mari queat, Si, conceptum Subfiantt^e   prafcindi poffe a quovis alio conceptu, ultro  coBtedimus \ fi vero intelligat, Sub/iant'ee cotf  eeptum neceffario a-fs excludere conceptum alterius rei, a qua ipfa Subflantiq producatur,  feu in qua in/it fu-fficiens ratio, princprum  fue exijientia, et id gratis afferenti in zvutti  negabimus. Tnterim ex allata poenitenda definitione illa fua oracula depromit catus Homo. Unicam in Mundo Subflantiam extare. Hanc unicam Subjlt.rt 'am ejfe Deum.’ Hujus deinde modificationes ejfe quotquot in Univerfo cernimus  f^c. Sed hac de re fuo loco.   27. Ut poflibilis notio fiatuatur, quot non  repugnare dicuntur prznotanda funt. Ea non  mepugnare dicimus, quz fimul effe polfunt. Ex.  gr. Triangulum zquifaterum, Subfiantia cogitans  &c. non repugnare dicuntur, quippe triangulum  *^cinn zqualitate laterum confiftere potefi : SubfWntia cum cogitatione, tanquam ejus pro«  p^ietate.   ' 28. E contrario, quæ fimuI effe nequeunt,   ep quod unum eorum alterum excludat, et  atnbo fimul fe mutuo deleant, e4 repugnare dicuntur: ex. gr. Circulus quadratus. nam notio circuli notioneni quadrati excludit, et ambas   limuU. simul-fc mutuo delent. zp. Pojfibile dicitur quidquid in fui essentia  nullam includit repugnantiam, quodque ade&  concipi potcft. £x.gr.Mons aureus; triangulum  -æquilaterum. E contrario ImpojjibUe dicitur  quidquid in fui edentia repugnantiam involvit,  quodque adeo concipi nequit ^ cujusmodi ed  circulus quadratus,   qo- Pojftbilis notio diligenter difcriminanda  cfl a notione probabilis. Poffibilitas enim fpe£lat ipfam entis naturam/ Pxobabi^itas vero refpicit rationum momenta,jqjuibus,;|Mens ad affirmandum aliquid, vel negandum^ ^movetur; feu  indicat datum Mentis judicaatis.de exidentia,  natura, proprietatibus &c. Entis. Hinc Probabilitas locum.habet in exidentibus, poflibilibus,   • infipoffibilibus &c.   31. Notio pdJifibills, pofitiva ed ; sidit enim  aliquid Menti contempianti.-£ contrario notio  Impojfibilis ed negativa, non enim fidit Menti  aliquod ens, fed duo exhibet entia, quz fe mutuo delent, adeoque aon ens, feu nibil.   32. Poffibilium numerus faltem duplus ed  numero impoflibilium. ImpofUbile enim coalefcit ex duobus, vel pluribus inter fe pugnan.  tibus: d hæc fingula fecernamus, feorfim non  -pugnabunt, adeoque erunt Ungula feorfim poflibilia. Numerus igitur poffibilium, ad minus  im poffibilium humero duplus ed^ . fmpoffibilinm duo datui folent genera  Alia enim funt intrinfecus, et abfolute talia ^ alia vero nonnifi extrinfecus^ et hypothetice. Primi generis funt quotquot contradi£Uonem in B 4 / voi- Yolvunt, de quibus ^.zp.ySc hxc metaphyjice int«  ^olTibilia quandoque etiam dicuntur. Secundi  generis funt, quæ nullam quidem in i'ui elTen>  tia repugnantiam continent, pugnant vero ex>  trinfecis quibusdam hypothesibus / ex.gr. prop*  ter imbecillitatem cauflæ producentis, propter  conditiones loci, temporis, &c. aliafque adpofi*  tas circumftantias, Huc fpectant, quæ phy fiet  impoffibilia appellantur, quippe quæ phyficis  Mundi legibus* pugnant. Ex.gr. Lunam eccliplim  pati extra oppofitionem cum Sole, hipotetibice  eft impolsibrie^in! hypothefi nempe, quod Mundi curllis jfrxfi' confuetas leges cosmologicas pergat : flammam.in ære libero deorium dirigi:  Virum obliteratum, et rudem acute, &. erudite  de rebus di^cilibus difputare &c., 34. Ad Jiypotheticam impoffibilitatem ad cedit, quæ moralis nuncupatur. Illa nimirum  moraiiter impoffibilia' vocare confuevimus, quæ  intrinfecus infpefta. funt quidem poflibilia, non'nifi tambn raro, admodum difficulter effici  queunt. Ex. gr. diuturna culpæ declinatio ia  xnediis, et maximis periculis. Diligenter advertant Tyrones, quandoque in communi fermone fimpliciter impoffibilia appellari*, quæ  folum moraiiter ' funt impoffibilia / idque potiilimum recolant in facrorum Librorum k£lione, ne in abfurdas incidant Sententias.   35. Sunt qui aliud impoffibilium moralium genus agnofeunt, idque Dei refpectu *  definiunt nempe Ea efle, qux in fui natura. infpc£la, funt quidem poffibilia,at fieri pugnant  'Divinæ perfecti 0 imæ Naturas. £x* gr. mentiri   in-. af   inquiunt, cfl: quidem intrinfecus poflibile, at  Deo impoflibile moraliter, quia fummæ ejus  Veracitati pugnat ; fimiliter fe habet innoxium  aternis addicere flammis, quod ejus Juflitiais op«  ponatur. Sed hi parum penficulate hoc impoffibilium genus introducunt, cum revera ad im«  pohfibilia abfoluta fpectent. Sane quid magis  contradictorium, quam ju(litia,& iniuftitia, veritas et mendacium &c. ? porro in nifee, quæ  vocantur moraliter impollibilia, collifio continetur inter juilitiam, veritatem, fanctitatem  &c., qux in quavis Divina actione abfolute, et  cITentialiter elucere debent, et inter injuditiam,  iniquitatem, mendacium &c., quz eidem confociari ponuntur. Quæ ergo moraliter impoffibitia  dicuntur, funt reapfc impolEbi lia mtr/w/ecMj, et  fibfolute. Merito Divus Anfelmus.* quodvis  minimum inconveniens efl Deo impojjibile, Sed juvat hic expendere quorumdam  fententiam, qui poffibiie definiunt, omne id  quod a Deo effici potefl. Iftorum fententia,  nulla ed quærenda intrinfeca pofdbilitas in Ente,  Ibla extrinfeca poffibilitas ex Divinæ Potentias  menfura ed attendenda. Verum qui ita philofophantur, (i  recte de Deo fapiuot, nulla dari impoffibilia  Divinse Potentiæ refpectu datuant oportet' fecus  enim, fi aliquid per ipfura Deum impoiTibile  agnofeunt, totam fimul evertunt Divinam Omnipotentiam. Sane, fi podibile idcirco ed pofilbile, quia a Deo edici poted, erit a pari  impoffibile, idcirco impodibile, quia a Deo  eddei nequit. Quare, fi Deus omnipotens habetur, nihil pro impoflibili ftatui poteft. Quod  fi c(l aliquid impoffibile, id nonnifi Divinæ Potentiæ defectu impoffibile eft, atque adeo  Dei Potentia non infinita. Hæc perfpecte vidit  Cartefius, qui propterea nihil Divinæ Potentiæ  refpectu impoffibile effe affirmavit  38. At nihil efle in fe, 8f fui natura  impoffibile, omnem evertit humanam rationem, et ad Pyrronifmum deflectit Ex. gr.  Triangulum rotundum, Circulus quadratus &c.  quippe tam clare perfpicimus naturam, notio,  nemque trianguli corrumpere, 8 c excludere naturam, et notionem rotunditatis, et viciffim,  ut de hoc vel minimum dubitare, idem fit  ac humanæ rationi valedicere, et in Pyrronicorum caftra coin migrare. Dantur ergo intrinfecus impoffibilia, fui nempe infpecta natura. Quare, quæ funt poffibilia, hujufmodi  funt pariter intrinfecus, et fui natura.   Sed inquies ; Si funt aliqua intrinfecus, 8 c natura fua impoffibilia, hæc neque per  Divinam” Virtutem effici pofTunt -quf ergo erit  Deus omnipotens? Sed facilis eftrefponfio: Quod  nequeat Deus efficere quæ funt intrinfecus impofi i  fibilia, id non ex imbecillitate, et virtutis defectu, fed ex ipfius efi impoffibilis incapacitate, eo quod ejus componentia per fui naturam  fe mutuo excludant. Horum componentium repugnantia cohibenda foret, atque delenda, ut pofTet,  quod eft impoffibile, fieri; nempe delenda, vel  mutanda ipfa ejus componentia. Sed modo,  quod inde coalefceret, fieret intrinfecus poffibile, Sc omnino aliud ab eo,. quod impoffibile ponebatur. Sane 51. adverti muf Impofftbtle  nfeo efle Ens, fcd Nihil, et negatio cujuslibet  Entitatis. Qui ccgo Divini Potentiæ impoffibiiia fubtrahit, nihil fubtrahit ; cdque Divina  Potentia femper infinita, quia omnia et Ungula»  quæ iunt Entia, attingit. De Relationibus Entium. Singula Entia ne dutn abfolute^Sc ir$,  trinfecusy qualia nempe funt in feiplis, confiderari queunt ; fed et etigm.relative,  6 c extrittfecus, qualia nempi^^ aliorum refpeftu  ' concipiuntur. Quid abfolute, et intrinfecus fint  quævis Entia » negatum mortalibus noffe; quippe intimas eorum effentias penitus latere totius Philofophiæ decurfus edocebit. Confer quæ  diximus -ip. Reflat igitur jllas Entium' proprietates elucubremus quæ ex eorum ad invicem’ collatione elucefcunt. Has nomine re,  lationum continentur. Quæ hujus funt loci ad  tres clafles referri pofle videntur • ad relationes  nimirum I. fimilitudinis : II. coexijlentia : III.  dependentia. De Relattonibus Simii ItuiUnis, ^ fw/ 7 w appellantur Entia, quibus una, aut   Mplures proprietates, qualitatesve ex communi iniidere concipiuntur. Eft ergo Similitudo  proprietatum in abflracto confideratarum complexus, per quas Entia dicuntur fimilia. E contrario diJJimUia dicuntur Entia,  quibus una, vel plures proprietates, qualitatesve ex communi non irteffe concipiuntuV. Ex  quo facile intelligitur, quid dijfimilitudinis nomine veniat^ 0.“° plures funt proprietates, quibus  Entia convenire deprehenduntur, eo major in  eis elucet /imilitudo : minor, quo funt pauciores. Ex. gr. fi plures conferam figuras, quæ  triangula appellantur, fimiies ftatim appellabo:  de communi enim habent, ut tribus lateribus  claudantur, tribusque angulis gaudeant. Si vero  animadvertam ejufmodi effe illa triangula, ut  communem quoque habeant laterum rationem,  proprius fimilia vocabo. Ex Entium fimilitudine rationem de«  fumimus, qua in determinatas clades illa re  digamus. Cum enim hujus Mundi Entium tanta lit multitudo, ut nequeant fingula Mente di,  iUncte complecti, ea ad certas clades redigere  confuevimus : ita nimirum, ut quæ determinatani inter fe fimilitudinem habere concipimus, ad unicam revocemus cladem, et ad alteram clafiem rejiciamus,, quas aliam determinatam fimilitudinem exhibent. Deinde, cum Entium  ad eamdem claflem rejectorum alia, atque alia  intenfiorem, fen peculiarem inter fe fimilitudinem  habere deprehendimus j numerofiorem illam claffem in alias minores redigimus. tum primam  Genus, has fpecies appellamus. Ex.^r. Infinitas  figuras tribus conclufas lateribus ad unam Claffem revocamus, et triangulorum nomine infignimus : tum animadvertentes ex hifce figuris quafdam majorem inter fe fimilitudinem  habere, puta quod alia fingula latera inter fe  æqualia habeant, alia duo tantum, alia finguJa latera inæqualia/ ampliflimam triangulorum classem in tres alias minores tribuimus, quarum altera triangula scquilatera, altera ifofcclia, altera tandem fcalena complectatur. Nihil vetat Entia, quæ fub aliquo  rcfpectu fimilia funt, et vocantur, fub alio  diflimilia efle, et appellari. Sic triangula,  quæ modo pro figuris fimilibus habui ob communem proprietatem trium laterum, et angulorum, diffimiles mox appellabo, fi animadvertam non æquales angulos habere, neque eam.  dem laterum rationem Quare intelligitur,  ^ntium Genera, et Species, ex cujufque Mente conflitui pofle, ut ita Entium Claflis,quas  Uni Species eft, Alteri fit Genus plures minores clafles, feu fpecies complectens.   4ec effe fuura, in aliis atque aliis temporum,  -Jocorum &c. circumftarrtiis immutatum, feu non  aliud habere, idem appellamus. Confidit ergo  identitas numerica in Unitate t» boc effe Entis  in aliis, atque aliis temporum, locorum &c.circumftantiis pofiti.   52. Triplex vero ed Identitas numerica,  metaphyftca fcilicet, phyjica ^ et moratis. ldentisas metapby/ica prædicatur de Ente,  in quo nulla, vel ne minima, mutatio accidit.  Soli Deo idhæc identitas convenit. Identitas phyjica tribuitur Enti cujus  quidem qualitates mutationem Subierunt, led  ejus elfentialia attributa immutata permanent. Mentibus, et Materiie idhæc con^venit iden. *> \   titas,, - -.  Identitas tandem moralis confidit in unitate dnis, cui varia media.diriguntur, tum in  perfeveranti ad idem habitudine.. Sic Lupus  gregi druens infidias, tum Vigilum fugiens mi^  nas, idem moraliter lupus ed / non emendatus  «nim fugit, et ed redire paratus Vigilibus fomno correptis.   53. Animadvertendum ed, vocabulum  quandoque minus proprie in communi vitæ confuetudine ufurpari - -l^es enim eadem perfeverare vulgo cenfetur, licet- ejus locU alia, atque  alia incontinenter iuccedat,!! tamen idhxc fuc cef- ccflio fenfibus noftris non pateat. Ita 'flumen  planta, animal eadem hodie dicuntur efle, qux  decem retro annis ; id quod proprie verum efle  nequit.• fiemo noflrum idem ejl in /eneBute,  gui fuit Juvenis.* nemo efl mane y qui fuit pri^  eiie. Corpora noftra rapiuntur fluminum more.  Sen. epifl. 58.   54. Triplici expoflte Identitati § 50. et 5 1.  triplex opponitur diflin6IiOy numerica yjpecificaf  8 c generica. Primam tribuimus Entibus fu b eadem fpecie complexis/ alteram Entibus ad di«  verfas fpecies fpectantibus, fed quz 'fub eodem'  genere continentur * tertiam tandem Entibus  ad diverfa genera relatis. Patet, adeo folam.  Identitatem numericam efle cujusvis diflinctionis nefeiam. Identitatem vero fpecificam cum  numerica diflin6Iione Identitatem genericant cum diflin6Iione fpeciflea optime copulari. Rurfus diflinctio alia efl realis, aliar  formalis. Primim tribuimus rebus, quæ in feip«  fis, et nemine adhuc cogitante funt diflin£læ.  Quod n harum una alterius flt modus,  appellant; qualis efl diflinctio inter corpus, &.  fuam flguram.Secundam vero prædicamus de re^  bus, quæ in feipHs quidem unum, funt, fed quæ,  diverfls mentis conceptibus complectuntur, ip&  rei natura, quæ multiplex efl fuifleientera ratio*  nem fubmihiflrante. Hujufmddi efl' diflinctio,  quam ponimus intellectum inter, et libertatemr  Mentis, Quod fi diverfi ejufdem rei conceptus nodt  ex ejus natura, fed ex libidine intellectus ab*t definitione, genere 'ticinpc ^ 8c difFcren-’  tia conftaot.'" ’ 1 :   5 p. Triplici cxpofit* compofitioni triplex  opponitur sJmpIicitks.liimirum physice jfimplex di.  citur Ens, quod pluribus realiter difiin^is. ca*  ret; hujusmodi ex- gr. Mens cft humana. Hanc  abfolutam simplititatem efie, vari nominis  nemo non videt.,Metapbysioe vero simplex.yt  cujus eiTentia haud confiat ‘ pluribus' attributis,  formaiiter difiin6Hs.* hanc fimplicitatsm Deot  convenire arbitror ^ quidquid contra' Scotistx  fentiant. Logice tandem simplex dicitur, cujuS)  conceptus non coidlat genere, et differentia.tr  hanc fimplioitatem de Geo prsedtcari pbfieplu* :  ritni autumant.-* : ,^.^o.Perdiligenter animadvertaritTyrones, phyfice Compofita non nifi cx plfffice, et abfolute.  fimplicibus elementis confieri ”,i Sane, cujusvis.  Compofiti elementa vel funt compofita, vellunt abfolute. iimplicia. Sit hoc fecundum, con*  liftit afferti veritas. Si primum, hujufrnodi)  elementa, quia compofita, aliis elementis con-'  A ari debent. De hifce fecundis elementis iterum qusBTO, funt ne compofita, an vere^ bc, ab-,  folMe fimplicia Pquorfum evadat dilemma iftud  per fe patet ; nempe, vcl progreffum compofitionum in infinitum comminilci debemus, vel  exiftentiarn vere, et abfolute fimplicium elernentorum confiteri. At progreffus compofitiojnum in infinitum abfque fimplicibus elementis  fecum ipfe pugnat ; in hoc quippe progrdfu'  oecturrunt perpetuo compofi^ fine componentibus Quæ ftint itaque phy/icc Compofita,  ex vtre, et absolute fimplicibus elementis conflari debent. » • !' • I   ^.6i. Ex qiR) facile- deduoi poteft,- quamlibet  fingularetn Subftantiam Sub/eflum^.effe pbyftca  fimplex. Nam  ' -• >  Subflantiarum qualitates^ etfi e^dnOL  liflt generis ) vel fpeciei, aliat tamen aliis prJt*  ilant,* moles tnfiniy  ta reputahitQr. ia.formica. Elephantis.rnoics  magnitudineita' animakuli a P. Francifco de JL.a>  nir obfervati, ideo ' ’j i nfinities infinita rrfpectu prædicti ianimalculi.r.Rurius (phse«  nuy cujus diameter iGt.. intervallum t Saturni, a  Sole /.infinita haberi potefi'' refpectU'i|Tclluris  atque adeoi infinities infinita, refpecta.jElephaOr  feu. InfinUttm ftcundi ordinlti dt iofinuies  •infinifies infinita reCpectu laudati pdmiitn ajoi«  malculin, tertii W/‘»/x.4'.Hujus^   modi comparationes longius proivehi pofifunt :  ^et itaque : dari pluces, immo infinitos Infinitorum'.relativorum. ordine» Porro;, in ferie  infinitorum Infinitum, -infensioris, onfinis tfi,in•finite parvum refpectu Infinitr ondinis fuperioris\ quod propterea appellatur it^nittfimumySc  iafinittfintde. Poffibilis proinde, efi Scabies Infi>  natefitBalium.y InfinitoiUoi ex utraque parte  in. infinitum producta,. • ; !: ' »>  Quantitates reales.) qux fint. abfolute  4t)fwitæ' repugnant,;; Quantitas enim nihil,. eft.«Itud quam plurium.* quæ funt eadem, c6l*  lectio «. Sed qujacittnque pofita^hujufmodi colJectione, fempcr.tui»las adjici poteft; Perrnovara  wo tUnitatis adjectionem Bd augumentum. Quantitas ergo natura fd» talis efl, ut..perpetuo augeri poflit. Sed quod perpetuo augftri poteft,  perpetuo limites habet, (qjippe quodvis augumentumi fupponit (Imilem defectum antecedentem, adeoque limitem )/& quod perpetuo limites habet, infinitum efle repugnat. Quantitas ergo, quas fit actu infinita, repugnat.  Ad rem fapienter Mosbemlus Syjlem. intel.Cud.  feSi. I. cap. 5. 24. ». a. de numero, qui   fpecies eft quantitatis, fic habet. Sciunt omnes  numerum i» fe nihil effe, fed sd ires,.y.r.  >.':r^  i •.infinitusf id quod implicat.Nulla ergo  dari potefi extensio v^e.contanua * 8 c’ quam   vulgo concipimus talem, pro phænomeno haberi debet. Sed de hac re - copiosius io Cosmo-, • > - ' i, • - *. •   logia.   Peculiaris, ac detcrrninatus modus,  quo res infiar totius confiderata aliis flmul coexiftentibus coexiftit, dicitur ejus /ocus ; fitus  vero appellatur peculiaris, aC determinatus' modus, 'quo rei partes præcipuæ aliis llmul coe«  xiftentibus cnexiflunt. Si de libro A quæram  ubi eft ? profefto locum flagito. Refponfum,  quod petitioni pratflabitur, efit hujufm^i; Liber A eft' in tali bibliothfeci ordine, ferici primus, fecundus &c.. Si rurfufti interrogem, qud  litu } refpondebitur, reBus\ invcrfus &c. Primum  refponlum innuit determinat^um modum\ quo  Jiber ’A aliis fimul coexiftentibus coexilTit.Secundum vero refponfum"'^innuit determinatum  modum, quo libri partes J^quæ præcipu'e iii ipfq  notantur, adjacentibus coexiflunt.'Quandoque  tamen in communi fcrmonc fitus, æque accipitur ac locus. i V   ' 81. Locus, ut modo definivimus ^ realh   quidem eft, fed relativus, non ahfolutus.’Philofophi, qui pro fpatio vacuo rerum, omnium  receptaculo communi pugnant, præter ‘ locum  relativum, alium abfolutum agnofeunt. Ex horum nempe fententia lodjs cujufque rei abfc^  lutus eft illa fpatii vacui pars, quæ ab ipfa re  occupatur. Nos vero qui fpatium vacuum abfolutum pro imaginario habemus 78.   folum locum relativum admittimus, et fpatii  nomine intelligimus Ibcoruth omnium collectionem « 'Hoc fenlu ipatium^reale quidem eft, sed relativum, non ablblufum, ut ita ablatis  rebus Jocatis, nihil reale amplius remaneat ; '  fcd^ fpatium, E. contrario in expcctationis ftatu, vel  tædii,,vel cujusvis doloris? breve clapfum tempus admodum longum videtur. (a) Sane in,. ^ • ' hi  00 Hic illud Poetæ obtindt: mifero longa, ff Itci Luvis,       hifcc cafibus Animus raorjc, tædii, doloris impatiens, e molefta fenlatione fe fubtrahere continuo conatur* at irritis conaminibus, moleftia  perpetuo recurrit. Adeft itaque velut interior  colluctatio, et continuus conflictus mentis, et  doloris. Continuu^i hicce conflictus loco eft  continuæ fucceflionis, longum fluxifle tempus, exhibet.  Quæ cum ita Gnt, continu is erroribus obnoxii elfemus, fertempus ex noftrarum  cogitationum, fenlationumque ferie dimetiri vellemus. Hinc factum eft, ut tutiorem regulam,  c^rtiulqus medium dimetiendi temporis fit quæsitum. Kihil huic fcopo opportunius vifum eft  motu æquabili: oam licet quamplurimæ sint in  Muhdo, luccefsivorum feries, hæ tamen, quia  æquabili continuitate carentia, ad rem non videntur. Atqui nullibi forsitan rejjerire eft  hujufmodi motum, qui sit vere æquabilis :  conversiones attamen Solis circa Tellurem ad  fenfum faltem videntur æquabiles. Ipfa itaque  velut fuadente Natura, pro certa temporis mem  fura, ad hujufmodi' conversionum fericra ‘devenimus.* tum singulas conversiones in partes  minorem tribuimus, per motum artificialiter paratum, menfurabiles, Illas diximus dies natura*  les, harum partes horas denominavimus : tum  lingulas horas in minutiores, æquales partes  tribuendo, mirtutortm cudimus.denominationem ad eas indicandas.   §.8p. Ens pluribus continua ferie fibi fuccedentibus coexiftens, durare dicitur : eft proinde  Duratio continu^ jTcu permanens eatis exi sten.  .   flentia, qua pluribus in continua ferie flbi^  fuccedentibus coexiftit, aut faltcm coexiftere per fe aptum eft,   po. Duratio itaque non efl quid ab ipfa*  rc durante rcaliter diftin£lum, neque quid ab-‘  iblutum, fed relativum; est nempe ipsius rei coexidentia ad plura fu^lsiva, sive hasc realia  fuerint, sive tantum imaginaria.   5^r. Duratio cum Tempore confundi non  debet : hujus notio in atquabili rerum luc.  cefsionc consiftit ; illa e contraria in permanenti Entis, quod immutatum, et immobile  concipitur, exiftentia. Fingamus unicum Ens  existere, et in eodem flatu perpetuo manens  nulli obnoxium mutationi : modo nullum fo.  rct reale tempus / adefl vero realis duratio,  quæ fat intelligi ex eo potefl, quod Ens per  fe aptum efl coexiflere fuccefsivorum feriei. Triplex diflingui debet duratio. Vel  enim interminata c(l, et inHnita, principio  nempe carens, et fine, et dicitur ^eteynhas. Hasc  non nifi foli Deo convenit. Vel duratio finita, feu terminata efl ex utraque parte, nempe principio, 8 c fine clauditur, diciturque fimpliciter duratio. Ha;c durationis fpecies optime tempore menfurari potefl. Cum enim  tempus in æquabili, et continua entium fucceffioæ confiflat, ex quantitate fucceffionis, cui  Ens aliquod coexiflit, hujus durationem certo determinare licet ; nec non unius durationem, cum alterius duratione, conferre. 'Duratio  limplex omnibus naturalibus productionibus convenit. Tertia tandem durationis fpccies,, •. vum    bi^ :.   vum dititap y 'eflque illa j qiuap, initium qi;idem habet'V' attfine* careti. Hstt ad Materiam  et Mentes fpectat, neque poicft tfcrnpore me«n  furari,) etfi. djus initium tempori alicui^  veniat * >. / '•, • 'V r^ifl . r..'.: C..ruUbf f ;,.i >.i,i.   De relationibus dependentitr, i*ii de Cauffif »,   * " ‘i ;• I •». >   Efr qiMcpiam ab alta pendsre dicjtur.j    'X^‘ li huic infit quævis alterius ratio^.,*   ifth^’verb unius ad alteram relatio dspenden^  tia nomine. indicator. Ex. gri! Jiorologiijrnqtqs  ab tappenfo pondere, vel ab intus -in,clufo,..elai  firo ptfwrfefe I dicitur, quia pondus lappenruin.,  vel elaftrtrm rationem co.ntinei)t, cur in hpto^  logio motus-fiat. ‘ r«., *.  Via, &c. Hujufmodi Cauffa remota, et media^  ta dicitur. E contrario proxima, et immediata  ^ laudit, quam inter. et effectum nuHa interce^  dit alia: hujufmodi in adducto exemplo eff  organicæ plantarum flructuræ insita.   1^. 'XI2. Si Cauffa proxima, 8c immediata de*,  lerminationem fubeat ab intermedia præcedente, ^fimiliter iflhsc ab alta, Sc ita porro; Cauf*  fm ftt^ordinata ^dicuntur t 8t connexam ferieiit  i^nflituere. Hujus feriei prima appellatur, quasnulli przcedenn fubordi natur, cztene vero in«  tcnriedise mediata nuncupantur. CauflTz in ferrem fubordiaata t]vSm6^  di ' funt vel effentiather, vd æcidentaliter. £/•  fentialiter fubordinat» dicuntur, fi fubfcquen*  |iuax actiones a præcedentibus fint excitz, dc   M . P   i2eterminat«. ^ccidentaliter vero fubordinatv  appellaotur, 11 fubfequentes a prascedentibus ia  fola exifleotia peodeaat, noo item in agendd.   1I4> De GmdSs ba^ potiflimum tenenda  funt- '•   I. Ex nihilo nihil fi*. Nullum Jioc* antiquius axiomate in pbysicis, atque cofmologi.  cis facultatibus « magifque receptum communi  Philolophorum confenOone. Sed rectus e)us £enfus Qoo ab omnibus zque acceptus. Ita pmrro  antelligaat Tyrones c,IQibHnm nequit effe net  tMuffa effieient, isrc materialis^ nee formatis^ ««.  fue finalis ulliur roi, Sane nihilo nulls, funt  proprietates, alias non effet nihil ; fi nulle proprietates nihilo conveniunt, nulla caufialitadd  Ipecica tribui poteft^*,   • 215«. Plures e Veteribus ita intelligendum   autumabant, ut cuilibet productioni præcedens  fubjectum, tanquam materialis caufia, ftatuenduna  «tlTet. Hinc «ternum Cahos, e quo omnia ortum haberent illi imaginabantur, et. crcatioi  nem ex nihilo, ex nullo nempe prascedei^ fiib*  jecto, impofiibilem decernebant. De fenfii axioip^  mati a nobis tributo, nihil efi quod dubitq^  mus, fi indubium cfi contradictionis principium;  at vero fenfus ab hujurmodi hominibut excogitatus nulli certo principio efi fuperexftructus.  Creattonem ex nihilo in CofmolQgia vindicabimus ; illud tantummodo heic monemus, gratis  iupponere Adverfarios, omne quod fit,,ex ali^  quo præcedente fub jecto fieri debere. Certe mp/  tus ell aliquid : interim contjnuo experimur,  ipos varios motus de noyo in corporibus foln   D 4  .   voluntate producere jecto, tanquam ex.cauifa naateria-li r repeti. Ecquid^ ergoavetabit,hGau(Tam inii*  alita efficacitate prarditara' fola •voluntate 4 ^ubftantias dt- nihilo condere? Certe nihil vetat,  ficuti ex noto effectuum diferimine par diferimen inter Cauffa? ponere, ita ex cognito Cauffarum diferimine, funile dilcrimen inter effe»  xtus iptereffe pofle, decernere. Id quod contra  xos dictum fit, qui incogitanter allato exemplo  objici, pofle putant, morum efle qualitatem,  non fubdantiam 4 cum contra iubiiantiæ fint  illæ, de quibus' quæflio vertitur, utrum ex  nihite creari' peffint'.’  - ^.11 d. II. Omnis Cauffit debet effe prhr fuo effe.  Siu. Sane Effectus exiftentiam luam tfonfequi»  lur ab actione Caufsæ efficientis. Itaque efftetus  natura fua 'cfl pofterior Caufla. «.•* e   ^.117. 'Duplicem diflinguunt Philofophi priol  ritatemiif natura nimirum, et temporis • Cuni  Calilsa tempore prafcedit effectum, hanc dicunt  ^iifitatem temporis. Si vero ' nullo prorfus  tvrtpore Cairlia fuum pra?cedit effectum ^ feu  iiumquam Caufsa’fuo effectu fejuncta «xtitit^  modo nonnifi prioritate naturæ, feu ordinis gaudeti. Hæc naturæi'-priorit.s in eo coniiftit,  quod effectus fuam rationem, fuumque princi*.  pium- e caufsa petens‘ fine caufsa exifteotiam  conftquiunequit : deinde in noftrarum idearum  ofrdinc, taulfæ conceptus notionem effectus neceffario  antecedit. •   «. III. potefl effe cauffa efficiens fui   fpfitis. Revera, cui tribuemus caulsalitstein »   rei non adhuc productæ, vel rei )»m -effectæ?  Non prjmuni, quippe res ^^on adhuc exiffens  nihil { agere, poteff 114. Non fecundum, canf faiitas'qiiip|X præcedere debet, non fubfequi  effectim; Quare Nthil poteft elTe cauisa  efficiens fui ipfms. ..   tiip- IV; Nequeunt duo Entia fibi mutuo effe  eduffa ef^eientts, Sit primo -A caufsa efficiens  B. 'A ‘erga:eft prius, B pofterius. i.i($.Sit  xnoda B taufsa efficieii& -A,. Erit A pofteriuss  B. anterius'; idem ergo A erit anterhis ffmuiy  posterius ^B,‘i(f quod implicat. Igitur &Cv  ' «xoi Vi^ j^Uqmd efi in effe&U y 'debet efi  fe^ht>:eayffai^^9^yfofttttdite0‘'.y vei eminenten-J i2oa^ ^  tineeii f^rinutite^' OM " res iir ‘ altera ^ ‘ dicitur, fi  illa irt hac continetur fecunduui ifusm ooncre^  tam: effentiam ' ita formaliter * contineri in fii*  rnihe* dicimus futuræ •pI&ntai-^rndinTenta feri*  cum in bombycis vifceribus &c. 'Eminenter vc*  fo ^ wtuaiiter ^ B nonnifi virtus," et poten«^   tia ' fufficrehs.aUieri' iniit ^condendi aliam &qui9  exv dnodrit mdtum femaiiter in Anima, quas  xllURl fiia ioluntate^ pradneip,- contineri ? equi^  defn folarViitus, &' ponnfia> motum; produceiid.  di «iniiieff a^titBse pofitis^ifffaliquid eft' in  fectu V quod'"non fft 'iii (C^ifa, r» aliquid vel^  efi mt alia caufla, vel ex nihilo. Hoc fecuifi  «iuin r^giiAt t ^ 4 « Si' primum, effectus it*  ei^ non cx utiich, fed-«ex duabus cauffisfociis, et confiftit veritas effati. IX f; -VI? Series 'omffdtium fuberdhtatarum^  q[MæU*dque ea fit, abfque ulla Cauffa prthha, et  indeptn4ertti ^ muino tepugnat, etfi in infinitam  J.1 produB/t concipi velit. In hac infinita fcrie qua*  vis Cauffa cft cffe£Ius przcedcntis. Qui ergo  fiatuit infinitam fcriem caulTarum fubordinata*  rum abiqæ ulla prima Cau(Ta,8c independente,  ponit infinitum numerum effe£luum -j- i ab*  fi^ue ulla caufla; id quod evidentiflime pugnat.   •§ iiz. Sed lubet Tyronibus, rerum mathematicarum fiudiofis, id ipfum alias exponere. In  ierie caulTarum fubordinata rum, quziibet Cauf*  fa determinatur a præcedente five ad exifiendum,  five ad operandum 112. Nulla ergo  caufia continet in fe ipfa fufficientem rationem  fux exifientiæ, vel a£Iioni$ : adeoque nulla cauf* !  fa fufficientem, et adæquatam continet ratioæft |  cau (Tz pofierioris. Itaque przdi6Ia feries in infinitum protenfa, e(l feries cauflarum ejus natu- i  rz, et conditionis, ut in earum fingulis metum  adfit nihil in ordine ad determinatam exiilen* ;  tiam cauffarum pofieriorum. Summa autem om> |  nium nihilorum, utcumque numero infinitorum j  efi nihil. Jamdiu enim confiitit, illud Guidonis Grandi, ut ut fummi Geometræ, paralo*  gifmura fuiffe, quo, ex expreffione feriei paral*  klz ortz per divifioncra ~, intulit, fummam  infinitorum zero effe revera squalem dimidio»  Series ergo illa, ut ut infinita, omni caret fuf.  ficienti, Sc adzquata ratione ad exifiendum, nifi ab Ente extra ipfam pofito, zterno, et a  quovis alio independenti ad exifientiam deter*  minetur.   irq. Contra Atheos hoc pofitum ell theo  rema delirantes, omnia in Mundo pendere [ab  infinita cauffarum contingentium fcrie per im*   JDca*    p- :: --J. SP   nienfam aternitatem produfta ; quafi nempe,  quo longius, remotiufquc produ£tam imaginemur hanc commentitiam, fetiera, minus opus  fit Caufla prima, et independente. At contrarium  Tana exigit Ratio. Rem exemplo illuftrabimus,  quo Atheorum dementia magis pateat.. Supponamus ferream catenam ab alto derivantem horizonti normalem,quam, fi lubet, in infinitum  produ£tam imaginemur. Contendat vero aliquis,  catenam iftam, immane quantum ponderanteral  nullo fulcro indigere, ne deorfum tota ^uat *  fed hujufmodi pofitionem perpetuo ex feipla  fervare poffe, hoc herculeo a-rgumento. Primus,  Sc infimus catenæ annulus, '^.e ruat, detinetur  a fecundo, nec ullo indiget fulcro,* hic fecun»  dus, quin et ipfe fulcro indigeat, detinetur a  tertio, et ita deinceps in infinitum. Igitur tota catena, quin indigeat fulcro extra iplam pofito, perfe verare ex fe fola poteft in illa poutione. Profeao ita delirantem, non adducis rationibus, fed praftito quam citiflime elleboro,  curare fatageremus.' En typus delirantium pariter Atheorum, qui feriem caufsarum fubordinatarum infinitam abfque ulla prima Caufsa, et  independente comminifeuntur.  Una eademque res p 9 te!} /tmuf ejfe  Caujfa finalk, et effeBus. Eflfeaus nimirum  non adhuc obtentus, fed mente præcognitus,»  volitus, ipfam movet ad agendum, ut cfFe6Ium  confequatur. Finis, irquiebant Scholaftici, ns   intentione prior ^ in exeqttntione po/lerior,   iEger, ut fanitatem confequatur, pharmacis utitur  ab amico Medico præfcriptis. H«ic fauitas eft finis, qui in pharmacorum ufu intenditur, et  quam pofthac xger coniequetur j eadem vero fa«  nitas eft Caufsa asgrum movens, ac determinans  ad pharmaca adhibenda contra fuafioncs guftus,  et oeconomiæ. Infcite itaque Spinoza decrevit  Etif. p. p. app, ad prop. ^6. Omnes cau fas finales, nihil, ntfi humana ejfe commenta: hanc de  fine dbiirinam naturam omnem evertere nam id,  quod revera caufa eft, ut effeSum confideraty et  contra : deinde id, quod natura prius eft, facit pofterius. Nempe non diPtinxit Spinoza in«  ter eflfe£fura in actuali ftatu conftitutum, et  eumd^T.on ftatu ideali, feu in intelligentia  Caulsæ efficientis comprehenfum.   IZ5* Priufquam hinc abeamus, celeberrimam qiteftionem, de qua acriter Philofophi jam  inde a Cartelii tempore decertarunt, paucis expendere juvat. Qjue vulgo dicuntur cauffa fecund(e-, feu atuffa creata, funt ne revera cauffa  efficientes } gaudent ne infitts viribus, queis age»  re Valeant, agant} Jfn ne' junt tantum oc»  cafiones, cur Deus per ipfas, et in ipfis ftm»  mediate agat, eofqua moliatur effeBus quos 0  vtrtbus creatarum caufjarum promanare putamus?   Jz6. Primum negant Cartefiani, ftatuuntque creatas cauPsas omni prorPus agendi vi dcftitutas / nihil adeo ipPas agere, fed Deum omnia operari fecundum generales a fe conftitutas  leges pro variis illarum occafionibus, nempe  juxta illasmet leges, quas vulgo natur* dicimus. Impingat globus A in alium B* hic protrudetur, ilPe vero vel lentius perget, vel quiefcct, vel refle6lctur juxta Phyficæ leges. Ex  *' 6i  Cartefianorutn fentcntia truditur globus' B' non  motu, &. aftione irruentis globi A, fed immediate a Deo, qui, juxta generales a Te fancitas leges, "pro occafione irruentis globi A,'  alium B propellit : tum idem globus A occurrens in- globum B, etiam immediata Dei actione retardatur, ad quietem adigitur, vel reflectitur ; non ex reactione, vel elafticitate corporis percufli. Pariter non ignis pyrio pulveri  applicatus, illum in flammam agit ' fed ‘ex oc>»  calione admoti ignis, Deus pyrium pulverem  inflammat • tum ex occaftonc conflagrantis pulveris, pilam e tormento' expellit, et pe^ parabolicam femitani ducit j qua in parietes impingente,' iterum liac'*occafione ipfe Deus parietes disjicit; rurfu?, ex ^occafione corruentium*  parietum, fubftantert hominem perimit. Ita de  cæteris quibufciimque aliis’*. Neque corpus humanum aliquid ih 'animam agit, neque anima  in corpus / Deus lingulas in anima adfectiones  gignit, quas e corpore prodire putamus, fingui  lolque motus in corpore juxta animæ voluntatem’. Non moror Malebranchii opinionem ulterius pergentis, de qua alibi opportunius. •   ^ lay. Cartefianorum sententiam ' longius,  quam par erat, prolequuti fumus, quippe illam  cxpofuifse, confutafse reor - Sane communem  illa hominum fenlum, rationemque evertit. Tu  ne, inquiet Cartehanus, præjudicia pro ratione  obtrucljs } Perbelle | ii tara conflantem, univerfalemque hominum, turi^ philofophantium, cum  naturali rationis ductu judicantium, fententiam,  pnejudicii et falfitatis arguere velimus, o felices CartefKini, queis unice bonus fenfus, 8c  recta ratio ceffit ! Deinde, fi vel tantisper Advcrfariis demus fententiam, quam tuentur, quan«  tum ab Idtaltsmo ( putidum profecto delirantiun^ fomnium ) diftabimus? Unde corporum  noftrorum, totiufque Mundi exiftentiam ultra  rcfcicmus ? Sane in hoc fyftemate ^ cum nihil  inter fe agant entia creata, fed omnia agat  Deus, pronum erit fupponerc, nihil exiftcrc»  aliud præter me, et iplum Deum. {a)   ^ iiS.    (o) Corporet Mundi exiftentiam noa aliunde, quam ex  Mentis noArz fenfationibus nofcimus. Si has fenfationes  non ex aiAione circumflantium, et ptementium corpo-‘  rum, fed ex Dei immediata adione fieri ponamus, nullum dein fupererit argumentum, quo contra Idealiflas  Mundi exiflentiam vindicemus. Quod enim Occaflonaliflac fubdunt, fenfaticnes ex occafione circumflantium corporum a Deo Mentibus imprimi, quas numcuam infet-. ret nullis eircumexiftentibus corporibus, nimis leve eft,  ^ et hypotheticum, e quo Idealifla facili negorio fe expediet i ita enim regerere poteft. Unde rejctvifii corpor0  extare * tum, juxta horum circumjltiniium varias occafiones, Mentem varias ex a&ionh Dsi Jati Jenfationesi  Equidem de nofiris jenfationibus nulli dubitamus^ fed  inquirenda tantum occurrit, quanam fit noftrarum fenfatienum eaujfa. Has ego ex immediata Dei aSione ref eto, quin quidpiam aliud extftere agnofcams quippe * illum fat potentem,^ Jdpientem ejje intelligo, qui ideaiis mundi fpeSaculum et /dat, et valeat menti mex  exhibere, ProfeBo nec hilum prnfiat, aliquem realem  mundum comminifci, qui et nihil ad meas fenfationes  conferre poteft, quo nullimode Deus indiget, quominus idealem^ mundum menti mea reprafentet. Quare fi  nofti, haud Deum decere, entia multiplicare fine wceffitate, UT fuos adfequatur fines; praclare me gero, dum  nihil prater me, et ipfum Deum extare fentie, Neque. . t%S. Sed quibus tandem -argumentis Cartefiani hanc fuam conficere rentur opinationem?  Duo præcipua adferam, nam cætera (lomachum  cient. L Nequit omnino iiitelligi quomodo entia cneata jn fe agant, quidv^ fit illud, quod  cjc uno tranfit in aliud, li. In idea rpiritus non  elucet profecto conceptus vis corporum motricis.  ' lap- I. At in primo uberiorem Logicæ  peritum in Adverfariis eli, quod defideres.   Nem  iuvabit Occaiionaliftafn reponere, idealifmum cum Divina Boniute pugnare; nempe in ea fentenfia Deas grande Mundi rpc6laculutn Menti tam vivide repra^fentando,  ut omnes proclives Hmus, et quali cogamur ad Ivniiis  xealis mundi exillentiam adftmendam, nos profefto illuderet, fi nuilns exificret mundus ; Non,.inquam, id Occafionaliflas juvat ; ita enim merito refumere poteli Idealifta, fiiamqu.* cauisam conficere. Pape ! Ei tu adeo vecors, et audart, qui Deo tuos errores., ac deliria adjudicas \ eccur judicium tuum, me tibi exemptum prmbertte, haud cohibes l certe quas vividas fenf asiones te  fati ajfeveras, et corporum extjlentiam, ut dicis, faseri quafi jubentes, et ego patiar s illud reliquum efl,  ut ratione teipfum cohibeas, et ab errore fetves immuitem, ficmti ratione didicifti et alios plurimos profligate : ut ecce, te tua vi brachium, ac totum movere corpus, hujus mundi corpora invicem inter fe agere, colores corporibus inharere &c. Si hos errores Japienter rejicere Jategifti, neque unquam Deo adjudicandos agnovifii, quippe ratione duce profligantur, ita pariter eadem duce ratione veterem dedi f ce errorem, et prajudicatam expunge fententi emr, realem nempe mundum exi flere:  tuaque ofcitationi, aic infcitia tribuas, nonDeo,q iod iu  eam dementiam defcendifli: Itaque cum adeo facilisfit,  ac brevis ab Occafionalifmo ad Idealifmum defcenfus, eadem cenibra ambx lignanda; filat fententia:, fcilicet inter  furentium deliramenta reponenck. Nempe hsec duo • fececoenda cr  fuimus, uno conceptu complexis,  emereant, compofita dicuntur, Earum notiones,  quippe quæ frequenter in tota Philofophia occurrunt, feorfim heic exponere, operæ pretiuna  duxi. Sunt autem hujusmodi Ordo, Bonitas -,  Perfecto, Pulchritudo. ' •  Plurium Entium five coexiftentium;,   (Ive fe confequentium ita' connexa feries., ut  iibique eadem ratio deprehendatur in 'modo,  quo juxta fe collocantur, aut fc' invicem excipiunt, ordinata dicitur J ejufque abftraftum  appellatur Ordo. Confiftit itaque' in fimiJitudine, qua plura' Entia juxta'-(e collocantur,  aut fe confequuntur. Si fecus illa. fe> habeant,  ita nempe fint Cohftituta, ut nulla- in eis eluceat fimilitudo five in coexiftendo five ip fibi  invicem fuccedendo, inordinata, leu eonfufa dicuntur. Exemplum fumatis ex- bibliotheca.   132? Et quoniam fimilitudoi, quam ordinerp dicimus Entibus præter effentiam.convenit, ex aliqua 'profecto ratione pendere debet.   E Ratio ifthcc ' Printifimn ordinis dicitur  et PROPOSITIO ENUNTIANS communem illam rationem,  ieu fimiliiiadioem, qua Entia co^xiftere iil» debeat, vel fe confequi conformiter>huic principio, Rtgulo ordinis appellatur. Ex. gr. Principium ordinis in bibliotheca cft :| Lilrros od  comparandam eruditionem aptos in promptu ba~  here. Regula vero ordinis eft hujufmodi : J^ihri ejufdem argumenti Jimul componantur.   igg. Atqui communis illa ratio, qua  plura entia juxta le collocari debent, vel fe  confequi,ot ordo^io eis eluceat, potell eife liBiplex, vel compofita. Hinc vel fimplex, vel  compoHta eft ordinis regula, et ejufmodi pariter Ordo iple. In præcedenti exemplo limplex  pro bibliotheca eft >6rdo, tum ordinis regula.  Compofitus vero ^it, fi ifihaK compofita regula obfervetur ; jLihri ejufdem argumenti, /mgutSf ty retatis fimui collocentur. %•   hibetur. Sub Bonitatis abfoluta nomine venit  quidquid reale in quovis Ente concipitur; ejus  nempe edentia, fingulæquæ proprietates. Huic  opponitur Malum abfolutum, quod confidit in  deficientia cujufvis realitatk in Ente : id quod,  ut patet, nunquam fieri poted. Ipfe concep*  tus entis, ed conceptus alicujus realitatis : nui*  ' lun^ Eoa fua edentia expoliari unquam poted.   £ 2 Sufboc itaque fenfu fingulia Euubua ahqua   re/a./ua iis tant.m.ribm.ur   ^ olinrum ablolutam bonitatem con et peteciunt, vel confervare, et perlervani, ^ v immediate, five medtate.   E rela»;™» te]ligi potell, Mundi nomine  intelligendum clTe Syftema Entium tum permanentium ^ cum fucceffivorum continuo nexu iater  fe conjugatorum f quodque ad aliud Jimil e fyftema minime pertineat, '   Entium permanentium nexus eorum  refpicit fitum, feu coexiftentiam, et ex CJauffis finalibus repetendus eft,*> feu ex fine, ad  quem refpcxit Qui primo Mundum fabricatus  efl, et unum Ens ad aliud ordinavit. Ita ex.  gr. Tellus in ea difiantia a Sole locata efi  eamque orbitam conficit, qua nec nimio ardo*  fe metalla fundantur, vegetabilia, 8c animantia  enecentur* nec nimio frigore rigelcant omnia,  rurfumque pereant pjus viventia; fed ejufmodi  in lingularum tempeftatum vicifiitudinibus tem*  peraturæ 'limites 'perpetuo ferventur, qui et vegetantium,& animalium oeconomix conveniant.   ^ p. Entium vero fucceflivorum nexus tempus fpectat, firque per CaulTas eificientes y internofei vero poteft, quoties fubfequentis exiilentiæ fufficiens ratio in Entis antecedentis  actione continetur. Hujufmodi ex.gr. efi nexus,  qui inter fructus, et flores plantæ intercedit,  tum ille, quem hos inter, et fuccos ab organica planta ftructura, ejufque peculiari phyfi  elaboratos, nofeimus.   IO- Mundi ergo in genere Eflentia pra?cipue confiflit in peculiari illo nexu, quo tum  Entia permanentia, cum fucceflfiva inter fe vinciuntur : iiquidem ex ^variato nexu alius atque  alius prodiret Mundus, licet Entia inter fe connexa eadem eflent. Ex. gr. fint A B C O   &c.    N   &c. ’fuis tandem limitibus  concludi illam debere, quQS ultra progredi nequeat, Nemo ambigere jpfbteft ^  Prima illa componentia, ex quorum  coagmentatione corpus phyficum primo conftituitur, quxque ex aliorum nexu non funt conflata, Elementa corporum dicuntur r tum ipfa  hxc elementa Mater'ut mundana nOmine veniunt. (a) De hifce elementis, quzremus I.  funt ne extenfa, vel inextenla ? IX. similia,  an diflimilia ?   ACorpoYum Eltmtnta funt nt tnttnja,  vet inext$nfa}   1  T^Ifcrcpantcs Philofophorum fenteaI J tlx ad duas QafTes, quod ad rem  prxfentero attinet, referende videntur. Alii fiquidem corporum elementa vere fimplicia ponunt  . ( 4 ) ElementoFum nomen diveifo plane Icnfu a Cbemi.  cis ufurpatur. Defignant niminvn quafdam materiales  fubfiantias ( non fenfu metaphfSco, fed vulgari fumunr  fubflantijE nomen, vide ont. §/ 6i. ), omnino fimilarec,  cum in fui toto, tum in fingblis partibus, quasque nulla  artis, naturzque vi confiat, ^folvi in alias diverfas fpeciei. Has folent appellare etiam fn6ftaHti4$s fimpUees ;  tum qwque prima carporum componentia. Vide quantum obiant notiones Metaphyficonun, et Cheroicorun  tidan Vocabulo labjeAc !    So   nunt, et inextenfa.• E. contrario alii extenft  habent, et figurata. : • i   I. In prima chfCc veteres  Cunt Z*»onifl/e\  qui corporum* elementa punBa dixerunt fimplicia, et mathematica. At rifu a Sapientioribus excepta.hac lententia, ZerWt/ur, Vir equidem lummi 'ingenii, Monades dixit, fubftantias nempe vere flmplices, et omnino inexten*  ias, natur^ fua aftivas, Ic diffimiles. Tum poliremus omnium Bofcovikhts inextenforum elementorum et ipfe Patronus punBa appellavit  non mathematica, ut Zcnoniflas, fed realia ; quas  viribus per vices attractricibus, et expultricibus  juxta certas, et determinatas ad invicem diflantias gaudeant. Quid interfit difcriminis has im  ter Icntentias, probe advertant Tyrones.   II. Ad alteram claflem fpe£lant veteres De»  mocritki, tum Epicurei, ^|.l'  '. '   nere toitdem numero, quot idiomata funt, in  quibus Jingulis omnes ejujdem idiomatts voces re»  •perirentur^ qua quittem numero admodum pauca  effent, difcrimine illo ingenti tot tam variorum  librorum redaSio ad 'illud ufque adeo mitius di»  /crimen, quod contineretur lexicis illis, haberetur in vocibus ipfa Icxica conjiituentibus. %^t  inquijitione promota facile adverteret, omnes il.  las tam varias voces conflare ex 24 tantummo  do diversis litteris, difcrimen aliquod inter fe  habentibus in duBu linearum, quibus formantur, quarum combinatio diverfa pareret omnes  illas voces tam varias, ut earum combinatio libros efformaret ufque adeo magis a fe invicem  di f crepantes. Et ille quidem si aliud quodcumque sine microfcopio examen inflitueret, nullum  aliud inveniret magis adhuc simile elementorum  genus, ex quibus diverfa ratione combinatis orirentur ipfa littera ; at microfcopio arrepto metueretur utique illam ipfam litterarum compositionem e punBts illis rotundis prorfus homogtneis, quorum fola diverfa positio, ac dijlributio litteras exhiberet. Deinde pp. ita concludit. Mac mihi quadam imago videtur effe eorum, qua cernimus in natura. T am multi, tam  •varii illi libri corpora funt, et qua ad diverfa pertinent regna, funt tamquam diverjis con/cripta linguis. Horum quidem chemka analysis  principia quadam invenit minus inter /e difformia, quam fint libri, nimirum voces. Ha tamen ipfa inter /e habent difcrimen aliquod, ut  tam multas oleorum, terrarum, /alium /pedes  eruit chemica analysis e diversis corporibus. Ultertus analysis harum veluti vocum j litteras mi^  nus adhuc inter Je difformes inveniret, et ulsi»  mo jUxta theoriam meam deveniret ad homoge^  nea punBulay qua ut illi circuli nigri litteras ^  ita ipfa diverfas diverjorum corporum particulas  per jolam difpesitlonem diverjam efformarent :  ufque adeo analogia ex ipfa natura consideratiem  ne derivata non ad difformitatem, fed confor»  mitatem. elementorum nos ducit.   ^5. Re quidem vera/ conflat inter Philofophos, diverfas ac multiplices qualitates,  quas vulgo corporibus tribuimus, nihil elTe ali>  ud, quam noflrarum renfationum phænomena *  non vero fimiles entitates corporibus revera in«  hxrentcs: id quod et in Logica monuimus, tum  in Psychologia copiolius edocebimus. Rurfus  condat, varias in mente gigni lenfationcs ex  diverfo corporum in fenfus incurrentium ta£lu,  feu ex eorum diverfa in fenfus no{lro^ a6lione.  Atqui ex diverfo elementorum corpora conftituentium nexu, et pofitione ad invicem., op«  time intelligitur, diverfas in elementis noftros  fenfus conflantibus motiones cieri, quin et ele/•  reriKX • licet rem alias ^explicarent, commentiti formarum lubftantialium theori* infiftcntes. Et diftis patet, omnium qu* in corporibus infunt, vel ineffe poflunt fufficientem  rationem ex intima ipforum elementorum natura pendere, nec non cx diverfo elementorum,  ouo invicem copulantur, nexu. Cum vero inter  ^ \ Phi   Erii elementa innumeros diverfos nexus, innumerasque varias inter fe pofiriones fubire queant 5 attamen quantum ex chemica corporum analyC haflenus datum ell  nofse, videtur faltem telluris noftrs refpedu, hanc eis 1*  a fupremo Conditore legem impofifam, ut nonnifi triginta tres primitivas combinationes, qus fint fpecifice  diverfe, fubire queant. Sicuti nempe punftula illa nigricantia, de quibus §. 24., e quorum varia pofitione  caraderes efticl pofsent, hanc debent fervare legem pro  Boftro alphabeto, et feriptura, ut nonnifi in 24.. combinariones abeant I Sane nonnifi 35* m^erialia cqmpofita haftenus novimus, qu* fingula fibi femper fimilaria,   et homogenea, nullo arris, et natura; molimine in alia  diverfi generis abire confiitit. Hujufmodi fnnt lux ^ caloricum, fluidum eUQricum, oxygenium, hydrogentumy  gezotum, ( quod ab aljis accuratius nitrogenium appellatur ) carbonium, fulphur, phofphorum., quinque terra f  ftptemdecim metalla, foda^ et fotajfa. Cætera corpora funt combinationes fecundaria; ; nempe mixtiones, modi ficationes, vel tandem intimæ compofitiones prodictarum 5?. conibinationum primariarum. Ita ex. gr. Aqua et  «ft intima corapofitio hydrogenii, oxygenii, et calorici.  Acidum fulpburicum eft intima combinatio fulphuris,oxygenii, et calarici &c. Philofophos conveniat, ab ciTentia aufpicandam  cfle fufficicntem rationem omnium, quat in qua>  vis re infunt, vel ineflc poffunt i 6. ont. •  per fe liquet, corporum effentiam in elementorum fimplicium natura, et vario inter fe nexu  reponendam effe. At quis elementorum naturam,  variofque ipforum nexus plane perfpectos habere præfumet ? Corporum itaque eflentia pro incomperta habenda, et verba efFutiiflc quotquot  contrarium audacter prxdicarunt.   y   De Legibus cofmologicis •   •\ •   «•   28. T Egum cofmologicarum nomine veni^ unt certæ quædam naturales, ' ac  infitæ determinationes virium materiæ, juxta  quas et elementa, et corpora hifce conflata perpetuo in fe invicem agunt; tum gignuntur in  Mundo omnia, pereunt, moventur, modificantur, et quibus Univerfi ordo continetur. (a)  Hæ genericis quibufdam propofltionibus efferuntur, quarum præcipuas heic exponemus.   zg. Corporum elementa viribus  per vices attrahentibus, repellentibus pro va^  riis a fe dijlantiis gaudent ^ quibus in fe mutue   agen  (d) Vis motrix in horologio certam habet determinationem ex ipfa horologii mechanica ftruftura, qua determinatos motus, et non alios, in indicibus gignit : ita  vires elementorum infitas habent, ac cettas agendi determinationes, a quibus, ne iulum quidem, recute pof fwt V   agentia in fensibiles, et extenfas moles concrefcunt - ( 1   Nifi enim hujufmodi viribus gauderent,  quam facile corpora ex illis cotrfiata di flbl verentur, linde Univerfi moics in informe Cfaaos  quam fubito abiret,^ Gaudent vero viribus at.  trahentibus in majoribus didantiis, repellenti*  bus in minimis. Primis fe >mutuo, petunt ad  acceffum, ne fingula i diffluant, &*, dilabantur :  fecundis vetatur intima eorum penetratio, ne  fcilicpt eorum millena non majus occupent Ipatium, ^uam unum : id quod li folis attrahentibus vjf ibus. gauderent, extemplo » et neceflario fieret. Cura inter liraites harum virium  cqrporuna elementa funt conftituta, conquiefeunt,  et cohærent. Itaque hac lege mathematicus elementorum contactus / vetatur, &..fimul efficitur,  ut coeuntibus illis ad minimas, &. inobfervabi^  les ; diffmtias, extenfa, et phyficc continua moles noftris fenfibus objiciatur. • Has autemt vires  pro variis elementorum diftantiis pluries mutari, ut ita attractrices abeant in expultrices, et  vicissim, diverfa corporum 'denfitas, tumidi-'  veflb col^oefionis vis -exigunt ; id quod in Phy,fica uberius exponemus.•,   30. jLEX. II. \Singula Univirsi corpora  Junt' antitfpa. > r   ^aatitypiam intelligimus vim illam, qua  corpus, quodvis alteri naturaliter refiftit, ne eumde,m occupet locum ;feu  ne unius materies cum  alterius materie intime immifeeatur. Hanc legem elfe cofrnologicam ex eo patet, quod antirypia e corporibi^. eorumque clerflcntis fublata, fingula ad unum indivifibi le punctum redigerentur, et Univerfi moles illico evanelceret,   31. Hæc fecunda lex corollarium eft pra;cedentis. Etenim elementa j ubi ad minimas pervenere tliftantias, fe mutuo repellunt, et ita ^ ut  decrclcentibus ultra quemvis adfignabilem limitem diikntiis, e contrario, creicant fimiliter vires repellentes. Hinc profecto fieri d-bet, ut  elementorum compenetratio fit naturaliter impolfibilis. Quavis polita extrinieca vi corpui  ad corpus apprimente, unius elementa ad alterius elementa apprimentur, Sc quandoque utraque proprius accedent • at id nonnili ad determinatas ufque diftantias: quippe his ad infinitum delcrelcentibus, fimiliter augebuntur vires  fingulorum repellentes. Singula Universi corpora  funt inertia.   Cum dicimus corpora effe inertia \ intelligimus nulla gaudere vi, qua fponte fua e quiete  ad motum, et viciffim e motu ad quietem,  vel^ ex una motus directione, Sc gradu celeritatis, ad aliam directionem, vel celeritatis gradum, tranleant. Si adeo 'fnoventur, nunquam,  ni fi ob externas caulfas actionem, e motu luo  dcfiftunt • fi vtro quiefciint, quietem perpetuo  iervanf, donec imprefla extrinlecus vi moveri  cogantur, Sane abique inci tia omnis mundanus  corporum ordo, vel Iponte fua, vel minima quavis vi deleri poflet. Singula Univerfi corpora inertia else, quotidiana  ^ edocet experientia. De corporibus quidem quielcentibus,    gg. Newtoniani vocabulo inertiie alium  prsBtcr expofitum, fubdunt lenfum* vis nempe,  qua corpora five quiefcentia, live mota externis renituntur caullis iplorum ftatum live quietis, five motus perturbare conanfibus. Hac vi,  ipfi inquiunt, fit, ut quarumlibet caudarum  externas a6iioni aqualis femper refpondeat, et   contraria rratlio. Hujus equidem effati veritatem fingula motus phænomena tedatam faciunt,  ut de ca nullatenus dubitare liceat. Atqui non   quod in materia illam comminiftamur vim,  ut prasfat* veritatis rationem reddamus. Nimi*  rum mufuis elementorum viribus repellentibus,  quibus corpora ad mutuum, et mathematicum  contactum devenire vetantur 2p. ; optime  intelligitur, corpus quodvis in aliud incurrens,  • ubi ad eam pervenerit vicinitatem, in qua vires elementorum repulfivx fe exerunt, hilce  viribus urgere, et propellere illud in quod incurrit, unde flatus mutatio in illo neceffano  iuboriatur. Similiter, cum repulfivæ vires elc  men   quic perpetuo quietem fervant, donec 'aliqua extrinfecus  illata vi deturbentur, nullum forfitan movebunt scrupulum Tyrones 3 non item de corporibus ad motum aftis,  qua: ad quietem alia citius, alia tardius £ua veluti fponte redigi obfervantur. Atqui fedulum ii fi infiituatit examen, deprehendent, corpora femel mota non fua iponte,  fed' externis obfiaculis,in qua; continuo incurrunt, a motu defifiere, et ad quietem redici. Sane, quo adcuratius  illa removentur, eo diutius in iuo perdurant motu ; ex  quo faris inrelligi datur i quod fi omnia adeuratimme  removeri pofscnt obftacula, perpetuo corpora in luo perdurarent motu. Sed de his- opportunius in Phyfica.  mentorum corporis in quod fit incurfio, æque  fe exerant contra incurrentis elementa, pariter  in iftius motu mutatio fieri debet, et quidem  in adverfam plagam. Eli autem una, cademque  virium lex in omnibus elementis. duantam ergo (latus mutationem fubit corpus, in quod fit  incurfio, ex repellentibus viribus incurrentis •  tantam fimiliter patitur hoc alterum ex viribus repellentibus prioris : nempe Uniuf aBioni  iC^ualis femper efl, et contraria alterius reaUiio.   34 Sed quajrent Tyroncs^Qui funt inertia Univerfi corpora, fi horum elementa activa  vi attractionis, et repulfionis prasdita diximus?   zg. Activa quidem funt corporum elementa, fed ejufmodi naturas eft eorum vis, ut ex'trinfccus fe exerat, non intrinfecus ; (eu ut  ronnifi acce(Tum, et rcceffum in extra pofita  elementa juxta determinatam diftantiam moliatur. Nullum elementum hac vi ad motum fe  unquam determinabit ^ ab externo principio  urgeri, et determinari debet, ut directionem,  et celeritatem alTumat. Num ne omnes magnetem inertem fenfu lupra expolito 3 -. diciniDs ? attamen alterum magnetem juxta certam  viciniam, determinatumque (itum agitat, dum  et ipfe viciflfim agitatur, ad accelTum vel recelTum mutuo fe determinantes. Itaque elementa, etfi vi motricc prædita,- funt tamen inertia, utpote qux nequeunt fponte faa ex motu  ad quietem, et e contrario, a quiete ad motum determinari; (ed determinanda neceffario  lunt ab aliis elementis in certa difiantia pofitis, vel ab alia quavis Cauffa. Singula Univerii corpora  et magna, et parva gravitate pollent.   Gravitatis nomine intelligitur vis, qua corpora ad datum punctum, quod ''appel latur, tendunt. Ita corpora terreflria gravia dicimus, quia fibi relicta ad Telluris centrum di,  riguntur  retenta autem conantur delcendcre vi fuse mairx proportionali, premuntque dcorfum corpora, quibus incumbunt • Id ipfum di,  cendum de corporibus in' Luna, Saturno, Jove 8 rc. exiftentibus,* tendunt nimirum, et conantur ad Lunæ,.Saturni,‘ Jovis &c. centra.  Sane nullum hactenus corpus conftitit, quod  gravitate fuse maflse proportionali non fuerit  præditum (A). Nifi ita fe res haberet, corpora  terreflria ex -ipfius TeMuris vertigine, vel ex  quovis alio impulfu, per immenfa vagarentur  fpatia, neque reciderent in Tellurem • Hinc  Tellus brevi, ex diflbciatis perpetuo corporibus,  minueretur, ac tandem evanefceret. Idem de  Jove, Marte, Luna &c. dicendum. Itaque  Mundus in Chaos abiret corporum undequaque  pergentium. . ^ ^ 3 ^*     (rf) Ita quidem ad aniuATim res fe haberet, fi Telluris  figura fphierica foret :. cum autem oftenfum fit a Recentioribiis Phylicls et Mathematicis, Telluris figuram fpha:toldalem efse, elevaram nempe fub atquatore, et deprelfain fub polis; id nonhifi quamproxime l«cum habere  potest. Sed alibi opportune hasc expediemus.   (^) Lux, caloricum fluidum eleSiricum nullum ha61 errus prxbuere gravitatis fpecimen J fed temere hinc  quis colligeret, isthjc fluida omnino efse gravitatis expertia., '    Sed et magna Mundi corpora vl gra*^  vitatis 'fua petere centra indubium eft. Nempe  in noftro Syftemate Iblari Planeta? primarii S'ol«m petunt; et lecundarii primarios. Ira Luna  Tellurem, Jovis, Saturni, et Urani 1'atcllitcs,  Jovem ipfum, Saturnum, et Uranum vi gravitatis refpiciunt. Tum Mercurius, Venus,  Tellus, Mars, Juppiter, Siiturnus, XJranus, aliaque 'ingentia Corpora 'in Solem tendunt. Nifi  enim^ yi, gravitatis continuo erga lua ccntr.i Ibllicitarentur, nequirent curvas orbitas deleribere;  Ijquidcm corpora curvas de[cribentia continuo  a rectilinca directione, deflectunt, id qucKllbonte fua, line conamine gravitatis, nequeunt tfri.  ccre. §. ^ 2.   qy. Fit nempe tnotus curviliiieus, ut Pby-'  fici docent, ex conjugatione duarum virium,  quarum altera lingiilis momentis recta lirgct  corpus per tangentem curva:, quam deferibit j  altera Vero indelinenter idetij lollicitat ad aliquod punctum in curvæ area comprehenfum.  Hauc'recundam v\vx\. centripetam dixere ; primam vero tangentialem^, qox fi motus initio  conlidcrari velit, proj e^ i uni s fibi vin dicat, quippe quæ per projectionem corpori  invprefla intellegitur, ab externa Caulla. Cum  atitem Secundarii erga Primarios, et Primarii  erga Solem ita cieantur, ut arq^s delcribant temporibus prop^ortlonales y hinc norunt Phyfici,  v.im ce'nh-ipetnm indelinenter Planctas Ibllicijantem ad Primarios dirigi, fi de Secunc|ariis  loquamiir, ad Solem vero fi de Primariis. Ambigi proinde non potefi gravitatem ad fingula.!   no.     peditur, cogiturque fingulis momentis erga iilud immobile punilum torqueri. Uaibus nempe viribus modo aj»I- >  rur corpus, vi imprefsa projedionis, qu$ per cur  tangentem fe exerlt ^ et vi qua ad immobile punitum  per diftentam funem ' continuo retinetur. Hic fecunda vis ’  typus est et rniago iiljus,..quam ia Planetis dicimas )   vim gravitatis.  ^,   eoharent, frve' intime fommifcentur, aliis^ V^ '  ro non item. Eft vero duplex affinitas, aggregationU^ nimirum, Sc compo/ttionis. Prima co*  haslioniem particularum ^fimiJari-um molitur, ex  qua totum emergit undique homogeneum. Secunda intimam parit unionem particularum diverfæ fpeciei, ex qua. totum efficitur tertise  fpeciei' omnino divcriæ, quin tamen particulæ  iUæ ob hanc unionem, lua le exuant natura,  ali^mque dijverfam fubeant.Ita ex. gr. Aqua  aquæ cohæret 'affivitate, aggregationis, Acidum  fulphurieuna magnefiæ intime unitur affinitate  cOmpositidHIs y' 8 c,cottl\itu‘n folphatum magnefia,   ( vulgo sai/anglicanum ),qii'vn acidum lulphuricurri, 8c m.ignefia naturæ lubeant mutationem*  Si enim ^prsditio.iolphato. in aqua diluto potaf»  fam fupereffundas, ex prævalenti affinitate potaifam inter ^ Sc acidum lulphuricum, mox fiet  folphatum potaffiK, ( valgo tortarum vitriolatum ),  et reftiiUidtur magnefia. Porro 'utramque affinitatem ad leges  cofmologicas fpc6lare, nihil efl quod dubitemus. Sine affinitate aggregationis omnia corpora ffimilaria diffiol verentur, ipla adeo univerfi  moles. Sine affinitate com politionis innumeras  deficerent rerum fpecies diverfas.* et omnia,  quantum ex. chemica analyfi 'hactenus, noffie datum? eft» faltem refpectu Telluris noftras, ad triginta tres fpecies* materialium, combinationum  redigerentur j et hasc ipfa, fublata aggregationis  affinitate, informem.-folutamque molem exhiberent. Vires tandem vegetationis, . s     lot   animalixationis fexta cofmolo^ica lege con-*  tiitentur.   ' Plantarum vegetatio foHs affinitatis viribus  nequit expediri ; funt enim pjahf* corpora A’cre • '  organica, viventia, et feipifa ex femine reprodu*  centia. In, viribus affinitatis, aliifque 'fupra ex-* ^  politis, hon inteffigitur fufficiens ratio' nec ve- ' ^ •.   getajionis, nec reproductionis plantatum ex femine. Similiter dicas de animantibus, in quibus pra?ter vim affinitatis, 6c vegetationis, alia  ' agnolicenda efl, t:^\xx: animalt 9 :ationis nomine infignitur. Vires de   quibus hactenus haud exiflimandæ funt totidem di- •  ftincta: vires materiei iniit», fed totidem determinationes unius, ejufdemquc viis. Ncfnirumvis '  a ftlmmo Conditore materiei, elargita ejufmQcli,eft'effiqta, et intrinfecus comparata, ut multi- '' '  plices modi^caliones ipfa fuapte natura- fuheat.juxta diverfas circumllantias, et occaliones. '.   Cum porro intimam hujufce vis. naturam minime calleamus ; hinfc haud perfpicientes, qui  unica illa vis tot diverfas jdetermi nationes affumat, facile nobis fuademus, has. totideni diftin£Iarum virium efic caracteres. Atqui funt  totidem fpccies, fcu. formæ, feu modificationes, .unius,.ejuldemque vis ex jpfa ejus natura,flu»  entes. Sicuti qx. gr. vis ipotrix in horologio.^plurimas fubiens modificationes ex mechanica  horologii ftructura, multiplices gignit, ac diverlos effectus puta hofarum, et.minutorum  oftenfiones, phalium lunæ, dierum hebdomedæ, •   &c., quos infeienter profecto ex totidem viri G 3 bus, leu clateribus quis repcttrer. Vis tamen  mjii-^ntionis nequit ioii materiei tribui, fcd potifiimum repetenda,eft. ab aiia fubfiantia ^ alius  generis,, qua: materiei copulata illam modificat,^  agit, ^ evehit ad ipeciem animalem. ' >,,..,, Jllr   De Mu fidi, Materia crigir7e.   * ^ 7" E te res on^nes, quotquot de Mundi  V origiite' philolophati l’unt,li folos ’  excipias Habreos KeVelationis lumine edo£los,  Mundi materiam' xternam, improduQam, " in»  dependentem, a le ipl'a, et natura,fua exiftentem poiuerunt. ('’ Epicurus, qui duplicem atomi*  tribuit motum, rectilineum nempe ex naturali  * atomorum pondere 'derivantem, et declinationi?  alterum. 'Per inane' fpatium "concurfantes atomi  duobus hifce motibiis in varias,*congeftjE 'for' mas niundum geriuere.Fere’ hanc ipfam fententiami jam obfoletam in fcenam feproduxit nuperus Auctor anonymus’impii' Syflmatis natura y qui ex «ternx, '& improductee- materiætiatura, ac viribus (ut ipfe inquit ) fæcundiflimis,  Mundi machinationem, omniumque rerum feriem auf picatur. '   4 ^. Orientales hanc coluere fententiam ;  Deum aternum nempe, et actuofum principiuni  æternam materiem undique pervadere, Sc cum  ci intime commifccri. Hinc iners materia to G 4, lius    d  :   tius ordinatilTimi mundi, Hngularumque proH^  'ctionutn fascunda fit parens. At Xenophanes  eleaticæ fectæ inftitutor abfurdam hanc fentelJtiam abfurdiorem reddidit, ftatueos unicam in  Mundo exiflere iubffantiam asternam, immuta,  'bilem, immpbilcm^ tura unica? hujus rub/lantise  diverfas^ effe modificationes quotquot diftincta,  &’diverla Entia cernimus. Hoc paradoxon arripuit Benedictus Spinoza, quod geometrica methodo exponere -fibi fuafit. Docuit itaque upi-cara effe lubfiantiam actuofam, fimpHcem, in„divif]bilcra*f et infinitis prasditam attributis,  quam tum Deum, cum materiam, appellat » De'indtf ex duobus ejus effentialibus attributis, infinita nempe cogitatione, et infinita extenfione  omnia effe 0nfiata. Nimirum interna- unicas  hujus rubfiantia? actuofi^ate; Sc natura; neceffitate, in varias, diverfarque evolvitur modifiqata^  nes tum estt^nfio, tum cogitatio: ExtenO^s  ^modificationn funt quas appellamur corpora, cot  • gitationis vero, quas funt entia cogitantia ^ $iicUti'..cera, quas.li interna vi agitari ponatur,  -io, vatias abeundo modificationes, varia poteff. figilla exhibere. Abfurdiffima haBc fententia Pan- ttbifams audit, quippe ^uz confundit Deum  cum Univerfo.. Xns aliquod aternum natura fud neceffititte  '  exi flere ^ indubie demonflratur\ tum ejus '  pracipui carActeres expenduntur. . ' r- »   $• * aliquod 'aternum exiflere, ^ quU   dem fua necejfitate natura j, inter  primas veritates qua: fponte fua cuiHbet ?- Equidem hæc veritas adeo per fe conat, ut ii ipli, qui de Divinitate peflime fenerunt, nec negare aufi fint. In determinanda  natura hujufmodj Entis ajterni hallucinati funt,  vel ex cordis malitia aberravere / fed aliquid  aJtcrnum exiftere, omnes convenire oportuit. Nec  leriem cauffarum in infinitum commimlcuntur, et ipli fuifmet doctrinis aliquid  æternum exifiere revincuntur. Sane hi creationem ex nihilo impoffibilem ftatuentes, nomine  feriei caulTarum in infinitum nihil aliud intelJigere poflTunt, quam infinitam feriem generationum, et corruptionum. Materia igitur, qu»  iubje£furn efi harum generationum, Sc corruptionum in infinitum, aiterna efl, Sc improdu-cta. Coguntur itaque aliquid atternum, et improductum fateri. Atqui caracteres hujusmodi Entis,  quod' æternum e/l     ^.55. II. j&wr, quod, fua ruttura-.necejfitate exiflit, omnibus 'pofftbillbus realitatibus., ftU perjekfionibus gaudere debet, et quidem ipja fui natlurd feu effe infinite, per feBum' extenfive, ut  inquiunt, intensive. Id quoque cuilibet ingenue philofophanti'^ evidentiflimum- eft, quippe- nihiLnobilius, nihil excellentias ifta,natura  excogitari poteft. At juvat metaphyficai^i demonftrationcm adferre.   In Ente natur* fu* neceffitate exj (lente.. • ’ '  nulla nec efle, nec concipi potcft.ratio eccur aliquam a fe excludat entitatem, feu perfectionem. Nulla Entitas concidi ullo pacto. po*  teli, qus natura fua litpitem expofcat, Se quam  tranfilicndo fiat non Entitas^ vel cfetrimentum  aliquod ptiatur. Riirfus nulla veri nominis,  et pura Entitas alteri puræ Entitati repugnare. poteft,,,- earaque fe excludere. Igitur fi Ens  naturæ tfuæ neceffitate actu non cft infinite perfectum;, 8 c inten/ive, nihil vetat per fici in infinitum poffe. At oftenfum eft  præc efle intrinlecus impoflibile, Ens natura;  fuæ neceffitate exiftens perfici pofie. Igitur de- '  bet actu effe infinite perfectum extenfive,  inten/ive, »   54. Cum inter nobis notas. perfectiones  præcipue emineant Sapientia, Bonitas, Patentia, quin hifce gaudeat Ens «ternum, ambigi  nulliraode potcft, atque adeo effe beatiffimum. III. £«r fua natura neceffitate exl/leht  debet ejfe pbyjlce fimplex. Ens quodvis, compofitum eft natura fpa mutabile : eft enim intrinfecus poffibile, fimplicia componentia alium,  atque alium nexum affumere poflfe, unde. Ens  compofitum, quod inde conflatur, fiat plane  diverfum. Sed Ens fu« naturæ neceffitate exiftens eft intrinlecus immptabile 51. Quare  Ens naturæ fuæ neceffitate exiftens debet effe  phyficc fimplex. Deinde Ens phyfice corapolifum pendet a componentibus. Sed quod,fu«.  aaturac neceffitate exiftit cft^ independens • igitur Ens naturæ fuæ neceffitate e:nfteDs debet effe phyficc iimplex.    /» materia originem inqdiritur^ eamque ex nihilo  conditam vi, &" potentia fupte>ni Na'minis   inviæ df”^onJlratur. > •   5 ^* Entis «terni, fu* neceflt X tate naturæ exiftentis expendimus  caracteres ; hos modo materiæ referamus, ut  pateat, fi pro huiufmodi Ente haberi queat : Bru-'  ta materies, muItiplex'^, generationum, et cor*  ruptionum fe mutuo, et perpetuo excipientium,  fubjectum, obftipa, iners, innumeris obruta defectibus, natur* fu* neceifitate exiftit, atque  adeo immutabilis eft, unica et fimplex-, perfe- o  ctiffima beatiflima, infinita fapientia, potentia, ^ bonitate pr*dita. Quid ! Cujus, h*c  talia componendo ^ Mens non horret, Sc immanibus non refugit abfurdis ?, Quisquis equidem, ut ut levem rationis particulam fortitus eft,  vcl ipfo primo obtutu agnofeit, ifth*c e genere cffe circulorum quadratorum, tringulopum rotandorum. Materies igitur, 'ex qua Mimdus 'hic- '  ce coalefcit,, nequit e(Te Ens *ternum,. natura  fu* neceffitatc'exiftens, et improductum.   57. Quare furentem hic potiuf infaniam,  an fummam impudentiam demirer, nefeib, Au- '  ctoris anonymi Svflematit natura, nihil fef-.  futire dpbitat, materiam exiftere necelfario,-ipfam fu*, exiftenti* fufficientem continere ratio- nem. Certe ex Petro Baylio ipfi non furpecto  Auctore edifeere potuiffet exiflentintn necejfariam, ce«    r D 'convenire pojfe fulfflanthe ( kilicet materui, de'qua  fermo eft ), qits catcroqmn' onitfia efl \ et »>ieiique prentitur defeSibus, et imperfitiionibus,  id efl quod evertit evidentijftmam 'notionem, nimirum Ent abjolute indspendens, et aternum,  effe debere infinite perfeSium.Difi. hifl. art.Epicur.  liem. T. '.,   58. Sed quibus tandem rationibus fuader»  ^utat profanus homo’, materiam neceiTario exiftcre, ipfam* Tuæ cxiftentiæ fufficientcm rariorem continere ? Supponendo rnatcriam ( ha;c ha- 1  bet ) produElam y aut creatam ab Ente ab ipfet  dijiinilo^ ipfaque ma^is incognito, oportet Jentper dicere, hujufmodi Enf, quodcumjue tandem'  fit^ neceffarium jtffe, feu in fe continere ca'     dinem, eoncentum, quibus furrima et pulcKet*rima Univerfi harmotiia, flabilis et ornatifTiina magnificentia cbhtinetut, nequit latis admirari; Omnia fummo confilib, fummaque ratione ftatuta deprehendet / fingula tum maxima,  cum minima, numero, pondete, et menfura  conflare, ultra quam intelligentiflimus quisque  adlcqui potefl, quam facile intelliget. Quum  itaque omnium quz funt, vel fiunt, nihil fi*  ne fufficienti ratione fit vel fiat, • prohuiri eft  intelligere tyitam, tamque rhirabilem machinationerh j non atomorum.iiullo confilio, nullaque ratione pergentium opiiS effe, fcd Mentis ^  lumma fapientia, fummaque ratibhe utentis *  tiic e^o rion tnirey, elegantiisime Tulhus fi Tu  de nat. Deor. c. 27. effe queitiqudm, qui (jbi  perfuadeat ^corpora quadam foilda, atque indruidua, vi et gravitate feni, mundumque effici  ornatifftmum, et pulcherrimum ex eorum cor porum concurfione fortuita^ Hoc qui exiftimat fie• fi poiuijfe , non intelligo, cur non idem putet, fi  innumerabilei unius et viginii forma literarum  vel durea, vel qualeslibet, altqUo conjiciatur,  poffe ex his in terram exuffis apnales Ennii, ut  deinceps poffint, effici ‘ quod nejcio, anne  in uno quidam verfu poffit tantum valere fortuna.   6^. Sed ajunt in poffibilibus atomorum combinationibus, hape, qua priefenS Mundus conflatur, contineri. Quid ergo mirum’, atomos  per immenfam æternitatem hac et illæ concurfantes -, tandem aliquando in prafentem conformationem deveniffe ?,   §. ^ 4. 'Non heic ?qu4ritur j utrubi in possibilibus atomorum combinationibiis, -hæc, qat*  præfens mundus conflatur, contineatur. Nifi  enim contineretur, hiud præfens Mupdus condi  potuiflet. S^;d illud inq^uirimus, an przfens atomorum conformatio, per cafum et fortqnam, ut  Democrito placuit, fit poflibilis ; vel. per ipfa«  rum- atomorum naturale pondus, vfrefque, ut  Epicuro adrifit. Et sane primo vellem, fedoceret  Democritus, vel quisvis ejus fectator, quid fi.  bi velit hujufmodi Cafus\ 8 z., qua du ce, atomorum facta efl concurfio ? Equidem me  non intelligeVe fateor, fatenturqu^ omnes', queis cor fapit,* iifcilicet verba funt inania', quibus  'nulla iubeft. notio. Tum atomos Jeternas natur*  lu* vi exiftentes abfque lege vagari, et in-,  vicem concurCari, fecum ipfum pugnat. Siquidem h* atomi' nonnifi ingenitis viribus, et naturæ fu neceflitate cieri poffunt, fi - quidem  moventur. Deinde cum nulla omnium Iit origo, tum par natura, et.neceflitas, iingula' eadem directione, et celeritate profecto concurrere  debent. Quid vero five n\onftruofi, five ordinati moliri queant atomi commetoi directione,  et celeritate percit*, equidem non video. At"qui plura in hoc adfpecpabili ‘Mundo funt centra, circa qu* magna revolvuntur corpora :'tum>  horum. fingula totidem funt centra minorum  corporum : nec non vegetantium., et animantium elementa diverfis motibus cientur / finguJi tandem hi motus certis, fummoqUe confilio  ftatutis legibus perficiuntur. Non ergo cafu j et  fortuna, neq^ue c*ca nattr* fu* neceffitate’ in  ordixiatiflimum fyftema coalefcere potuerunt ^   H 2 Sa     ilapienter Cicero de nat. Deot. c. a,   »nim hunc hominem dixerit, qut cum tam certos  eali motus, tam^ ratoi aflrorum ordines, tamqut ’  om§^a inter Je conjiexd f apta viderit, neget  in his uUam inejfe rationem ^ eaque cafu fieri di* . eat ^ qua quanto eonfiiio gerantur , nullo eotfiUi  affequi pofiumus ?   ^5. Hujus argumenti t-obur optime per*  fpexi^ Epicurus, quod effugere fibi fuafit duplicem atomis tribuendo morurh j fectiilneurrl  unum fcx. proprio, et naturali pondere derivantem ^ declinationis alterum (c) Hifce viribus* perfeverabunt quidem Pt anet a iif  fufs orbitis, fed nioturn ipchqara rrfinitpe ppj^tergnt.* Yi;   Neyvt, Ppif nat. Sch. geq,,. n ^   hacjeiius e^^pofutrous jabunde patet, nonnifi futnmi. et intelligentiffirrti  Numinis confilio, ?tqiie potentia brutam matc^ri^m in elegantiffirtium ordinem ' congeri potuiffe, 8c prjefenteni ordinatitemurn Mundum conftitui Scilicet ille ipfe n^ateriaj Conditor omnipotens eft. Abundi rapientiffunus Molitor, et  Artifex • - ‘, ^   >   Spinosa Syflema abfurdorum et contradi&ionur^  effe.cumti/urri, ojtettditur.   d8. I. T^TNicam in Mundo dari fubftantiam fimplicem, et individuam  caput eft ipinoziani fyftematis. Id vero adeo  falfum eft, quam certum innumera efle corpora^  3c hæe extenfa efte, et jdividua. Sane sive extcnfio pro fnbftantia. habeatur j ftve.pro fubftantiæ attributo, five pro ph^nomeno e plurium  fubftantiarum coexiftentia derivante ( id quod)  nobis arridet ), certe corpora non funt unica,  et fimplex fubftantiaj fed.tot» fubftantiarum con-,.  geries,, quot funt partes realiter diftinctaz in  quas phyfice refolvuntur, ''vel,refoIvi tandem  poflunt, •   Juxta SpinoKatn, fubftantia hujus  Mundi.uriica eft, et fimplex, quæ tamen inter  cætera oftentialia attributa extenfipne fit prædita.  Porro extenfionis natura fimplicitati opponitur,  id quod norunt Omnes : tum, eflentialia attributa -non funt quid a rei efientia, et fubftan • > t   • tia quot in decifi? habuimu? mpojjihih ejfe j  /intui ejfe, et no» ejfe. ’, Sicuti unicæ, et fimplicis fubftan*'  tia utpote extenfe diyerfæ funt modificatione?  Vni verfi corpora, ita ejufdem fu.bftantjæ utpote cogitantis diverfse fupt ippdificationes, quot  ppyimus Entia, cogitantia, Facile intelligunt   H 4 / Ty («) QuO. tempore cer® frustum fpsrica ex. gr. - figura ptsdirum agnofeirnua, cubica, conica, vel alia quavis llmul affici adeo ration; repugnat, ac unitatem efse mil- >  lenarium : proinde fi 'quandoque plures intueamur diftinT  ftas diverfafque figuras, protinus nulli dubitamus, totideni  dfftinftis, diyerfifque fubjedis, leu fubftantiis illas adjudicare, ,.   Ty/ones.hoc fecundum* ejufdem fiufuris cflTc,  ac illud primum, quod pra:c. cxpofuimus.  Itaque prselertim "vero Unica, eademque fubftantia cogitans Igjta erit et triflis ; volens  et nolens idem : amore et odio idem fimul  profequens objectum ; approbans et reprobans  &c. Hxbreus ira mq^us, et Spinozas cultri ictum infers, ipfe idem eft Spinoza ciolo-r  rem^-^perferens, et fanguinem ex vulnere emittens. ' •   71. V, Tandem, ne diuturniori mora in  hoc abfurdiffimo confutando fydemate aliquid  honoris eidem tribuere videamur, in memoriam  revocemus, materiam, feu fubftarttiam hujus Univerfi, fubjectum e0'e infinitarum viciffitudinum,  perpetuam 'gerere feriem 'generationum, et corruptionum, perpetuis prtmi collifionibus, et op»  pofitis agitari viribus. Nil profecto ea vilius  et deterius, ut ita omnes Philofophi veteres  prope nihilum eam pplucrint. At eamdem divi'na conflate natura, perfectiffima, ik. immutabif  Ii Spinoza edocere audet. Tegatur Bayliu?  erit. art. Spind?a i \. De neau omnium Mundi Caujfarum ^ ^  effe6luum : ubi de Fato Juxta Philofophorum placita dijjferitur. "VTIhil in Mundo cafu, et fortuna '   J.\| fieri, nec immo fieri poflTe, in»  ter primas cosmologicas veritates reponendum  efle, Nemo, cui cor fapit, ambigere poteft.   Omnia fane fuis fufficientibus rationibus, cauffarumque nexu contineri debent, fi ex nihilo •  nihil fieri pofle conflat, nihiique cfie fine fufficienti ratione. Confer ont." 10. Sapienter  Tullius nat. Deor. 1. i. c. 4. E/l enim ad^  mirabilis qutedam continuatio, fericfque rerum,  ut alifB ex aliis nexa, et omnes inter Je apta,,, ^  colligataque videantur. Cujulmodi vero fit hif '  Cauflaru'^, et effectuum nexus, expendere modo juvat ; tum Philofophorum de f^atp fenteq»,  tias ad incudem revocare. Dt nexu omnium.Mundi CauJfarunj, et effectuum. * /^Uotquot Cauflas in Mundo noviy mus., ad duplicenv cladem recen fend* funt ; aliai fiquidem cogitatione ( ad intimum confeientite fenfum appello j ^ ali% fola VI raotrice agunt •, ( quotidia* nat  njB id edocent obfervationes ). Atqui^, confcien tia teftante, cogitatio eft actio ipii cogitanti  rei immanens • motus vero, experientia edocente, eft U'an(iens. Drverfi ergo generis, diverlis-;, que naturæ habendæ fu n{ Cauflæ cogitatione,  et CauflTæ vi motricc agentes, Equidem alibi  opportunius oftendemus cogitationem non polTe  motu abfolvi, adeoque Cauffas fola vi motrice  præditas non pofte cogitationem parere, Curn  ergo,in Mundo motum, et cogitationem agno,  fcamus,' duas diverfi generi? cauflas popere co»  gimur,   75, CqufTæ fola vi motrice agentes ad  materiam Ipectaiit, At materiam fiputi vi rno*  trice’ præditam, ita.& inertem efte, fuo loco  oftendimus §. Quotquot. er^Q e materia?  viribus gignuntur, juxta earumdem virium mo*  tricium legem efficiuntur, neque Jili^S ac pro->  deunt, fiuntque, per materije vjres fieri, ac  prodire poflTunt, Revera hujiifmodi lex, quat^  tumque tandem ea fif, certa eft, ac determina-»  ta live enim has vires e materi^ finu, na«  tura emanare putemus, et erjt earum lex certa  3? determinata, ficuti certa. v determinata, ^  ex feipfa immutabilis eft materias natura ; fiv?  ex Conditoris arbitrio illas vireq materias contingehter convenientes inditas, effe prbitremur,  Sc neque modo poferit materia ex feipfa ilH?  exui, vel eaffiem ne minimum quidem m^difi’  care j quippe qua fubjectum mere paffivuna  nullis agitur aliis viribus, præter quas Condi-»  tor indidit. Materia igitur fuarum virium le-»  gem, ac naturam perpetug feqwi debet, neq^uq . >, ii3   vel minimum reniti potefl : atque adeo quotquot ex ea gignutur, fiuntque, nequeunt aliter gigni, ac fieri,   q 6. Quff cum ita Cnt, facile perfpicitur,  quod pofita pro quovis tempore determinata,  ac certa elementorum coexillentia, quod deinde'  gignitur, phyfica neceflitate ( a.virium motricii  um lege, et e materiie inertia derivante ) c  procedenti rerum llatu tale genitum eft, neque  alias gigni poterat. Hoc autem quod modo ge.  nitum efi:, undique determinatum eft tum reIpectu elementorum quibus conflatur, cum reIpectu loci, et temporis, feu refpectu ad nexu rn,   et politionem coterorum corporum, quibus fti-^  patur. Qiiare quod fecundo hinc, gignetur, rurlus certum erit, ac determinatum, et phyfice  neceflarium, ficuti certa et determinata eft corpot um mutua complexio, horum materiæ flatus, et nexus nec non phyfice neceflaria vi.  rium motricium lex. Et ita deinceps in con.  fequentibus generationibus - Nimirum quivis  elementorum materiæ flatus gravidus eft lubfcquentis, neque hic alias prodire, per miateriæ.  vires poteft, ac revera prodU : ut adeo, fi quis«^  vires ipfas, earumque legem adoquate nofceret,  tutn «elementorum numerum, eorumque.pro quo-,  vis tempore coejiiftentiam calleret, et ad calculum adducere fciret-, is fingulos confequentes  effectus," ac futuros eventus in anteceffum edifferere poffet. Cum ex dictis quævis 'generatio phy^.  fica neceflitate c præcedenti corporum", et materiæ ftatu pendeat, nec non virium motricium   le     ,\   lege; fi cogitatione ad Mundi uique prlm^rcll^  afcenclamus, facile nobis (uaclebimus, Unl-vtrfum,  reJpeBu ad folam materiam habito, nihil e[pt  aliud, 'quam eertum ordinem neceffariant Jet  viem cauffanan, effectum, perpetuo, ac nsi  cejfarto fe Cdnfrquentlum ^  Hiec aurem feries haud gutanda eff  abfolute neccfiaiia, ut ita non potuerit alia effe, ab ea qua: modo efi:, aut femel incæpta abfolu*  te nequeat modo, vel in pofierum, commuta^  ri/ vel perturbari. Cum enim quælibet genera*  tio, fiatufque materiei pendeat o prascedenti, 8 $  rurlus hic ab alio antecedenti, et ita porro i  nequeamus nutem in hoc progreffu ad infinitum  afeendere, confiUerc tandem debeiVius in aliqiia  Caufia^extramundana asterna, vi «fuaj natura exi*  ftente, ctiju* imperio, et voluntate.Materies primum nexum, primamque conformationem fufeaperit. Series itaque ^ et ordo Caudarum qtfali^  modo exifiit, non abfoiuta neccffitate exiflh ^ Je4  tantur,} hypothetica, cx hypothefi n?mpe, quocj  * Cauffa illa extramundana talis fiuie feriei exordia fua iibera voiuntafg conceiferit, et non alia,  ^eis omnino diygrfe confequuta fuifiet Cauffarum, effectuiimque feries. Id rurfus intelligi datur ex co, quod- neque materies improducta eft.    et æterna; vi nempe 'fuz naturas non exiftit      5utr 2 Equc  in fe mutuo agere, queant j,hinc eft, ut altera  alteram quamlæpc- modificet, ut ita rerum fe*  ries, ac complexio, quts modo in Vniverjo pergit, aliqua Jaltpn fui parte diverfa ab ea sit,  qi4‘^ pergeret, fl nihil in fe mutuo Cauffte ilLt'  agerent, atque infiuerent. Sane   v^. 8i. Humanos Animos non ceeea libidine,  abique ulla omnino fufficienti ratione feiplos  / cie.    il 6.  tierc, et ad agendum determinare, intimus cori«  Icientiæ lenius abunde edocet. Fon-pis nempe  rerum, quas ali^iiam boni, vel mafi fpeciem  exhibent^ ad ^t^eiulUM excitantur, atque alii  ciuntur. b« formas, quibus animus afficitur,  a corporis fenfibilitatf, et temperaftiento, l'enluum valetudine > et tiatura objefforum- fenfus  percellentium» pendent. Tum confilium rationis, quo actio vel non actio decernitur, ex  praScedenti animi flatu |,feu habitibus, et ideis  adhuc pendet ^ habituS vero, et idcifi ex corporis, fenluumque temperamento’, et circumllantium objectorum actione rurfus conflituuntur, vel modificantur. Cum pofro corpOris fenfibilitas, et temperamentum, lenfuUm valetudo,  et circimvftantiuni objectorum natura e necelfariis  Mundi Cauffis pendeaht j liquet inter ipfas Hominum æfioheS, et phyficum Mundi ordinem  nexum aliquem interefTe ^   8»; Hic autem nexus, quod fedulo animadvertatur velim, et multiplex efle potefl,  eo quod multiplices lunt cauffas,* quas in nos  agere poffunt » et nullus eft indeclinabilis, ac  necefiarius.* id quod intimus confeientiæ fenlus, et noflraram actionum experientia lat lu«  culenter ollendunt k Sane formis rerum non rapitur animus, utcumque percellatur etfi validioribus formis animus concitatus ad agendum,  non cogi fe luculenter animadvertit, et adhuc  retinere facultatem deliberandi,_quin immo a  facta deliberatione, et ab ipfa jam fufeepta  ^actione d^fiftehdi, et aliam ‘quamlibet edendi.  Merito Tullius tuse. p^.l. i. Ck 23. Sentit ani. - / mus    tif,kttts' fe y idque dum fentlty illud i jt*a non aliena moveri. Accedit,,  quod quandoque datuttt pecullatem nexum Ivuraanas inter actiones, et fenfationcs ofrinino abhimpimus nulla alia ratione perciti, quam ut  noftratn ' experiamur libertatem ;  mus contra id quod temporis,  rumqUe circumflantij^, et ipfaS fenfationes exigere videntur. Datur itaque nexus inter hominum actiones phy/icunt Mundi ordinem,   fed efusmodi, ui illum moderari, fleflere^ determinate i abturnptre ^ tutn iterum tejlituere pro  arbitrio pojjimus 4 \  t   85. Sicuti humanz actioneS^cum neceffarlis Mundi cauffis connectuntur, ita materialium, Cb* necBfJariarum Mundi cauffarum series  in aliqua sui parte, perturbari, nioderari, et  fieBi pote/i Cauffarum 'liberarum labitu, O' providentia. Cum enim omne id, quod materialium cauffarum viribus gignitur pro quovis  tempoVe, e ftatu prxcedenti pendcat ^ *] 6.   ftatum autem harum materialium cauffarum perturbare, & cOmmutare perfajpc valeant Caulis  liberæ fuO confilio, et providentia pro peculiati faltem locO, et tempore ; quin, fimiliter futuri confequentcs effectus prafepediri, perturbari, et commutari poffint, nemo^profecto non  intelligit. Ita fulmen, quod neceffatiis Mundi cauffis e nubibus excuUum regium palatium labefactaret, ibique degentes ertccatet, humana poteff providentia avertere,  fi Opportunos adhibeat conductores 4 Agrum   a i  .puta, cum agi' loci, obiecto     tis • 'dOSMpLOremum NinSm res omnes zterna, et immutabili   • lege, nullios^ei {labita ratione, dccrevrfle docent; neque proptercSf qui^pian\ a/nobis libere  fulcipi pb^e. Tertia cJaflis illos complectitur,   Djeum fapienter, quidem-. verum.fataliter  ac necefliirjo re» omnes' hujuS Univerfi dilpo • fuilTe fentiunt, Sc ex hac-, conffitutione omnia  quotquot {in Mundo 6 unt, neceflaria et perpetua  ferre, proficifci. At quia fati AflTertoresv divtfrfas,.  quo 'quifque fuarVi fentehtiam conft^i-liret, femitas freflerunt i klcirco hon pigeat prxcipuas' .exponere, jc evekere ‘ vv.    •- 'De Fat^i Democrifiip • ' '   • ^.87. Democritus (, e ‘quo fetura quod demoeritkum dicitur nomen fufcepit) nihil aliud.'  prxfer innumeras^ atomos ihcreatas, Don fuerunt 'confequut*,  hinc negatum drju ; nempee collapfi ftmt, .  • -I  '. > ac     • f.    ac diflbluti finguli ijli veteres Mundi. Pofiremus tandem omnium emerfit hic adfpeflabilis,   et iple poft* fæcula diffblvendus. In hac itaque.  •fententia% cum nihil præter brutam niateriam  neceffitate fuæ natura? percitam exiftat/ 'omniaque fingularia Mundi entia neceflariæ fint illius  modificationes, immite, et indeclinabile fatum.  omnia agere perfpicuum e!l. Hoc fatum, quod, phy ficum alii appellant, definiri potefl ; Neceffaria, et bruta feriys omnium Mundi cauffarum, •  atque effe£luum e natura, Sc neceffitate bciitæ  materia; -manans.,. ! •   Monftruofe hujus fententiæ refutatio  longa non indiget oratione* cfl ea quippe con» geftus abfurdorum. Nequit materia effe increata /e^.II.Nequeunt fola; materiz vires ex   ejys 'finu emanantes ouklinatiflimam, et riun-^  quam fatis admirandam Mundi compagem moliri. et feq. III. Praster maieriam aliæ alius, nalurte fubflantia; cogitatione, &• libero, arbitrio  prxditæ exi'lunt..79. et feq.   8p. Equidem hujus ffntentia; abfurditatem  Epicurus, atomorum cacteroquin feftatpr, agnovit  ex’ ea parte, qu* humanam lædit libertatem,Quare illam emendare conatus’, atomis tribuit  declinationis, motum, qui nec certo tempore, . nec- cerfa loci regione eveniret : ita nimirum  abfoluta, et indeclinabilis neceffitas a Democrito* indufta abrumpi opinabatur. Hanc rationem  ( declinationem fcilicet atomorum ) Epicurus  induxit ad tam rem, ne Ji femper atomus gra - '  vitate ferretur natural'i ac neceffaria ^ nihil liheram pohis effet, cum' ita moveretur animus, ut   atO"    >morum motu. cogereturvTuUiuti de' f^to c. 10.  At quain vaBum, et inficetiira,fit ’ hujufmo 4 i  effugium, nemo non videt. Cdnfulatur 6 $. 1   ^ ' De Spot(orum-Fato y.,«   ' '>» •.....   Fatum Sfoicorutn vulgo 'definitur, "ine*   Juftabilis, ’ac.neceffaria rernn* omnium’ lefies.ex ne^efTaria,& immutabili -Dei voluntate •edo» '  ftituta v. fiuc ulla, ad hutftanam libertatctn accomodatione., ' ‘ ". ' §• pi- Quid fati homine,fibi voJue'rint- 5 foi^   ci, res eft perobfcura adeo: quam «nequiverint  haflenus Eruditi extricare ; id quod- partim ib' lit« bujus Se£la diirentiohi, partim' locUtionir  bus nefeio quid poetici, et erophatici continentibus tribuendutfi videtur..Te«erzfignificatioriem, Itaque futurorum eventuum præfagia in  ftcllfs contineri, dicendum » . §• 91- quam, futile ifiud.fit, nemo non '  videt. Sane non minus infeite, quam arrogan*. . ter cogitari potuit I. Deum caslefiia figna, nonntJfiris propriis commodis infervienda condidiffe. II. Cum confequi non valeamus quam  utilitatem illa queant nobis afferre, temere,^  incogitanter*colligitur,ad prafignificandos futuros eventus confiitufa/& difpofita fuilTc.Num- •  ne pluri maraim^ rerum ad ipfam tellyrem,no^am pertinentium, quasque proprius nos fpectar^ putandæ fuiit, fines jiro^ynios minus ex. Plo-. I.   ij 5   ploratos- habemus? Certe quilibet fans Mentis  libenter affirmabit, plurima npftram Ip^Ure  utilitatem, pofle,. quin refciamus modum, ratiorfemqtie calleamus. IU Atqui lunt P^netas  totidem incolarum fedes non lecus ac Tellus  iioftra, qjji omnes circa Sokm, tanquan^  commune centrum, torquentur 5. Sunt ve-.  ro inerrantia fidcra totidem Soles, nempe centra filorum Syftematum planetanpru.m tbid. Sid  de his in phyficis opportunitls, et copiolius.   " oS. Q.uarn vero fatuum, atqye commentitium putandum lit iid ^ ^,   oftendunt. I.. Nulla phyfica vi hominum Animt  cngi-poffunt ; folis illi percientur formis, nettipe boni, raalique notionibus; tum neque iftis  rapiuntur, nec indeclinahiliter Heauntur 79.  et 8z. II.  ^ quam lepida \ enim ef^, ^  '   fe puto ntft pueroi, qui ad globos i Hos terraqueosy aut igneos hac ferio referant. Omnem ve- • •  ro leptditatem Juperat, quod, infani ampoflores  prcedicant, quum ingenium nojlroritm animarftium  Artetis,Tnuri, Leonis, Capri, atque id egenus  altorum calejltbus conjlellationibus, attribuunt Cui. Calum, Plancta, Stella fixa vel mediocriter nota  fuerrnt qtiam ifibac perridkula, ac putida videri debent. Ego vero nefcio, cur marmorefs fignts •, quibus aut homines, aut animantia ars  humana exprimit, non. fimilher mores nofirosf  aut brutorum animantium tribuamus}' uint.Gen.  el. metaph. tom. i. SchoU prop. iSp.   Atqui in fnajodbus ‘Univerfi corporibus  univ^faJem, et mutuam vim agnovimus, qu*  gravitat/onis vulgo dicitur! Hac equidem invicem  Jntcr /e' agere queunt, et generati^um feries',  quas fingula illa geftant, invicem modificare.*  f atemur uniyerfalem. 'gravitatiobem corporum '  Umv^rfi ; fed nihil iftha»c fententiie adverfariorum favet, quin immo eam evertit. I. Hjec vis  corporum efi, et in corpora diffunditur / fpiritus nullo pafto attingere poteft. II. Novimus'  Illam fequi maiTariim jlireaam, et diftantiarum  duplicatam inver/am rationem ; fit profero  hmc, ut fi Solem,& Lunam exceperis, cztc.  rorum planetarum nulla cenfenda fit in Tellurem a6lib.*quid porro inerrantium fiderum? (4»)   De i    («) Soleni &. luminis emiflione, et vi attraftionis in  1 ellurem ^^gendo quam maxime tprreftres genorationes,  corruptionefqiJe mqderari, res ell, qua omni dubio caret. oimile regimen Lun* attribuerunt Majores poliri, De ‘Fato pantbeiflkq.  ')•   100, Fatum panfheifticum, fivc Spinozifti»  cum eft tcrum omnium neceflaria, et immutabilis feries ex ipfa-Dei natura per eflcntiajera  emanationerfi neceffario prqfluens, Nempe hu'jufce fati aiT^rtorCs^^micam exiftere fubftantiam  ponunt,- quapi Deum "appellant, sujus innume» »  raj fiint modificationes quotquot Entia Mundum^confiituunt ; ‘has’ vero modificationes, ca  rum   ut 'adeo fuerint lunarium’ phafiitm diligentiflfimi pbferva-'  tores : tum Gomeras, rrialorum' colluviem in Tellurem fiV» pfjefagtentes, fiv% afTefent;ps,-habebant, metuebantquie  'cane pe)us, angue.. At ex Kecentioribos 'plures  utrarnque feritentiam, prayudicii redarguentes ^ ludibrio.   V exceperunt. Quid, fentiam libere edifseram,   I.. Qui' lunarem influxiun abfolute inter præibdicia  amandarunt, fatis animum non intendifse. videntur in  rnaris, aflus, qui Lunie motui circa Tellurem a.d amuflim,  refpondentes, ex'ejiifdem attraftione in aquas ufque maris protenfd,, einni procul dubio repetendi. videntur.  Quod fi ita fe 'haber, non video '«ccur ipfius l!uns vi ne-. queat terreftris atmoiphiera; alternas’ pari viclfiitudines.Cum vero e ftatu ^ et conftitujione atmofphaiftE pluri,  muin modificari queant, qu£E in nofira Tellure fiunt ptodufliones, prpfeflo prono veluti alveo fluit, Lunas, vim.  phyfiers produflionious aliqpid conferre pofse. Revera  ærrefirem afmofphteram hmx vjjn peffenrifcere ex  teorolqgicis obfervationibus Gl. Virorum Abbatis Frlfii,•    et Thoaldl, aftronomias Prpfe.fsoris Patavini conftitit ;  ut 'adeo nondifi ex prsjudicio fententia luparis influxus  abfolute inter ptiejilQicla recenfita videatui'. Deinde, etfi  me tniniinfe lateat, Lun$ plena» lucem cauftico fpeciilo coi- '  lectam nullam in mobiliffimo thermometfo mutationem  afiS»rr&, tamen hgud confedum videtur, lucepi e Luna ih   '. '. T-el   e    /    iigS. '  rumque feriem ex 'ejufdern.unitæ fubftantije na- '  tur^ effentialiter et neceflTario fluere. • V-ide.  46. Hujufce fcediffimæ* labis parentem -faciunt  Xenophanem Eleaticæ IcftjB Principem, quam.  de- • Tellurem repercufsani nibvegerantiiim, et anlnianfium cecononliæ pri/lare pofse : nam rhermometrum nonnili r«/or/c/ liberi aclionem ollendere, et metiu poteft; at novimus, lucem aliud onmino efse a calorico, et jaluHmum.conferre vegetantium/, et aniluantium phyli, ac' fedenus  credidimus. Nolim' vero quis cx diclis inierat, me lunaris influxus patronum eximium, referatque inter -adverlie immoderanrioris -fenrentix tautories. Ecquis, cui  cor ;l'apir, calculo luo probabit-,. qua: eflutire folent infani et 'inficeri honiines ex fingulis.Luns.quadraturis,  terreftrium phænomenorum vel vicilfitudines, yel pri-fagia fumerttes Quam fego ‘Luna: adiofjeih in Tellurem, agnofeo, generalis prorfus, et liaruta fua indeterminata, nec non una.eft, et qmdem minima ex innume-.  ris caiilfis in. Tellure hofpitantibus, *qu3E prsfertim in’  calculo' lingularium phxnorænorum afsumenaa: perpetuo  occurrunt. ' • ^ ' . II..Quod vero Cometas fpeflat, nuMus certa,’ riifi excors pavebit hæp corpora per oblongas ali ypfes incedentia, nec ab iis quidquam, boni, inalive iperabit, nietlietque. • Fieri autem quandoque pofse, ut in laudatum influxus fyftema aliquis eorum, adeenseri mereatur, ultro  fateor. Etenim fieri poteft i. ut aliquis eorum longa  infignitus *cauda,fuam trajiciens orbitam in Telluris vici;  nia verfetur-; ex quo ‘fiet, ut mutuis attra6lionibus eoJnm armofphxrx turbentur. Dudum fane Aflfbnomis c(^- •  ftitif-Saturni farellites’ab ‘artraflione Jovis in conjunflione^posirl, in fuis rurbari motibus, et vicIUJm. Ita ex  vijrinia Comets tiflbari poterit Telluris muJP adeo  nihil addere heic putemus, 'ne rem a£l»m reagere videamur.' . G A R    De Naturali y C* Supernaturali    Ua*vis mutatio quæ cuilil^t rei  continoere 'poteft, IT ex principio,  fi. rei interno manat, a^io appel   ; ipii.   latnr ; e contrario pajpo dicitur, G a principio  eidem externo Gat, nempe ' ex principio alteri  Enti infito ; illud vero princi^um, e qiio a£lio  manat, nun^ciipatur. Singula fpc6Wbi!is Mundi Entia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat.   Quare Gmplices hujus rnundi fubGantize’ ejufmodi offe debent., ut in fuis occurftbus, et.   Gbus pati /jueant, et agere ; *feu patiendi potentia præditas eflfie debent, et principiq aliquo  aftivo’, fcu vi gaudere. Non moror quidquid  in contrarium* ^afferunt OccaConaliftæ. fecundæ  hujus theorematis parti. Vide Ont.  feq. Cerre Univerfurrj Philofophd nuHis præjudiciis præoccupato in fingulis fuis partibus perpetua objicit a6livitatis argumenta ; atque, adeof»..  dubitare nullo • pafto fas ell,* ejus ' ftamina^vi   . aai.    X  . •    e  oportet aliqua pottat  cx fequentibus conditionibus. T Nullam ede in > •   univerfa natura caudam tanta vi. prjBditain.  qua! illi effectui producendo potis sit • If. Sal- '*' • ' '  tem in’ dato cafu hujufmoldi.caudam defeqidc.   - III. Effectum illum ede contra notas natu ra^ Te-,  1   ges / IV. pr*ter notum, eonfuetumquc orqi nem.   Nam cum rerilm naturat cert». liat ac detcrmii • * !   natæ, certafque fingulæ fequantur l^ges^ a qui- ^   bus ne hilum.quidem dehifcere poflunt-; quo- • ->   ties una., aut altera ex, dictis conditiomb.s in ' •   dato effectu occurrat, certi.erimus ad iiniverfam naturam illum haud pertinere. Q_iiare ite* I   rum patet^ fedula opus ede indagine, et accurata rerum naturali.um.notitia ubi decernendum •   fit de naturali, Si fupernaturaLi... MuJra; qaian- •  doque infanum Vulgus inter •fupernaturalia ad'. !   '.  ceni rum hujus mundi vires cohiberi pofTe, quin  fuos edant effectus, nil vetat : ipfa fane experientia perpetuo edocet, contrariarum cauffarum  incurfibus vires collidi, ut ita vel effjctus earum præpediantur, vel omninp alii confequantur. Quare, quin etiam intrjnfecus fubftantiatiarum "Vircs deleantur, coerceri illas pofTe a  Cauffa extra naturam univerfam pofjta', ne fuos  gignant effectus, intrinfecus eft poflibile. In  hac porro hypothcG effectuum confequutio plane contraria effet confueto nptur* ordini. Quare iterum conficitur, miracula intrinfecus effe  poflibilia.   Quod vero adextrinfecam miraculorum  polfibilitatem adtinet, ille tantum negare eam  poteft, qui prxter materiam nll aliud exiflere  fiulte præfumit, cujufmodi funt Spinoza, et  Athei csteri. Simulæ vero, recta cogente ratione popimus, præter Ipectabilem mundum  Mentem effe æternam ipfius Mundi Opificem,  infinitam, omnipotentem, pleno et fummo jure  in res a fe creatas præditam, nihil dubitare  poffumus, hujus vi, et actione innumeros edi  poffe effectus et contra, et fupra Naturæ ordirem. Luce igitur meridiana clarius elucefcit  cum interna, tum externa miraculorum poflibilitas. Sed  audiamus Rouifpjum adverfariis,  quibufeum agimus, non furpectom certe auctoi  ctorem, 3. ^crlt. dt la Montaignt. fe.   tejl ne Deus miracula efficere ^ idefl poteft ne legibus ab ipfo ftatutis derogare ? H^e qutefiio ferto pertrahat» impia foret, nisi »ffet abfurda.   " M'.    honoris, ei, qui silam negative folveret,  flagris tribueretur ‘ Jatis effiet inter infanientes  eum concludere. Re quidem vera, Ecquis unquam  inficias ivit, Deum pofjfe miracula perpatrare ?  oportebat Htebreum effe, ut qiutreretur, an Deus  pojfet in. defetSo menfam ‘parate,   118. Atqui, quam futilia fint, ridicu la, quæ contra miraculorum poflibilitatem objiciunt profani homines, operæ pretium eft expendere. I. Inquiunt, nfiracula Dei op[)onuntur  irrtmutabilitati : qui enimODeus immutabilis confiflerct, fi naturæ ordinejn 3 fe fiatutum mutaret? Accedit quod majeftatis deminutio cft, et  confcffio erroris mutanda feciflTe.   II. Miraculum eft legum mathematicarum,  divinarum, immutabilium, æternarum violatio;  quare miraculum expreffam involvit contradictionem.   irp. Sed facilis ad hæc refponfio. I. Sicuti Deus æterno fuse fapientix confilio, æternoque fuse voluntatis decreto natur* ordinem fancivitj ita eodem conftituit, pro certo futuro  tempore peculiarem jn aliqua univerf* naturas  parte ordinis mutationem* inducere. Summa equidem providentia, Sc numquam fatis laudanda !  ut nimirum fopiti mortalium Animi, eventuum  infolcntia commoti/ tum eauffarum naturalium'  impotentiam animadvertentes, quæ Supremum  Numen confilia panderet, venerabundi adorare moneantur.‘^Hinc patet, miracula nedum nihil Divinæ immutabilitati Occurrere, fed infuper Divinart Sapientiam, Majeftatem, ac Bonitatem iuminopere commendare.   K 2  /   %,;  rumquc feriem ex 'eju(dern.unica» fubftantia» na- *  tur^ effentialiter et neccffario fluere. • V-ide  4(5. Hujufcc fcedilfimæ* labis parentem 'faciunt  Xenophanem Eleaticæ dcAæ Principem, quam.    deTellurem repercufsani nil*vegerantiuin,'& animantium cs(Jononli pri/iare pofse : nam titermDmetrnm nonnili cjiImici liberi aclionem oHendere, et metiu potefl; at novimus, lucem aliud omnino efse a calorico, et jalutimum  jCon*'erre vegetantium/, et animantiuni phyli, ac *liadenus  credidimus. Nolim* vero quis cx dictis inferat, me lunaris influxus patronuni eidmium, referatque inter • adverfte immoderantioris fententix fautores. Ecquis, cui  cor ;lapit, calculo fuo probabit-,, qua: efiutire folent in-.  fani et inficeti honiines ex fingulis.Lunie quadraturis,  terreflrium phanomenorupi vel viciflitudines,,yel priefagia fumerttes ? Quam fegd *Lunuf acteo  nihil addere heic putemus, 'ne a£lam rea»  gere videamur.' Dff Naturali, O* Supernaturali...   ^.loz./^Ua^vis mutatio quæ cuilibet rei  \Lr contingere ‘poteft, iT ex principio.  • ipfi, rei interno manat, appel lator ; e contrario pajfto dicitur, (i a principio  eidem externo fiat, nempe 'ex principio alteri  Enti infito ; illud vero princij^um, 'e qilo aftio  manat, ^I^?/■z'K^M nur.cUpat^r.^   103. Singula fpcfWbiHs Mundi Enjia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat.   Quare fimplices hujus rnundi fubfiantia:' ejufmodi effe debent., ut in fuis occurfibus, et iocurfibus pati /queant, et sgere ; *feu patiendi^ potentia praidit® effe debent, et.principiej aliquo  a£livo\ fcu vi gaudere. Non moror quidquid  In contrarium*.afferunt Occafionaliftæ. fecund*  hujus theorematis parti. Vide Om. i- 5 * 5 ^  feq. Certe Univerfurt? Philofophd nuHis praijudiciis prazoccupato in fihgulis fuis partibus perpetua objici|t adfivitatis argumenta ; atque adeof  dubitare nullo* pa^o fas eft,* ejus ' ftamina*vi   aai.    aftiva prodita cfle. Principium aQivum Enti internum   cum patiendi potentia copulatum, /dicitur *ejufdem ’Entis :natura. Ita ex. gr.matufa planftB eft  ‘principium ;feu' vis. a£tiva planta! intimam fuam  fubftatitiam pervadetis, qua vjget, efflorefeit,  fru6lus* gerit' &c., et patiendi potentia, qua  fubditur aflionl' 'extcrnaru'hi caulfarum, puta  lucis, æris, &c.  Natura gen&rattm, ubi quid sit naturale  edocetur. • ‘    i'T\Uoniam Univerfum inftar totius  • confideratur complcftcntis omoia,  . et fingula entia : pronum eft, ex  naturis fingiriorum Entium notionem effingere  uoiverfalis cujufoiam naturæ per omnia fufæ', &*  'Univerfum- percientis. Hæc itaque''notio ( quod  perdiligenter aniifnadvertatur velim ), nihil re.  apfe e(l- aliud, nifi generica quædam a6Iivitatis  notjo ex a£li\itate‘fingularium* mundi entium  mentis abflractione comparata Tta, quam dicimus' plantæ, animalis &c..naturam \ neque  'eft ani^a quædim fingutaris, et per fe con.  ftans, plancam, animal 5 cc. pervadens, et veluti fufa per ifth*c entia compolitaj fed eft activjtas, qir$ conflatur ex activitatibus fe invicem  modificantibus. fingul 9 rum fimplicium fubftantia^rum, quæ p/antam,. animal &c; coiiftituunt.  '9 $.  io 5.* jatn * Aterq qaamgluribus non fat   cau- C  (autis*^ a ^propriæ imaginationis illufiohe ab*  reptis, univerfalis natur* nqrfiine non idolum ^  noQræ ræntis intelligendum efle placuit, fed*  fubftantiam a fingulis mundanis rebus prorlus diftinctam, per fe conftantem, intime, omnia  pervadentem, &' Univcrlum percientem, Hanc  principium Hylarcbicum, t/frcheitra.Mundi, £»*  ihelechiam y. Animam dcniqu* mundanam appel*.  læunt. Nimirum Philofophi iiU Mundum^ veluti iogens Animal habuerunt ex Anima, et  corpore conftantem ex ejus Anima fingu»  las* fieri, quas obfertramus, rerum generationes,  atque corruptiones. -Sed* in.definienda.hac. Natura, feu anima mundana ipfi ejus Patroni, in  diverfas abiere lertteittias. Fuerunt qui com.-.  mentiti* anvm* genus mveiligantes ufque adeo  Hallucinati Vunt, ut eam Deum ipfum elfe de*  finierint, ut ita Deus fit Mundi MenS, et J^lundus Corpus Dei. Hos ji Paotheiftis aflidere  firmes, profecto non falleris. At Cudworthqs, doctiffimus equidem Vir, univerfali namr*Sc '  ipfc favens, genitricem et fi^rit^err, hanc appellavit, elque id muneris a fuo Conditore coinmiffum ftatuit, ut materi* difpofitionem,-tcm.  perationem, et gubernationem fataliter moliatur.* tum#ordine, et ratione omnia.gerere iftam  genitricem naturam pofuit, ipfam vero, confilio, ratione, et intelligenfia carere. S^d nihil  folidi protuliffe vifus eft Cl,. Vir, quo hanc  ' • •.. fuam   .(a) In Dijfertatione de natura genitrice^ qua: legitur  poft cap' j* Syji. intel. fuam conftabiliret feiitentiam. ' Mofhe-.   inius /Vi ^otis /toc? fit,, > ' • IG7. Quotidiana edocemur experientia Ungularum rerum generationes, et corruptione?  lub (hi^rminafis quibufdam, ac' conflantibus  coqditioriibus fieri, nec non determinato quodam, ac cti^flanti modo. Determinatus hicce  modus, rerum fiunt generatidnes atque corruptionesf, determinatæ iftæ &. conflantes, qux  requiruntur, cOnditiones, id. funt, quod Ordinem  natura appellamus / ^.cdnfequuti^nejja rerum,  juxta hunc ordinem evenidVitium, natura curjum  dicimus. Cum nulkis fit Ordo abfque ordini»   • regula ^, 0«f., proniftn 'efl intelligere, da ri regulas' -leu normas quafdam, jucra quas Yi*  res Entium’ hujus muntii' perpetuo.agant. Equidem, fi nullæ hujulnfddi flatura; ' forent norrnas  a'Supremo CoYidinore nUllus confiflere pofle.t  ordo.’, Icd Chaos perpetuum regnaret. Hz norm»,^eu ordinis r$gn'!z leyts rfatura ' a^jpellantur.ninc quivi^S effectus a naturjs, leu viribus  . Cauffarum ad' hocce Univerfum lpectantiun> -,  et juxta •'præfatas leges Agentium editus, wj-/»r mitlam peperiffe ^miratur y ts 'qucmodo,  equa pariat y aut omnino quomodo natura par -,  tttm animantium^ faciat, ignorat, Sed quod crebro    (a) L?'^?tur De*'a,Pira. Memoria /ulla pioggia della  Mt!7ma caduta /« Sicilia,   yidesis Ablh Dominicum Tata. PioggiA dt pietre  mvvenuta nellji cartipagna Santst,.  r    X (   bvo vldety non miratur, cur fiat ^ nefcit: '   quod ante non indit ^ id fi evenerit often*um ejje  cenfet. Secundum, quod ad miraculi notionem  requiro, eft infolentia/ nempe non quofvis etFe£tus fuperhatiiriles miracula appellare folemus,   Ced qui ob ir/olentiam, five ratione temporis,   (ive adjunft iioim, extra omnem alias notum ordinem vagantur, et in admirationem rapiunt  fpeftatorem.Ex. gr.. ita nemo miraculum appellabit animæ rationalis creationem et infulionem  in humanum corpu,'^ jam organizatum in matris  utero degens, licet omnes fateantur eflfectum  hunc fupernaturalem effc.   114; Graviflima licet folutu facillima heie  occurrit quæftio de miraculorum po/Iibilirate,  quampravæ mentis Philofophi impio conlilio  exiufeitarunt. Hi nimirum non veritatis amore, fed revelatæ Religionis livqre perciti, nihil- ex jecinore fuo decernere dubitant, veri nominis miracula impoffibilia effe; quæque mitacula appellantur, phænomena naturalia elfe cen-’  fenda, ex ignotarum caulTarum naturalium concurfu genita. Longa equidem non indigemus ‘oratione, quo ifthæc lalcivientia ingenia confringa- • '  mus. Sane I. Subftantiarum hujus Mundi vires  finitas efle tum intenlitate, cum extenfione, extra omnem dubitationis aleam pofitum efl. Qua,^  re infiniti Innt effectus intrinfecus poffibiles  quos naturales fubftantiarum hujus Mundi vi!  res attingere non poffunt. Porro ad hujufmod*  effectuum genus- miracula fpectant. Miraculo  ergo funt intrinfcchs poffibilia. II. ' Subfiantia- * • '   ^ ru^m   • •.  . f.- 14gulas adcurate, non perfpexiffe leges ; fed peculiares aliquas et ignotas leges notis hactenus adverfari haud poffe, nihil dubitare poflfumus. Qiiz cum ita fint, concedimus  quandoque incerta futura elTe noflra de miracu.  lis judicia, adeoque cordatum Virunr haud przcipitem hac de re fe gerere debere, immo animis fjepe pendere fummum effe confilium j at  alias tam clare patere miracula autumamus, 8c  in ipfps veluti oculos fponte fua incurrere, ut  excors fit oporteat, qui de iis fuum velit judicium cohibere, et irftcr ftupidps adcenfendus.  Ut ecce fi Sol hominis obtemperans voci e fuo  ciirfu defiftat, neque occumbere feftinet. Si ma.  ris aquæ ex hominis imperio fcindantur, et con>  tra naturalis aquilibrii legem ftantes liberum, iter  fugienti populo per imum fundum præbeant,: fi  hominis cadaver molle 8c jam fætens in vitam  fanum et integrum revocetur abfque ullo omnino apparatu, l’ed fola jubentis voce ; fi mare  procellis, Sc tempeftate jactatum quiefcat illico  et indomabilem, qua furebat, iram deponens,  ridentem adfumat tranquillitatem.* 8c innumera  hujufmodi, quibus Sacra: redundant paginae.  Si quandoque in mundo miraculum  > ^^*^fi'^i'um, eflfectuumque feries, quæ poft.  hac lequetur, alia erit ab ea, qux futura fuiffet, miraculo non patrato. Nam omnia, qu*  in mundo fiunt, contexte, connexeque fiunt, et singula, qu« confequuntur ex præcedentibus determinantur Si itaque in hujufmodi connexa rerum ferie aliquid novi ingrediatur, quod fcllicct non fit ex ipfa fcrie, nova huic adcedet" determinatio » qua equidem citra !T\iraculum  caruiffet. Subfequens ergo ferici |>ars propter  novam fufeeptam determinationem non poterit  alia non efle ab ea, quæ citra' miraculum futura erat. «v   lai. Si itaque miraculo perpatrato fubfequens rerum feries eadem, ac qua; citra mira^  culupii fuiffet, pergere debeat j nonnifi novo  miraculo reftitui poteft. Sane res, quæ miracuio mutatæ fuerunt, alios atque alios natura fua  edid iffent effectus, alia»^ poflmodum feriern  con %quentium conflitu^imt ; hæc ut deleatur,  ^cipfque loco reffituatur Hia prior feries, nifi novo  ^llfaculo fieri“ non poteft.   ^0 Juvabit, ^uæ mox diximus, ^exemplo ab horologia petito', illuftrare. Sifigulæ,  qu^ in horologio fiunt mutationes’ ex mech,a-'  nica partium ftructura, et politione fiuunt^tum  connrxai funt inter fe, et continua'' ferie fiunt,  ut adeo, earum curfus hujus Mundi curfui conferri merito poffit. Ponamus.minutorum' indicem a fitu, quem hoc momento obtinet, aliquot minutis retorqueri : id ab ipfa mechanica  horologii structura fieri quideni pugns^, nihil  vero vCTat, ab extefna caufia fieri. Deinde retorto eum in modum minutorum indice, et  horarius index proportionali ter retorquebitur,  alia^que fient interius mutationes. l*ofthac- minutorum', et horarumr fignattones pro quovis  tempore diverfæ omnino confequentiK*, ac fi  nulla fact^ fuiffet in utroque incfice ^mutatio •.  Qiiod fi reftituenda fit prior otriufque indicis   poil. 1   poGtionum feries pro quovis tempore, illa Icilfcet eadem,.qu* confequtura erat nulla fafta indicum retorfione, iterum ab externa cauifa impellendi funt indices, et ad eam politionem con(lituendi) quam modo fponte fua obtinuilTerit,  fi horologio fibi rclifto', nulla unquam extrinfecus illata fuiflct mutatio. Ita miraculum in  mundo fieri et intrinfecus, et cxtrinfecus pofr  fibile eft IIJ*,Sed mirapulo patrato  confequentium eventuum feries diverfa occurret  ^b ea', qiiz citra miraculum fuilfet izt.  Hzc itaque fi reftituenda fit, pariter per miraculum nova rebus inducenda efi mutatio, ut  eadem, et eodem ordine redeat rerum feries,  qux per primum miraculum deleta' fuit.    Fi»!s CofmihgU»      I   pAo, p-^-^ f-^-1 r^-n r^ r^ '-^ r-^   ff.W/KfiW  rit 7. et 8., nec non fenfationum phænomena  in noftra non furtt poteftate 18. Quod ad  fecundum fpectat, fenfationes non funt im mifliones qualitatum ex objettis externis in  ‘ animam adeuntium iz.Sc ig., neque Mens  in fuis fenfationibus- mere paffive fe habet ^ Sed de hac re copioiius fuo loco. Qua sit [edes principii fensitiva facultate  praditi.   22. '["'Ibrarum irritatio in organis fenforiis  X excitata a quavis externa CauiTa,  nifi ad cerebrum ufque propagetur, nullam in  Anima lenlationem gignit. Pridem do experientiam - Sane obtruncetur nervus, vel fortiter ligamento comprimatur • quavis producta  irritatione infra fectionem, vel ligamen, nihil anima experietur^ illico tamen fenfationem  patietur, five ligamen relaxetur, five irritatio  ultra nervi fectionem inferatur. Quare principium fentiens, feu Anima non ubivis in corpore refidet, et in quolibet organo fenlorio,  led in cerebro, cx quo fuam originem nervi  aj^fpicantur. > ',   23. At dua! heic occurrunt qua»ftiones 1.  Quænam eft illa cerebri pars hac prærogativa c£bteris præftans, ut ad eam fint deferendæ fingulæ fcnfuum irritationes, quo in Anima fenfationes^ant ? hanc cerebri partem, commune  ftnjorium, et Animæ fedem dixerunt. Qut  fenfuum irritationes ex intimis corporis partibus ad cerebrum, vel potius ad commune fenforium deducuntur ?   §. 24. Quod ad primam adtinet, nulla cerebri pars pro communi Animæ fenforio flatui  poffe videtur. Ut enim aliqua hujufmodi cenferi queat, illud prius conflare debe^, lingulos’ nervos, quot quot per fingulas cor  poris partes migrant, et lon^e lateque diffunduntur, ex ea primam originem ducere.-Al  nullam cerebri partem hu>ufmodi effe \ recen»  tiflime conftitit ex obfervationibus fumma fagacitate ab Ab. Toffoli captis, {tom. Xlll- opujcoii fcelti [ulle feien^e, e Julle »Arti. ) Olfactorii nimirum in duo priora cerebri Ventricula  pergunt. Guftatorii ad tertium. Acuftici e corporibus ftriatis labuntur. Optici e corpore calJofb emergunt.   Somniavit ergo Cartefius cum Anim* federa in glandula pineali locavit : quippe ex pineali glandula nec unus nervus originem ducit’. 'Idem de Digby dicendum, qui ex  glandula pineali in feptum lucidum animx fe.  dem tranftulit. Neque adfentimur CJ. De la Peyronie, aliifque in corpore xallojo anima* fedem  conftituentibus licet enim hinc emergant aliqui nervi, veluti optici, non omnes tamen.   l6. Quo fecunda! qua*ftioni facerent fatis,  Cdduxerunt Nonnulli exemplum chordarum, qux  altera fui extremitate perculf*, illico alteri, extremitati motum fuum tribuunt ; at non fatis  penficulate, Sane tremor in unam chordse extremitatem illatus, ad extremitatem alteram  illico’ propagatur, fi tenfa illa fuerit, et in  xjfcillando libera, ab omni fcilicet externo impedimento expedita. At neutrum de nervis dici  potefl:, nullam tenfionem habentibus, et in lui  ductu undique irretitis. Alii vero nervos ha.  bent veluti totidem tubulos; quos purior, ac  fubtilior fanguinis p&rs, qpam Jluidum nerveum,   et    5c fpiritus animales vocant, perpetuo implet,  ac pervadit. In hac porro hypothefi inquiunt,  nequit nervus, nervulu/que contingi, quin aliquatenus prematur ; neque potejl^ ullatenus premi, quin ob dijlensionern fpiritus contentus' urgeatur, neque jpiritus il/e sic urgeri ^ quin pellat ^ feu potius repellat vicinum inflantem, ac  pari ratione advcnientetn ex cerebro • neque ijle  porro repelli, quin tota ferie ob' repletionem,  continuitatemque compulfa, fpiritus exi flens ad  ipfam originem nervi, nervulique in cerebrum  quasi resiliat- Verba lunt Caffendi phyf, f.  membr. 1. 1. 6. c. 1. Hujus explicationis exemplum ex tremulis æris undis Ionum deferentibus e corpore fonoro ad aures, facile eft defumere. Atqui hujulmodi fententia licet comjnuni  voto veluti cæteris verofimilior excepta Iit,  Iblida tamen caret demonftratione. Hac interea utemur, donec melior non occurrerit.   GAP.    (a) Nuperus Audior Thouriy in dIfsertatione'Lugdur)enfi  Accademiie exhibita, in qua qusftionem exiendir, utrum  atmol'pha:ra eledricitas aiiquid in hunianum\ corpus influat &c. novum hac de re lyflema propofuit. Utraque,  afserit, eledricitas, pofsttva nempe et negativa ifeorfmi  in cerebro hofpitarur. Siibflantia corticalis puta pofitivam continet eledricitatem, negativam vero medullaris  fubflantia. Utraque habet luos condudores, nervos 1'cilicet, quorum alii politiva; eleflrlcitari inferviunt, alii vero negativ*. Hi ex extremis corporis partibus eleilricitatem deferunt ad cerebrum ; illi vero ex cerebro ad  mufculos, et ad extreouis partes. SenfatioiTes Menris fiunt ex appulfu ad cerebrum eledricitatis, quam nervi  negativa eledricitati inlerxientes a corporibus in lenfus  incurrentibus rapiunt, ocleruntque ad cerebrum. \iotus  ve  De Memoria.   I   j^. 27. Uotidiana experientia edocemur,  Mentem etiam remotis objectis,  quibus afficitur, adhuc fibi prxlentem retinere poffe illorum ideam,. feu notionem. Hujusmodi Mentis actus coram reti- I  nendi ideas, notionesve objectorum, etiam il»  lis remotis ac absentibus, vocabulo contemplationis y^ockio duce, defignamus.   2g. Rursus experientia pat.efacir, Mentem  persæpe occafione externæ cauflæ, persæpe suo  veluti arbitratu, et imperio, antehabitas, con.  sepultasque ideas, notionesve revocare. Hunc  mentis actum, reminlfcientlam appellamus.   Eadem experientia novimus, Mentem  antehabituS ideas fibi recurrentes ut plurimum  recognofeere,• scilicet animadvertere, illas ideas  notiooesque haud elTc recentes, sed jam dlim  habuiflTe. Hanc anima: conscientiam, seu anim.i.ivcr;ionem, recognitionis vocabulo exprimimus.   qo. Tres modo rccenfitos Ment;s actus vulgo Memoria nomine complectimur. Itaque Me.   mo  vero mufculares cientur ab ele^trlcirate, quam Anima in  mufculos immittit per nervos pofitivs eleflricitati d-'dinatos. Atqui clariffimus Au6lor in præfata difsertatione  ar^qumentum ouidem fui ingenii præbet, non vero fui fyfiemaris. Ipfemet videtur iftud proponere pro imaginationis fpecimine ad rem perdifficilem, fi fuperis pbcfet,  c:cp!ic aridam.morla ell illa Anima: lacultas, qiia retinet-,  revocatque antehabitas ideas, ac recognofcit veteres effe.  N • - ^De Contemplatione  . *]A yCOtus ab externis objectis in no-,  J.VX ftri^ fenfibus exciti, et ad cerebri fibras perducti Animam diverfimode 'modificant, live repræfeiitationem aliquam ( quam  dicimus ideam ) five affectionem ( quam notionem appellamus,.),.ingerendo.. j^Quare pronum cft intelligerc, fibrarum cerebri commotionem  eo ufque perdurare debere, quo illa notiq, vel  reprasfentatio Animam occupat. Animaie itaque  contemplatio' ex continuatione motionum in cerebri fibris efi repetenda/ atque adeo ad fentiendi facultatem fpectat. At continuatio motionum in cerebri fibris duplici ex- cauffa fieri poteft. 'Vel enim,  fortior, et vehementior illata eft, concuflio in'  fenfuum fibras ab externis objectis, et modo cerebri fibræ vehementius commotæ in eadem fufcepta commotione, etiam citra Animæ impc-'  rium, diutius perfeverabunt. Hinc fiet, ut ea-'  dem idea vel notio Mentem five lubentem, five invitam occupabit, et qtfidem vivide. Vel'  fibræ leniter commotæ, ad quietem mox fu a'  fponte redirent, quo cafu paullatim evanefeeret ‘  idea, et notio ; et modo ut in inchoata com-^  motione, illæ perdurent, Mentis quoddam velu-*   M ti '• ' ti conamen adhibemus : hoc conamiiw fibras in  inchoata commotione veluti foventur, con^  fervantur; atque hinc confervatur, et perdurat  idea, et notio coram Mente. Vis, quas in plura difcerpitur, languefcit ; at in unum colkcta potior efficitur.  Quare facile jntelligimus, eccur ad contempla*  tionem faciliorem, diuturnioremqne confequen> dam,Mens ne ab aliis ideis, et prasiertim fe««  iationibus perturbetur, cavere debeamus.   • r . MI. •   •, > *  f »  De Remintfcientia  t   34* 'I 'AIfficillima occurrit de reminifcientia inquifitio-. Hanc ineptiffime  ^videntur -Metaphyfici vetcreS perlequuti fuilTe ;  quasfierunt enim.* quo abeunt^ receduntqite ideat  nothnefve, cum ab earum contem^atione Mens  feriatur ? In ^nima ne, vel in cerebro confepediuntur ad sAnima imperium rediturai Ecquid funt  confepuita idea ? Hiice quasftionibus ineptas re*  fponiiones fuppeditantes, illud quah fuadere vel*  Jent, penes Animam promptuarium eife, in quo  ideæ conferventur iterum educendæ ex ejus imperio, quoties opportunum eflfe judicat, vel ex  alia quavis caulfa. Audiant hi Ciceronem CICERONE (vedasi) egregie cos increpantem',*Qjiid igitur ? utrum capasitatem. aliquam in xAnimo putamus ejfe, quo tan~  quam in aliquod vas^ea^ qua meminimus infun~  dantur} %Abfurditm id quidem: qui enim fundus^  aut qua talis «Animi figura intelligi poteft ? aut > quæ tanta 't/fnimo capacitas? %4n imprirnt qua fi  ceram, »^nimum putamus, et memoriam ejff fi'  gnatarum rerum. in Mente vejligium ? Qua pofi  funt verborum qua^ rerum ipfarum ejfe vejligia? \  tufc. qq. /. I. c. 25.   35. Ut frbi cavcanf Tyrones ‘ab hifce abi  furdis opinionibus, fufficiat recolere, ideas, notioncfve nihil effe aliud, quam Animæ modifi«  catioiies ex fibrarum cerebri commotionibus genitæ j ut ita ficuti fibris ad, quietem redeunti-*  bus, ftatim illæ Animæ modificationes definunt,  ita et ideæ, notionefve omnino evanefcunt. Cum  ergo quæritur, quo abeunt-, receduntque ideæ,  cum ab earum contemplatione Mens feriatur,  optimum refponfum erit/ evanefcunt. Ubi confepeliuntur hi Anima ne, vel ip cerebro ? Nullibi.* nam ab Anima cui inerant, evanuere.  Ecquid funt confepultæ ideæ ? Nihil. De Recognitione. A Memoriam proprie fpectat, quod  jt\. dicimus idearum recognitionem^ Si  enim veteres ideas.Menti recurrentes percipiamus, minime vero nobis confcii fimus, ilJas  veteres effe, nempe eafdem quas olim percepimus, reiterata ifthæc five notio five perceptio ad  memoriam nonnifi improprie referetur. Licet reminifcienti* cauffam incom pertam adhuc habeamus, recognitionis tamen idearum facilem explicationem exhibere autumamus.  Duo funt principia*, ex quibus illam deriva,  mus. r. Interior experientia, qua a teneris unguiculis novimus diferimen quoddSm inter ideas, notionefve Menti recurrentes ex reminifeientia, et ideas notionefve actuali fenfationc in  Animam incurrentes. Licet enim verbis non poffct explicari diferimen' iftud, interiori tamen  fenfu difeimus, alior prorfus modo Mentem affici Cx fenfatione objectorum prsfentium, ac ab  5 deis notionibufve eorumdem abfentium. Videtur hoc diferimen in eo |»ofitum, quod fenfatio Animam vividius, ac veluti intime afficiat*  € contrario leviter commoveant ideæ, notionefve objectorum ''ubfentium, et quafi a longe ei  exhibeantur. Lex ilia adfociatibnis idearum,  qua fit, ut una recurrente idea, vel notione, fi.  mul recurrant Menti una vel plures aliæ, quo.  cunque tandem modo, priori adfociatæ. Sane recurrat Menti idea, vel notio  objecti cujufvis j five id fiat ex interiori quavis cauffa, five ex externæ caufTæ actione. Vel  in hujus \idea: recurfu excitantur in Mente ideæ  ei adfociatæ ex priori fenfatione, vel non. *Si  primqtn • ejuidem objecti idea in duplici illitarum ferie Menti obverfabitur ; in ferie lci*icet  præfentium circumftantiarum temporis, loci,  aliorumque objectorum^ adftantium, et fenfus  percellentium, et in ferie idearum fociarum ex  veteri fenfatione, qua; per reminifcientiam refiaurantur. G,m ergo altera feries, ab altera  interiori lehfu dignofcatur prasc. n. i., facile  eft recognofcere, objectum, quod modo Menti  occurrit, alias quoque occurri Ife.   45. Si vero ex alicujus ideæ recurfu  ( quacumque ex caufla hic fiat ), nullæ excitantur ideas focix temporis, loci &c., nulla fit  recognitio, vel incerta admodum, et obfcura,  fi nimirum obfcure, et confufe fuerint excitatæ ideæ focis. Experientiam appello. Hinc efi,  quod fi hanc recognitionem claram, et difiinctam reddere qusrimus, conamur veteres circumftantias loci, temporis, perfonarum &c. revocare, vel ut alter commemoret, flagitamus.  Hs ides Mentem redeuntes lege adfociationis  veluti ftipantur illam, cujus recognitionem qu*.  rebamus, ficque ipfa recognitio redit. Eadem  eft explicatio recognitionis idearum reflexione  genitarum.  De Facultate attendendi, et reflectendi.   4^. "A ^^Entem a vividis, claHfquc five  J.VX (enfationibus, five ideis veluti  pertrahi, atque occupari; nec non iifdem libenter cedere, et conquiefeere, quilibet intimo fuo  confeienti* fenfu edocetur. Atqui et interiori  experientia non minus conftat Mentem facultate pollere vividis etiam, clarifqUe five fenfatlonihus, five ideis obnitendi, quominus iis  afficiatur, feque' convertendi ad alias five ideas,  fjve fenfationes etiam remiffiores, et hifcc elicito veluti conamine intenfius vacandi.   47. Iflud Mentis elicitum veluti conamen,  ^uo ipfa fe determinat, ac defigit in peculia,  ri aliqua five fenfatione five idea perfequenda,  attentio nuncupatur; et attendendi facultas illa'met Animæ vis, e qua illud conamen procedit.   Attentionis vero translatio, quam feientes, et  prudentes efficimus ex uno in aliud fucceffive  objectum, vel ex una in aliam ejufdcm obje.  cti partem, reflexio dicitur. Facultas adeo refleBendi illamet efl facultas quam attendendi  dicimus, quatenus, nobis animadvertentibus, ac  volentibus ^ plura fucceffive perluftrat objecta %  ex uno ad aliud rimandum pergit, reditque ad  alterum.   48. Attendendi facultas alia putanda efl a  facultate featiendi, etfi hanc perpetuo comitem   ha.    r ;  r : tar    ;;::tatem ad illam reflectendi revocandam eflc.   54. ~RATIOCINARI dicimur, cum idearum  A puta et C convenientiam, vel repugnantiam,  vel quamvis aliam relationem intuitive non  percipientes, iJIam deprehendere fatagimus per  ioterpofitionem medi* ideæ B. Media porro hæc  idea nonni/i ex reflexione', et analyfi primarum  idearum A& C Menti occurrit. Hæc enim me«  dia idea, vel una efl ex limplicibus, quæ in  compofifis ideis A et B continantur • vel ejulmodi eft, ut dum alteram -puta A tontinet, ipfa  tamen in altera B contineatur ex quo inferimus «tiam A in B contineri. Alterutro modo  res fe habeat, evidens efl, Mentem fuam ratiocinationem nonnili reflexione abfolvere. Facultas generalium idearum nexam,  2^ relationem clare pervidendi, Ratio communiter appellatur. Hoc fane fenfu Tullius de ofF.  1. i. hoc vocabulum ulurpavit. Homo enim^ quod  rationis eji particeps, per quam confequentia ctrnrt, caujfas rerum videt, earum progrefjus, et  quafi antecejjiones non ignorat, Jimilitudines compa^  rat, rebujque pr' Huc’ IpeAant ' Ciceronis CICERONE (vedasi) verba /. 2. di divinat.  Sanguinem piutffe ’ [enatui renunciatum eji clatratum  fitniiufn fluxi^^e /anguine : deorum fudaffe fimulacra atque h(ec ;« lallo plura, ^ majora videntur ti^  mer^il^us ' eadem non tam animadvertuntur tn pace.  '   byterum qutmdam Rejiltutum nomine lauJat 'n  fuo tempore, viventem, qui, et fponte fua, et  aly amicis rogatus adeo fe e fenfibus evocabat,   •Ut non folum coram loquentes non audiret,  led neque punctiones, neque inuftiones fuo cor*  pori illatas lentiret, nifi cum ab alienatione  Mentis ad fe iterum redib?kt. ^ ^   §. 67. Tandem cum imaginatio ex facili ^  cerebri irritabilitate dependeat,.confequitur,  illam ex mutato corporis, et cerebri ftatu obtundi polle, nec non obtufam revivifeere. Id  cum ex pluribus fieri queat cauffis, tum pras,  cipue ex state, cibo, potuque plurimum pendet. At haud prstereufidum eft, morbofa aliqua cauffa fieri quandoque, ut imaginatio, et  memoria alias obtufa, et difficilis', vivida fiat,  ac facilis ex inducta' in cerebri fibris fenfibilitate, feu irritabilitate' majori. Nempe,, quas  cerebri fibrs’ olim agitats propter craffiorem;   conftitutionem, parvam aut nullam mobilita tem fulcipientes, minus apt* erant quominus  veterem commotionem renovarent^ modo mobiliores, fenfibilioresque effects, illam diftin-^  cte queunt renovare ; adeoque, qus olim obtufa difficilis, vel nulla fubjbat Menti imagi-,  natio, et memoria, clara fiet, facilis, et promota. Hinc ftupendi prorfus phsnomeni rationem' depromere facile poffumus, eccur nempe  Rudes, et illiterati homines febri et delirio correpti plura quandoque loquantur erudite, et  irllomate antehac iplis prorfus iirtomperto; tum  hsc iterum ignorant, fi   > N 3 • > ^    /    I   rio reliquuntur.  »   6S. Ad vim imaginationis Mpjierum prægnantium referunt Nonnulli monflruofos et informes, quos illæ edunt quandoque partus,  tum partuum infolentes macufas. Sed nolim ^  ego quidquam de hac re decernere.  e   I — i ^  I I. (Adolefcens quem Prarceptor ;nihil untjuam edocere poruir, quique nec callebat, ut vulgo dicitur, adjungere adieAivum fubjedlivo, pofl aliquot dies febris  jnalignx, latine loquebatur, nil hsfitans; dodrinas antehac fibi ignotas recitabant, ideafque quibus eatenus  caruerat, egregie edilarebaf. Medici», fepten. r. i. p«  88. Huart ( !*.«»»« «fcj’£/pr/>j)Ruflicum memorat bardum, qui ^lirio correptus, eloquenrlflimus evaflt: nec  non quemdam famplum, qui craflillima: licet minervz,  et ideis vacuus, morbo tamen laborans, cordatioris politicas eruditus apparuit. Erafmus italum cognovit, qut  in morbi acce^onibus germanicum idioma, quod nunquam didicerat, loquebatur. Ac.. Hzc phænomena, et  alia huiufmodi quamplura imperite, A olcitanter inter  miracula, rejicerentur, vel magicos efferus. Sola fibrarum cerebri difpofitio vi mOrbi mutata hos omnes producit effedus. Nempe imprefliones olim habitie, at debiles, quominus fentibilem gignerent efi^tiun in cerebri  fibris pamm mobilibus, novam majoremque vim nancifcuntur fibra irritabiliori, ac mobiliori per morbum efledfaj  iienti pondus^quod machins rubiginofs adplicitum nullam  in ea motum ciet, extenmlo tamen eamdem in morum  agit, f! rubigitie TOlita fuerit, ejufque axes ex inunco  #!fO mobiliores emciaotur. De Facultate appetendi, ejufque ' obje^o  '. ubi de dffedibus fummatim.  De Facultate appetendi j ejufque ob/eSle.    6 p. ^^Uique ad intimum fuas confcicntiæ  fenfum attendenti fequentia liquent. I. Animus ex quavis Tibi objecta boni,  malivi fpecie agitatur * neinpb erga objectum  quod bonum cenlet incJinationem nilum vei ^  invitus experitur/ 'e contrario, declinationem  a malo, et veluti renifum quemdam ad ei ob«  fidendum. Illa Animi inclinatio,'& veluti nifus  ad bonum ", appetitionis nomine defignatur /  Sc contra averfatio dicitur Animi declinatio, æ  renifu^ a malo ^   II. Quo majus Menti objicitur bonum, ma lumve, eo vividior eft appetitio vel averfatio/ et  contra, ut ita fint appetitiones et averfationes  in directa ratione bonorum, ' malorum ve Menti  repræfentatorum., •   III. Appetitiones, et averfationes non fiint  in noflra potedate, nili quatenus Mentem ab  objecta boni, maiive fpecie avertet^ polii m us.  Cxterum licetd bonum minime profequamur,  malumve fugiamus, intrinfecus tamen  »•  quali polient ratione, qua rerum naturam, re-.  lationesque complectentes-, illarum.bonitatem"'  malitiamve affequantur. Proinde: in perfpicqo  «ft*, cctur tantum fit ijiter homines ' appetitio ' num         >sVcHOlo6iA 4 T   nnim, atque, averfationum difcrimen.Sanc quod  uni bonum apparet, alteri malum videtur, et  ^ Contra.'Quod uni voluptatem conciliat, alteri dolorem, tædiumque ingenerat' 'Ipfi nos  fententiam de bonitate et itoalitia cjusdetn objecti pluries in hora, •& quafi momento tenii  poris pronunciamus, et mox delemus. QuJ in  "tanta affectionum, idcarurti ', et calculi difcre‘pantia ftare poffet appetitionum, averfationumque identitas? [Do not multiply idetities beyond necssity – Grice e Semmola -- ^   74- Quæ appetitiones et averfationes  Anima excitantur ex confufa bonorum, malorum- ’  ve repra?fentatione ope fenfuurn et imaginatio'nis facta, appetitiones carw/j/ex, feu animales "^diQUtitMT.Rationales e contrario appellantur 'iJlaSjj'  quas Mens concipit ex clara, et diftincta bo-,  noruni, malorumve fpecie ipfi exhibita 'a ratione. Porro p^fæpe fit, ut‘qus veluti bo-T  na vel mala Menti reprefentantur ’ fcnfuum  et imaginationis- ope, ea itidem' bona vel mala  ex ratione dijudicemus. Hinc 'duplex iq Ani-‘  mo excitabitur appetitio vel avcrlatio, carnalis feu animalis altera, altera ' rationalis j  modo amba;,hæ convenient. Alias contra fit,  ut qua: tamquam bona* Vel mala" Menti fiffuntur fenfibus et imaginatione, tamquam mala vel bona ratio, decernat. Quare appetitio  carnalis gum aVerfatione rationali pugnabit,   et viciffim ^‘adeoque Mens in diverfa, &.con-,  traria dillrahi experietur, et internum, luctamen, conflictumque patietur. Huc fpectant  illi^. ApoftoU verba : Sentio aliam, legem ^ in  memltris jneif, repugnantem legi Mentis   Nem.   Nempe in Apoftoli Anima ex fenfuum illecebris appetitiones excitabantur, erga objecta",  quæ ipfc Apoftolus averfabatur ut mala ex  monitu rationis.   75. Hanc pugnam ut explicarent vetcreg  Philolophi duplicem diffinxerunt appetitum,  animalem et rationalem : tum non uni eidemque fubjecto utrumque tribuerunt, fed diverfis. Opinabantur nimirum, duplici parte Animam conftare, wtelie£liva, leu Juperiori, cui  appetitum tribuerunt rationalem, et fenjitiva  altera, quam inferiorem dicebant, in qua animalem appetitum pofuerunt. Has Animi partes et revera diftinctas efle, et fecum ipfas  pugnare, veluti Equus cum Equite fyquæ locutio Platoni in primis familiaris eft j, /autumabant. Atqui- doctrina ifthæc fenfui intimo, quo eum conflictumMn, uno eodemque  individuo fubjecto ineffe experimur, repugnat.  Accedit quod cum ^ Anima fit incorporea et  fimplex lubftantia ( ut fuo loco evincemus ),  vocabula partium inferioris et fuperioris, vocabula funt nihili.  De Jiffefiibut •. ' ^» ' A‘ Ppetitio, vel aversatio vehemenjCX tior, 8c cum infolenti naturæ  humanat commotione fociata,' affectus appellatur. Equidem quævis boni, vel mali reprpfeatatio appetitionem, vel averfacionem ciet':    at aon qu*vis appetitio, et avcrfatio affectus nuncupatur / quæ incitatior eft, et intenfior hoc nomine denotatur. Affectus itaque  nonnifi ex rcpræfentatione boni vel mali, quod  gravioris momenti putamus, pendet, 70«   Inlolens humanse natur* commotio, qua  affectum comitatur, ex actione Anima affectu  percita in commune fenforium leu cerebrum gignitur. Ex intimo enim vinculo, quo Anima, 5 c  corpus conibeiantur, quoad homo vivit, fit, ut  ficuti fingula corporis commotiones nervorum  ope ad cerebrum traducta Animam afficiant,  ita reciproce Anima commotiones ex reprefentatione bonorum, malorumve genita nequeunt in  cerebrum non derivare, ipfumque determinato,  quodam modo agitare. Cum porro e cerebro  originem ducant quotquot per corpus dilabuntur nervi ; hinc intelligitur cccur ex Animi  vehementiori appetitu vel averfatione, concitato cerebro, et nervis, 'infolentes natura humana commotiones oriantur (a). Ita ex terrore  pereuHus Animus faciei pallorem, cordis pal-,  pitationem, artuumque tremorem comites habet. Ex ira inflammatur Vultus, linguli tenduntur, atque convelluntur nervi. Ex amor*   per.  Non quavis Anima commotiones io fm^Ias cerebri partes derivant, neque eodem modo : fed fingula  certas, ac.determinatas partes ceijelHi afficiunt, tk de*terminato.modo. Hinc unguli Anima affe^us determinatos cient in corpore motus, qui quandoque funt diverfi,  quandoque prorfus oppofiti ^ Juxta affe^uum naturam ».  et intenfitatem. ' ^ L (. I percurrit mollis flamma medullas Scc. Hinc in numera phy fica mala, qux fapientes Medici norunt  ' Cum natura fua Mens in bonum te ratur, malumque refugiat, liquido conflat,  aflectus humanam naturam, qualis modo efl,  necefsario confeqai. Quid ergo fibi volebant  Stoici, cum affectus, Animi morbos appd-.  tlantes, in Virum Tapientem minime cader^ pertinaciter autumabant ? Num ne fapientia eo,  pertingere potdt, ut hominem fua expoliet natura, 8 c alia prorfus commentitia induat ? At  nemo unus ex Stoicorum familia ad hunc fa-.  pientiæ apicem deveni(. Equidem qui in humana natura deleri affectus optaret, ille et vim  qua Mens bonum naturaliter appetit, refu^it'' ' qqe malum, radicitus ab ipfa Mente avmlfam  vellet »,Hoc femel conceffo, non video, quid,  homo a crudo diflaret latere.* nempe hiccine  erit Stoicorum Sapiens ?   ^•7p. Atqui human.'> natura, Sc ut fit,& bene  fityfibi non fufficit • bona proinde quibus caret,   ^ profequitur oportet, declinetque ^ impendentibus malis. Bona vero profequi non potefl,  Jiifl ipforum bonorum appetitu incitata j neque  mala refugere, et propulfare, nifi odio percita erga mala, quæ funt inimica felicitati.  Sunt itaque affectus nedum neceflaria humanæ  naturæ -confectaria 70., fed ipfi 8 c ut fit,  et bene fit omnino neceffarii_ clatere?. Sunt præterea affectus inftar vectium   „ quorumdam, quibus mirifica in homine ex„.citatur, aliturque magnarum rerum effectrix  „ vis, nec fine magnis affectibus quidquam f gre ‘   « g**cgjutn > et prsBcIarum unquam ab homini„ bus factum i R^tio in nobis recta, nullo im«  j, petuofiori affectu concitante, conftantius ope„ ratur, et xquabilius,l'ed eximium qmdqbam, >   „ et diftinctum ipfa per fc-fola efficiet niin’„.quarn. Eadem, ubi natura vehementiffime  „ affecta eft / velut erigitur j ac, licet paullo'  turbnlehrius efficit tamen quje mira viderf  „ poffcnt’ nafurs humanæ vires omnes ignoran>  tibus. Itaque Plato fæpe fcribit magnorum  vircrufn fuifle neminem fine enthusiasmo  ^ quodam^ ideft vehementio riaffectu; xAnt. Gtnu- ^ T  enfis Metbaph. part. tertia, Scbol. prop. 4 ^*   Boni,malive repraslentationes in Mente factæ five fenfuum renunciationibus, five rationis adminiculo non femper funt ‘ex æquo'  conformes realibus concretifque objectis, qui- "  bus ilias referimus. Quare neque., affectus ex.  hujusmodi repræfentationibus 'r geniti fempet*  proportione refpondebunt bonis, malifque realibus. Hinc duplex affectuum partitio ex eorum relatione» ad objecta Alii nimirum "funt  veri, alii vero /«/>/. Veri dicuntur, qui objecta realia' refpiciunt, et ipfis realibus objectis  proportione refpondent. F7  damus, quafi nihil ^dhuc ab aliis traditura . Mentem.humanam infita vi, et natura fujc neccffrtate bonum appetere, et aver.j ' '  fari malum, fuperius 70..,exporuimus ^ Mp»»  nemur hinc, nos ita natura comparatos, >.ai;  ad bonum in genere, feu ad beatitatem necessario, et indeclinabili pondere feramur,v et  miferiam' relugiamus, quin valeamus vel-, „minirfium obfiftere. Perfpecte prpfecto. Divus Au»,  guRinus inquiebat : Beati effe •^olumui, et nti' feri effe non fotum nolumus fed nec velle -pofo  /limus. At quid 'Anima contingat, quum aliqua boni j malive fpecie afficitur, operæ prætmm eR ex intimo 'conicientiæ fenfu perdili- ^  genter edtfcere : ipfo enim Magiftro in devia  certe haud abibimus..   r. rntimus confeientiæ fenfus uberrime  edocet, quod ficuti ex oblata boni, malive fpe»  cie mox tu Auimo cietur appetitus, vel aversatio  A J ^49  fatto in* ratione ipfius boni, vel mali repræTentati, ita hoii rapitur ab illa fpecie Animus,  fed allicitur, vel t*dio afficitur. Non rapi ex  eo I* intelligit, quod cuique appetitui',  averfationi, quoufque durat, efficaciter obfidere* poffe, tum premjre, et infrenare, evidentiffime animadvertit : %. quod Ipfe fe ad bo'num perfequendum ciet, fi quidfem perfequafUr, vcl ad malum fugiendum. Sentit Sinimur præclare Tuilius mare fuo tuf. qq. 1. i.   Cw 23. ‘Je moveri, idque dum fentit, illud  una fentit, Je vi fua i non aliena moveri. Animus ex oblata boni fpecie alle£las, '   crampentem mox inclinationem quandoque extemplo fequitur j alias vero immoratur, &' appetitum cohibet, ut rationis conHlio adhibito  ejC{>fendat, num 'bonum ei exhibitum revera bo-»  /lum fit, atque amplexandum, afl %ero malum  fub fpccie boni, adeoque refpuendum. Inito  tandem confilio, et de bp^itate, vel malitia objecti monitus, fe ad illud perfequendum, vel  avertendum ciet: animadvertit vero i. ipfum fe  ciere, hon rapi/ z, etiam 'poflquam perfequi rapit,  facultatem integram defillcndi penes fe, retinere,  licet revera non dcfiftat; hanc ut experiatur,  fufeeptam determinationem ex ^rte, vel ex integro quandoque remittit-, vcl, aliam omnino'  diverfam, contrariamve elicit.,  Cum plura Menti exhibentur bona, quorum uno tantum potiri liceat, vel plura media ad idem* adfequendum bonum, rationis ad-'  hibernus confilium • fingula undequaque expendimus, et quidem quo efficere pofTumus accu  ratius. et acutius / media propoGta irfter h,   et cum fine comparamus, ut. qu? Gnt aptioia   perdilcamus. Hoc demum inftituto examine  Td id quod melius videtur, fe inclinare, feu allici Animus perfentit; at inclinari, inquam, non  'i nam i. inclinatio illa m attum non  Jodit, nifi ipfe Animus fc cieat, detcrminetaue ad'id,quod melius vilum^ cft amplexandum;  1 quia quovis' pbfito rationis confilio, Mens  ‘oildvertit. le facultatem  minus bonum fe determinandi ;.de hac facultate experimentum capere potett, quoties libet, ut fui' juris eife plene perdifcat. _   V Ex diais fequentia quam evidentiffime natent. I. Inefle Menti aaivara facultatem,  qua ipfa fe cieat, moveatque ad bonumx pecu?hre perfequendum, ipfa fe avertat. a peculiari  malo Hanc aftivam Anim* faculutem t^ohn^  " IMbulo dkliguamus. II. Aa.vam  fa.-ultatem, nempe Voluntatem ratioms confilio  equidem regi, at ei non lubeffe; rationem Ic«ui ducem et comitem, ipfam vero etfe fui  Lminam, ipfam, f.bi Di vus Bernardus, de grat.   ratio data voluntati, ut tnfttuat tlUm, non up  ^cflruai ' deUræret auten /7 nece(fttatem ulla»  i^roonere^. UI- Voluntatem, ^   tionis confilio, deu incitamento, fuam deter   minationem fufpendere polTc,s’immo aliam pominationem mcitamen nere omnino contrariam ei, q  * V. - ritionifque confilium fuadent.   LilLt/r momine.intelligimus eam  aaiv/poteht.a, indolem-..90,: nMlU natur* fo*   ( V  n^ceflState, nec ulla \extcrna coa6lione invincibiliter determinatur, ad a£liorverq.; redjipfaj fe  determinat, 'ut ita, politis oninibus ^djiagpji^urn.  requifitis, queat non agere, vel,aliud;5^qU9dvi^.  a politis requilitis alienum. Qfiandoq^ IJbertatU  nomine ipla a£Hva facultas, præfatx -indolis, et  natur» intclligitur,..  f - 4   ' pt. Duplex adeo Libectas., diftingui folet  juxta duplicem neceUttatem ; cui activa poten?  tia fuhjacere poteft. Alia dicitur likfftfl  cejfitaie y qu» confidit in immimitate. a quavis  naturali, et interiori vi rapiente» et determi^  nante ad datam a£tiodem. Altera vero dicitur  iibirtas a, et hase ia. immunitate a aliquo motivo nihil unquam vult, nihil advefatur. Sicuti ergo lanx ob impolita pondera  inclinans nihil in fe inclinando libera eft, ita  nequi' humana Voluntas, quas a motivis perpetuo determinatur.   At duo præcipue heic reprehendenda  occurrunt I. Mentem a motivis determinari.   ' ir   II. Lancis exemplum - Quod ad primum f|sew  ctat, fedulo hæc duo' toto cælo' cliverla fecernenda  funt : Mentem a.mdtivis determinari; Mentem  feipfam ex calculo mottvonm determinare.Primurd'  fi verum foret, actum eflfet de humana libertate. Atqui’ illud 'ita evideq^ter f.iffum' eft, quam  evidens Animum lentire fe vi fua, non aliena  moveri j fe. a' n?oti vis allici. quidem> 1’ed non  rapi ; fc facultatem integram habere cuilibet appetitui efficaciter obljftendi/ ;fuiqtie juris perpetuo efle. Alterum vero utique At  fjtram quadrare. Sane Lanx nulla aftiva vi eft£x. gr. Qui  tonos a nervo redditos in. ejus tremoribus confiituit, nequit ‘multiplicium, ac diffimilium tono A  norum rationem aliter expedire, nifi per toti*  dem diverlos, ac diflimiles ejufdemque nervi tremores. -Si ab uno eodemque tremore plures^ac  diflimiles tonos effici contenderet, infeite profecto fe gereret, nec» feipfum intelligeret; quippe in illa hypothefi necelfe eff^URum eumdemque tremorem unum eumdemque tonum perpetuo reddere. Ita profefto in hypothefi, qua Mens  humana pro materialis fubflantiæ temperatione ffa-^  tuitur: cum ideæ Sc notiones aliud nequeant eiffe  nifi moriones, tot diflin£tas puitiones, atque diverfas fubflantia cogitans fulcipii>t necefle eft  quot diyerfiis, ac multiplices h:vbet ideas, notionefque. Neqpie juvat' reponere', Mentem ideam   B,  t.    f:.   B, 'qui coram adRat, poflc cum; idea A,cu->  jus remimfcentiam, habet, conferre. Quid enim  cft^iRuci ideæ alicujus reminifeentiam habere,,  nifi illam ideam habere præfentem ? Habebit  igitur Mens bmul prætentes ambas ideas A dc  B. Datur ergo quod a nobis pofitum eR. Humanat» Mentem haud effe temperatienem btu>  mani corporis, ac pracipue cerebri^ inviBe y  demonfiratur. I. externa Objecta noRri cor?*   poris fenfus percellunt, '6brar*  rumque irritationes ad* cerebrum ufque deducun»'  tur, mox Anima (enCationes fufcipit. Sed h».  fenfationes phasnomena funt,^ quas tnihibeommune habent cum fibrarum cerebri, St fenfuum*  commotionibus, a -quibus toto c^l» differunt;  ^^.iz.ij.Nequeunt ergo efTe ipfæ commotione^:  atque^adeb nec Subjectum cogitationum eR cerebrum, nec Principium cogitans feu Mens eft.  cerebri, humanique corporis temperatio...   §.*' 105.' II.’ Ex intimo confeientiæ. fenfute.videntiflime docemur, Subje6Ium fenrattoaura, quas  five* per unum idemque organon, five per fe invicem modificantibus,   5c collidentibus compofitam exprimi poteft, II.  Indicatio horarum eft indici prorfus' extranea : '  Nobis- comparantibus indicis pofitionem ad va-,   ria    Digilized by Google     quolibet noftrum, haud foret unus et fimplex, fed adeo  multiplex, quot funt illæ partes A, B, C. '  IIL Tertia tandem 'hypothefis evertit et judicii naturam ( num. I. ), et iotinram fenAita  ( n. II. ) nec non fimplicitatem, et ilidivifi•bilitatem perceptionum (» iia, ). Regeri haud potefl, quo farta teffa  fiat prior hypotKefis, illas partes A, B, C cpmmifeeri, vel in unam coire, -atque hinc judicium emergere. Non enim, nifi fumnrKa' ofeitantia, "effutiri ifta queunt. Quid fane iftud cft  commifeeri ? profecto particularum fitus, pofitiooes, et tactus ad invicem immutari, et pei^  turbari. At non video, qu? hinc fiat idearum  particulis illis feorfim infitarum collatio, et com.  plexa omnium perceptio • adhuc enim funt illæ  particulæ totidem diflincta fubjecta, et feorfim  'cxifientia. Illud vero akerum in unum coire  pugnat cum naturali partium impenetrabil itate.   11 5. Neque quidquam valet, quod incogitanter alii reponunt, cogitationem non partibus corporea? fubftantiæ convenire, fed toti fub*  fiantiæ : non humani cerebri pattibus, fed ce*  rebro,’ quod veluti unum totum confiderandmfi  venit. Revera, quod totius nomine’ defignatur  non eft aliud, nifi Mentis noftræ conceptus, plu*  ra fimul fub communi aliquo figno, et notione, complectentis : atque adeo, quod dicitur   'P-2 *. • ' unum    o ^8 psychologia'   unum totum eft quid tantum ideale, non reale.  Quod reapfe notioni totius refpondet, eft collectio plurium, qux propriam fingula, et ieparatam habent exiflentiam, quzque - proinde  æque fe habent, five colIe£live, live feorfini  cxillant. Ita' ex. gr. cum inquam, totus exercitus, totus populus &c., reapfe hifce. notionibus plurium, et diflinflorum fub;e6Iorum  collectio refpondet, quat^, licet collecta,, adeo  funt didi neta inter fe, ac fi forent fejuncta.  Si propterea fubjectum cogitationis eft fubftantia corporea, plurium nempe realium fubjectorum collectio, jure, meritoque inferenda veniunt abfurda f^ierius notata.   ^.“>115. III. Quævis materialis fubftantia naturar fua eft iners,* modus autem agendi et cogitandi, qui humanæ Menfis eft proprius-, inerti* omnino pugnat. I. Nonne Mens vi fua, et  fua libera fponte innumeros ii\ corpore gignit  tn9tus, aliofque a caufta externa ipfi corpori  imprelTos, vel ex mechanifmo pendentes cohibet, ac deftruit ? Atqui quid efl hoc, quod obluBatur corpori^ fi ni hU fumus prater corpus? cum  fluvius decurrit in hanc partem, non potefi fua  V» aquas fifterey aut retro flevere in contrariam  partem. Materia nulla agit in je ipfam • nulla  machina efl fuorum motuum, confei a ^ ex illa  confeientia fuorum errorum torreBrix, et refor*  matrix. Si errat, nefeia' pergit ^errare, donec ad‘  mota manu %Artificis, aut Domini in flatum reBum ordinatur f et reflituitur. Thora. Burnet (a).   II.    (a) De stat, mort, O* refarr, c. J.    ^   II, Nonne %Animus fenth fe moveri, iJque dum fentit, illud et una fenth, fe vi fua  non aliena moveri} Vividus'hic confcientiæ fenfus, cui contradicere nemo, nifi efFrxnati Pyrronii poffunt, Juculentiflime oftendit, humanam  Mentem haud elfe poffe e genere fubftantiaruni  materialium. Ipfe RoHflojus eo fenfu monitus,  hanc veritatem fateri, coa6lus eft. Natura cuique animali imperat, et Brutum obtemperat.  Homo eamdem Jentit imprefftonem,* at vero ft  liberum agnofcit ad affentiendum ^ aut contra obnitendum ; et in intimo fenju bujufce libertatis   ^nimtr fpiritualitas prafertim elucefcit   In facultate volendi, vel potius eligendi, et in  bujus facultatis fenfu nibil eji, quod explicari  queat mechanicarum legum ope (a).   §.117. Lockius, etfi non e grege Materiali-,ftarum, fententiam tamen coluit, qua non immerito vifus eft pluribus, Materialiftarum cauffam indire6^e egiffe.'Haud nempe conftare pronunciavit, num Deus vi cogitandi materiam  ( subftantiam ex mente iua extenfam, multiplicem, inertem ) inftruere poffit, ficuti vi vegetandi ornaffe in comperto eft. Certe id opinans, aliquid humani paflus eft, nec fibi compar extitit : animadvertere enim facile potuiflet,  Animx humanæ immaterialitatem ( fimplicitatcm ) fimili argumento conftabiJiri, quo ipfe,,Dei naturam immaterialem evicit (b)., u8. Porro Lotkianæ fententiæ falfitas ex   P 3 ha- •    * l, / J 'V* * /• V » ' ». Dircours sur l^inegalitedes iamiptefJ,part,p,'iQ^   (b) SJfai pbllof, cone. i'*nttiid, 'hum, l. 4.     liancnus dl£)is luculentiffime patet. Rtvera » >  cui no^ conflat, Deum non pqHe', qux fa«C  intrinfecus iinpoffibilia efficere ? on$» ^8. Jam vero cagitandi^ 8 c agendi modus^, qui hu«  manx Mentis eil proprius, nequit ulio pa£h>  ConfiHere cum extenfione * foliditate, et drati ' diametros, elTe inæquales, contra vero  ^ æquales diametros circuli. Ita in re noftra, fuf'‘ikit agnoviffe, cogitationem, fimplicitatem iqi 'Ente cogitante, requirere e contrario extenfiQ*   nem, e pluribus coagmentationem : agendi facul- ^  tatem fua fponte, lua propria eIe6lione, et quidem libera ( qu* humanæ Mentis eft propria )- f^X iis, quæ haftenus profequuti fumus, difficile non eft. Mentis hu« '  manæ naturam et genus definire. Cum enim cogitationes, ac volitiones Hominis nequeant ef-fc e temperatione ODrporis: Rurfus>  cum neque cogitandi, ac libere agendi vis, quæ  hominis e ff propria, fubftantiæ extcnfæ, multi' plici, inerti,cojufmodi lunt quot quot ad ftnfibilem Mundum (peffant, cohvenire poffit ( art. 3. ):  Agnofcere hinc cogimur fubje£fum noftratum  cogitationum, et volitionum effe debere vere,  & phyficc fimplex, ac alius prorfus generis,  quani lunt 'Entia quævis fenfibilia.   §123. Neque fuipicari 'pofTumus, humanarum  cogitationum, ac volitionum *fubje£lum e genere cfie elementorum corporflm., quæ ex noffra  fentertia ( Materiali ftis tamen ncn accepta ),  funt'& ipfa phyficc fimplicia,co/.   Nam I. corporum elementa fola gaudere vi motrice ftatuimus, quemadmodum fingula phænomena  edoctnt: cogitandi autem vis omnino alia eff a  vi motrice, neque ut ejus 'temperatio quævis  interpretari poteft. II. Corporum elementa funt  natura lua inertia : inertiæ autem. pugnat illa  cogitandi,* et libere agendi iacultss, qua fua natu«  psy:hologia ‘   ra Mens humana juadet : id qiKxl ewncit quoI que, neque ex div na virtute corporum elemeB-'*  lis Subjlantia nuncipari.   125. Opponunt Epicurei : I. Anima in '  corpus agit, et viciflim corpus in Animam.  Similis ergo eft utriufque fubftantiæ natura: qut  enim fubftantia extenfa in fimplicem, et viciflim, agere poflet ? II. Animi ftatus determinatur a ftatu corporis : ægra quippe eft Mens,  triftis, lata, delira &c. juxta diverfos corporis  ftatus • et e contrario, pluries corporis ftatus ex  Animi ideis et modificationibus pendet.   12 ( 5. Refpondemus ; I. fubflantia extenja in Jimplicem agit ? (tf) Norunt’ ne melius   Ad  I nui  '  Ii—. II l 1 i  a K V  Juxta opinionem quam in onrdiogia §. fequut^,  fiimus, qu 2 v is fubftantia natura fua.fimplex eft, ipfa,  corporum elementa vere fimplicia funt §.i6wC^/'  stantiam ( fcilicet "Mentem ) agunt? In nostra ergo da* >  fimplkitate elementorum tenrenria" evanefcftt omoino iHa'  apparens contradidio, quæ primo occurrit, cum invicem^   conferuntur extenfio, qua; corporis est proprietas (( nem-^  pe_ phamomenun pendens ex plurium C0mristenria)^&fimpUeius; qu£ est Mentis.. \  .1 ’ ' •.  Adverfarii, quf corpora invicon inter fe aganf,  pufa, qu? magnes trahat ferrim ? Corpus equidem in corpus agit, neque ttmen de hoc phænomeno adeo fenfibus obvio, tot tantifque experimentis, et oblervationibu} undique expenib,  probabilem, imrao verofimiicm explicationem  protulere. Quid ergo mirum, fi æque ignorare nos fatemur, quomodo Mens ( fubftantia^firaplex ) in corpus, et corpus viciffim in 'Mejitem agat ? Itaque infeite nimis Epicurei ex hac  «oftra ignorantia contendunt, unam, eamdemque  naturam utrique fubftantiæ tribuendam. Simplicitas certe humanæ Mentis apodiftice cft dcnionftrata. Evidentibus ne demonftrationibus vai  ledicemus, et in innumeras nos conjiciemus contradi6iiones, quia phænomenon, cui explicando  pares non lumus, occurrit, aftio fcilicet Mentis in corpus, et corporis in Mentem ?( I -I '   * id) Mons fenfuuih confnetndir» abrepta nihil follicita  4St rationem, investigate reciproca; corporum inter fk  aiflionis^ feque intelligere putat, quod profoiAo non inf  teJiipit"*» Deinde reciprocæ aftionis notio, quam fenfuum  ministerio nobis' comparavimus,* perpetuo stipata occurrit cum' idea fimilitudinis -naturse, Teu generis Entium inter /e a,{enrium. -ista idearum. adfociarione illuhs, tecl{HTOca Entium diverii generis inter fe a^io extra communes ideas vagari videtur ; atqui noonifi fumina infeitia,  Si. temeritate inter impolIiblU» rejkl potest *    $. *   invenire (a) ? Sed d 6 hac re uberius infra €•  differam.   II. Harmonia, quam inter Animi, corporifque determinationes, et ftatus perpetuo experimur, non ex natur* fimilitudine, fed ex qua*  dam reciproca utriufque fubffantix communicatione pendet. Sane cum Homo fit Ens mixtum,  feu individuum ex Mente et corpbre conflans, ejus  Au^or Deus utriufque fubflanti* naturas cudit,  ac temperavit ejufmodi, ut mutuum inter eas  intercederet commercium, alias biceps monftrum  effeciffet. Commercium i(lud,feu mutua iftæc ani-.  mæ, corporisque Temperatio in eo confiflit, ut nc- •  queat Mens, quoufque in corpore degit, inlitarum  fibi facultatum a 6 liones edere, nifi concomitantibus. quibufdam fibrarum cerebri motionibus.; et  c- converfo, nihil queat in corpore ^effici, nifi  affines in Anima refpondeant affectiones. Hinp  fit, ut Anima flatura affumat corporis flatui  affinem ; et e converfo, corporis flatus ab illo  lyientis modificetur. Quo Adverfariorum oppofjtionibus aliqua poffer vis conGflerc, oftehdcn*.  dum ipfis foret, impoffibile effe, fubflantias diverfi generis, et natur* in fe invicem agere,   8c quidem evidentibus rationibus, non infulfa,   8c ridicula captione : id haud concipi poteff,  ergo eft impoffibile. De Commereto Animam inter Cf, Corpus   attentionem ad ea, qusc 'in nobis  ij perpetuo geruntur convertamus,  deprehendemus I. Quoties renfuum organa rite  funt -confHtuta, et actione 'externorom objectorum pultantur, toties Menti etiam n» appellatur. Præter hxc tria ^  nullum aliud lyftma nec eife, nec concipi poffe y videtur.....   4. Tria Jsc fyljcmata copcinna >fimilitudine, e-x duobii horologiis conlonantibus petita, illuftrari pount. Triplici equidem ratione  fieri poteft, ut do horologia lint inter fe con.  lonantia: i. per ifLuxum ^ fi nempe fecerimus,  ut alterum in alrum 'agat ; alterum alterius  motiones excitet ac determinet. %. Si quadam  præordinafione it fapienter eas machinas perfecerimus, ut lingip luas exa£le legei fequentes,  et quin in fe invjem agant, barmoriite fihi perpetuo refpondeani 3. Si opificem operi cwnitcm  vigilem, ac perriuum 'adjiciamus, qiri fiugulis  momentis alterii motum unius motui» attemperet, 3 c alterurex altero dirigat Erit modo opifex harrniæ inter utrumque horologium intercede s efficiens CaulTa, ipfa Vero  horologia cauffauafionales.     ff    >      * i •    /   V'' i    ' sAdfi flentia SyfleMa.expendhu* f' ac' refutatHr.  O Yftema adfiftw*ntk _^Malebranchium  ‘ primum habet Aiflorem. Nc»   torporm ( ita ille )non poffunt vera Cauffa ul' ' lius rei, Mentes etiam[ uciiiflima i» eadem  ' verfantur impotentia. Nihil loffunt cogttofcere,  nifi' Deus illas > illuminet. Nhil poffunt feriti're i nifi Deus- illas modijeet. Nihil pof' JuMt velle'' ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat,  l' ‘. Cauffa naturales nor. funt vera eaufl  ' t f a. Nihil funt \ quryn. Catffa oceafionales,  qua non agunt, nifi vi, C? efficacia voluntadivina.. Hinc igitur concludendum efl,    homines quidem.velle (movere trachium, fed Deum  > Joium poffe, O" noffe illud nOvere. (a)   r ^ 1^4. Alii moderatius opinantes lolam vim  fentiendi corporis modificationes Animæ dene*  . gant y et vira corporis motricem. Deus ; in*  ', 'quittht, fenfationes Animat ingenerat ex occa. ” ^iione motionum corporis, nec non. motiones in  corpore ex occafione volitionum, et affeflionum    • Animæ, idque.conformiter legibus a.fe fiatutis:  ^ Cæteras vero ideas ex (enfuu!n motidnibus miinæ- pendentes ipfa' libi Mens cudit meditatio ne, abfiaa^ione, ratiocinio ''&c. ex antehabiris  tdeis a Deo imprciTis occafione motionum corpo.  * i ' t-i r   (a) Hecher. de' la veriti lib. fiuiem, chap, traif.  /econd,>part.    bG rfoph»nti vacuum,   ac prorfuS ebramentititim videri" iftud OceaGonalidarum fyfteln^i’hihil dubito. Equidem, ut  merito inquit Tullius, magna flultitia efi earumterum- Deos facere effe£hores\ 'Cauffas 'rerum nort  quterere - quidquid enim' oritur, ' quaUcunque ilm  tud sJt, cauffam 'hSbeat a ' natura^ neceffe eji.  Sane Philolbphf V^ferum naturaliurii’' -cauffas ia«  quirentes, haud Gbi proponunt primam', et uni«  verfalem Cauifam determinare ( ecquis ignorat)  rerum omnium Caudam primam, et univerfalem Deum eflel ), fed aliam pratter Deum quæ»  runt, quæ Geuti a ‘Deo ipfo exidenttem lufce*  pit, ita et ageriiii" facultate’ ab-e^em> prajdjta i  propria, et i m mediata -phyGca actione effectum  producat. ‘Porro in 'syflbmate-* adGftehtiæ" omnis  bujurmodi caufla fubmovetur, Deus in raa*  chinam advocatur. Vacuum^ proiade eft. hujufjmodi (ydfema’^, &“ philofopho indignum Nonno  deridiculus eflet^^qui interroganti eccur Magnes  trahit ferrum* eoalr" Maris aquas pene lenis  quibufque horis '-intumefcaht, tu*!!! alternatim,  ^tumclcant, gravittr refponderet, id ex ea   ‘ Q.'' ' •   . iti i, Dt' divinat.^ Si  fieri, quod Deus, juxta ftatut.m fibi ipfi legem,  ad magnetis prælcntiam, ferrum ad magnetem  ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vicibus elevet, ac deprimat ex occafione determinati aipe^us Luræ ? Ecquid philolophia iflEæe muliercularum infciiia, omnia ad immedia«  tam Dei virtutem referentium, piæflaret?   1^6 Atqui, inquiunt, iniolubilis. alias  eft nodus commercium Animam inter^ et corpus. QuaG nempe in adnilentiæ fyftemate perdifficilis hic nodus folvatur, non amputetur  potius. Jam vero, quod Animæ, et corporis  commercium fit, phænomenon inexplicabile, id  trguit quidem,noftram ignorantiam, non, vero  naturalis caiiOæ- deft£lum. Confer ont. 129.  ' 137- Deinde fi corpori.^ motiones nihil   omnino conferunt ad diverias, Animi perceptiones, cui ufui dicemus fabricata fenluum organa ? Nempe,! inquiunt, iunt fenfuum organa eo  refpe£fu, neceffana, ut ex. horum mutationibus,  tanquam occsdk)nibus,.Deus juxta generales a ie  fancitas leges determinetur ad Animaro diverfifnode modificandam:. Sed iUi^d yelim edoceant  Occafionalilts,. mptationes, quas fenfuum organa fubitura Junt fiupt ne asione circumflantium, ac prementium corporum, tel immediate  a Deo cx eorum occafione ? Si primum afTe>  runt, jam cau^m produnt :. tribuentes enim  corporibus a£f ivam- vim, qua inter fc agere  queant, nuUo jure feofihus, deqegare pofTunt activam vim, qua in Animam agant. Alterum vero  fi- fateantur. ( ut fciiicct ipfi jGbj fint confentanei ),  inutilia efficiunt fenfuum, organa * quippe ex occafione circumflantium corporum 'poteft Deus  illico fenfationes in Animam immittere, quin   fenfuum motiones, ab iplb Deo>excitiaDdat intercedant. Nimirum in adverlariorum fyftemate  circumdantia corpora lunt occafiones, Deo, ut  motiones in fenfuum organis excitet ; deinde  ha: motiones funt rurlus occafiones Deo, cur  fenfationes in Animam immittat. Non ne breviori via, &' fapientiori confilio faftum. effet,  fi 'leniationes immediate circumdantium corpo' rum occafionem fequerentur ex ipfius Dei aftione, quin fenfuUm. motiones intercederent ? Sane  non funt multiplicanda, entia fine necelTitate,  et fi^uftra fit per plura, quod fieri poteft per  pauciora. Vel ergo. Deus inconfulto egit hominem fenfibus ornanda, vel noftrorum fenfuum,  totiufque corporis exiftentia ludrica rescft. Con^  fer quæ diximus in nota iTq. ont..   > ; 1. iir..   • *' i ' '  Harmonia praflabilita fyflema a Lelkniti»,  . propqfitum’ exponitur y atque rejicitur..   i tV.' 1 i ; ' ' ' r i » i '   138. T Eibnrtius, Vir et acumine, et fub^  ri*'-'!- limitare ingenii. nulli certe fe^   cUhdus, quo mirabilem Mentis, et corporis hatH  moniam expediret, ita philofophatus eft. t  Et r. quod ad Animas. fpe£lat, pofuit,i. Hominum Mentes vi fibi repræfentandi Univcrfum  prædiras efre,& quafi mappam cofmographicam.  interius geftare ; Nempe efle in continuata ferie  cogitationum, et appetitionum ie ita excipiens   Q, 2 tiura.    Digilized by Googie     ^4 PSYCHOLOGIA   tium, ut quævis cogitatio contineat fufficfentem rationem fubfequentis : et quivis Animje  flatus antecedens gravidus fit pofterioris. 2. Quamlibet Animam cx fua effentia, ac natura propriam habere cogitationum, et appetitionum,  leriem, et cur potius talem, quam alteram.•  Hinc Mentem automaton fpirituale dixit Leib;  nitius., II. Quod vero humana corpora, refpicit, cen- fuit, I. quod vis corpus automaton effe vi, fibi.  propria, et fua natura fingulas. fubiens motio-,  nes etiam in continuata ferie, ut adeo quzvis:  antecedens motio lufficientem habeat -rationem  fabCequcntis : 2. nec noq ex fua natura habere,  ut talem potius, quam aliam feriem motionum  ceperit, profequatur, modificcfque juxta varias  circumflantium corporum actiones, et cpnve-r  njenter legibus mechanicis.   III. Hilce pofitis principiis ita profequutus  eft. Deus infinitas numero Merttes, et corpora  fibi quam diftinftilfime repr*fentans, prxordinavit, eas': Mentes V caque Corpora confociai^, .quorum feries. operationum ac.flatuum perpetuo harmonicæ elfent, et apprime confentientes,  Ex hat perfeftj operationupi utriufquf autotna^  ton harmonia fieri cenfiiit, ut videatur Anima  in cqrpos-agerC, et vicilfim. At vero nihil inter fe mutuo agunt ; utrumque quam cepit ex  lua natura operationum feriera, camdem vi fua  perfequitur, et independenter a vi, et operationum  Icrie alterius, quin nimirum, alterum in alterum  agat: et ita, quidem, ut ufraque fubflantia. feu  Autpmatop4^ Mcns fciJicct.^ corpus, eamdetn;   operationum feriem cepiflTet, ac deinde perfequeretur, etiam Ci fejun£lim' altera ab altera  exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita  fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at  extra communes ideas ; et quod nulli fuperex»  fru£lum rationi, mere eft hypotheticum : Id  quod et ipfe ejus Au£Ior, et acerrimi propugnatores WoJphius, et Bilfingerus ingenue funt  falli. Sed expendamus utrum hominis realis naturæ, et phænomenis conveniat.   140. Principio ponitur in hoc fyftemate  Mentem in continua verfari cogitationum feriO,  quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis contineat / id porro eft, quod hominis  realis phænomenis pugnare, et fine fufficienti  ratione pronunciatum efle, perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*.  nuenlis ; fumat quis i» manus Itxkum aliquod  lingua alicujus, catalogum plantarum \ animan*  tium, aut aliarum rerum, di£iionaria artium,  fcientiarum, bifloriarum j intra- horam percurre»  re poteji duo millia verborum idearum inter fs  nullo modo connexarum, plantatum dljffimilium.  animantium y artium, faStorum, hominum illtiflri*  um. Quis ia omnibus his dixerit rationem pojte*  rioris idea aut pereeptionis contineri in anteric»  re y et non potius in imprejfionihus in fenfibus \  aut cerebro faflls ? Ex. gr. lego hac verba y '%/fa»  ron,,Ari/lides y ^ri/lippusy * 4 verrobs y Buflris y  Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y -Cefenates.^ Centaurus^.David y Delphus;  Dido, Dantes, totidem,\obverfantur menti   Q.‘i   De Commento Animam inter &. Corpus  attentionem ad ea, qua; "in nokis  iJ perpetuo geruntur convertamus,  deprehendemus I. Quoties fenfuum organa rite  funt -confHtuta, et actione 'externorum objedto»  rum pullantur, toties Menti etiam nolenti-* pras»  fto occurrunt eorumdem notiones, et quidem >  vivldai, vel confufæ in ratione irritationum in  ipfis fenfuum, organis factarum, et ad cercbratn  ufque productarum' II. Etiam Corporis.affe»  ctiones in Animam redundare videntur,-_Mens  nempe (latum adfumit corporis (latui afHnem 4  ita ex. 'gr.' 'læta eft, et viribus erecta-, (i corporis temperatio vegetior (it, et valeat • tridis  e contrario, 5c veluti dejecta^^ corporis temperatione 'ientcfcente, torpentrbufque viribus; ha.  bilis expedita in fuis obeundis operationibus,  vel e contrario tarda, ac incerta,' juxta æquilibratam', Vel turbatam fui corporis conflitutioncm.   ' III. VicifBm. Ex Mentis arbitrio extemplo’  torporis membra' motiones lubeunt, quæ nie-'^  ^anicJt- eorum (Iructutæ fuiit conformes, et io  his r.|nvdiu durant, quatmdiu 'Menti libuerit. •  ly. Nec' non Anjmj jdta:,& affectiones pluTimum modificant corpus', ut adeo in corpus  ipfum manare videantur. Sic animo ira concitato rubent oculi, faciei et totius- corporis niu,  fculi^tcpJunrur. Invidus alterius macrefcit rckus opirarn: &t..'-r,   i»8.  Hzc phainomena ne dum miram intercedere harmoniam oftcndunt Animam inter  et corpus; fed et mutuam dependentiam ftatuere videntur, nec non arctiliimum vinculum,  quo invicem inter fe con(ociantur. Equidem  vinculum iftud, quodcumque tandem fit, ficuti  præter noftri arbitrium feniel conftitutum cft:,  ita prjeter noftri imperium, qupad vivimus,  pergit, ac tandem diflblvitur. Ffthæc liartnonia,  qua Animi affectiones, notionelque'* apprime  rdpondent temperationi, ac motionibus corporis ab externa cauffa illatis,* et qua vicifiim corporis motiones atque ftatus, ideas, affectionefque Animi, feqUuntur, commercii nomine venit. Perdifficilis heic occurrit inquifitio;  qui Commercium iftud Mentis &' corporis ablolvitur? Difficultas maxima in eo primum con*  fiftcre videtur, quod Mens et corpus fint. naturæ  toto cælo diverfæ ; deinde, quæ funt corporis,  et fibrarum cerebri motiones, excitant in Anima perceptiones, notionesque ^ et viciffim, quas  funt Animi ideæ, et volitiones, in corporis fibras, et membra, motum cient,. 'Definiuntur hypotbefes, ^ua hlfce fuperjirui  pojfunt Metapb/fieorum fyfiemdta ad  exptieandum Mentis humana > et  Corporis commercium.   y* mirabilem harmoniam Mentem   humanam inter 8c corpus expen^  ». dens, ejus rationes inquirere fa i * tagit, protinus agnofcit jnonnifi alteram dua*  . • rum fequentium 'hypothefiura pbfle affumi. I!, Vel nempe realem quamdam, et reciprocam in«  ter utram que Tubllantiam actionem intercedere •   ^ ut adeo Anima fua propria actione corpus mo»  dificet, ac moveat: Sc viciflim corpus in Ani®i^m agens illam di verfimode aihciat, variafque  excitet ideas : Vel II, nullum intereffe reale  commercium • Animam inter et corpus, sed  1 tantum apparens • ut ita nulla fit Animai in, corpus a^io, et vicilSm corporis in Animam,  Jicet^ ftabilem in utriufque fubftantiæ ftatu harv^moniam confiftere deprehendamus •'*, '   ^ Syftemata,qux priori hypothefi inædificantur ve/ pbyfici influxus de nominari merito poffunt, Altera vero hypothefis  ad duo diverfi genens fyftemata abire cogit. V^l  enim deveniendum eft ad quamdam prseordjn^tioncni a fupremo rerum omnium Opifice faflaip,  qua dua! fubftantije, Anfma et Corpus, propri'i  quidem vi, at fcorfim, quin altera ab altera  ullo pa£lp pendeat, Tuarum aftionum fimilem   -.A.    « •   8c confonjtn lenem perhcientes,   invicem lint    confociatæ. et lyftema iftud harmoma ^rajlab‘f  litte nomine defjgfcatur.* Vel ftatuendum cft,  Animæ, et Cor|^ri perpetuo adefle. vigilem et  fatis potentem Cauffam, quse juxta corporis flatum', fingulafque fenluum determinationes, Ani- mam fimiliter afficiat, et conlonas iii, ea gigrtaf ‘  notionesj ac vicifim, juxta diverfum ' Anirr.as  ftatum, ejufque dverlas determinationes limilitcr modificet corjbus, et varios in eo motus  cieat' et hoc syft ma adfiftentite, vel- caUffa»  rum occafionalium appellatur. Præter hæc triai,.»  nullum aliud lyftema nec effe, nec concipi pofIc y videtur.., t.  4. 131. Tria h*c fyljcmata concinna \fimili- t  tudine, ex duobus horologiis conlonantibus petita, illuftrari poffunt. Triplici equidem ratione  fieri potefl, ut duo horologia fint inter fe coa»  lonantia: i. per influxum^ fi nempe fecerimus,  ut alterum in alterum 'agat ; alterum alterius  motiones exciret, ac determinet, a. Si quadam  præordinafione ita lapienter eas machinas perfecerimus, ut lingulaz luas cxa 6 le leges fequentes;  et quin in fc invicem agant, barmoniee fihi perpetuo refpondeantj Si opificem operi comitem '  vigilem, ac perpetuum 'adjiciamus, qui lingulis  momentis alterius motum unius mgtuir^ -attemperet, et alterum ex altero dirigat ‘. Erit modo opifex harmoniæ inter utrumque horologium intercedentis efficiens Cauffa, ipfa Vero  horologia cauffa accafionaUs.  n mod»  ' corftrx ( ita ille )noa poffunt 'effe verg Cauffa ullius rei, Mentes etiam' uobHijfima in eadem  ’ wrfantaf' impotentia. Nibil poffunt cognofcere ^  nifi Deus itlas^ illuminet. Nibil poffunt 'fentire / nifi Deus- illas modificet, Nihil pofjunt velle'- ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat.  . Cauffa naturales non funt vhra eauf'V fie Nibil funt \ qutyn. Cauffa occafionaies,   * qua non agunt, nifi vi, et efficacia volunii'  divina... Hinc igitur concludendum efi,  ‘' homines quidem. velle  ^fio ne motionum corporis, nec non. motiones in  corpoM ex occafione volitionum, 8? affeflionum  ' •Animæ, idque^conformiter legibus a /e (latutis:  ^ CaiTtras vero ideas ex ienfuum motidnibus mi^ ^1» ime- pendentes ipfa fibi^Mans cudit meditatione, abflEaSro&e, ratiocinio &c. ex antehabitis  tfdeic a Deo impre,flis occafione motionum cor poRecber'. de la veriti lib. fiteiem. chap, treif.  fecotui.-Part,   t    b,’.C *i’'‘i 8^  pdris Atqui Alii lyftemati caulTaruni occafio»  nalium tenacius ‘adhærentes, has ipfas ideas a  Deo 'infundi perhibent oc  inodi lyftfema ; et philofopho indignum.'' Nonno  deridiculus effet'''qui interroganti eccur -Magnes  trahit ferrumi' eocilr” Maris aquas pene lenis  quibufque horis '-'intumefeant, tum alternarim  ^tunfielcant, graviter refpohdcret, id ex ea   ' ' Q ' " ' • -fie   .(a) '• JL' i. De divinat. fieri, quod Deus, juxta ftatut,m fibi ipfi legem"'*,  ad magnetis prælcmiam ferrum ad magnetem  ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vjcibus elevet, ac deprimat ex occafione deter«  minati aipecfus Lunse ? Ecquid philolophia i Illise {nuliercularum infciiia, omnia ad iromedia^  tam Dei virtutem referentium, pt*Haret?   i^S Atqui, ir^uiunt, infolubilis. alm  eft nodus commercium Animam inter^ 8 c corpus. QuaG nem,pe in adfiftentis^fyftetnate perdifficilis hic nodus Iblvatur, non amputetur  potius. Jam vero, quod Anim*, et corporis  commercium fit,ph*nomenon, inexplicabile, id  trguit quidem vjnoftram ignorantiam, non,vero  naturalis catUiæ defe£lum. Confer ont. jzp.  - J37. Deinde fi corpo^i$ motiones nihi^   omnino conferunt ad diverfas, Animi perceptiones, cui ufuj dicem.us fabricata fenfuum organa ? Nem{%,: inquiunt, iunt fenfuum organa eo  refpe£lu. nccefTari», ut ex. horum mutationibus,  tanquam occafiunibus, Deus juxta generales a fe  fancitas leges }i MenS;fcili.cet et corpus, eamdem.:  operationum feriem cepiflct, ac deinde perfe*  queretur, etiam fi fcjun£lim' altera ab altera  exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita  fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at  extra communes ideas ‘ 8c quod nulli luperex»  fruftum rationi, mere eft hypotheticum : Id  quod et ipfe ejus Auftor, et acerrimi propugnatores Wolphius, et Bilfingerus ingenue funt  fafU.Sed expendamus utrum hominis realis naturæ, et phænomenis conveniat.   §. 140. Principio ponitur in hoc fyftemate  Mentem in continua verfari cogitationum fcric',  quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis contineat,* id porro eft, quod hominis  realis phænomenis pugnare, et fine fuffirienti  ratione pronunciatum efle, perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*ruenfis : fumat quii in manus lexicum aliquod  lingua aticujus, catalogum plantarum, animan*  tium, aut aliarum rerum, di^ionaria artium,  fcientiarum, bifloriarum j intra- horam percurre»  re pote/i duo millia verborum idearum inter fe  nullo modo connexarum, plantarum dlffimiliuni.  animantium y artium y fa Siorum y hominum illujlrt^  um. Quis in amnibus his dixerit rationem pofie»  rioris idea aut pereeptionii contineri in anteric»  rcy et non potius in imprejfionibus in fenfibus i  aut cerebro faSlls ? Ex. gr. lego hac verba, “i^a*  tony tAri/lides, tAriftippuSy *AverroSsy Bufiris,  Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y Cefenates..y Centaurus^ Davidy Delphus,  Dido, Dantes, totidem.\obverfantur menti    perceptiones y efl autem quis Adeo ineptus qui di»  cat y rationem Jufficientem notionis ^ 4 rijlidis efft  in perceptione fuwmi Sacerdotis » 4,ironis, */Triflippi notionis in i^rifiidey -^-verrois in x^ri/lip^  po &c,.... niji hac componant Leibnitiani y  fciant y neminem effe adeo incogitantem, qui hac  Jibi velit perfuadere. Sunt, inquiunt, rationes ^ uf^  fidentes, quas non pervidemus,* fci licet ita lu»  dere cum pueris potuit renatus Pythagoras, ut  jis una e(fet^.rat'Oy ipfe dtxit e at philofophis ut  nova doSlrlna perfuadeatur, rationes faltem pro habiles reddenda junt rhefim rcfta in iciealifmum, tum et egoifi  mum ducere. In animum quis ponat luum,  Mentem automatoA elfe ejulmodi, ut vi et na.  tura fua independebter a quavis extrinfeca cauffa in fua verfetur perceptionum fcrie, undcnam  refcire poterit, fpe£labilem Mundum, ipfum*  que fuum corpus exiftere ? Perceptionum feries,  utpote ex Animi natura manans, eadem evolveretur etiam fa£la hypothefi, qua nullus exifle*  ret Mundus, nullum ^corpus, nulla alia Mens.  Equidem Animi ideæ realem libi vindicant exiftp^tiam, funt quippe iplius Animi modificationes, quas interiori fenfu perfentifcimus  atque adeo de ideali Mundi exifientia certi efficimur. Sed cum hæ ideæ nullatenus ab extrinfeco pendeant, nullatenus conftarc poterit,  extra ipfam Mentem cogitantem aliquid reale  exifiere. Caujfalitatis jyfiema Peripateticum exponitur^ et  exfufflatur.,. .,^^ AufTalltatis, feu phyfici influxu»  V y iyflema a.Peripatericis peflime «  Sc portentole expofitura i. duplicem Animas tribuit intelle6Ium, agentem unum, patientem alterum ; i. duplicem pojnit idearum, feu fpecierum naturam, quas imprejjfas dicunt, et expreffas. Hifce pofitis principiis, ita rem expediri  putant. Externa objecta ftatim ac in corporis organa fenforia agunt, commotionem in fibris excitant, quz ad* cerebrum illico perducitur. Hanc fibrarum cerebri commotionem ideam materialem, et fpeciem imprejfam dicunt. Imprefla ifth*Ec fpecies ab agente intelleHu arripitur, et fpiritualiratur, feu in ideam vere talem, et perceptibilem convertitur, et in inteU  ie$lu patiente exprimitur, a quo propterea percipitur • et hasc vpcatur idea exprtffa • Simili  modo ungulas corporis affe£liones Animz communicantur. Quod vero fpe£lat corporis motiones ex Animi imperio derivantes, inquiunt,  vim quamdam ‘ex Anima in corpus manare, et  eorporatig^ari, ejufque membra agere juxta determinationem ab Anima acceptam.   145. Portentofam opinionem expofuifle,  confutafie eft : neque enim operas pretium cft  in ea diutius immorari. Alias ergo concipiendum cft caulTalitatis fyftema. Cauffalltatts fyjlema novo conamine expomtut,  quidque tandem fentiendum fit de *^nima,   Cr corporis commercio edocetur,   146. T Ictt cAuflaiitatIs fyftema feffime Gj  i A a Peripateticis expofitum, Gaud  tamen ab eo recedendum videtur j fed potius  novo conamine, fi Superis placet purgatiori  philofophia duce adriiti debemus. in eo, adornando. Sane cujufque phænomeni-'fua. fufficiens  ratio effe debet. Cum ergo ratio fufficiens har*  moniæ Animam inter-& corpus nequeat aliunde  derivari, quam ex altero trium fyftemafum, feft cum coV.  S   cum ad hominem conftituendum natura fua fi   deftinata. ;a. ; /«mnrU in   ir. Quod vero fpectat "   Animam, quid pugnat aflerere, A”'™" '   effe natur*, ut affici queat actione et tempe   ratione corporis, ejulque y.m   terminari ad vi T l^cu c)us natura fluentes a modificat, vl, et F^cu^   liari actione   um ? (a) Nempe vis, qua fubftantia mate  in alteram ejufdem natur*, agens ;   receffum ( fcilicet motum ) gignit, m ulKra   fubftantiam diverf* natur*, An virium, e qui“   if 1 r  I I X.. ,^i,   ' Nolim calumniam quis milii inferat ex hoc ex>•mplo. Quorfum exempla fpe^ent, norunt quotquot  equo judicant )ove, quod femelmonuifle fufticiat. Quod  ad prafens adtinet, aperte dico, vim plantjc vegetari*  vam ex fumma virium omniurti fimplicium fubstantia*  rum, ftu elementorum, quibus planta coalefcit ) confla*  ri i atque adeo yel diflblutis- planta; elementis, vel extra  Ordinem pofitis, violenter aftis, diflbeiatis &c. v \s vegetariva deperit. Contra fe res habet de Anima, qiiat  cum fimplex fit fubstantia j et una, viia^liva cogitandi expoliari non potest ; ad fummum in agendo obtundi  poterit, neuriquam extingui j. fubstantiarum quippe natur* mutuis inter fe aflionibus modificari" quidem' poCftfht*J‘at deteri lifequeunt * i •  bus actiones fluunt fubflantiarum, quibua  vires, ipfa infunt, mutuæque excipiuntur actiones.  At virium quarumvis incomperta nobis cft interior natura, et realis effentia, non fecus ac  fubflantiarum, quibus illæ inlunt. Et quod  ad præfens adtinet., fufflciat animadvertere, i,,  fubflantiarum materialium nos 1 nihil aliud fci pe, nifi quod invicem in:> fe ij^^pt, et in feni'  fus noftros y atque hinc varia^ Meati percipien».  ti phænomena occurrere.^ 2. fimilit^ Jiumanæ  Meritis nihil aliud no« fcire, nifi qnod.firnf*  plex fit fubftantia, fentiens, attentjcns, fibi  confeia &c. Cum igitur intimam realem effentiam ignoremus utriufijue generis fttbiftaqtiariHmyi.  nec, non realem *:naturam virium ;iis ipfitprwinlU*''  hint profecto fierlt neqyit *, quia inexj^caubilCf  fjt phænomenon commdrcium Animam inter  et corpus, ejufque plendi foli^tio etttra hutnai  nas ideas vagetur, ' , C^uo cpgo, inquies, philofophorun\  fpectant theoriæ, et fyftemata ? Nempe huma-.*  næ cognitiones jeapfe circa phænomena verfan-'  tur, non circa phæriomenorum caufiTas. Cum*  enim phænomena vel quamdam inter ie habeant  analogiam, vel qiKemdara nexum, tum alia fint  aliorum modificatioæs* ; in eo totius- philofoi  pbiæ fumma verfatur, ut phænomena peculia».  rifl;.per pauca* quædam generalia, $c lingulis nota,'  ex-po.oaraus, vel per eis fimilia, quæ, magi^  patent. Analyfis,ope Philofophi ex peculipri^  bus phacnomeYiis generalia*,: quorum illa lunt,  niodificationes ;; colligunt : tum inverfa metho»i  do, quam fynthefim appellant, h?ec genepalifj phjEnomena pro principiis ponunt, 8 c in com.  binationes, quas fubire pofTunt, inquirunt • atque hac methodo ratjonem adfignant peculiarium quorumvis phasnomenprum, qua; per illas  combinationes poflibilia funt. Theoriæ itaque,  fyftcniata, explicationes philofophorum &c. peculiaria refpiciunt phænomena ad certam claffem fpeflantia, quatenus ex primitivis, et generalibus phxnomenis derivari poffunt. Jam vero cuna quæritur, quomodo  Anima in corpus, et viciffim corpus in Aninaam agit, patet, primitivi et generalis phænomeni rationem quæri, (icuti in phyficis fi quærerem, quomodo Planetæ in Solem, et Sol viciflim in planetas agit ; qui vegetantia, et animali^ feipia reproducant, et illa exhibeant phænomena, quaj cujufque funt propria &c. Cum  ergo r. virium interior natura lateat * 1. nec  generaliora, et magis fimplicia nobis pateant  ejus generis phznomena, quorum reciproca Mentis, et corporis harmonia fit modificatio, nullam adæquatam, vel fufficientem illjus explicationem adfignare poterunt Metaphyfici. Quam ergo hac de re lupra expofuimus opinionem, et explicationem, mancam effe, et tenebris circumfeptam, ultro fatemur* fed ab ea haud recedendum  putamus, neque ultra follicitos nos effe debere.   153. A£\ionem Animæ in corpus negant  aliqui eo permoti argumento, quod ipHs ignota  fit fibrarum cerebri textura, tum nervorum,  et mufculorum per corpus dimanantium jorigo,  quorum fcilicet ope finguls motiones cieri debent. At id nihil vetat, quominus Animam ex imperio (uum ciere corpus dicamus j quam  enim ii£lioncm in corpus exercere Anima de*  beat, et in quam cerebri partem, experientia  edocetur, quin corpofis et cerebri texturam calleat. Sane videndus, pueros manus, pedelque &c.  diu inordinate geftare, ad objefta parum, aut  nihil dirigere Icicntcs, demum fuoram organorum ulum longa experientia edifeere. Concipe ab. ingeniafo qmdam tArtifice fontem quemdam  ad artis mechanica, et hydraulica amufjim ita  conJlruSum effe, ut quqmprjmum, ajfercuti, per  quos aditus demum ad fontem datur, incedenti*  um grejfu deprimuntur, occulto mechanifmo variarum rotarum y funiumque ope jub affer ibus a b-^  f condit orum, alia atqua aha mirifica f pectes, e  fonte conjejltm profiliant y quales v. g. fontes Kirc herus, Sebottus, alii que dejeribunt. Concipe Jam  tibi y puerulo ad hocce Jptbiaculum edmifjo.y cum  hac adeurrit, "Neptunum cum tridente minaci obviam fieri y dum illæ, Nereides,* ex alia parte  Glaucum marinum y alibi vero Delphinos ^ 0“ fic  porro. Puer ifle mechanifmi abfeonditi ignarus,  nec ad omnia praf entia attentus y non obfervabity  fe revera asione fua producere bofce effe&uSy obfervabit tamen, ft adverfus eam partem procefferit y jemper fibi hoc potius, quam, aliud obviam fieri obJeCium : poterit igitur Jam pro lubitu  hec phtrnomena moderari, ac fi v. g. Neptuni,  ac Jceptri e/ufdem tricipitis contemplatione deleBetur y tff ere y ut prodeat y fi Jcilicet verfus certam plagam adeurrat. Nemo dubitaverity puerum  horum motuum cauffam effe, ac aflione fua phre^  namena producere.  Ve idearum, mfionumque nafura, afque  origine.   154. TNquifitio, quam modo adgredimur,  J. idearum notionumque naturam, atr.  que originem expenfuri, adeo eft cum præce-’  denti, qu* commercium Animam inter, et corpus ifpe^abat, copulata, ut altera ab altera fejungi nullo modo poffit / et qui in una erra*  veri t, in altera per devia pergat, oportet. Multiplices,'dilcrepantefque hac de re philofophorum fententia; nequeunt veritatis confecutionem  difficiliorem, et abftrufiorem, quam reveræft,  non reddere Quare hifcc modo pofthabitis,  tres animadverfienes, quæ ad veritatem capeffendam fternunt viam, in anteceffiim exhibebo, tum rem ipfam expediemus; tandem prasx  cipuas aliorum fententias fummatim exponemus,  ^ breviter perftringemus,, \.   ». i ‘   t/^nimadver/tones • prallmtnares ad idearum,  ' notionumque natufam^ atque originem. ^   i'A •' expifeandam, ‘   155^^ A J^trnadverfro I. Nihil Mens per’ " ‘jfjL cipere potaft nifi in feipfa. Id   equidem loco axioraatj^ haberi poteft; five enim  perceptiones pro aflionibus, live pro.paffioni»   j- J bus Mentis haberi vcJint, funt profe£lo ) piius  Mentis modificationes, et immanentes, non^effluentes. Nequit ergo Mens quidpiara percipere nifi in feipfa. • ' X ’   155. % 4 mmad. IL Cum dicimus; Menteirt  objefta externa percipere, ifthzc reapfe non*  percipit. Si enim ita, cum nihil Mens pfercipere poflit nili in feipfa, vel Objecta, quæ  dicuntur externa, in Mente *formalitcr contineantur oportet, vel ipfa Mens perceptis Objcftia  intime fiat prasfens. Ambo hsc pugnant.  ergo dicimus, Mentem externa obje 6 la pt^eiperc, reapfe oon percipit ipfa objcfta.   §.rea' extra pofitas perci-^^  pere'. Nam i. Si ita: ubinam has rdeas, fcu  imagines refidere' dicemus in Anima ne vel  in cefibro Haud quidem in cerebro; nOi  ^ * R quit    l T>    ai A(  quit quippe Mens quidquam percipere, nifi.iii  fcipfa i’55 ; a. quævis rei -imago nihil eft aliud ^ nifi talis partium ^ difpofitio, ordo, figura,  magnitudo &c., quæ fimilis fjt rei,.cujus eft  imago. Si porro idtæ forent imagines rerum  cerebro expictæ', minimæ cerebri,? fibrillæ tali  ordine,>figura tu, colore &c. componi deberent, ut fimulacrutn rei Menti exhibere ppl^,  fent. Sed nihil præter motum in, cerebri fibris  adeftjcum Menti adfunt ideæ.Neqoeunt* igitur ideas  efle rerum imagines cerebro expictæ.. Ad hæc  g... qui Mens expictas cerebro imagines- iotuc'*  retur, ipfum vero cerebrum nullo, modo? qua»  fi,, nempe pofTit quifpiam pictas in tela figuras  videre,. nec videre telanv ipfam, quæ eft figor»*  rum fubjectum, ' Sed neque poffunt, ideæ efle. imagines Men*  ti percipienti vinJi*ryites v Eft. «nim Mens fim pkx.fubftantia, icuinpfoinde addo pugnat. in faa(H|  rere^imagines exfitbente6,aoagn»tudi«em, fig«9  wm, 'colorem ^ partiup ordindfn 8cc.^,. ac pu»  gnat puncto gefwnetrico triat^lum, polygonum ^.&c. infcribi 4..Deinde rerum ideæ, cum  Menti primo occurrunt, vel ; perpetuo eidem  permanentes inhærent vel femel, perceptæ poft*  hac pereunt, evanefcunt. Si primum Mens '  perennes, ac indeficientes habi^it...pesceptio*  nes rerum olim perceptarum ; Qut -^aim.. fieri  poteft, ut pictas, fibique adhærentes-, 8e immanentes ideas non -advertat? >Si altecuBL, cum- n*i  queat Mehs-objecta- percipere nifi in ideis - hiic«  cvanefcentibus, non poterit Mens ad eatumdem m  nun modo abfcntium contemplatiojMlblvdire^ntfi  iiu r». js.ite«  Malebranchius omnem agendi vim  Entibus creatis denegans, Mentibus etiam' ademit facultatem fibi cudendi' ideas. Hoc autem  potiflimum argumento rem conficere fibi fuafit.   R 4 Ide»    («) Sed hac difficultas ipfum premit A uflorem ideas  a perceptionibus fecernentem. Quis enim ignoti objefU  expreflam imaginem intuens, objeftum illud in imagine  recqgnofcere potest? Non magis profeCTio poterit Mens  in idea feu imagine ipfi oblata objeilum, quod ignorat,  recognofcere et perpetuo ignorabit cujus fit obj'efti iniago illa, qua ipfi obverfatur ^ nifi aliunde, feu extrinfe*  cus moneatur. to+    Idea: :unt ver* realitato: imrao funt realiti-'  tes ipfis corporibus nobiliores, quippe fpirituaJes. Harum itaque produaio nihii diftat a creatione Nequit vero Entibus creatis facultas ereandi ullo paao convenire. Nec iaitur humana’   p >*as libi cudendi.   V Equidem Ide* funt ver* realitates.   at Wa/es ut inquiunt Pbiloiophi, non Mfiam. ah, : feu non funt totidem fubftan- '   •’.P" j', lid totidem Mentis   coptantis affeaiones,, feu modificationes, cu julmodi funt volmones, et nolitiones. CunC  Itaque communi Phdofophorum fenfu creatio fit  fubfiamiaimm ptodua.o ea nihilo: idearum pro.  duaio toto calo dillabit a creatione, et „ihil  vetabt.eam. Anima; tanquam effearici caufTa;,  adjudicare. Re quidem vera, ide* refpcau Meo.  tis perinde fe habent ac volitiones, nolitionef.  que r utr*que enim funt >/us, modificationes.   Si Idearum Produaiva facultas Animæ repugnat, que pugnabit ipfam Cbi ede iuarum volitiol  num efreancera caudam, eritque.Mens crudus,  putufque later. Quod fi volitiones merito Ani'   Z’ 31 “"' f ‘"‘>“'"d* veni,   unt nihil profeao vetare poteft, qui„ eidem   adjudicemus facultatem fibi ipfi cudendi ideas.  Quadam Pbtlofopborum placita, qttof idearum   I JpeBant originem fy breviter exponuntur.   \6j. idearum origine communior xn«   I ^ fer Peripateticos Tententia fuit,  Nihil effe in intelleBu, quod ^ius non fuerit in  fenfu : omnes nempe ideas primam petere ori»,  ginem ex fenfuum minifterio. Atqui fententiam  iftam per duplicem intelleftum agentem y ^patientem exponebant. ; qu* quidem hypothefis purum eft, putumque figmentum a communi abhorrens ritione.  Malebranchius de idearum origine  fingularem prorfus fententiam coluit. Hic fuo  inh*rcns fydemati, etiam nobiliffmas,in   ea ' verfari impotentia, ut nequeant effe vera  cauffa ullius rei, commentus eft, nihil eas c»m  gnofcere poffe y ni fi Deus illas illuminet 133.  Nempe ut alibi {a) clarius.* Sciendum eft, Deum  mentibus neftris prafentla Jua arhlijpme uniri »  adeo, ut Deus dici poffit locus fpirituum y quem»  admodum fpatium eft locus corporum. Mens itaque in Deo poteft videre opera Dei y dummodo  Deus velit ipfi retegere id^ quod in fe habet,  quod illa reprafentat opera y nempe ideas, quas  in fe habet.   i6p. Atqui Humanam Mentem omnia in  Deo videre, adeo communi fenfui occurrit, ut   ne - *..4 •'   dU  . R^her. de la verit. l. Jt p, z, ch. 6 4  nemo Sapicntum fententiam iftam adunco nor  exceperit nafo : nec fine ratione, etfi injuriofe.  de eo d:clum fuerit, Ipje, qui omnia in Dec  cernit y haud videt fe injanire '{a). Quifque-^intciligit, fententiam iftam, præter cætera, quid*  piam ftatuere, quod cum Dei bonitate et fapientia minime congruere potefl: *' tum rcfta ad  pantheifmum ducere.   170. Plures e Cartefianorum familia triplex idearum genus (latuerunt:, qua*   'nimirum Menti occurrunt ex occafione motionum in organis fenforiis excitarum ab externis   '^objectis; quas nempe Mens fibi cudit   cx adventitiis ideis • tandem innatas, quas fcilicet, neque fcnluum fubfidio, neque reflexione partas, rentur : fed a Deo Mentibus noftris  ab ipfo exordio veluti infculptas, ac perpetuo  immanentes arbitrantur.   17 1. Sed innatas, quas dicunt, ideas, commentitias prorfus e(fe, binis verbis oftendi poteft. Vel enim has ideas idem funt ac perceptiones, vel forms et imagines a perceptionibus  realiter diftinctas. Si* primum, inerunt Menti  tot perennes, et fimultaneæ perceptiones, quot  funt ideas innatas j quod profecto interiori experientias refragatur. Si alterum, contra faciunt, praster alia, quas §. 158. monuimus. Deinde nulla cft fufficiens ratio, eccur præter adventitias, et factitias ideas, alias, quas fint innatas, agnolcamus' cum conflet, nullam omnino     (a) Lui, qui voit teut ^en DitUy nt^voit paSf\qu* il  eji foH.. ’ J  no ideam Menti inefle, cujus exordia c fenlitiva, et reflexiva facultate nequeant quam facile  repeti. Vide, fi lubet, fufe hæc pertractantem  Lockiinn. Efjftff philof. cone- l' entend, htm.   Q A p. X.   Ve Animæ bumanæ origine. L ket humanæ Mentis natura, feu  potius genus, philofophia duce. li  quido confiet, ejus tamen origo adeo tenebris  cft circumfepta, ut potius, quid fentiendum non  Iit, qu»m quod tenere debeamus, intelligere   detur * V. ^ ‘   E veteribus Pythagoras docuit, Deum  cGo •Animum per naturam rerum omnem inten~  commeantem,. ex q»o mflri animi car  tum    perentur (4). Huic turpiflkno.errori adhæfiife  videntur Stoicorum aliqui, ut ex Seneca, et  Epicteto difeimus/ eqmque jam obsoletum itenun  exfufeitavit Spinoza. Hujufce fententiæ abfurditas.tam clare patet, ut illam refutare nec.operæ pretium duco,.,   174. Plato,. qui inter veteres cateris rc.  ctius de Deo philofophatus efi, Animas a Deo  conditas docuit, licet eas quafi partes Animat'  Mundi totius habuerit Id vero Pythagoreis,  et Platonicis commune erat, humanas Animas  primum aftra incoluiffe, et felicem ibi yitam   du- Tullius lib, I. ile nat. d«or. c. ii. tduxifle: hinc vero expulfas, et in humana corpora tanquatn in carceres, detrufas, quo commiffi criminis pznas lucrent: tum ad adra iterum redituras poft corporum diffolutionem, fi  mortalem hanc vitam jufte, et fobrie duxerint,  vel in deteriora corpora migraturas, fi novis  criminibus fe obruerint. Hinc celebris apud  ifios Philofophos Metemp^ycbo/is. Atqui Stoicis  nec Animarum incolatus in aftris, neque earum de corpore in corpus migrationes arridebant ' fed illas pofl: terreni corporis fata ad Eteum, e ‘ quo' dificerptæ erant, iterum redituras  afferebant» ^   175.i^Orlgene^ nimio e.^ga platonicam philofophiam ametrtr’ abreptus Pythagoræ Plato,  nis fententiam emendare ftuduit. Docuit itaque,  Ani mas' nec Dei emanationes effe, nec partes ab  Anima Mundi avulfas, fed a Deo ante corporeum Mundum’ oijines fimul conditas fuiffe cum  intelligibili Mundo • has vero peccaffe a CxmJitort feceiendo'. hinc pro diverfitate peccatorum a  Cteiis' ufqne ad terras diverfa corpora, qua fi vincula, meruijfe. Et hunc ejfe  mundum eamque  cauffam Mundi fuiffe faciendi^ non. ut conderentur bona., fed ut mala cohiberentur. Sed hacc  deliria funt, quæ nec refutari merentur. Leibnitius, Animarum præxiftentiæ  et ipfe favens, aliter rem explicavit. Putavit  nempe, Deum ab ipfo rerum initio omne$ Animas creaffe, ac fingulas totidem organicis corDivus Augujt. Lib. XI. De ejvitat. Dei cap.sj*   ’ lop   pufculis inferuiffe. Hzc iUnt germina humana,  quJB juxta involutorum hypothefim, olim in  JEv» ovario pofita, e Matribus in filias tradu- cuntur. Sententiam hanc Wolfius ambabus ulnis amplexatus eft.• tum Cl. Carolus Boanct fuam fecit. Atqui licet primo adipectu, quo ab  hifce Auftoribus commendatur, haud philofopho indigna videatur, fedulo tamen pcrpcnfa,  et fuas patitur difficultates. v  Tertullianus, et Apollinaris putarunt,  humanas AninTas e parentibus in filios per traducem propagari; hoc eft Animam >h ilii partem efle Animaj parris,' quæ 'filii corpufculo in  matris utero delitelcenti communicatur, et /incffabilirer conjungitur. Sed ifthæc fententia cum  Animæ natura, quæ fimplex omnino eft, et  cujuivis phyficæ coagmentationis nefeia, nullo  modo conciliari poteft. Communis tandem fententia, et profefto   fanior, eft, Animas humanas in dies a Deo creari, et cum tenera fetus corpufculo copulari,  cum iftud fufficientem partium evolutionem, et  organizationem obtinet, qua par fit ‘ad præcipuas vitales operationes obeundas*.-i ! f ’ ‘i. Pa/igini/ff philofo^h. Annihilatio creationi, et confervationPe diarrietro  opponitur. Illa erqoCaufia folum. potest aliquod Eas annihilare, quæ illud creavit, et perenni a^ioce confervat. Sed hujufmodi est tantum Deus: omnes ' tlniveiii  Cauffie funt contingentes, quæ nec fuæ existenttæ, et  confervationis fufficientem in'fe habent rationem. Facultas igitur. quidpiam annihilandi nequit ulli, naturafiuna  cauffarum convenire.   (c) Lib, L tufe, f. jp. ' •dubitare non possumus, nl/i pla*tf  plumbei fumus, quin nibil fit %dnhnls adrnix» ^^  tum, ntbil concretwn, nihil copulatum, nihil  ngmentatum ^ nihil duplex quod cum ita, fit y  qette nec jecerni, nec dividi, nec difcerpi^ nec  diflrahi pote/i, nec, interire igitur. EJI enim in»  iefitus qua fi difcejfus,, &, fecretio, ac diremptui^  earum partium, qua ante interitum jun^ione  'gl   poribus funt interfipta quod.rnimfdo : cum autem  nihU erit prteter v/Ltimum, nulla res objeBa im^  pediet y quo minus percipiat quale quidquam fit.   Ita eleganter Tullius tulc. 1. i. c. zo. {a)   l et    R    T. ir. Mentem humanam ex fui Conditoris voluntate  infpeBam immortalem effe, naturali ^  ratione affevitur,    1S8. T TUmanam Mentem natura fua in*  J. X corruptibilem atque immortalem  clTe, neque ullis^ naturalibus cauffis fieri pofle  ut pereat f jam evicimus. Hzc ratio ingenue  philofophanti fatis foret^ quominus de fuprerni  Conditoris voluntate, illam immortalem fervandi f non ambigeret: nullum enim 'in uni verTa Natura occurrit annihilationis exemplum j  nec quidpiam efl, quod^a fummo Conditore   S z non    (a) Plures eit antiquioribus Phiiofophis, et ex ipfis  Ecclefia; Patribus, quibus incorporalitatis, et iinmoitalitatis Animorunj dogma probatum erat, opinaii  funt, humanas Mentes nunquam omni corpore vacare:*  ut adeo, cum ex ifthoc cra^o, et corruptibili corpore  diflolvuntur, adhuc leviflfimum, ac tenuitTimuin, live  æthereum, et incorruptibile corpus geftent, eoque lint  perpetuo amidse. Sententiam hanc inter Recentiores litam fecit CI. Vir Carolus Bonnet, et communivit noti  contemnendis rationibus ; quam, cum In pluribus locis, tum pr^fertim parte XVI. paligenifie philof. et.-.  pofuit. Si quis in hanc fentenriam defeendere velit, ^  Adveriariis morem geret, et «na fjmul objeilain didir  «ultatem elevabit. itS   non fervetur juxta propriam naturam, et ad  fuos non dirigatur fines. Atqui profani homines, eam non latis effe, contendunt, nec non dolofe  effutiunt, Animæ immortalitatem problema efle, qjuod nequeat fola philofophia extricare: ad  Divinam revelationem idcirco confugiendum neceffario effe, ut conflare queat, Deum pod corporis obitum nolle humanam Mentem delere,  fed,''velle in æternum fervare.   iSp. Ut iflorum levitatem perflringamus,  animadvertant Tyrones, quod quandoque etiam  abfque revelationis face, fed Ibla naturali ratione Divina Voluntas nobis conflare potefl. Etenim ficut naturali ratione plura nobis patent  Divina attributa, ita conflat quoque, non pofTe  Divinam Voluntatem ab illis attributis vel minimum defcilcere, fed iis plane conformem  perpetuo '•effe debere. Si adeo quidpiam Divinis  attributis repugnare clare nofeimus, tuto poffumus decernere, Deum nunquam id velle : et  e contrario perpetuo velle ea, fine quibus farta tc6la conliftere eadem attributa non poffunt.  Hujufmodi porro cfl immortalitas Animorum,  quos fi pofl corporum diflolutionem Divina Voluntas deleret, nequiret Dei Sapientia, Bonitas,  Juflitia, ac Providentia farta te61a permanere.  Rem expendamus. ^   1^. ipo- I. Naturali ratione pleniflime nofejqaus, potiffimam Sapientiæ legem eam effe, ut  fingulorum Entium Naturæ fuis exa£le attemperentur finibus, ut ita nec a præflituto fine, deficiant,- nec ultra redundent, vel extra vageUtur V Quare ficuti ex noto fine, de Entium   na  Diuiii4tj   $4 1 ^ 2. '    fuprerai Numinis revelationem. Audi ut h«c eleganter  profequitur Romanus Philosbphus tufc. qq. c. Maximum argumentum ejl, naturam iffam de immortalifate Animorum tacitam judicare » quod omnibus curttf  funt y maxime ^quidem y qua poft mortem f utura Jint:  ferit arbores, qua alteri Jeculo projit, ut ajt St^tiut  in Synephebis: quid fpetlans, nifi etiam poflera fecula  ad fe pertinere ? Ergo arbores feret diligens agricola y  quarum adfpiciet baccam ipje nunquam : Vir magnu»  seges y injiuuta, rempublicam non feret i Quid propagatio nominis l Quid adoptiones filiorum f Quid teJlamentorum diligentia l Q*dd ipfa f^ultrorum monumenta f Quid elogia figritficant, nifi nos futura etiam  cogitarel.-- Quid in hac republica toty tantof que viros  ob rempublicam interfeSos cogitaffe arbitramur f iifdenx  ne ut finibus nomen fuum, quibus vita terminaretur f  Ne/no unquam fine magna fpe immortalitatis fe pro patria offerret ad mortem: licuit ejfe otiofo Themiftocli \  'Jicuit Epaminonda y licuit, vetera y Cb* externa   •moram, mihi ; fed nefeio quomodo inharet in trpinti%us quqfi feculorttm quoddam augurium futurorum; idque in, maximis ingeniis, dltijfmifque animis ^ exiJiit maxime, iy adparet facillime ; quo quidem demj)to y quis tam ejfet amens y qui femper in laboribuSy iir  periculis viveret' \ loquor de pfinctf ibus : quid poeto t  nonne poji mortem nobilitari volunt t Unde ergo illudf  " Afpicite 0 cives ! Senis Ennii imagini’ formam;   Hic ve*»rum panxit maxima fafta parnm).  Mercedem gloria fiagttat ab iis, quorum patres ^ff)' terat gloria -, idemquey   -• Nemo ire lacrimis decoret, nec funera fletu  > Faxit : Cur? Volito vivu’ per ora virum.   Sed quid poetas l Opifices pofl mortem nobilitari vaiunt quid emm fhidias fui fimUetn fpeciem inculfit ‘ • • >,. 'in-.  '   ip2. IV. Ad Divinam Ipcflat JufHtiatn'^  atque Providentiam hominum virtutes muneribus ac prsEmiis ex merito cumuIafC : ficut c  contrario condignis' poenis '“eorum fl gitia corripere. Eft enim duplex in Univerlo OrAn: phy~  ficus nempe, ac ^moralis 8c ad utrumque Homines procul dubio,, fpt£Iant Si quis hæc in  "Controverfiam adducit, peflime fe de Deo.fendre^oflendit, quafi hic cardinem c*li ambulet,  A n.oftra non confideret: et \r\'*athe'tfmum fivO  IJrolapfum elTe, five jam jam prolabi. Sed experientia Pedante, Kominum virtutes, ac flagitia admodum raro condigna pr^mia ac p»na«  copfequuhtur : ut adeo vetus Iit iquærela', latos  idiu florere nocentes, vexarique pios. Divina ergo Juftitia ac Providentia utique expoftulant *  poft torporum obitum Mentes adhuc • lervari ia .vilam, ina qua bene vel' male TaSIorum præmin  /ecipiant, poenafve luant. Hajc cum naturali  conflent ratione, concludere non dubitamus.,  'plurali quoque" ratione conflare fu mmi Condi‘lofrs voluhtatem de ‘humana Mcnte in æternum servanda. ' /   *in ! "-. l '• J 'i' i . ' ! 3. ' ".au '    :v.  ( I»»» ^. 1.. III i mu iii m ^jWii I. Tufe. qq. I. I.. f. X6, '.,   \ib) ^,   fr) Jn fomn. Scip. /. I. e, X4, > •.,   (,d) "XmIUhs Iw. cit, f. 12,,    1,  w   P */f R S ilu ^.R T ^   y’ Ei ‘ nomine inteJligimus Men»   'n 4 tcm naturæ fuæ nrceffitate   ex i flentem, atque adeo aster aW,®>S   af^isiiaSce AK -omni materiali coneretione fejunfbm, perfe^iffimam,  effectricem et liberam Univerfi Cauffam, ' et  omnia providentem. Equidem Dei notio fu^ conceptu primas Cauffas efficientis Mentibus noflris primum  occurrit,* banc poflmodum rectæ rationis ope  rimantes prolatamus, et attributis, quæ omnimodam continent perfectionem, locupletamus.  Atqui tantum abcfl, nos adæquatam adfequi  poffe pei notionem, eamqu.e verbis exponere,  quantum finitum inter, et infinitum intercedit.  Quf verbis complectemur-; quem natura iua et  effentia undequaque infinitum nulla creata Mens  comprehendere valet Hinc, ingenue fatendum,   aul%*’^  nulla definitione Dei naturam contineri pofle. (a)   3. Facultas, quæ Dei exiftentiam, ejus«.   que attributa rimetur, Theologia audit, quæ in  naturalem^ et difpdcitur. Prima de   Deo differit quantum naturali ratione adfequi  poffumus. Secunda revelationis' face myfteria  pandit, quæ ultra naturalem rationem lunt pdfita. Priorem heic perfequemur, quippe quæ  fola ad Philofophos Ipectat,   4. Nobiliflimam vero, ac jucundiffimam  hanc efle totius Mctaphyfices partem, nulftr*  ambigere poterit. Quid enim pracftantius, quid- ‘  >e jucundius, quam rerum omnium Opificem,  præfentiflimum totius Univerfi Moderatorem,  ac noftri præferrim Parentem optimtim contemplari? Si quod ex cæteris difciplinis folatium,  atquC' in adverbs perfugium, in fecundis rebus animi moderamen, et ornamentum capere poffumus.'inhatc profecto cynnia ex eapotiflimum   uber- /    (a) Merito Thales Milefius, ut Tertullianus refert,  a Crefo qua:fifus, quidvefTet Deus, post multas et multo, studio perquifitas refponfiones, faffus est tandem, fe  nihil adeurare, quod ad rem quadrarer, dixifTe. Idem  de Simonide testatur Tullius de nat. Deor. 1. zi.' Roges  me, quid, aut quale fit Deus ? AuBore utar Simonide : de quo cum qu/efivijfet tyrannus Hiero, deliberandi cauffa fibi unum diem pojiu/avit. Cum idem ex  eo poflridie quareret, biduum petivit. Cum fapius duplicaret numerum dierum, admiranfque Hiero requireret, f«r ita faceret : Quod quanto^ inquit^ d’utius confidero, tanto mihi res videtur obfcurior. Hinc perfpecte monuit divus Augustinus, nihil, quod de Deo  accuratius prsdlcemos, nobis occurrere poITe, aiC quod  U^oiopt^CniibUis fit. naturalis   uberrime confequi poifumus, qu* omnium Lan.  gitorem bonorum, rerum omnium [nfpectorem,   et Proviforem optimum pandit, et in ^uo nos  efle, vivere, et moveri edocet. Tum nihil ea  utilius in univerfa vita civili.* nequeunt enim !  fine legibus, et religione in officio cives contineri n arbitror^ inquit, multas ejje gentes fic immanitate efferatas, ut apud eas nulla fufpicio  deorum fit Cic. de nat. deor. c, 2 ^. Arbitrari  fc, non noviffe, aut fando faltem inteUexiff?,  repoluit. Nullas proptcrea tunc temporis innotuiflfc Gentes fine. Divinitatis perluafione, tacite  fatetur. II. Lucianus, acerrimus equidem Divinitatis, et cujufvis religionis ofor, in dialogo, cui titulus Juppiter tragadus  difputantem  inducit Timoclem religionis cauflTam, et afferentem Gentium omnium hac de re confenHira;  at quid Timodi reponit pamides, fub cujus  nimirum nomine Lucianus 'latet ? Conftahtiffimam, percnnemque gentium confeufionem fibi  objectam ne carpit quidem ; ejus tantum vim  ad demonftrandum, et perfuadendum elevare conatur adductis futilibus omnino excogitatis,  qua mox exfufflabimus. Si quas Gentes exleges, et a religione extorres Lucianus noviffet,  aut fando audiviffet, nura ne fcirpum in ovo  firaulaffet? illas profecto objeciffet, cum nihil  hoc opportunius ad extenuandum Timoclis argumentum afferri potuiffet. Atqui in diverfa  abit Lucianus * dat ergo quod afflv.Tamus,  nullum unquam hominum genus Divinitatis notitia caruiffe. Adeo nimirum Eruditis quibusque innotuit, quod Piutarchus clegantiflime  contra Colotem difputabat: Si univerjam peragraveris terram invenire quidem poteris urbes  sim moenibus, sine litteris^ sine regibus, abfque  teSio divitiis, abfque nummis, theatris, gymnasiis. urbem sine templis, ^ sine Diis,  ^quie precibus, jurejurando careat. nemo  Videt, nec vidit unquam. Quantum vero ponderis ad demon»  ftrandum, et perfuadendura univerfali Gentium  omnium confenfui tribuendum fit, in Logica aperuimus. Rc quidem vera, ea cfl hominum indoles, 8 c ingeniofum conftitutio, ut, fi de re vel  minimum obicura, dubiaque judicium ferre de,  beant, tot fere numerentur fententisE, quot capita : id quod totius humani generis, fed et  præcipue philofophantium hiftoria edocet. Si  itaque quandoque omnes Gentes quacumque tellus patet, omnefque Seftas', licet in cæteris admodum difcrepantes, convenientes omnes ad  unam deprehendimus ; id, in quo conveniunt,  vel communis naturæ lenium, yel naturalis rationis evidentiffimum præceptum, habere debemus. Eft vero omnium ubique Gentium univerfalis et perennis fententia, aliquem effe rerum omnium Opificem, et Rtftorem. Deum  ergo exiftere, inter prima humanæ rationis fcita, vel potius ad communem naturæ fenfum referri debet. Ad rem noftram elegantiflime Balbus apud Tullium. Quid enim ejl  hoc evidentius ? Quod niji cognitum, comprehenfumque animis haberemus,, »0» tam flabilis opt“  nio permaneret f nec confirmaretur diuturnitate  temporis, nec una cum jaculis, atatibufque hominum inveterare potuiffet. Etenim videmus cteteras opiniones fi^as atque vanas diutuVnitatp  extabuiffe. Opinionum enim commenta delet  dies, natura judicia confirmat \   12. Neque fcrupulum faceffat Tyronibus,  j. quod quandoque penes hiftoricos athearum  Gentium meotio occurrat. II. quod infignes ex   t Ve  'i:^o Veteribus Phllofophi inter Atheos reccnfeantur ;  Uti ex. gr Anaxagoras, Diagoras, Protagoras  Anaximander &c., quæ fi vera lunt, haud conflare videtur univcrlalis humani Generis confen»  liis de Supremi aircujus Numinis exiftentia.   Hæc equidem nulJius funt momenti -I. Hiftorici etenim grajci, et lati ni, dum Africanas,  aut Afianas qualdam Nationes inviferent, nec  templa, idola, immenlumque externarum ca:rcmoniarum apparatum habere animadverterent,  Velut quæ antiquo more fub dio, et fine ulla  pompa Deo facrificarent, quemaamodum de veTuftis Parthis retulit Herodotus, in eam venerunt fufpicionem, nullos ab iis Deos coli. Quid  quod iidem Hiftorici idem fecerunt cum Judæis, et Chriflianis ? Accedit eodem, veteres  mercatores, aliofque itineratores aut infeies morum earum Gentium de quibus feribunt, aut  non fatis peritos, ut pretium fuis mercibus,  fuifque itinerariis adderent, atheilmi, et irreligionis infamia illas prafpropere notafle ; qu*  deinde portentolse fabellæ novitatis amore, ut  fit, creditæ funt Hujufce rei exemplum temporibus prope noftris de Huttentottis habemus.  Hi primum pro Atheis in Europa vulgati funt,  et habiti.* at fummum illos agnofeere Deum,  reflatur Andreas Kolbi in hiftoria ejus nationis,  quacum decem annis familiariter uius eft. Philolbphi veteres, qui inter atheos reputati   funt Confulatur Johannes Albertus Fabricius in ApoJogia Generis humani adverfus accufationem atheifnu  THEOLOGIA i?i   funt, nonnifi fumma injuria hanc pafli funt infamiam. Conftat, Anaxagoram atheum e ffe habitum, quod Solem e Deorum numero expunxerit, et ignitum habuerit faxum. Conftat,  Socratem de Divinitatis natura prx cacteris bene  fentientem, (limma invidia, et lethali calumnia atheifmi accufatum, cicutani bibifle. Protagoras i inquit Tullius 1: i. de nat. deor. c,  xq. cum in principio fui Irbri sic pofuiffet. De  diis neque ut sint\ neque ut non sint, habeo di^  tere, ^Atheniensium juffu urbe et ‘ttgro eft exterminatus y librique ejus in concione combufti,  quippe— atheus reputatus eft. Atqui, ut patet,  Protagoras de diis, qui a plebe venerabantur vulgo autem Philofophis, qui præjudicatis opinionibus haud tenebantur, dcfpectui erant, lo»  'qjyitur; non de Divinitate, leu de Deo fummo rerum Opifice. Idem de aliis dicas.♦ folum Epicurus inter atheos recenfendus videtur, etfi de  Epicureis nihil certo conftet, quippe Tullius 1.  cit. c. qo ija habet, novi ego Epicureos omnia  stgiUa venerantes. Jam vero quilibet, cui coit  fapit, optime intelligit, hujufce gregis opinionem, etfi indubie Divinitati aveidam fuifle  jjonamus, nihil communem perennemque humani Generis fententiam labefactare pofte. Sicuti  enim in M-tindo phyfico peculiaria quædani monfira quandoque occurrunt, qua; nihil de ordine  totius detrahunt: ita fimiliter in Mundo morali fieri poteft. Igitur inter opinionum monftra, febrientium deliramenta ifthxc Epicureorum fententia reponenda eft^, quæ nihil de  communi humani Generis fenfu detrahere poteft. Allati fuperius ^ 10 argumenti vim  non fugit profanos homines* hinc omnes intendunt nervos ed earh elevandam. Quare operæ pretium eft, quæ objiciunt potiora, referre,  et explodere Inquiunt itaque   I. Si ex Gentium confenfu aliquid confici  poffet, equidem potius conficeretur, polytheifmum  efle profitendum : nam huic coeno omnes infixas  fuerunt • Atqui nihil magis Dei naturam, quam  polytheifmus, evertit. Quare.neque Dei exifientia ex Gentjum confenfu adftrui poteft. Deinde quot quantæque et Gentium, et Philofophorum diferepantes de Divinitate opiniones ?   deos ejfe dixerunt, inquit Tullius, tanta  funt in varietate y ac diffentione ut torum  “teflum sit dinumerare fententias, .11. Hujufce confenfus origo petenda eft ex  naturalium phasnomenorum timore j quo peis  culfi hominum Animi, quoddam terrificum Numen, fupremamque Virtutem ^ illa phænomena  producentem, fibi effinxere: •   Primus in orbe deos fecit timor, ardua cato  Fulmina cum caderent. Petr. in fat.   Ad hunc adeeffit naturalium cauftarum ignorantia propterea quod Ignorantia caujfarum conferre Deorum CogiV ad imperium res, et concedere rt»  gnum:  Quorum operum cauffas nulla ratione vU  dere   Poffuntf bæ fieri divino numine rentur.   Lucr. 1. 6, V. $1?  Alias Divinitatis notio ex Legumlatorum  calliditate conficta, et populis inculcata. Nempe quo ifti facilius populos legum jugo fub«  mitterent, et in officio continerent, Deorum numine illas leges conferiptas efle, fibique concreditas tradiderunt. Ita Livio tefte, Numas  Pompilius nocturnos congreflus cum Dea Egeria commentus eft, cjufque nurnine ritus diis  gratiffimos fanxifle. Eamdem adhibuerunt artem  Ligurcus, Minos, aliique, Confenfus ergo Gentium, ita concladunt profani homines., in' Divinitatis adftruenda exiftentia nullius eft ponderis.  Ad primum refpondemus. Licet  concedere quis vellet, omnes Gentes polytheifmi cceno volutas, nullo tamen pacto confici  poffet, polytheifmum profitendum efle. Ut iJ  concedi poflet, demonftrandum foret, omnes ad  unam Gentes eofdem et numero, et fpccie  D eos, et perenniter cognovifle ; hi enim funt  veri characteres perennis et univerfalis confenfus,  quem natura; fenfum,8c veritatis vocem efle autumamus. At vero Gentes omnes nec fibi unquam convenerunt, nec quælibet fibi perpetuo  conftitit, quot, qualefve Dii eflent colendi :  ergo nonnifi perperam conficitur, polytheilmum  Gentium confenfione firmari. Itaque Polytheifl*  plures, diverfofque deos agnofeentes, Divinitatis declarant exiftentiam, quippe de qua omnes  conveniunt* at vero fibi invicem contradicentes, tum in numero, tum in fpecie, et natura.  deorum, fcipfos fanatifmi arguunt, fuofque deos   T 3 fua 1 1^4 '   fu a e fle commenta declarant, (a) Si.Phyficos  de corporum eflentia, 'atque natura difputantes  audiamus, non unas numerabimus, nec fine  moleftia difcrepantes fententias. Quid ? num ne  ifti de corporum cxiftentia dubitant ? Minime  profecto,* exiftentiam corporum nifi perfpectam  exploratamque haberent, tot non inftituerent  de eorum effentia, et natura perpetuas concertationes ; jam vero, difcrepantibus fententiis,  fatis clare innuunt, harum nullam certo -ftarc  talo. Sane non heic quærimus qUam recte  homines de Deofentiant,,fed fentiant quidquam,  nec ne. Hæc duo mifcent Adverfarii rvon fine  Logica imperitia, quæ funt omni procul dubio  fccernenda. Quum poflremum conflet inter omres, invictum efl argumentum, cur Deum efle  credamus. Ignorarunt enim vero, et turpiter  hallucinafi funt, qualis eflet habendus, habendum  tamen omnes conftanter tenuere.   II. Atqui nonnifi fumma in Veteres injuria,  vel faltem fumma hiftoriæ imperitia affirmant  Adverfarii, omnes ad unam Gentes polytheismi  ccsno infixas. Nam i. valde probabile efl, polytheifmum, et idololatriam antiquiorem non fuiffe babelica turri, i. De hasbraica Gente unum  Deum colente nullus moveri poteft fcrupulus. 3. De Gentilibus vero, fi ftupidam ple be- Eleganter Tullius more fiw. Itaque inter omnes  omnium gentium Jententia conflat. Omnil/us enim innatum efl i ^ in animei quafi infculptum, effe Deos •  Quales fint, variurri' efl : efl» item» negat. I. a. Indi, Sinenfes, ne quid dicam de Tureis, uni- '   cum fupremum Numen et Regem adorant. i^uttentotti, quai Gens nullo alterius nationis com^ ^ j  mercio unquam ufa. eft, fummum hunc Deum  intelligunt, etfi illi nullum offerant facrificium, nullas preces, quod ajunt, quum fit beatiffimus, nulla re indigere. Priufquam ad II. et KL objectum,   refpondeamus, operæ pretium eft iummam, ac • ,   pene incredibilem Atheorum vecordiam in an, ' '   teceffiim indigitare. Affumunt hi ingenioli oi,   Iputatorcs, id de quo unice quxftio inftituitur   nempe religionem commentum effe, &; fabulam : tum ui cauffas inquirunt erroris, j^rius-, ^   quam errorem effe demonftretit illud, cujus ori, j   gines, et rationes explorant; quo quidem «e- i   Icio an vitiofius, et ineptius aliquid effe pol-. !   fit. Sed expendamus utrum aliquid momenti   infit in objectis.Si prima Divinitatis notio fingulas ; Gentes e ftrepentibus per æra fulminibus per- ^.1   terrefa6Ias invalit, quam profe£\o fortes Atheo-.,   rum Animi, quos unice, nec fulmina terrent, 1   nec nubila fiftuntljam vero lemel pavore con cuffis hominum Mentibus, perpetuo ab eis di-. '.,   fcelfit ratio, et tam longe abiit, ut nunquam '   fepofito terrore rediret, difcuteretque prajudi- :   catam opinionem ? nec feri Nepotes, iplis li-. ‘ ]    w  ig cet Atheis ducibus, et magiftris adnitentlbus,  commentum Avorum nec rejecerunt, nec agnoverunt ? Equidem, quum conflet, diem hominum commenta delere, excutiifTent tandem aliquando Gentes prajjudicatam fententiam, vel  haftenys faltem ad cor rediiffent. Sed contra  efl; quo enim cultiores fuere Gentes ^ et Religioni magis incurabuerunt, et tenacius adhjefere. Deinde Divinitatis notio, quam ubique Gentes olim habuerunt, et modo habent, efl Numinis Uiiiverfi Rectoris, benefici Patris^^hominum felicitati non modo non invidentfs, fed  cumulantis. Si ex terrore, e quo nunquam homines funt expergefacti, ortum duceret Divinitatis notio, profecto hac foret Divinitatis terrifica, hominum bono invidentis, eofque in  tranfverfum agqntis : hujufmodi fane funt idese,  qu2 animis ex terrore informantur.   17. Nec minimum prodefl profanis, naturalium cauflTarum ignorationem afferre, quafi  ex ea hominum Mentes fupremam Virtutem,  feu D um fibi effinxerint. Si ita foret, effet  notio Divinitatis, ac in hanc religio in inversa  ratione feienti*, et cognitionis cauffarum. At  contra efl : fiquidem Gentes literis florentiorcs,  et Divinatis fludiofiores fuere.* fummi int^r ve^  teres Sapientes, Thales, Plato, Socrates &c..accur.itius de Deo loquuti funt, et religiofius fentiere ; inter recentiores Nevvtonus, Eulerus Scc.  et fcripfere elegantiffime, et fumma religione,  coluerunt. Quod ad *Iir. fpectat, perbelle efl obfervare, quomodo profani homines fuo fe jugulant gladio. Qui circumvenire alios fatagunt,  ii Animorum affectiones, quas in hominibus  extare vident, in rem liiam convertere adnituntur, non vero novas in eorum mentes introducere. Legumlatorum itaque calliditas ac  vcrlutia, qua Divinos congrefTus commenti  funt, ne lubjecti populi a legum propofitarum  norma defcifcerent, edocet, populorum Animos  ante imperium imbutos fuine Divinitatis notio,  nc, nec non religioni addictos antequam de rebus publicis condendis quispiam cogitaret. Ita ex.  gr. Numa nunquam colloquia cum Egeria finxi flTet, neque leges ac inftituta fibi ab hac Diva tradita fuiffe, mentitus effet, nifi in populo  Ro nano animadvertiffet notionem Dei alicujus,   et propenlionem ad religionem > alias qui impatientes, elafiicos, et fervitutis nefeios Romanorum Animos duplici graviflimo jugo et  legum latarum, et Divinitatis vindicis fubmittere potuiffet ? Deinde, fi ab imperantibus  in populos derivavit Divinitatis, et religionis  notio, profecto omnibus retro fæculis ante conflitutionem civilis imperii Gentes et Populi,  fuiffent Divinitatis ignari • nec non religione  carerent qui nullis vivunt legibus, neque aliis  parent. Atqui e contrario Nationes, quo primis Mundi cunabulis viciniores, eo magis religiolæ fuiffe comp.riuntur ; neque deficere rc- *  ligionis femina in illorum etiam populorum  Animis, quos nulla civilis focietas colligavit,  penes Doctos omnes confiat.   l.}. Delirationes itaque funt, quæ ab Atheis afferuntur Cauflas univerfalis ^ ac perennis conienfionis Gentium cie Divinitate, ac religio,  ne. Quod fi, Cepofitis Animi Audio, ac prai.  judiciis, veras hujufce conlenfus cauAas inve.  Aigare velimus, nullo negotio deprehendemus,  has fuifle, I. Gentium omnium ex communi fti.  pite, et protoparente originem.* II, Mirificum  Univerli Ipectaculum fingulorum oculis perpetuo præfens. Ex prima equidem factum eft,  ut Filii, ferique Nepotes a parentibus edocti,  primam Divinitatis notionem lacte fimul exceperint. Ex fecunda, ne prima ifthzc notio parentum traditione Animis informata in oblivio- '  nem abiret, quin immo firmaretur in dies.  Haic fecunda Caufia, profecto potior prima, et  ipla fola focordes Animos, vetcrifque traditionis vel immemores, vel indoctas ab Atheifmi  fomno fortiter difeutit, Deumque agnofeere  cogit. De attrihufisy qva Dto ^ u^i Enti a . ' ' fe ^ conveniunt ', ; ' -v  v   t, »   10. T~^Fi exiftentia fub notione primxre.1 J rum.omnium Cauflas effectricis  adverfus profanos homines vindicata, illius modo naturam expendere, operæ pretium eft. Hant-equidem, utpote undequaque infinitam, finitis  Alentibus et brevi admodum intelligentia prædi,  tis, vetitum complecti, et adæquate introlpicere. Quare imbecillitati nofiras conlujentes    theologia 1^9   variis illam adfpectibus feorlim '^contemplandam  fufcipimus, ut quoad fieri pottft, excellentio.  rem iplius cognitionem aflequamnr.   nue I ut Ens a (e ; II- ut Mentem ; III. ut  huius Mundi liberam efficientem cauffam conCderabimus, et in pratcipua inculcemus atmbuta, feu* perfectiones, quæ ei tub hoc triplici  adfpectu conveniunt. Re autem vera, quz icuntur Dei attributa lunt una et fimplex Dm  na Elfentia : W vero nifiil vetat, quin leorfim  ea expendenda fumamus, ne (cilicet u in ni  tate Divinz naturæ deficientes, cæcutiamus omnino, nec dein quidpiam delibare valeamus.   et 21. Cum Deus fit prima rerum omnium  CaulTa, eft idcirco improductus : nequit pro^  inde cxifiere nifi fua vi, et neceffitate luæ Naturæ - Si aliunde fufficientem fuæ exiltentiæ  rationem peteret, non effet prima rerum omnium CaulTa. Patet itaque Deum, efle Ens 9  fe et neceflitate -fuæ naturæ exiftens.   \ ni. Cum ex nihilo nihil fieri queat, neque quidpiam elTe poflit caufla efficiens fui ipfius It. 114, et “8 ; Ens, quod a fc  eft, femper cxtitilTe neceffe eft. Deinde cum  neceflitate et vi fuæ natur* exiftat, nequit Ii*  bi deficere, et ficuti necelTario lemper extitit,  ita et necelTario femper extabit. Deus itaque   eji teternus. r i. - JI. Cum Deus neceflitate fuæ naturæ   exiftat, quidquid ad Dei naturam fpectat, ne celTario pariter exiftit. Quare nihil, quod Uei   eft, nec defecit unquam, nec deficere ullo mo’ do      do pofeft * Dsus adeo eft immutabilis. Finge  fane, Deum mutari pofle : necefle cft, cum  aliquid de novo pofle adfumere, vel aliquid,  quod habebat, ex eo decedere poffe. Utrum vis  dicas, eflfet aliquid in Deo non æternum, nec  neceflitate fuse natur* exiftens, fed contingens.  Id vero eft abfurdum §. zr. Efl proinde Deus  omnino immutabilis - Confer 51. cofmol,   24. Patet hinc i. nullos in Deo efle, nec  effie pofle modos. Sane modorum fufficiens ratio in parte 1'altcm ab externa caufla repetenda  eft ont. 16. Eft vero Deus omnino independens, alias non eflet Eris a fe. Nulli ergo funt  in Deo modi. Quidquid proinde in Deo eft,  ad ejus fpectat naturam, et eflentiam, et neceflarium eft.   25. Ex utroque mox expofito theoremate  patet 2., Deum actu efle, quidquid efle poteft,  et neceffario, et ab sterno; nec ullam realem  fucceflionem in eum cadere pofflp, cujufcunquc  generis ea fingi velit. Sapienter Plato in Timso ERAT, EST, ERIT partes Junt tem»  porrs, male transferuntur ad naturam ater^  nam. Huic EST tantum competit, ERAT vero, ERIT pertinent folummodo ad res in  tempore fluentes ; Junt enim, motiones. Illa fem»  per immutabilis Natura nec fenior, nec /unior  ullo modo effe potej }., Contra Divinam immutabilitatem fequentia obftare videntur.!. Cum Deus Iit æternus, Mundus vero fit in tempore ab eo productus, ex non Creatore factus cft Creator.' reu actionem in tempore edidit, qua ab *terno feriatus eft. II. Cum tanta fit rerum hujus ;Univerfi novitas, 8c mutatio, caque Deum habeat  Auctorem, haud illum eadem femper velle,  oec eadem femper nolle, dicendum eft. III. Cum  nihil Deus neceffitate fuæ naturæ velit, agatque, fed ex liberrima fua voluntate ; profecto  quæ voluit, nolle : et quæ noluit, velle po.  test; id quod certe cum abfoluta immutabilitate conciliari nequit. IV. Vel vanæ funt preces, fupplicationefque, quibus homines in fua  vota Divinitatem pertrahere latagunt.* vel fi hac  non inutiles fuum quandoque lortiuntur effectum, Deum mutari dicendum eft j quippe fua  confilia, fuamque in homines providentiam flectit, attemperat &c.   zy. Sed fingula ifthæc futilia funt, et bi.  nis verbis exfufflantur. I. Quam dicimus crea,  tionis actionem, nihil eft aliud, nifi Divinæ  Voluntatis actus, quo Mundi exiftentiam efficaciter decernit. Hic profecto Divinæ Voluntatis  actus æternus eft, ficut ipfe Deus r at vero ejus  objectum, feu effectus a Deo intentus, Mundi  fcilicet molitio, Tion pro æternitate, fed pro  tempore intendebatur. Nihil ergo novi egit Deus, cum Mundus c nihilo apparuit. II. Tota rerum mutabilium feries, quanta quanta eft, unico, et fimplici, et æterno Divinæ Voluntatis  actu continetur. Deus ergo immutabiliter vult  mutabilia. III. Cum æterna fuerit in Deb ratio  tum volendi quæ voluit, cum quæ noluit nolendi, ctfi nihil necesfitate naturse velit, nolit -V,. - it V ii VC •   '.«i    ve ; quz femel voluit, aut noluit ob camdem  jtternjim rationem perpetuo volet, noletve. Sane incoftantisE, levitatis, vel infeitia e(l argu.  mentum nolle quat olim funt volita, et e contrario, velle qux noiita funt. Sed nihil horum in Deum cadit. IV. Preces, fupplicationefque ad Deum, non Deum erga homines,  fed homines erga Deum fle 61 unt. Perpetuo manet Deus in amore Juftitiffi, et ordinis : prout  ergo homines vel in ordine manent, vel abeo  defeifeunt, vel ad eumdem redeunt, bona vel  mala experiuntur ab imperturbabili et immota  Divina Natura juxta ordinis leges agente. Nimirum preces, fupplicationefque &c. ad illum  fpe£l:ant ordinem, cui Divina Voluntas atque  Providentia perpetuo, et immobiliter adhasret.   28. III. Veus tft Etif infinite peyfeB^n  extenrive, et intenfive. Si non eft infinite per,  feftum, eft profecto natura fua perfeilibile.  Cum enim Entitas entitati haud pugnet, quavis finita Entitas nova feraper augmenta lufcipere poteft' tum extenfive, cum intenfive. Sed  quod natura fua perfectibile eft, hoc ipfo eft  mutabile. Id ergo cum de Deo pugnet, necef.  fc eft, eum omnem poflibiiem entitatem complefti,* atque adeo infinite perfectum efle et  intenfive, et extenfive. Revera finis, feu limes  non eft quid pofitivum, led negativum ; eft nimirum defectus majoris entitatis. Fiat hypothefis,  Deum haud elTe infinite perfectum j et quoniam  Is eft Ens necelfitate fua! naturæ exiftens et irm  mutabile 1. 2^, erit Deus Ens cjufmodi,  ut natur* fu* neceffitate fit finitum, et in fu finitionis flatu immutabile. Id vero abfurdum  cft. Concipi enim nequit Entitas, quæ naturæ  fujc neceflitate certam fui limitationem expofcat, certamque menfuram, quæque repugnet  fui ipfius augmertto. Deus igitur eft Ens infinite perfectum 8 fC. Confer cofmot. Deus efl Ens fimpt}ci£imum. Ens  compofitum pendet e comptinentibus. Deus vero eft Ens omnirvp independens. Nequit ergo  effe nifi phyfice fimplex. Deinde quodvis compofitum natura fua eft mutabile. Deus autem  cft immutabilis. Iterum ergo conficitur, Deum effe ens fimplex.   30. In Scholis difpufatum cft, an ntetaphyfica faltem. Vel logica compofitio Deo conveniat.  Quod ad primum Ipectat, affirmativam fententiam . Scotiftæ tenuerunt, alferentes Dei attributa formalifer ex natura tei inter fe diftingar. At non  fatis penficulate, quippe qupdvis Divinum attributum natura fua nequit aliud effe quam ipfa  Divina effentia ^ in qua fapere ex. gr» idenr-profecto eft ac effe. Quod fi diftinctiones inter  Divina attributa ftatuere folemus, id quidem  efficimus imbecillitatis Mentis noftrs gratia, non  quod fit quidpiam in Deo multiplex. Verbo,  funt ilfjE diftinctiones virtutis feu rationis in  Mentis noftras conceptibus fundamentum habentes, non formales in natura rei in fidentes J Quod  vero ad alterum fpectat, ad quaftionem nominis tota res mihi perduci videtur. Cum enim  iogica compofitio CX genere et differentia conffet ^ 2. ont. ^ Genera autem fint noftrx Men^  tis notiones abftractione confectæ appofitis nominibus defignatæ : has primum notiones ac#  curate funt determinandas, atque exponendas, critque poftmodum facillima qujeftionis folutio.  Ita ex. gr. li nomine quis intelligat,   id quod in quaque re fjibftat, et adjunctorum  fulcrum eft-, Deus fub genere liiblfantise haud  comprehendi.poteft. Si vero illo vocabulo *intelligatur omne id,f quod ‘per fe fubfiftit  modo Deus ' fubftantia eft. - •   qi..,V. De«/ immettfuf. l. Quipiie  pugnant Deo, utpote. Enti infinito, quavis  mirationes ficati effentias_, ita et exidentist; at»  que adeo ficuti infinitus cft in elTchtia,• ita iq  exiftentia immenfus effe, debet.*  II. Exifiat tenim vero Deus in- aliquo tai»r  tum loco, non ubique. rSufficiens ratio cur. iq  hoc potius rloco, et non in alio, nec ->ubivi|  exifiat, vel in ipib loco.inefi, vel (ih Dei  tura. Utram vis dicatur, non r; foret Natura Dei  omniraodfiiindependens ; ejufque exiftentia cum  iit d^termbato loco alligata, haudeffet' fibi fuiSr  cientilfima et a fe. Hoc autem repugnat. Deos  Igitur ubiquq locorum exiftat) 4 ^us oportet jfiiat  immenfitate naturas., ^ qa. At opinemur illunt, fpatiofa magnitudiiie..  ubique diffundi., Qpa de rp animadvertatipr, 00.-«  tionem 'Divinis.immenfilatis non pofTe ulfo pOf  eto fecerni. a. notione fimplieitatis vetras, et ab#  folutas : 'nequ«; Deum dici poffe ^imm.eofum, air  ii et una J^ui fimplex habeatur 4 $ane guævia  c. roa  l,magnitudo minor eft in lui parte, quam in  toto ; Deus vero per luam immenfitatem  unus et idem ubique locorum eft, et rei  cuilibet intime præiens. Certe immeiifitas, et  limplicitas duæ lunt perfectiones puræ : amb  adeo de Ente infinite per{pcto prædicandas veniunt. Cum vero utriutque perfectionis nec adæquatas nec pofitivas habeamus notiones / hinc  ratio, fibi deficiens ab imaginatione exfuperatur,'  quæ, immenfitatem cum fimplicitate pugnare, faJfo  repræfentat. Quod fi clare pervidemus immenfitatem non poffe nifi Enti limplici convenire, ratio  imaginationem corripiat, neque linat ab ea rapi.   ^3. Deus ejl unus. I. Nulla adeft ratio  eccur plurcs efle Deos putemus. Sane Dei notionem ex neceflitate primæ alicujys CaulTæ effeflricis nobis compatamus: lemcl ac (latuimus,  aliquem exiftere Deum primam rerum omnium  caudam, nulla adefl ratio cur pl u res Deos comminifeamur. Deorum pluralitas manifclliffime rationi contradicit. Quid lane Deorum nomine intelligi debet, nifi Entia natur* fuæ neceffitate exiflentia, atque adeo infinite perfeSla?   53. cof. ^.zS-tieol. Atqui duo infinita, non  inquam plura, manifeftilfime repugnant. Sint,  fi fieri poteft, hæc duo infinita A, et B. Infunt ne Enti A illæ- cædem numero perfe£liones, quæ infunt B, et viciiTim : vel non,? Si  primum, illa duo Entia A, et B non funt reapfe nifi idem, et numero unum Ens. (’quot yel ad idealem coexiftentian>,  vel ad idealerp fuccffljonem fpectant ex natura^   et complexione tot is syflcmatis, nec nOn ex  nataris fingulcrum Entium syfleinaconfiantiura,   V ‘ fiuc natur'alis   fluere debent; nec aliter fluere, quam i pix Entium naturx, mutuzque ad invicem relationes  exigunt. Hinc profecto efl, ut, vel ex ipfis exordiis cujufque Mundi intelligibilis, infinita Divina Intelligentia, cui p^enitiflime patent et naturas, et relationes ut ut minimas Entium ad  illum Mundum fpectantium, perfpectiflime, et  plenillinie nequit non attingere lingulas fuccefliones, et evolutiones ad eumdem Mundum  fpectantes. Divina polTibilium fcientia, quam  breviter modo expofuimus, fcientia fimplicis in^  telligentia folet nuncupari. Ejus fons et origo,  ut patet, ipfa eft infinita Dei Entitas Divinæ  Intelligentiæ pleniffime patens.   45. Atqui gaudet quoque Deus completa  fcientia omnium futurorum, quæ ad certa quavis et determinata tempora fpcctant ; quam vi/sonis fcientiam dixerunt. Hujus fcientia:, eo  quod et futura libera complecti debeat, ex humanis ideis explicatio, acriter torfit Theologorum ingenia. Ita vero nobis exponenda videtur. Mundus hifce realis, quantus quantus efl  (8c duratione, et extenfione, et intenfitate, expreffio eft et deferiptio uniiis ex illis infinitis  tntelHgibilibus Mundis Divinse Menti longe lateque ab ipfa æternitate patentibus: illius feilidcf, cui JEterno, et efficaciflimo Divinæ Voluntatis decreto adjudicata fuit exiftentia in tempore confequenda.Nihil profeqjo eft, nec fuit,  \ncc erit quidpiam in hoc reali Mundo, quod  vel latum unguem ab illo asterno exemplari re. '   C« ceiendo alterutram denegare, quam fui imbecillitatem ingenii fatentes, utrique veritati acquielcere. Ho.  rum nempe Alii, de humana libertate nihil hslitantes,futurorum liberorum feientiam ab sternitate Deo adimerunt. Alii vero, Divinam re,  rum omnium certam et infallibilem prsfcien-.  tiam pro rata, Sc indubia ftatuentes', Mentibus  agendi libertatem eripuere,. Hi e Fataliflarum  funt grege, qui Divinam prsfcientiam nobis  neceffitatem imponere agendi qusciinque agimus,  contra intimum confeientis fenfum effutiunt. lif*   ' dem  ElegamitHme Boethius confoUt.   T« cun6ia fuperno   Ducis ab exemplo : pulchrum, pulcherrimus IpP^  Mundum mente gerens ^ fimi lique in imagine forma'*^')  FerfeSla/que jubens ^ per f edum abfolvere partes,   ' y   dem pene armis Utrique pugnimt,quo propSam  tueantur fententi-sm. Hos audire et refutare ma.    xiniopere infereft,.Inquiunt: I. Gum Dei fcientia certa  fit, et infallibilis, quæ Deus prænovit, neque|int profecto non evenire. Sed qræ nequeunt  non evenire neceflario eveniunt. Quæ ergo futura Deus prænovit, neceffario funt futura. Vel  ergo ‘ nulla funt futura libera, vel fi aliqua  funt tujufraodi, a Deo neutiquam funt 'prævifa. II. Et revera, facta hypothefi, Deum fingula ab æternitate prævidifllp,k ficuti fi modo  aliquid fieret contra id, qu^ Deus pwevidit,  actu Dei prævifio errori obnoxia foret : ita profecto, fi aliquid contra id. quod Deus prævidit,  evenire poffet, Dei fcientia poITct errori fubjacere. Quum ergo Divina prasvifro, nec unquam a veritate, aberret, nec queat aberrare :  dicendum' eft, rerum omnium et Cauffas, et  effectus ne dum ita pergere, rUt Deus prajvidit,  fed nec aliter pergere poffe. firmatur ita.  que, vel nullam habere, Deum* certam feientiam  futurorum : vel quæ dicuntur futura libera non  effe hujufmodi nifi vtrbo tenus, reapfe tamen  Jieceflaria efle. ♦ ' s?   48. Ad fingula refpondemus. Ac I. diftinctione indiget, quod principio ponunt: qute  Detts tranavit^ y nequeunt, non evenire." nequeunt  profecto non.hypoihetice y 8 c confequen*   ter y non item abfolute ^ et antecedenter. Quæ  diWnctio ut in propatulo ponatur, fupponamus,  me, omni illunonis periculo remoto, Petrum  coram ambulantem intueri, profecto,, quandiu     1    \ theologia 455.   iUum a Abulantera intueor, fieritne^uit i ^uin  deambulet,* non enim fieri potcft, ut idctn fit  fimul, et non fit» At nemo non videt, 4ticirco  fieri non-polfe, quin Petrus deambulet quia,  ipfe fe &.ad deambulandum determinavit, 5c  adhuc in, eadem, determinatione manet ; non  quod neceflitatem aliquam tex.mea vifione paflus fit, vel actu, patiatur. Neceifitas itaque,  qua Petrus actu deambulans nequit non deambulare, hypothetica eft, et co»/e^«»x, fluenS, nempe ex ejus libera^eterminatione, n deambulantem. certo«intuear, et cur nequeat ille actualiter et de facto non deambulare. lU porro  tera (ejungi nulfo modo‘pofiit, patet, Deo Voluntatem tribuendam -effe i Revera cum hicce  Mundus e nihilo Iit conditus, nonnift Divinæ  Volitati ' tribui* poteft r, eccur inter « infiiiitos  «lios «que polfihiles et fit electus, et fit ad  exiftentiam perductus. '•   54. Dei.;autem 'Voluntas nequit effe' niff rectiffima, fcilicet infinita; fuæ Sapientia; iciris,  æternifque rationibfus apprime* conformis. Cum  enim Natura Dei fimpliciffima fit, ac perfectilfima qo., equidem fieri non potefi, ut   in Eo aliud fit velle, aliud fapere. Sane qiitd  magis ablonum quam, Voluntatem a Sapientia  defcifcere, ac' Sapientiam erroris, levitatis, vel  ofcitanrias Voluntatem' redarguere ? Profecto id  everteret intimam Dei NatUram numeris omnibus abfolutiflimam. Divina Volyntas, qua parte objecta.   extra fe pofita iritendir, lilxrrima eft, et immutabilis. Sane nulli externo fato potefi^ Deus  fubjici, eum fit'omnino independens^ et a fe^t  neque ulla neceilTtate naturæ, nulloque interno.  impeto- rapi poteft ad profequenda (Ejecta extra fe, quum fit intrinfecus Sc natura fua bea- «  tiffimus, nullumque licet minimum bfatit^t»  nis augmentum advenire ei extrirtferuff poffit, Liberfima igitur Deus Voluntate gaudere debet. Cum vero nequeat Divina Voluntas noa  effe i ni mutabilibus, ac asternis fua; Sapientiæ 'rationibus apprime conformis' præ., confeqiiens  eff, illam nec unquam mutari nec mutari poffe- - ' '  Qpæ Deus vult, aut non^v^t / ab ' I   æterno, ac lemper voluifle, aut noluiffe opor- ^  tet ; nec '^quidpiam ‘Deus velle poteft, quod ab ' |   æterno noluit, aut fnodo nolle, quod ab æter- 1   no voluit. Itaque Dei Voluntas non inftar facultatis concipi debet, fed infbarfimpliciffimi actus  pci^petuo, et immutabiliter permanentis, -quo •  ab ipfa æternitate voluit, noluitve fingula fi.  ntul j, qux efie poterant fuæ Voluntatis objectum. Patet hinc nonnifi cx imbecillitatis  noftraj modulo pl ures Deo tribui Voluntates,  quibus res extra fe intendat, et quas Dei  decreta appellare confuevimus.... iir.,   De attnhuus, qu(t Dvo, utpote primee  rerufn omnium Caujfa, conveniunt :  ubi dt confervittipne, bonitate,   ' 0 providentid.De Conjervatione. «^ fingulæ hujus Mundi fubftantiæ  . j non ex fe, et vi fua, fed efficaci  Divina Voluntate olim exigentiam fint confequutæ^ fponte veluti fua inquirendum modo occurrit, qua vi ha^enus in Tua perdurarint exiilcntia, feu cui referenda veniat fuse exiflentise  continuatio.  I. inhæc exidentiæ codtinuatio nequit   Entibus contingentibus vi propriæ effeftiæ con.^e^ire. Si enim cxiftent^id eorum effentiam  pertineret, forent Entia illa immutabilia : contradi£lorium fane e(l,^quidpiam fua effientia exiiientiam, vei continuationem exiftentiæ obtine,  re, et interim elTe, et beri pofTe aliud ab eo  quod effiSunt vero Entia quxvis hujus Mundi ut  origine fuacontingentia ^ ita &: ejulmodi in fuæ exiftentiæ continuatione. Exiflentiæ itaque continuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ*^^ eflentiæ convenire : atque adeo aliunde ejus  fufficiens ratio repetenda venit. Ratio futiiciens continuationis in exi ftendo nequit alia effe a ratione fufficienti exiftenti* primo temporis momento confequutæ.  Revera exiftentia fecundo, tertio 6cc. momento  cjufmet naturas eft, ac exifteotia primi momenti ; immo una eft eademque exiftentia; nempe Entia contingentia fubfequentibus momentis  {'uum ejfe haud aliud et diverfum habent ab illo,  quod primo momento obtinuerunt. Igitur fufiiciens ratio continuationis exiftehtias Entium con  fuam exiftentiam primo aufpicata funt. II. In  hypothefi, qua Ens sternum niWl curaret entia a fe olim condita, fed ea veluti ipfa fibi  relinqueret, nequirent profecto, ne minimo quidem  temporis intervallo, perdurare, in nihilum illico abitura. III. Quum exiftenti® contiouatio,  eofifervatio appellari foleat, liquet, illum ipfum“  rerum omnium Conditorem effe Carumdem Coa*  Jervatorem optimum. IV. Rerum confervationem  haud infcite continuatam creationem di£Iam effe:  quæ phrafis haud ita intelligenda eft, quafi De«  us fingulis momentis. reiteratos edat creandi  aftus, led quod rerum confervatio non conliftit, nifr ex eodem Divinæ Voluntatis æterno,  atque efhcaciflimo actu, e quo ilis luam cxi6- Quoniam Bonitas mora Bs ‘ condUit in‘  conforraitatc actionum liberarum cum prasferipto legis » botio bonitatis moralis fupponit  legem a fuperiore latam ; potentiam in fubjecto morali delciicendi ab illa ; 3, necefiita^  tem illam lequendi, ut fuam confequatur felici-?  tatem Atqui hx notiones • pugnant omnino^  cum Divina perfectiffima Natura, quæ et abfolute independens efl, et intrinfecus ac per fe  beatiflima. Nequit igitur hujusmodi bonitas  moralis Deo attribui. Divina bonitas eft Ordinis, cft plena   Voluntatis confbrmitas zterno rerum Ordini ab  «ternis infioitz Sap entiz fcitis atque re£liilimist,  confiliis fluenti. Itaque non Bonitas Sapientiz  ac Potentrz imperat, fcd Sapientia Bonitatem  et Potentiam moderatur. Quare fi zternus ac  iiqnentiflime conflitutus rerum ordo haud patia.  tur>, homines in ipfis exordiis fuz immortalis  vitz ( nempe in hac vita przienti ) plenam  coflfequi perfcflionem, et beatitatem fu» nature congruentem ; fed exigat, refervandam eam  ^e alteri feculo ; minime profecto Divinam  Bonitatem redarguere licet ^ quod nos non eflPecerit heie^enc felices,.fiveritque plura mala  obrepere. Ita porro rem fe habere, facili argu.   m«iu \ 6Oe malis, quz ex indeclinabili MiAidi  ordine patimur, quseque contectaria iunt legum  coimologicarum, nihil efl, quod jufte conque.  ri poiTimus. I. enim ex ipfo Mundi ordine,  iifderrique cofmologicis, legibus noflra pendet  exiflentia, 8c innumera illa bona fluunt, queia  in præfenti vita fruimur. II. Quod ita Mundi  ordo ab initio (it conflitutus, ut omnium minima ^ pauciora mala irreperent, maxima vero, et plura bona : id quod pluribus demon*  ftrare poflTemus per totum Mundi orbem mente  difeurrentes I III. (J^uod fæpe numero voluptates  doloribus adeq iinitimæ et conlequentes fint;po«  fit*, ut hos fatis, fuperque rependere videantur. IV. Quod mala illa optima fu nt media quibus a nimio pr*fentis vit* amore revocemur,  neve vit* voluptatibus irretiti ' faifq nobis fua. . deamus, permanentem heic habere civitatem,  nihil de futura folliciti : tum legem fenfiium  legi rationis praferamus. V. Quod>lunt illa auf  przparationes ad virtutem ne peccemus, aut  juflz punitiones fi peccavimus, ut a peccatis  recedamus. Nulla fane utilior, atque eloquentior virtutis fchoia > quam malorum perpaflio j  nec capitalior virtutum peflis y quam perpetua  vit* profperitas; Mifyri/e toiSrantur, pcrfpcctc  Tacitus inquit, felicitate corrumpimur..  Ilf. Mala, qu* ipfi nobis confeifeimus ma.  lo' five corporis ^vc Animi reginiine plurima  equidem funt. Atqui h«c nequeunt certe D/o   Sd' adjudicari nifi fumma inicitiav et stolida temc.  ritate, quæ non verbis, led verberibus.corripienda foret. Quid enim, Deo ne tribuam fi  doloribus, vel febri laborem ( ut id exempli  loco auferam ) ex ingefto cibo, potuque ultra  quam natura exigebat, et (lomachi vires patiebantur ? Profecto juRum eft, quod intemperan.  tia! poenas luam : -nec eft, quod Divinam bonitatem redarguam, cUm e contrario maximopere commendanda veniat.. Hæc fane mala, mali  nr ftri regiminis confectaria, fræna funt, ne in  vitia corruamus,. et ad virtutem colendam caleatia tum juxtæ funt punitiones, fi hac contempta, in illa concc fieri mus. Reftant tandem mala, qusE 'e?c noftris  fluunt præjudicatis opinionibus., ab effræna  imaginatione. Quas ad /hanc fp^ctant clafiem,  maximam malorum partem capiunt, et ea præfertim', quæ focialis vitæ felicitatem maximop,ere pertubant. Sed nihil hæc mala contra Dei  Bonitatem faciunt, quippe fepientia et prudentia profligantur, ficuti e contrario sb inicitia  et imprudentia gignuntur,-ScitifSme Epictetus  in Encbir. cap. V. Pet^tnrbant bomirtes non res  ipfa, Jed de rebus opiniones.... Cum- igitur '  aut perturbantur aut trifiamur ^ nunquam alium  irtcujemus., ^ed nos ipfos, boe eji noflras opiniones. Verum vero inquient. Potuifict Deus  in alia rerum (Siconomia humanum Genus conftituere, e qua perpetua bona fluxifient, quin  ulla unquam irreperent mala /' Quod fi ita,  haud fumme bonus-, in. bonitate, admodum parcus Deus fuitje videtur, qui illa podhabita  ceconomia banc przfeutem ^ condiderit pluribus  Icateutem naalis.   'j6. Sed facilis ad hzc refnonGo • I. ‘Non  heic quzrijtur, quid Deus potuerit efficere, fed  quid efficere eum decuerit ^ Jam vero, non,no« '  Ilrz caligantis intelligentiz e(l decernere a priori, quznam ex poflibilibus oeconomiis przdet  ceteris, fitque Dei Sapientia ac Bonitate di«  gnior.  . II. Nutn ne tantum noftri ergo Deum condere mundum oportuit? Equidem Deum horni,  num non' demerentium felicitatem velle, i omni  dubio vacat.* at Eum in Mundi creatione noflram plenam felicitatem primario intendifle •  vel intendere debuiHe, id ed quid'  ^uidpiam ab illa ratione diverfum. Sed hanc  rationem five verbis præclare definire, five pura mente complecti pofie, certe negatum mortalibus effe autumamus. Ecquis fane perfectiffimam, et undequaque infinitam Naturam Divinam perluftraverit ? Quas rerum ideas, quasve  notiones adeo puras, et præcellentes mentibus  noftris gerimus, queis Divina incomprehenfibilia arcana decentet relerare audeamus? (a)   80. Verum vero, utut explicanda veniat  Divina ifthæc excellentiflima ratio, et finis ^  autumamus, creaturarum felicitatem, Divinæ- ^  que glorise manifefiationem illa ratione ccrtc  contineri. Revera, haud aliter decebat Deum fe  gerere, quam ejusmodi Mundum condere, In    quo  Hanc rationem et finem ut expedirent Platonici,  aifeverabant, Deum ipfa fua infinita bonitate percitum  fuilTe ad Mundum condendum, ut fcilicet effent, quos  benignitatis, ac famma:,qua ipfe fruitur, felicitatis participes etiiceret : quaf fententia antiquis Chriftiani ccetus  Dodorlbus non difplicuit. Procedente vero tempore ufu  ienfun invaluit inter Theologos, ut Deos glorix fpf  caufla Mundum condidi fle diceretur j quod rede explicatum, et intelledum, nec quidi-uam habet offenfionis,  nec cum priori illa fententia pugnat. Nam ut perfpedt  Cudworfhus Syflem. inrelled. Cap. V. fed. 5.  Neq:lTet vel minimum obflare.  Q^ua igitur Deus voluntate finem infendeb.it,  profecto et optimum Mundum *legit ex infinitis poflibilibus, tum et opere complevit. Revera finge, hunc Mundum non effe optimum^  feu fini pr*4ituto non apprime congruentem ^  equidem vel defectui Sapienti*, vel Potenti*,  vel Voluntatis in Deo tribui debet, quod non  Iit conditus optimus Mundus. At 'priora duo  Divina: pcrfcctiffim nanif* repugnant: ternum vero contradictorium eft,,: media enim ad finem  confequendum eadem voluntate, continentur,  qua finis intenditur. Quin ergo hic Mundus fit  optimum, et ^ptifiTimum medium ad confequcuf  dum finem a Deo intentum nullo pacto ambi,  gi potcft. Sed hasc rerum Univerfitas fummd   Divinas Sapientias confilio,'.ac pie niifima omnium futurorum ptasfcientia plim a Deo condi*  ta, incelfanti actione ab eodem Deo perenniter  confervatur, nec aliter confervatur, quam Men.  te concepta fuit. 6 z, Deus 'igitur perenni  ifthac confervatione curam oftendit, ut mun«  danorum entium, syfiema illum confequatur fi»  nem, cujus» olam gratia * mente conceptum, tura  reapfe conditum eft. Et quoniam mediorum ad finem æcomodatiflimorum electio cura ne ab illo  fine deficiant, providentia vocabulo dcfignatur.*  Deum providentiffimum- plane effe ex modo  dictis 81. 82. evidentiifime patet..Equidem  Dei Providentia cx ipla ejus natura tam' arcte  ac necefiario fluit, ut p^rfpecte Cicero de. Epicuro, qui Deos nihil mundana curare fluite effutiebat, dixerit, Epicurus ve tollit, oratione  relinquit Deos (a). Certe omnes, Gentes, ficuti  Sdpremi alicujus Numinis 'exiflentiam agnovere, ita et ejusdem providentiam hffx funt, et  coluere.* quod adeo omnibus in eompertO/ efl ^  ut demonftratione non indigeat, Di nat. D eor.'l. i, - » v. - 'At circa Dei providentiam plura occurrunt, quæ maximopere intereft animadvertere. I.. Dei providentiam. haud in eo confillcre,  ut per lingulos dies,pcrque fingulas. horas perfpiciat quid. factu opus ht, et qua flectenda fit  rerum feries, fi quuipiara erraverit, Abfurdiim  id quidem, 8c infinita Dei Sapientia indigniffirnum. Potiflima Divinæ providentiæ notio codfiftit I. in illa rerum omnium præordinat io ne  fapientiffime oliro conftituta ex ad^uata omnium futurorupa prastcientia, qua præordinatione fingula entia hujus Mundi fuas exacte leges  fequentia tum ad fuos, peculiares fines pergunt,  cum ad ultimum illum fipem, qui in Mundi  molitipne fuit a Deo intentus. 1. Divina prexvidcHtia continetur in illa inceflanti actione,  quam confervatiooem dicimus, feu io perenni  illa et efficaci voluntate, qua fit, ut fingula  Entia.perdurent, &“ pergere non definant  juxta præordinationem in principio, factam. II' Syftema Divinæ providentiæ pror fiis incomprehenfibile haberi debet, ficuti enirn  ' 3 * brutis., animantibus intelligi nullo modo poffunt quæ ah hominibus conduntur fyfteniata  politica, mathematica &c., ita profecto multo  minus comprehendi ab hominibus poteft lyftema gubernationis Mundi, quod eft opus ab infinita Sapientia attern* Mentis conditum. Revera hujusmodi lyftema ferienti complectitur  omnium temporum, omnium entium, omnium  eventuum fibi invicem cohærentium, et lele motuo. explicantium, duantum profecto eft nu jusmodi fyftema, et qu«m la;c patet i at qu^tn exigua illius pars efl, qux nobis innotdcit !  Tum, quantilla cft human* caligantis inteJligentiæ et vis et extenfio 1 quam manca, quam  perverfa de quavis ut ut minima re noftra cognitio 1 Num ne rerum relationes, ac nexum  vel longe perfpeximus ? Quam plura funt,  qnse de unaquaque re ignoramus, quam qus  novimus, vel potius quæ noviffe putamus?   86, III. Divinæ Providentiæ Syftema eo   magis adorandum, quo minus illud comprehendere valemus. Hinc enim i. in admirationem  rapimur Supremæ Dei Majeftatis, nec, fi lapimus, non poffumus venerabundi non adorare  altitudinem Scientia ac Sapientia Dei, cujus  adeo incomprehenjibilia funt judicia y invefli*   gabiles via. a. Incerti de rerum eventibus  probamur, et ad fummas virtutes fidei, fpei,  et omnimodæ religionis excolendas incitamur •   87. IV. Totum Divinæ Providentiæ Sy-,  Ilcma dno præfertim peculiaria ac minora Syfiemata complectitur inter fe fapientiffime, et  mirifice connexa ; phyjicum nempe, quod ad  brutam materiam fpectat, et morale, quod  Entia ratione, et libero arbitrio prædita refpicit.   Phvficiim Mundi Syftema phyficis legibus  regitur, et ad pra^itutum a Deo finem recta  pergit Sunt enirnvA-o phyficæ leges nihil aliud,  nifi certæ determinationes viribus materiæ a  Supremo Conditore imprelTæ, quibus phyfica  neceflitate fiunt quæcunque fiunt, et hd smuifim  infinitæ præordinantis Sapientiæ. De hoc phy£co Syftemate fatis in Co/. c. 4. Atqui Entia,   Y quæ funt ratione et libero arbitrio prædita aliis  omnino legibus profecto regi debent, quæ lint  eorum natur* conformes j leges quippe, quas  phydcas dicimus^ rationem et liberum arbitrium  deftruerent.   Determinationes, qu* Entibus ratione Sc li-  bero arbitrio prxditis conveniunt, nequeunt aliæ  cfTe, quam qu* ex illiciis bonorum, et amore  felicitatis, vel ex horrore malorum, et mife-  ri* odio fufcipiuntur. Leges itaque, quæ En-  tibus libero arbitrio pr*ditis conveniunt, oc-  ' queUnt aliud efle niti certa et immutabilia tita-  tuta Supremi Conditoria, quibus bonum et felicitatem creaturis rationalibus in ordine n>a-  nentibus præordinaverit, miferiam vero et in-  felicitatem creaturis ab ordine defcifcentibuS.  Ifthæc flatuta /e^ef morales naturales dicUntur^  * 88. V. Leges morales haud cenferi debent   creaturis rationalibus extrinfecus et accidentaliter  impotit*.* fed in ipfo Mundi ordine intit*, et in  creaturarum naturis. Neque putandum eft, ex  folo Conditoris arbitrio illas luam obtinere fan-  ctionem, fed pr*fertim ex rectiffimis et infle-  xibilibus Sapienti* fcitis, quibus omnis mun-  danus rerum ordo primum conceptus fuit ^ tum  demum Divina* Voluntatis efficacitate ad exi-  ftentiam perductus. Nimirum generale Mundi  Sytiema ea arte ab infinita Divina Sapientia  conditum efl, ut indeclinabiliter ad felicitatem  ducat Creaturas rationales ^ quæ fartas tectas  fervant relationes, quas ad tingula qu*vis En-  tia natura fua habeat, fuasque illis attempe-  rant actiones: ticuti c contrario ad miferiam   et in- lyp  Sc infelicitatem efficaciter trahat illas Creaturas  rationales, quæ eas relationes violant, corrum-  punt, fuifque actionibus peffumdant. Requ dem  vera nifi res ita le haberet, haud foret 'iVfua^  danum Syfiema ordioatiffimum, infinitaque Dei  Sapientia ac Majefia^e dignum, fed opus na-  tura fua hians, quod externis veluti prasfidiis  pofimodum circumvallatum, infcitiam et im-  potentiam in Conditore argueret. *   Sp. £ mox dictis patet I. generale Mundi  Syflema ne latum quidem unguem a præfiituto  fine aberrare, five Creaturæ rationales in fuo  maneant ordine, (ive ab eo defcircant. In fuo  enim ordiiie manentes fuam confequuntur feli-  citatem : a fuo ordine recedentes miferiam et  infelicitatem nancifeuntur, et quidem in ratio^  ne fuæ aberrationis - At utrumque verum, et  realen-i ordinem generalem confiituit : utrum-  que ad generale Mundi syftema æque fpectat,  et mirifice conrpirat fini, quem ^us munda-  no syftemati przftituit. 2, Patet,Vmnem le-  gum moralium naturalium notitiam aufpican-  dam pfTe cx relationibus, qu® rationales natu-  ras ad fingula quavis Entia nectunt.   po. Contra morale syftema Divina pro-  videntia objiciunt profani homines maximam  ac increciibilrm pene rerum humanarum confu-  fionem. Inquiunt, aque omnia eveniunt omni,  bus: nrobis et improbis, religionis contemptori-  bus et amicis idem imminet periculum, et  aqua fors. Quin immo perjuri, facrilegi, et  criminoii homines non raro melioribus gaudent  fatis, quam optimi, et juftiifimi. Nullam er-   Y 2. go   naturalis   go Deus, ita concludunt, humanarum rerum  procurationem habet.   pi. Equidem vis huic objecto confifteret,  fi inter demonftrata foret noflrorum Animorum  cum corpore mortalitas. Id autem cum tantum  abfit, ut contrarium recta ratione dcmonftre-  tur, ruit propterea objectum illud ipfa fui mo-  le, tum facili refponflone exfufflatur. Ita præ-  clare Auguftinus ia).' Placuit Divina providen-  tia praparare in poflerum bona juflis, quibus  non (ruentur injujli, mala impiis, quibus nofi excruciabuntur boni . Ifla vero temporalia  bona et mala utri f que voluit ejfe- communia ut  nec bona cupidius appetantur, qua mali quoque  habere cernuntur ; nec mala turpiter evitentur,  t^tibut et boni plerumque afficiuntur ., . Dein  fuhdit. Si nunc peccatum (Deus ) manifefla ple&e-  ret poena., nihil ultimo judicio Jervari putaretur.'  rurfus, Ji nullum peccatum nunc puniret aperte  Divinitas . nulla ejfe providentia Divina credere-  tur . Similiter in rebus fecundis, Ji non eas  Deas quibufdam petentibus evidentijpma largi-  tate concederet, non ad eum ifla pertinere dice-  remus itemque,fi omnibus ea petentibus daret  nonnift propter talia pramia ferviendum illi eJfe  arbitraremur .   pz. Qui Dei providentiam vituperant,  quod mala et impia facta non llatim plectat, equi-  dem fimillimi eorum (unt, qui videntes in fce-  nsm prodire facinorofos ^ fceJeratofque homines,   eof- de Ci vit. eofque per totum carmen in luis criminibus  exulMre, tragicum Poetam incunctanter convi-  ciis petunt } totamque fabulam ut Icclcratam  rejiciunt . Tragoediæ exitum hos expectare opor-  tet, mox enim illos dignis excipi fuppliciis  videbunt, fuorumque fcelerum meritas poenas lue-  re . Vera fabula prxfens efl vita : quilibet no-  Urum luam in hoc telluris theatro perfonam  fubflinet, et ita, ut de fuo femper aliquid ad-  dat fabulæ . Atqui Deus totam fapientiffime  fabulam moderatur, et regit . Is lapientiflime  nectit noftras hujufce vitSB actiones cum fuis  geftis, quæ in altera vita lequentur : eruntqua  futura cum pr®fentibus ita inter fe apte Sc con-  cinne connexa, ut fumma de rebus omnibus  providentia eluceat .   pq. Tandem, fi Deus in humanis rebus moderandis ubique fusE providentiæ vim, 8c,  præfentiam extraordinariam oflendere vellet, ficuti Adverfarii infcitiflime et arrogantiffime  poftulant • profecto miraculis cuncta elfent re-  plenda, naturæque leges perenniter interpellan,  dæ . At quæ fumma confufio rerum hinc pro-  diret, quæ maxima perturbatio ! Edifcant ergo  Adverfarii rectius philofophari : ficuti apparen-  tes illa; perturbationes, et monftra, quæ in  fyftemare phyfico quandoque occurrunt, nihil  de ejus ordine et harmonia detrahunt, quippe  ex ejusdem ordinis vi 3c legibus confequuntur,  et in ipfum ordinem redeunt : ita nihilo fecius divina de rebus humanis providentia confiftit,  licet quædam moralia monfira quandoque profilire et exultare videantur. Moralis quippe y q or. NATURALIS  ordo, 8c providentia ex harmonia legum cosmologico-moralium, et ex nexu actionum hujus vitæ cum alterius futuræ vitæ ordinatione refultare debet. Finis Theologia, TOTIUS OPERIS CONSPECTUS   Jn unlverfam Metaphyficam^ prafatio. i   METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In Ontofopbiam prolegomena De effentia, et attributis.  De variis entium generibus De relationibus Entium .  Dff relationibus fimilitudinis. De relationibus, e coexifletftia   dependentibus . De relatio.nibus dependentiis,    ubi de   Catijfis. De quib.usdam "relationibus    compo/itis . INSTITUTIONUM METAPHYSICARUM PARS ALTERA  In Cofmologiam prolegomena. De Corporum elementis. Corporum elementa Junt ne ex-   tenfa, vel inextenja Similia Jint ^ qn diffimilia cor-   porum elementa expenditur . . niTT   De Legibus cojmologicis . De Mundi, Materia origine. sirr: Etis tttiquod aternutn natura fua necifjitate exi/iere, indubie demon-  firatur j tum ejus pracipui c&araSleres  expenduntur .In materia originem inquiri -  tur, eamque ix nihilo conditam vi,   potentia fupremi Numinis inviBe  demonflratttr . I op   Democriti, et Epicuri fenten»  tla refutatur ; ubi Mundum potentia,   et fapientia Entis aterni conditum effe  evincitur . I £ 5   Spinosa Jyflema abfurdorum,   et contradiBionum effe cumulum ofien -   ditur . De nexu omnium Mundi Cauf-  Jarum et effeBuum : ubi de fato juxta .   Pbtlofophorum placita di [feritur De nexu omnium Mundi Cauf-   /arum, effeBuum, lai   P bilofophorum de fato fenten*  tia enarrantur, atque refutantur. ia8  De Naturali, et jupernatu»   De Natura gener at m ; ubi  . quid fit naturale edocetur  De fupernaturaii : ubi de Mi’  vaculis generatim Pinis Cofinologia  METAPHYSrCARUM INSTITUTIONUM In Pfycbohgiam jtrole^omena . g   CAPI L De Facultate fentiendi . j  Senjitiva facultatis indoles at»  que natura expenditur ^ &“ plura fenfa ^  tionum do^lrtnam Jpe^antla enucleem   tu* .  Qna Jit fedes principii fenji-  tiva facultate praditi .De Memoria De contemplatione DV remintfcientta .De recognitione De facultate attendendi ^ et  refle^endi, zS    De imaginatione, De facultate appetendi ^ ejuf~  que objeElo : ubi de affe^ibus fummatim.  De facultate appetendi, ejuf-  que objeblo . ibid. De affeBibus . at,  De humana Mentis Volunta*    te, ac Libertate . De Mentis humane Natura.. . •^nimadverfiones ad invejiigandam %Anima humana naturam preeli-  mtnares .Humanam Mentem haud effe '  temperationem humani corporis, ac pra^  cipue cerebri inviate demonjiratur Ct*tvU fubjlantite corporea in*  trinfecus pugnare cogitationem, /Jw  De idearum^ notionumque natura, atque ongtne   %/inimadverfiones praliminares  ad idearum,netionumque naturam atque originem expijcandam. Idearum origo ac, natura ex~  penditur. Quadam Pbilofopbortm.placita,    qua idearum /peliant originem, brevi -  ter exponuntur . Df tAunue humana orij^tne’ .De Mentis humana Immorta-  litate . I loi  Mentem humanam ex natura  Jua infpe^am, immortalem effe, demon-  flratur . Mentem humanam ex fui Con-  ditoris voluntate infpeBam immorta-  lem naturali ratione afferitur. METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM  In naturalem Theologiam prolefromena . Deum exi/lere invitiis ratio -   nibus demonflratur, et *Atheorum pracipua  cavillationes difpelluntur . Deum exi flere met a phy fice de -  monflratur . ibid.   ART. II. Dei exiftentia morali demon-  firatione vindicatur .De attributis, qua Deo, ut  Enti a fe y conveniunt. 1^8   De attributis y qua Deo y ut   Menti, conveniunt . Dei Scientia expenditur . ibid.  Ds Dei abfoluta Beatitate, De Dei Voluntate. De attributis, qua Deo y ut -   pote prim-rfetur, et fi merito typis  mandari pnfit . Ac pro executionc Regalium Or-  dinum idem Revifor cum Jua relatione ad nos di-  rede tranf mittat etiam autographum ad finem',  Datum NAPOLI  ^ .»79d.   FR. ALB. ARCHIEP. COLOSS. CAPP. M. S. R. M.   J Uffu tuo accurate legi docfl-flfimi Viri Sacerdo-  tis D, Mariani iJcmitula in^itut ones philofo-  phtCas^ nempe infi/turiones metaphyfices, in qui-  bus quxcunque a ienfibus funt remota ) leu le-  ruin naturam, feu univerfi ordinem, Icu nafU-  Tain animorqm, feu durina attributa, quantum  i-tio »e adfequi licet, facili methodo dilucide per-  tvadlantur ; atque infitutiones logices quibus,  qu.ie ad hu minam mentem formandam fpeiflant,  folide præcipiuntur, in his utrifque inititutionibus bu8 omnia fumma eruditione, Ir dodlrina, neo  minori pietate explicanrur ; tantum abeft, ut  qoidpiam aut juiibus Majeftati", aut boniS mon.  bus advei ium commeant ; quare edi pcffe cen»  fto, nifl aliter Majcftati Veftrae fuerit vifuin,  NAPOLI MAJESTATIS VESTRAE.   JlVmiliJtimuS addidi ffimus 6- obfequtl^ffimus,  Jofephus Maffcjus Regius Profcffor. NAPOLI  ec.   Vifo refcripto S. R. M, fub die 5. currentis  'fnenfis, cSr anni, ac relatione U, J. Dodoris O,  Jofephi lAafiei ^ de commijfione Reverendi ReffH. Cappellani Majoris, ordiie pr^fau Regalis  Majejiatts &C»   Reffjlis Camera S, Clara providet, decernit^  Mtque mandat, quod imprimatur cum inferta forma prafentis /upplicis libelli, ac approbationis  dtdi revi fotis . R erum no<» publicetur ni fi per  ipfun Revi/orem fada iterum reviftone, . ajir-  metur, quod concordat ^fervata forma Regalium  ordinum ^ ac ^etiam in publicatione fervetur' Re-  gia pragmatica» Hoc fuum ec,   JARGIANNI   PECCHENEDA   VOLLARO V. A. R. C.   Izzo Cancelliere  Rfg- fol, t?, tt u    Pafcale Uluftris Marchio MAZZOCCHI P. S. C.& ceteri  Aularum Praefedi tempore lub. impediti . EMINENTISSIMO SIGNORE .M trhele Migliaccio pubblico Stampatore fup-  olicando efpone ali’ E. V. come defidera  dare alle ftampe un’ opera tntitolata In/iitutionet,  Philolophicte Auctore Mariano Stmmola . Prega  percio 1 ’ £. V. a commetterne la reviiionc a chi  piu le piace •   Admodum R«v, Dominus D. Donatus GigUo St  Th. Prof. revideat, et in Jcriptis referat. FRANCISCUS ROSSI CAN. DEP. Institotiones Philosophicae appofite ad Tyrona u captum a S. concinnatas, ea  diligentia, qua tua juffa capeffere par eft. Princeps Eminentidime, perlegi, In illis, prxterquam  quud methodo meridiana luce clariore argumen-  ta tum unde unde exquidta, tum propriae penis  depronua (apienter ad Philoruphiae firmanda dog-  mata congerit Audior, in i!l ud porro omnes lol-  lertix nervos intendit, ut et fandi di m a morum  ratio redle libi condet, 8c jura Rei gionis, li  unquam antea fufque deque habita*, nunc ut cum  maxime pedimo fato divexatx, farta tedla fer-  ventur . Qux cum ita le habeant, cumque nihil  optimo Prxfult antiquius, fan^iufque effe debeat,   ? uam ut adolefcentes fandlionbus, minimeque  iibdolis fententiis imbuantur ( nam quo Jemel ejt  imbuta recens, fervabit odorem Tejia diu ) in  publica commoda peccatum iri 'rcor, fi hujufmo-  di Opus minime Typis mandetur, Quare fi ita   Z * Emi Sminenti* Tu® videbitur, publici jur» fieri pof-  fe cenfeo . l-)ab. ^Alib. Seminat ii Urbani XV Iil. EMINENTUE TU.E, AddidiJP Obfequentijp, Ta/nuius  iionatus Gigli, yy/ff   ip is. Mariano Semmola. Semmola. Keywords: istituzioni di filosofia, l’istituzione della logica, l’istituzione della metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semmola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Semprini: implicatura cabalistica nel deutero-esperanto di Pico -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Giocodi H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bologna). Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. S. progetta una lingua internazionale su base latina che chiama “neo-latino” – “Rubrica del movimento interlinguista” --- e l'anno successivo ci prova anche LAVAGNINI (si veda) con l'Unilingue (o Interlingue) pubblicato nel Corso pro Corrispondenza d'interlingue od Unilingue in sette sezioni a Roma    e ancora con MONARIO (si veda), dato alle stampe nel Corso de Monario prima e nell'Interlexico  Monario. Italiano-français. English-deutsch poi. GIOVANNI  PICO  (vedasi) DELLA  MIRANDOLA. LA  FENICE  DEGL’INGEGNI  -- saggio  di  S.  nella  quale  si  raccontano  i  casi  della  vita  del  principe-filosofo  e  si  espongono  i  segreti  cabalistici  magici  e  astrologici  della  sua  esoterica  filosofia. Con  un  esame  in  appendice  delle  sue  poesie  in  volgare  e  un  ritratto fuori  testo  fregiato  da  De  Carolis    ALL'INSEGNA  DELLA CORONA  DEI  MAGI PRESSO ATANOR. TODI. Il saggio  che  offre al suo C.  non  ha  la  pretesa  d’essere  una  monografia  e  molto  meno  uno  studio  completo  della  vita  del  Mirandolano. Esso,  così  come  si  presenta,  porta l’impronta dei  sentimenti  e  dei  pensieri  non  sempre  contenuti  che  in  me  sorgevano  via  via  che  il  velo  si  discopriva  e  la  bellezza  di  una  vita  intensamente vissuta  per  un  ideale  mi  appariva  nella  sua  immediata  freschezza.  Ciò  che  mi  mosse  a  scrivere del  Pico  non  fu,  lo  confesso,  quella  preoccupazione per  la  verità  storica  che  spinge  molti  a  travagliare  per  anni  interi  intorno  a  manoscritti,  a  cimeli,  a  documenti,  pur  di  riuscire  a  determinare  con  la  massima  certezza  le  date  della  vita  di  una  personalità  o  di  un   avvenimento  storico.  È  stato il desiderio  di  conoscere,  attraverso  un  personaggio quelle  altre  verità  che,  non  essendo  sempre    dominio  del  pensiero  riflesso,  le  chiamiamo  con  altri  nomi.   Tale  desiderio  mi  ha  portato  a  conoscere  quanto  il  Pico,  al  pari  degli  uomini  del  suo  tempo,  fosse  assetato  di  verità,  e  come  più  di  tutti  i  suoi  contemporanei avesse  il  senso  dell'inanità  degli  sforzi  umani  e  della  vita  stessa.  Quanto  egli,  pur  aspirando alla  verità  come  luce  rasserenatrice,  fosse  convinto,  anche  prima  di  raggiungerla,  che  desso,  purtroppo,  non  è  il  fine  ultimo  della  vita,  che  c'è  qualcosa  di  più  alto  ancora  che  più  della  cristallina chiarezza  del  vero  esprime  l'essenza  della  vita,,  e  cioè  l'amore.  Non  è  tragico  tale  sentimento  che  rende  inquieta  l'esistenza  di  questo  giovane  aristocratico il  quale,  sotto  la  femminea  placidezza  del  suo  volto  avvenente,  nasconde  un'anima  irrequieta e  nostalgica,  non  già  agitata  dalle  passioni  0  dai  perturbamenti  del  senso,  ma  dal  dubbio  della  ragione,  dal  contrasto  che  sorge  come  nube  procellosa negli  spiriti  meditabondi  ogni  volta  che  vedono  l'inconciliabile  opposizione  fra  il  reale  e  l'ideale?   E  ciò  che  nel  Pico  rendeva  insanabile  questo  dissidio  interiore  era  il  senso  del  mistero  che  in  combeva  su  ogni  manifestazione  del  suo  vivere,  il  senso  dell'arcano  per  penetrare  il  quale  s'illudeva,  come  gli  spiriti  profondamente  mistici,  che  al  di    della  conoscenza  comune,  al  di  sopra  delle  nozioni volgari  ci  fosse  una  dottrina  esoterica,  accessibile a  pochi,  per  mezzo  della  quale  l'iniziato  potesse  inoltrarsi  nei  sentieri  reconditi  ove  splende  la  luce  che  trasumana.   Non  so  quanto  sia  riuscito  nel  mio  assunto  che  era  di  rappresentare  il  Pico  quale  mi  si  rivelava  più  che  dai  documenti  d'archivio,  dalle  sue  opere  e  dalle  lettere  del  suo  epistolario.   Certo  sarebbe  per  me  motivo  di  conforto  poter  constatare  che  il  mio  studio  potrà  essere  stimolo  ad  altri  a  darci  del  Pico  quell'opera  completa  che  tuttora  ci  manca.   Bologna,  Villa  Serena. In  un'alba  di  febbraio  del  1463  nasceva  nel  castello  della  Mirandola  Giovanni  Pico.  Sua  madre,  in  un  sogno  di  fiamma,  ne  aveva  presagito la  bellezza  superiore  a  quella  delle  sue  splendide figlie,  e  l'ingegno  e  l'amabilità  che  non  aveva  saputo  riscontrare  nei  figli  Galeotto  e  Anton  Maria,  in  perenne  lotta  per  la  supremazia  dei  feudo. Muratori,  Amali  d'Italia;  Tiraboschi,  Dizionario  Top.;  Bratti,  Cronaca,  143;  Cronaca  della  Nob.  Famiglia  Pico,  scritta  da  autore  anonimo,  illustrata con  note  e  documenti  da  F.  Molinari,  pubblicata  in  Memorie  storiche  della  città,  ecc.  Mirandola,  voi.  II,  1874,  32-153;  Ceretti,  Giulia  Boiardo  in  Atti  e  Memorie della  Deput.  di  storia  patria  dell'Emilia,  Modena;  Burckardt,  La  civiltà  italiana  nel  Rinascimento,  Firenze,  1902,  142  e  232.  La  prima  biografia  del  Pico  è  quella  scritta  dal  nipote  Gianfrancesco  e  premessa  in  tutte  le  edizioni  delle  opere.  2La  contessa  Giulia,  che  aveva  nelle  vene  un  po'  del  sangue  del  cantore  dell'Orlando  Innamorato, ci  si  presenta  una  di  quelle  donne  meravigliose del  Rinascimento,  abilissime  nei  lavori  muliebri  e  aperte  a  ogni  manifestazione  dell'arte,  capaci  di  accudire  alle  cure  più  minute  della  famiglia e  di  tener  testa  agli  affari  più  difficili  dello  stato.  Questa  donna,  che  altrove  ci  appare  energica e  severa,  accanto  al  piccolo  Giovanni,  rivela  i  caratteri  più  squisiti  della  maternità.  Ora  la  vediamo tutta  compresa  di  tenerezza  nell'atto  che  la  nutrice  mostra  il  bimbo  in  fasce  a  Giorgio  Merula,  ospite  durante  il  suo  viaggio  per  Bologna  delle  figlie  Lucrezia  e  Caterina.  Ora  notiamo  lo  sforzo  della  sua  maschia  natura  per  condiscendere a  certi  capricci  e  vizietti  del  piccolo  Giovanni. Oh!  la  gioia  di  questa  madre  quando  assisteva alle  prime  rivelazioni  di  quell'ingegno  precoce,  che  era  pronto  a  cogliere  sul  punto  qualsiasi istruzione  impartita,  che  imparava  con  rapidità sorprendente  una  poesia,  che  rivelava  sin  dai  più  teneri  anni  una  memoria  prodigiosa.   L'indole  dolce  e  arrendevole  che  il  Pico  aveva  sortito  da  natura,  l'aspetto  quasi  femmineo  del  volto  che  si  tingeva  di  rossore  o  impallidiva  ai  fremiti  insoliti  dell'età  critica  dell'adolescenza  vicina, la  inclinazione  agli  ardori  di  un  misticismo  incipiente,  dovevano  senza  dubbio  indurre  la  contessa  Giulia  a  provvedere  per  tempo  all'avvenire  del  figlio,  non  senza  quella  trepidazione  propria  delle  madri  che  vorrebbero  vedere  immutata  l'ingenuità delle  loro  creature.  A  Giulia  parve  che  lo  stato  ecclesiastico  fosse  il  più  adatto  all'indole  del  piccolo  Giovanni  che,  da  parte  sua,  era  più  che  mai  disposto  ad  abbracciare  uno  stato  in  cui  avrebbe  potuto  svolgere  più  agevolmente  quei  sogni  che  cominciavano  già  ad  agitarlo.  Giulia  s'interessò  per  ottenergli  la  elevazione  a  protonotario  apostolico,  e  appena  il  figlio  ebbe  raggiunto l'età  di  dieci  anni,  la  contessa  ne  celebrò  solennemente  l'investitura.   Alcuni  anni  dopo,  nel  1477,  Io  mandò  a  studiare diritto  canonico  all'università  di  Bologna  .  La  festante  città  dei  Goliardi,  la  cui  vita  politica  era  guidata  in  questo  tempo  dalla  potente  famiglia dei  Bentivoglio,  poteva  considerarsi  per  il  suo  Ateneo  «  il  tramite  per  cui  le  idee  umanistiche passavano  dall'Italia  all'Europa.  Da  ogni  regione  d'Italia  e  paese  d'oltr'Alpe  convenivano  quivi  numerosi  gli  studenti  con  le  caratteristiche  e  i  linguaggi  delle  loro  terre;  e  quivi  formavano  corporazioni  con  statuti  propri.  Si  deve  far  risa  ci) SCARABELLI,  Dell'antico  studio  bolognese,  Bologna,  54-55;  Gavazza,  Le  Scuole  dell'antico  Studio  bolognese,  Milano,  1896,  78.  4lire  a  questo  periodo  l'attrattiva  esercitata  sull'animo del  Pico  dall'ordine  domenicano,  che  finirà  per  essere  una  delle  mete  sospirate.  La  chiesa  di  S.  Domenico  era  il  luogo  in  cui  solevano  radunarsi le  corporazioni  dei  «  legisti  »,  i  quali  erano  tenuti  a  intervenire  processionalmente  alla  festa  di  S.  Domenico  e  ad  assistere  dal  coro  alla  messa  dello  Spirito  Santo.  Tra  quei  frati  predicatori  che,  per  la  loro  dottrina  e  il  loro  ascendente,  avevano    gran  parte  nelle  cose  dello  studio,  uno  dovette  attrarre  l'attenzione  del  Pico,  per  le  maniere  semplici e  rudi,  gli  occhi  vivissimi,  la  fronte  solcata  da  rughe  e  il  colore  bruno  che  contrastava  col  biancore  del  lungo  saio.  Questi  era  Girolamo  Savonarola, giovane  allora  venticinquenne,  già  emaciato dai  digiuni  e  dalle  astinenze  che  a  «  vederlo  passeggiare  pei  chiostri,  pareva  piuttosto  un'ombra che  un  uomo  vivo.  È  dubbio  se  fin  da  allora  si  stringessero  rapporti  fra  i  due,  che  dovevano in  seguito  legarsi  coi  vincoli  di  reciproca  stima;  certo  da  quel  momento  i  loro  occhi  si  saranno incontrati,  non  con  l'indifferenza  onde  passano le  innumeri  fisonomie  umane,  ma  producendo  quella  recondita  impressione  che  rifiorisce  presto  o  tardi  negli  scambi  di  idee  e  di  sentimenti. VillAri,   Savonarola,  Monnier. È  durante  il  tempo  de'  suoi  studi  di filosofia a  BOLOGNA che  muore  a  Pico  la  madre,  e ci  duole  di  non  trovare  alcun'eco  ne'  suoi  saggi di  questa  sventura. Ma  faremmo  torto  al suo  delicato  sentire  se  volessimo  ciò  attribuire  ad  uno  scarso  attaccamento verso  la  persona  che  pili  di  tutte  lo  ha  amato.  La  contessa  Giulia  che  si  era  portata  a  Bologna  per  stare  vicina  al  diletto  figliuolo,  fu  colpita  da  un  malore  che  la  trasse  in  breve,  il  13  agosto  1478,  alla  tomba.  La  sua  salma,  trasportata il  giorno  seguente  alla  Mirandola,  fu  tumulata accanto  a  quella  del  marito  nella  chiesa  di  S.  Francesco. Pico,  forse  perchè  non  si  sentiva  portato  allo  studio  del  diritto  canonico,  decise  di  recarsi  a  Ferrara  ove  lo  invitava  il  Duca  Ercole  I,  già  imparentato  con  la  sua  casa,  avendo  sposato  la  sorella  Bianca  a  Galeotto,  fratello  del  nostro  Giovanni. Quando  nel  maggio  del  1479  giunse  a  Ferrara,  che  era  allora  una  delle  città  pili  popolose e  ricche  d'Italia,  fu  assai  lieto  di  poter  frequentare la  scuola  di  rettorica  e  di  poesia  di  Battista Guarino,  che  proseguiva  con  pari  valore  le  direttive  del  padre  suo,  il  celebre  Guarino  Veronese.   Come  un'aura  di  poesia  doveva  respirare  nella  città  che  della  poesia  cavalleresca  ed  epica  stava  per  divenire  il  centro  d'Italia,  e  come  un'ebbrezza  6materiata  di  sensualità  doveva  ispirargli  la  tragica storia  ancor  recente  di  Parisina  e  gli  amori  un  po'  violenti  del  padre  di  Lionello  e  di  Borso  d'Este  .  Il  Pico  trovò  modo  di  appagare  più  di  un  desiderio  come  ci  attestano  i  frammenti  delle  sue  poesie  amatorie  e  Raffaello  da  Volterra   ne'  suoi  commentari  in  cui  parla  anche  del  successo  che  conseguiva  nelle  pubbliche  discussioni.   Non   ostante   la   simpatia   ch'egli    sentiva  per  Ferrara  in  cui  aveva  contratto  varie  amicizie  cogli  Nell'interno  del  palazzo  accadono  fatti  spaventosi:  una  principessa,  Parisina,  è  decapitata  insieme  col  figliastro Ugo  per  adulterio  (1425)  (v.  Muratori,  R.  I.  S.  lib.  XX);  principi  legittimi  e  illegittimi  fuggono  dalla  corte  e  sono  minacciati  anche  all'estero  da  assassini  inviati  ad  inseguirli, come  accadde;  oltre  a  ciò  continue  cospirazioni dal  di  fuori;  il  bastardo  di  un  bastardo  vuol  rapire a  forza  la  signoria  al  legittimo  erede.  Ercole  I  ».  BuRCKHARD.  Cfr.  Solerti,  Ugo  e  Parisina in  Nuova  Antologia,  1893,  voi.  129,  593-618.  Ivi  il  Volterra  dice  di  avere  veduto  il  giovinetto  Pico,  vestito  da  Protonotario  apostolico,  discutere  fra  le  acclamazioni  di  tutti  con  Leonardo  Nogarola.   Devono  alludere  a  questo  tempo  le  parole  del  nipote:  «  Prius  enim  et  gloriae  cupidus,  et  amore  vano  succensus,  «  muliebribusque  illecebris  commotus  fuerat,  foeminarum  «  quippe  plurimae  ob  venustatem  corporis  orisque  gratiam,  «  cui  doctrina  amplaeque  divitiae  et  generis  nobilitas  ac«  cedebant,  in  eius  amorem  exarserunt  ».  Opera,  Vita,  senza  numerazione  di  pagina.    uomini  pili  in  vista  del  mondo  letterario  come  col  Guarino  e  con  Vespasiano  Strozzi,  il  demone  dell'irrequietezza  cominciò  a  fargli  sospirare  altre città,  a  comunicargli  il  tormento  comune  a  tutti  gli  umanisti  di  allora  pei  quali  la  più  gran  gioia  era  quella  di  andare  in  cerca  di  nuovi  codici, dì  poter  frugare  conventi  e  biblioteche,  di  scoprire  qualche  nuovo  volume.  Benché  ormai  rimanesse  poco  o  nulla  da  scoprire,  dopo  che,  sull'esempio  del  Petrarca,  il  Filelfo,  il  Guarino,  Giovanni  Lascaris  erano  riusciti  a  riesumare  tante  opere  preziose  dell'antichità,  non  era  peranco  cessata  la  bramosia  della  scoperta  di  nuovi  libri .  Il  Pico,  spinto  da  un  ardore  che  nasceva  da  uno  spiegabilissimo  sentimento  di  emulazione,  non  risparmiava  spese  nell'acquisto  di  libri,  e  intraprese anche  dei  viaggi  per  raccogliere  o  rintracciare qualche  codice  antico.   Nell'autunno   del  1480  troviamo  il  Pico  a  Padova ,  dove  in  data  16  dicembre  di  quell'anno    Sabbadini,  Le  scoperte  dei  codici  latini,  Firenze,  Sansoni,  1905.  Cfr.  specialmente  i  capitoli  IV,  72,  VI,  114.  Anche  il  Muntz,  Precursori  e  propugnatori  del  Rinascimento,  trad.  Mazzoni,  Firenze,  Sansoni,  1902,  76-78.  II  Pico  rimase  a  Padova  per  un  biennio,  dal  1480  al  1482.  Cfr.  Della  Torre,  Storia  dell'Accademia  Platonica di  Firenze,  1902,  749.    8 gli  venivano  rimesse  le  patenti  ducali  con  le  quali  si  concedevano  a  lui  studente  di  filosofia  nell'almo  studio  patavino,  tutti  i  privilegi  che  vi  potevano  godere  gli  scolari.  Pare  che  l'indirizzo  di  studi  che  si  perseguiva  in  questa  città  e  l'ambiente  studentesco lo  soddisfacessero  molto,  poiché  in  una  lettera  ad  Ermolao  Barbaro  dice  che,  fra  tutti  i  «ginnasii»  d'Italia,  quello  di  Padova  era  stato  da  lui  frequentato  più  volentieri  .  Era  il  Pico  allora  in  quell'età  in  cui  la  vita  sorride  più  che  mai  all'occhio  dell'adolescente  che,  nell'esuberanza delle  proprie  forze  psichiche,  non  trova  limiti al  suo  pensiero,  e  il  bene  e  il  male  rientrano  in  quella  sfera  che  li  assorbe,  direi  quasi,  li  accomuna, cioè  l'amore.   Ciò  che  in  altre  età  può  sembrare  scandaloso,  indegno  dell'uomo,  è  nell'adolescente  tollerato;  e  anche  quando  l'uomo  avanzato  negli  anni  piange,  come  il  Pico,  i  peccati  della  gioventù,  sente  nel-,  l'amarezza  del  rimpianto  il  rimorso  di  così  cari  ricordi!  E  il  Pico  era  troppo  sensibile  per  non  sentire  questa  vita  fremente  che  gli  s'agitava  intorno, egli  ch'era  così  bello,  colle  chiome  d'oro  svolazzanti  sul  volto  radioso,  quasi  novello  Ado    «  ex  Italiae  gymnasiis  mihi  sedem  ad  philosophiae  «  studium  diligerem...  »  opera,  376.  Cfr.  DoREZ  et  ThuaSNE,  Pie  de  la  Mirandole  en  France,  Paris,  Leroux,  1879,  9.  9 ne,  come  ce  lo  dipinge  il  Ramusio  in  un  carme  latino.  Testimonianza  di  questa  vita  goliardica di  Padova,  è  la  raccolta  dei  carmi  latini  di  Girolamo  Ramusio,  ch'egli  volle  dedicare  al  Pico  verso  il  quale  si  sentiva  attratto,  oltre  che  da  tenera  amicizia,  da  identico  amore  per  lo  studio delle  lingue  orientali  e  per  la  vita  avventurosa ,  con  un  carme  intitolato:  Illustrissimo  loanni  Mirandolae  principi  ac  concordine  corniti  benemerenti, Hier.  Ramusius  paiiper  Ariminensis.  Girolamo Ramusio,  della  cui  memoria  non  c'è  traccia nelle  opere  del  Pico,  benché  nella  raccolta  delle  sue  poesie  si  trovino  inseriti  alcuni  carmi  di    quel  Donato    col  quale   il  Pico  rimase  in    Ecco  i  distici  del  carme  Lusus  in  Venerem:   Pacem  vultus  habet,  facies  exorat  amorem  Membraque  scytonia  sunt  magis  alba  nive.  Cuncta  dicent  Divum,  ut  sydus  ocelli,  Et  volitant  circum  tempora  amata  comae.   citati  dal  Flamini,  Girolamo  Ramusio,  in  Atti  e  Memorie  d.  R.  Acc.  di  Padova.  Viaggiò  in  oriente  in  cui  imparò  la  lingua  araba,  fu  a  Damasco  nel  1484,  morì  a  36  anni  il  5  giugno  1486^  mentre  si  recava  da  Damasco  a  Beiruth.  Flamini,  1.  e.     Anche  il  Donato  studiò  a  Padova  nel  1476,  conobbe  Catta,  amata  dal  Ramusio,  e  l'amore  della  fanciulla  per  l'amico  gì' ispirò  versi  di  rimpianto  per  la  immatura  morte,  e  in  essi  cerca  di  riprendere  il  Ramusio  pe'  suoi  carmi  lascivi. Assistendo  alla  laurea  dell'amico  nel  1476  scrisse  una  saffica  per  quell'occasione.  Divenuto  personaggio  influente nella  Repubblica  di  Venezia,  protesse  letterati  e  umanisti.   2  10 rapporti  epistolari,  era  oriundo  da  Rimini  dove  fu  caro  a  Pandolfo  Malatesta;  venuto  a  studiare  a  Padova  quivi  nel  1476  si  laureò,  come  dice  in  un  carme  dal  titolo:  Dum  subirem  artium  laurearti  in  collegio  doctorum  Ramusius  pauper.  Nelle  sue  poesie  «  di  un'oscenità  da  disgradarne  VHermaphroditus  del  Panormita...  e  che  sono  veramente  nugae  da  giovani  spensierati  e  scapestrati  »  canta  gli  amori  per  una  bella  fanciulla  di  Narni,  di  nome  Catta,  morta  in  età  immatura,  da  cui  pare  fosse  corrisposto.  Al  Pico  indirizzò  due  carmi,  nel  primo  dei  quali  si  duole  di  non  poter  essere  sempre  con  lui,  a  cagione  delle  strettezze  che  lo  costringono a  starsene  a  lungo  in  casa;  nel  secondo  (ch'è  una  saffica  all'oraziana)  ne  loda  la  bellezza,  la  dottrina,  la  liberalità  .   Si  deve  attribuire  senza  dubbio  a  questo  periodo, in  cui  dovette  influire  non  poco  sulla  condotta del  Pico  la  convivenza  con  studenti  del  temperamento  di  un  Ramusio  e  di  un  Donato,  la  composizione  di  gran  parte  delle  poesie  del  nostro,   le    quali    non    dovevano    essere    diverse    Flamini,  op.  cit.,  19.  Flamini,  Delle  donne  amate  dal  Pico,  due  sono  celate  sotto  lo  pseudonimo  di  Marzia  e  di  Fillide  Peona  o  Pleona,  morta  quest'ultima  in  Padova  nel  1481.  Cfr.  DoREZ  et  Th.  op.  cit.,  16  e  Della  Torre,  op.  cit.,  758,  n.  3.  11 dalle  nugae  degli  altri,  se  in  seguito  il  Pico  le  diede  alle  fiamme.  Ma  non  tutti  gli  amici  del  Pico  erano  del  tipo  suaccennato;  ve  n'era  fra  gli  altri  uno  che  per  la  sua  anima  candida  e  mite,  per  la  sua  profonda  conoscenza  della  filosofia  aristotelica, doveva  lasciare  traccie  visibili  sull'opera  del  Pico,  e  legarsi  a  lui  coi  nodi  della  più  dolce  amicizia. Eia  questi  Ermolao  Barbaro  che  da  alcuni  anni  era  titolare  di  filosofia  morale  in  quell'Università   dove  si  era  addottorato  a  ventitré  anni  nelle  leggi  civili  e  canoniche  .  Benché  nei  periodo in  cui  il  Pico  studiava  a  Padova,  Ermolao  stesse  per  lo  più  a  Venezia,  ove  copriva  importanti cariche  pubbliche  ,  pure,  le  poche  volte  che  poterono  vedersi,  si  sentirono  subito  due  anime  gemelle  fatte  per  intendersi  e  per  amarsi.  Conoscitore profondo  della  lingua  greca,  Ermolao  ri  Nei  Fasti  Gymnasii  Patavini,  Patavii,  1751,  del  FacciOLATi,  abbiamo  Ermolao  Barbaro  prof,  di  filos.  morale  dal  1472;  Fr.  Io.  Battista  ex  eremitis  di  S.  Agost.  prof,  di  logica  nel  1480,  114;  nello  stesso  anno  era  rettore  degli  artisti  Benedictus  Ariminensis,  88-89.  Cfr.  Colle,  Storia  dell' Univ.  di  Padova,  1824.  Apostolo  Zeno,  Disseri.  Vossiane,  Venezia,  1753,  t.  II,  368. Causa  la  peste  a  Venezia,  ritornò  in  Padova  ove  si  mise  a  disposizione  dei  giovani  che  lo  pregarono  d'insegnar  loro  il  greco.  In  quell'anno  fu  creato  senatore.  Cfr.  Colle,  12—   poneva  ogni  suo  intento  a  tradurre  Aristotile,  le  cui  dottrine  solide  e  profonde  erano  un  pascolo  per  la  sua  mente  costretta  sovente  a  ben  altre  faccende.  Bisogna  riconoscere  che  Padova,  la  quale  era  il  centro  del  movimento  intellettuale  del  Nord-est  d'Italia  e  per  l'insegnamento  filosofico  faceva  tutt'uno  con  l'ateneo  bolognese  ,  esercitò  sul  giovane mirandolano  un  influsso  le  cui  traccie  si  scorgono qua  e    nelle  sue  opere.  Anzi  tutto  ciò  che  vi  è  di  scolastico  e  di  medioevale  nelle  Tesi  e  in  altri  lavori  filosofici  del  Pico,  è  dovuto  a  questi anni  di  studio  nell'università  patavina  che  ha  continuato  più  a  lungo  di  qualunque  altra  le  abitudini del  medioevo.  Era  Padova  la  rocca  forte  dell'Averroismo  e  uno  dei  professori  piìi  ragguardevoli, non  privo  di  una  certa  originalità,  fu  Nicoletti  Vernia  che  insegnò  a  Padova  dal  1471  al  1499.  L'insegnamento  di  questo  averroista,  che  sosteneva  senza  restrizioni  la  teoria  dell'unità  dell'intelletto, non  dovette  svanire  si  tosto  che  il  Pico,  il    Nel  1475  aprì  nella  sua  casa  alla  Giudecca  una  scuola  privata  di  filosofia,  e  aveva  in  animo  di  tradurre  tutto  Aristotile;  peraltro  tradusse  V Etica,  la  Rettorica,  la  Dialettica  e  inoltre  scrisse  una  parafrasi  di  Temistio.  Cfr.  Renan,  Averroès  et  l'Averroisme,  Paris,  357-58;  Burckhardt,  op.  cit.,  242-244;  Mandonnet,  Sigerete  Brabant,  2^  ed.  111-112,  n.  1;  Windelband,  Storia  della Filos.  trad.  it.  Palermo  II,  16-17;  Petrarca,  Opera»  1581,  Basilea,  II,  1093.  13 cui  soggiorno  a  Padova  coincide  con  gli  anni  scolastici 1480-1482,  non  palesasse  una  certa  indulgenza  per  l'arabismo  da  fargli  vagheggiare  l'accordo  oltre  che  fra  Platone  e  Aristotile,  fra  Avicenna  e  Averroè.   Durante  i  due  anni  di  studio  a  Padova  si  recava sovente  nella  natia  Mirandola,  la  cui  quieta  e  semplice  vita  paesana  gli  tornava  sommamente  gradita  e  dove  amava  invitare  amici  e  maestri.  Ma  in  quegli  anni  la  pace  del  castello  avito  doveva interrompersi  agli  orrori  della  guerra  fratricida scoppiata  fra  veneziani  e  ferraresi.   Anche  il  Duca  di  Milano,  i  Bentivoglio  di  Bologna,  la  Repubblica  di  Genova  e  qualche altro  staterello,  erano  stati  attratti  nell'orbita  del  conflitto;  e  i  soldati  mercenari  coi  loro  cavalli e  carriaggi  taglieggiavano  e  smungevano,  durante  le  loro  scorrerie,  i  pingui  contadi  della  pianura  padana.  La  piazza  di  Mirandola,  che  era  come  una  tappa  sulla  strada  maestra,  dovette  senza  dubbio  subire  tutti  gl'inconvenienti  che  derivavano ai  piccoli  comuni  incapaci  d' imporsi  alla  forza  dei  più  potenti,  La  visione  di  una  realtà  intrisa  di  sangue,  quale  può  essere  in  periodo  di    Per  la  guerra  tra  Venezia  e  Ferrara,  vedi  Marin  Sanudo,  Commentari  della  guerra  di  Ferrara,  Venezia,  1829,  7;  Muratori,  XXIV,  257.  Du  Mont,  Corpus  Diplom.,  Ili,  2,  128.  Cipolla,  Storia  delle  Signorie  Italiane  dal  1313  al  1533,  Vallardi,  Milano,  1881,  603-640.   14 guerra,  così  lontana  da  quella  che  i  suoi  studi  umanistici  rendevano  idealmente  gentile,  avrà  certo  contribuito  a  far  abbandonare  al  nostra  ogni  pensiero  di  partecipazione  alla  vita  politica  e  di  scegliere  tra  l'instabile  carriera  di  principe  e  la  missione  di  dotto,  questa  che  gli  apriva  la  via  a  una  meta  pili  certa  e  duratura.   Già  fino  dai  primi  anni  aveva  sperimentato  la  precarietà  della  vita  principesca,  quando  poco  dopo  la  morte  del  Padre,  avvenuta  nel  1468,  i  suoi  fratelli  vennero  a  contesa  per  la  supremazia del  loro  staterello,  e  di  cui  si  ebbe  il  primo  epilogo  nel  1473,  avendo  Galeotto  fatto  prigione  il  fratello  Anton  Maria.  Questi,  liberato  dopo  due  anni  di,  carcere,  si  vide  spogliato  dei  beni  paterni  e  costretto  a  cercar  asilo  presso  il  Papa  e  il  duca  di  Calabria,  i  quali  con  grandi  sforzi  e  soltanto^  mediante  l'intromissione  di  Ercole,  cognato  di  Galeotto,  riuscirono  nel  1483  a  farli  venire  a  un  accomodamento.  Galeotto  ebbe  il  dominio  della  Mirandola  e  del  territorio  e  il  conte  Anton  Maria fu  ammesso  a  condividere  il  potere  in  moda  che  i  due  non  dovessero  pregiudicare  alle  ragioni  della  terza  parte  dell'entrata  di  detta  terra  che  spettava  al  loro   fratello   Giovanni.  Il  nostro    Cfr.  Memorie   stor.  della   ciità  e  dell'antico  ducato  della  Mirandola,  tomo  unico,  Mirandola,  1874,  IL  15 per  essere  più  libero  di  attendere  a'  suoi  studi,  declinò  ogni  inframettenza  nelle  cose  che  gli  appartenevano, e  incaricando  il  fratello  maggiore  dell'amministrazione  di  ogni  suo  avere,  partì  alla  volta  di  Pavia  col  suo  maestro  di  Greco,  Manuello  Adramitteno,  mentre  col  compatriota  di  questi,  Elia  del  Medigo  di  Candia,  con  cui  aveva  già  cominciato  a  studiare  ebraico  a  Padova,  rimase in  relazione  epistolare.  Il  suo  soggiorno  a  Pavia  dovette  essere  di  breve  durata,  perchè  alla  fine  del  1482,  lo  ritroviamo  ancora  a  Padova,  di  dove  indirizza,  il  22  dicembre,  una  lettera  al  Ficino,  la  cui  fama  d'interprete  e  volgarizzatore  delle  opere  platoniche  e  alessandrine  si  diffondeva ovunque  .    Il  Cassuto  basandosi  su  alcuni  passi  ebraici  di  Elia,  ritiene  non  risponda  al  vero  la  congettura  avanzata  dal  Della  Torre  (Storia  dell'Accademia  Platonica  di  Firenze,  1902,  752)  che  il  Pico,  partendo  da  Padova,  conducesse  seco  Elia.  Gli  Ebrei  a  Firenze  nell'età  del  Rinascimento,  Firenze,  1918,  286.  Proprio  in  quell'anno  (6  novembre  1482)  usciva  la  neologia  Platonica  del  Ficino  e  il  Pico  nella  sua  lettera  lo  prega  di  inviargliene  una  copia  e  di  assisterlo  nei  suoi  studi  i  quali  come  erano  stati  indirizzati  al  peripatetismo,  voleva  d'ora  innanzi  integrarli  col  platonismo.   Vi  è  in  questa  lettera  del  Pico  una  frase  che  fa  sospettare che  egli  abbia  veduto  il  Ficino  tre  anni  innanzi  e  cioè  nel  1479:  «  Cum  enim  apud  te  essem  superioribus  an«  nis  adhortationes  tuae  nec  unquam  ardenter  magis,  quam    16  «  ex  illa  in  hanc  usque  diem  me  totum  literis  addisci  *  id.,  373,  Ma  dove  aveva  egli  veduto  il  Ficino?  Il  Della  Torre  nella  sua  opera  afferma  a  Firenze,  ma  senza  portare nessuna  prova  di  questo  soggiorno  del  Pico  nella  città  dei  Medici.  Egli  stesso  dice  che  il  14  aprile  del  79  il  Pico  scriveva  da  Mirandola  al  Marchese  Gonzaga  che  si  recava  a  Ferrara  e  il  29  maggio  era  in  tale  città.  Se  coi  mezzi  odierni  di  trasporto  il  fatto  non  avrebbe  oggi  nulla  d'inverosimile,  non  altrettanto  può  dirsi  del  tempo  del  Pico.  Comunque  il  quesito  resta  ancora  insoluto. Pico  dopo  aver  fatto  una  nuova  visita  a  Pavia e  dopo  avere  soggiornato  alquanto  a  Carpi,  presso  la  sorella  Caterina  e  il  nipotino  Alberto  Pio,  del  quale  era  allora  precettore  l'amico  Aldo  Manuzio,  si  trasferì  ai  primi  del  1484  nella  città  di  Firenze.  L'Atene  d'Italia  si  trovava  allora  in  quel  mirabile  meriggio  in  cui  la  vita  sociale  era  fervida  in  tutte  le  sue  innumeri  attività  e  l'arte  splendeva  in  ogni  angolo  della  città,  in  ogni  manifestazione  del  popolo.  Lorenzo  Magnifico aveva  potuto,  col  suo  tatto  mirabile,  rimettere in  equilibrio  la  bilancia  dello  stato  che  aveva    Poliziano,  Episi.,  lib.  VII,  7;  Calori-Cesis,  Vita,  ecc.,  Modena,  1866,  14-15;  DoREZ  et  Thuasne,  Pie  de  la  Mirandole  en  France,  Paris,  10;  Berti,  Rivista  Contemporanea, t.  XVI,  1859,  9;  Della  Torre,  L'Accademia Platonica,  747,  n.  6.  18 momentaneamente  tracollato  con  la  congiura  det  Pazzi;  mentre  i  suoi  cortigiani  e  tali  erano  il  Ficino,  Cristoforo  Landino,  Giovanni  Argiropulo cercavano  di  attuare  un  analogo  equilibrio  nel  campo  del  pensiero  e  della  religione,  mediante  l'Accademia  Platonica,  e  il  Poliziano  teneva  alto  il  nome  dello  Studio  fiorentino  con  le  sue  affollate lezioni  di  letteratura  greca  e  latina.   Quando  il  Pico  arrivò  a  Firenze  non  vi  giunse  come  straniero  in  mezzo  a  gente  sconosciuta,  ma  come  un  amico  desiderato  dal  Magnifico  e  dal  Poliziano,  e  come  il  benvenuto  in  mezzo  a  persone che  nulla  piìi  desideravano  che  il  vedere  aggiungersi  alla  schiera  dei  ricchi  borghesi  e  letterati un  principe  umanista  che  veniva  a  fare  pìit  bella  la  corona  dei  Medici.   Tra  i  tanti  letterati  che  convenivano  nella  casa  medicea,  molti  facevano  parlare  di    oltre  che  per  la  loro  erudizione  e  dottrina  per  le  produduzioni  poetiche,  filosofiche  e  letterarie.  In  Firenze il  lavoro  di  preparazione,  ormai  matura  degli  umanisti  italiani,  cominciava  a  fiorire  in  creazioni  originali.  Il  Pico  sentiva  la  sua  inferiorità, nonostante  che  i  suoi  tentativi  poetici  venissero lodati  dagli  amici;  s'avvide  che  la  stoffa  di  umanista  si  era  ormai  invecchiata  e  conveniva  ristorarsi a  quelle  sorgive  popolari  cui  attingevano  il  Poliziano  e  il  Magnifico.  19 Fra  quanti  avvicinava,  nessuno  gii  pareva  brillasse di  pili  viva  luce  del  Poliziano,  e  nessuno  più  degno  d'essere  preso  a  modello  di  un  «  novizio e  quasi  scolaretto»,  com'egli  si  giudicava,  E  c'è  quasi  dell'accoramento  in  alcune  frasi  della  lettera  critica  alle  poesie  del  Magnifico  in  cui,  dovendo fare  da  giudice  di  un  poeta  «  adolescente  »  esclama:  «So  purtroppo  di  non  potere  far  parte  «  io  pure  di  questo  albo  (di  giovani  poeti),    di  «  essere  così  maturo  da  arrogarmi  il  titolo  di  «critico».  La  lettura  delle  poesie  dell'amico  lo  aveva  entusiasmato;  scorgeva  in  esse  i  segni  dei  tempi  nuovi:  una  certa  «  vivida  luce  »,  una  nativa  freschezza  che  sembrava  scaturire  in  suolo  vergine- In   quelle  poesie  che  toccavano  tutte  le  corde  della  vita:  laudi  mistiche  e  religiose,  canti  satirici e  burleschi,  canoni  d'amore  e  «  carnesciali  ».,  Lorenzo  Magnifico  gli  si  rivelava  grande  poeta.  Tali  poesie  gli  ricordavano  i  due  pii^i  grandi  poeti  della  letteratura  italiana:  Dante  e  Petrarca.  Aveva  del  primo  la  maestosa  serenità  del  verso  «  aspro  e  stringato  »  quale  si  addice  a  poesia  di  argomento  filosofico,  senza  però  essere  come  quegli «impolito  e  rude»;  del  secondo  la  «molle  tenerezza  *  propria  della  poesia  erotica  con  in  pili  la  maschia  robustezza  (iorosus)  dell'uomo  d'azione.  Ciò  che  spiace  nel  Petrarca  è  il  notare  qualche  freddezza  e  ridondanza  nel  verso  e  una  20 certa  ostentazione  nell'uso  delle  parole  che  tradiscono il  lavoro  di  lima,  mentre  in  Lorenzo  ogni  parola  appare  al  suo  posto  «con  naturalezza».  Dante  vola  sublime  e  mesce  con  dignità  severa  le  cose  gravi  dei  filosofi  cogli  scherzi  degli  amanti,  ma  Lorenzo  nell'aver  saputo  cospargere  qua  e    versi  ilari  e  graziosi  «sembra  abbia  superato  Dante».  Tuttavia  se  Lorenzo  appare  più  fine,  Dante  resta  più  grande.  Questa  lettera  scritta  a  Firenze  nel  luglio  del  1484  per  l'acutezza  di  alcuni  giudizi,  incontrò favore  presso  molti  amici  e  fu  uno  dei  primi  passi  verso  la  capacità  critica  del  nostro autore  il  quale,  se  si  è  lasciato  prendere  la  mano  dal  calore  della  prima  impressione  e  dalla  simpatia  che  lo  faceva  indulgere  troppo  verso  Lorenzo  bisogna  del  resto  tenere  presenti  le  circostanze  singolari  in  cui  nacquero  queste  poesie di  Lorenzo,  le  feste  pubbliche  in  cui  giovinetti e  fanciulle  le  cantavano,  le  mascherate  in  cui  venivano  recitate  rivela  tuttavia  un  acume  penetrante  e  misurato.  La  frase  quo  mihi  videris  Dantem  exsuperasse,  potrebbe   sembrare  una    Opera,  349-50.  Cfr.  Carducci,  Cavalleria  e  Umanesimo, t.  XX  delle  opere,  1909,  258;  ROSCOE,  The  life  of  Lor.,  ecc.,  London,  1800,  voi.  II;  Thuasne  et  Dorez,  op.  cit.,  15;  Geiger,  Renaissance  und  Humanismus  in  It.  und  DeuL,  Berlino,  1882.  Vedi  infine  il  bello  studio  di  SCARANO,  Le  selve  d'amore  in  Nuova  Antologia,  voi.  131,  1893,  49-66.  21 recisa  dichiarazione  circa  la  superiorità  dell'ingegno del  Magnifico,  rispetto  a  quello  dell'Alighieri, mentre  si  riferisce  solamente  all'espressione formale  in  voga  a  quei  tempi  che  tenevano  in  gran  pregio  V hilaritatem  gratiamque  in  cui  Lorenzo era  maestro.   Naturalmente  il  Pico  non  poteva  rassegnarsi  a  rimanere  semplice  amatore  di  poesia  in  mezzo  a  tanti  dotti  che  avevano  pagato  piiì  o  meno  il  loro  tributo  alle  Muse;  voleva  anch'egli  dare  qualcosa  di  suo  per  sottrarsi  a  quel  senso  d'inferiorità  che  gli  era  reso  tanto  piiì  penoso  quanto  piii  sentiva  in    lo  stimolo  della  gloria  e  il  sentimento  della  propria  ca pacità.  S'indusse  dunque  a  pubblicare  i  suoi  versi,  distribuendoli  in  cinque  libri,  e  inviò il  primo  ad  Angelo  Poliziano  perchè  lo  correggesse e  criticasse.  «  Voglia  tu  essere,  gli  scriveva, giudice  equo  non  iniquo,  cioè  severo,  non  indulgente  ».  E  il  Poliziano  gli  rimandava  il  manoscritto  corretto  di  alcuni  versi  difettosi,  con  questo  giudizio  che  non  è  privo  di  grazia  lusinghiera: «Ho  corretto  alcuni  versi  non  perchè  li  disapprovassi,  ma  perchè  sembrano  cedere  ad  altri più  belli».  Il  Pico  lusingato  sulle  prime  da  simile  benevolenza  dell'amico  per  i  suoi  componimenti poetici,  dei  quali  in  un'altra  lettera  aveva    Opera,  detto:  .  Ecco  la    Conclusione Si  quis  in     opere  prnecedentis  conclusionls  intellectualiter  operabi •  tur,  per   mcridiem    li^^abit  septentrionem,  si   vero    mun •  dialiter  per  totum  operabitur,  iudicium  sibi  opcrabitur  ».  107.  Conci.  21,  Opera,  107.     Conci.    11.   105-10^1.   (4)    Non  potest  operari  per  puram  Cabalarli  qui  non  est  «  rationaliter  intellectualis  >.  Id.  109.  112 mondo,  compose  il  suo  Heptaplus  o  settemplice  spiegazione  dei  sei  giorni  della  Genesi.   In  quest'opera  del  Pico,  in  cui  l'elemento  lirico prevale  talvolta  sulla  serena  spiegazione  cosmogonica, i  tre  mondi:  il  divino,  l'angelico,  e  l'elementare,  sono  legati  da  un'intima  armonia.  «  Haec  satis  de  tribus  mundis,  in  quibus  illud  in  «  primis  magnopere  abservandum  unde  et  nostra  «  fere  tota  pendet  intentio  esse  hos  tres  mundos  «  mundum  unum,  non  solum  propterea  quod  ab  «  uno  principio  et  ad  eundem  finem  omnes  refe«  rantur,  aut  quoniam  debitis  numeris  temperati  et  «  harmonica  quadam  naturae  cognatione  atque  or«  dinaria  graduum  serie  colligentur  ».  L'uomo,  in  questo  sistema,  è  il  compendio  dell'universo,  la  sua  figura  rappresenta  i  tre  mondi,  l'intellettuale, il  celeste  e  il  corruttibile;  è  quindi  un  piccolo mondo  .   Ma  l'armonia  non  dev'essere  solo  una  legge  dell'universo,  un  dato  della  realtà  in  tutte  quante  le  sue  manifestazioni,  essa  deve  regnare  anche  nel  pensiero  dell'uomo,  e  ogni  prodotto  dell' in  Heptaplus.  Prefatio,  id.  6.  «  Nam  si  homo  est  parvus  mundus  utique  mundus  «  est  magnus  homo,  hinc  sumpta  occasione,  tres  mun«  dos,  inteliectualem,  coelestem  et  corruptibilem,  per  tres  «  hominis  partes,  aptissime  figurai  ».61.   113 tcllctto  deve  seguire  la  legge  musicale.  Come  nei  mondo  esteriore  all'armonia  si  contrappone  il  disordine, cosi  anche  nelle  discipline  intellettuali  prevale  molte  volte  la  discordia,  prodotta  dalle  basse  passioni.  È  scopo  nobilissimo  quello  di  cercare  l'armonia  e  di  far  notare  la  concordia  anche  nelle  teorie  più  disparate.  Questo  scopo  il  Pico  se  lo  prefigge  nell'opuscolo  De  Ente  et  Uno.  Era  vecchia  la  questione  se  Aristotile  si  opponga  a  Filatone  nella  determinazione  dell'essere e  dell'uno.  La  scuola  platonica  ammetteva  la  superiorità  dell'essere  sull'uno  (unum  esse  superius),  mentre  Platone  nel  Sofista  ne  proclama  l'identità  (!'.  Com'è  facile  comprendere,  i  primi  avevano  preso  l' ipotesi  per  la  tesi,  e  attribuivano come  pensiero  del  maestro  ciò  che  non  era  in  fondo  che  la  loro  erronea  interpretazione.  Quando  parliamo  dell'essere,  intendiamo  con  questo  tutto  ciò  che  è  al  di  fuori  del  nulla,  e  in  questo  senso  Aristotile  aveva  detto  che  l'um»  è  uguale  all'essere   2).    «  tnim  vero  in  Sophistc  in  liane  scntcntiam  po«  tius  loijuitur  esse  unum  et  ens  aequalia  •.  243.  «  Quomodo  usus  est  Aristoteles  cum  uniens  ae.  quale  fecit.  Nec  dictionem  absque  ratione  sic  usurpavit.  «  nam  ut  vere  dicitur  sentire  quidcm  ut  pauci.  loqui  autein  ut  plures  debemus. Contro  quei  Platonici  moderni  che  presumonodi  avere  dalla  loro  Dionigi  l'Areopagita,  possa  affermare,  soggiunge  il  Pico,  che  Dionigi  è  piuttosto della  mia  opinione,  e  gli  avversari  si  trovano nel  dilemma  di  dover  dire  che  Dio  è  e  non  è  nello  stesso  tempo.   L'essere  in    che  diciamo  Dio,  non  è  l'essere  che  noi  intendiamo,  vale  a  dire  l'essere  concreto^  ma  quella  superentità,  che  è  la  pienezza  di  ogni  essere  e  che  non  procede  altro  che  da    stesso  .  Noi  dobbiamo  ritenere  l'uno  superiore  all'essere  nel  modo  stesso  che  si    a  Dio  l'attributo  dell'unità, principio  di  tutti  i  numeri.  Cosi  si  spiega  se  gli  Accademici  attribuiscono  a  Platone  l'affermazione che  l'uno  è  superiore  all'essere;  senza  dubbio  intendevano  parlare  dell'uno  principio  di  tutte  le  cose,  che  è  Dio.   Nel    V  il  Pico  espone  i  modi  secondo  cui  perveniamo  alla  divinità,  i  quali  però  sono  sempre    inadeguati    a   farci    comprendere    piena  Sed  et  Dionysius  Areopagita  quem  qui  centra  «  POS  disputant  fautorem  suae  sententiae  faciunt  non  ne•  gabit  vere  a  Deo  apud  Mosen  dici  Ego  sum  qui  sum  ».244.  «  Hac  igitur  ratione  vere  dicemus  Deum  non  esse  «  ens,  sed  super  ens,  et  ente  aliquid  esse  superius  ».245.  115   mente  Dio  (I).  Questi  modi  sono  qiiatii  i  li  f^ico  li  chiama  gradi  dell'ascensione  dialettica  a  Dio;  essi  corrispondono  alle  qualtro  forme  musicali che  abbiamo  analizzato.  La  prima  forma,  poiché  si  rivolge  ai  sensi  coi  suoni,  ci  fa  conoscere che  Dio  non  ò  forma  corporea,  come  insegnano gli  epicurei  e  gli  Stoici.  La  seconda  che  è  l'ars  numeranJi,  ci  fa  intuire  nell'essenza  divina qualche  cosa  che  va  al  di  \h  della  vita,  deirintelligibilitc^,  e  cioè  la  deità  che  6  in  sé.  si  raccoglie  e  si  unisce  non  come  uno  fra  molti,  ma  come  uno  innanzi  a  molti  (2.   Colla  terza  forma,  che  il  Pico  fa  corrispondere  alla  Magia  naturale,  c'imposessiamo  delle  leggi  stesse  che  presiedono  ai  destini  umani  e  nell'ordine mirabile  dell'universo  Dio  ci  appare  non  solo  come  la  bellezza  che  traluce  in  ogni  cosa,  come  il  vero  che  può  essere  frammentariamente  presente  nelle  più  differenti  dottrine,  ma  sopratutto come  bontà,  poiché  l'universo  rivela  essenzialmente un  valore  etico.  La  quarta  forma,  che  nella  gradazione    pichiana   e   la  Cabala   pura,  ci      Deus  enim  nmnimoda  et  infinita  pcrfectlo  est.  ».  247.    Deus  ipse  sua  unica  pedectione.  quae  est  sua  «  infìnitas.  sua  deitas.  quae  ipsc  est,  in  se  unit  et  colligit.  «  non  sicut  unum  ex  illis  multìs,  scd  unum  ante  illa  multa  >.249.  116 mette  in  rapporto  diretto  con  Dio,  senza  peraltro  farcelo  ben  comprendere.  Dio  infatti  non  è  solo  ciò  di  cui  non  può  pensarsi  nulla  di  più  grande,  come  dice  S.  Anselmo,  ma  ciò  che  è  infinitamente  pili  grande  di  tutto  ciò  che  può  essere  pensato.   In  questo  quarto  grado  la  nostra  mente  è  come  ottenebrata  da  caligine,  si  da  poter  appena  intravvedere  l'essenza  di  Dio  elevantesi  al  di  sopra della  stessa  unità,  bontà  e  verità,  e  innanzi  a  cui  conviene  solo,  come  dice  David,  il  silenzio:  «  Tibi  silentium  laus».  Il  silenzio!  ecco  la  musica, la  sola  musica  che  convenga  a  Dio.  Al  filosofo musicale,  è  subentrato  il  mistico,  l'uomo  cioè  che  rinnega  ogni  armonia,  ogni  bellezza  formale e  si  ritira  in  quel  mondo  chimerico  in  cui  la  tenebra  ha  lo  stesso  valore  della  luce,  il  silenzio ha  uguale  malìa  del  suono  .   Gli  ultimi  anni  del  Pico  sono  caratterizzati  da  una  vita  di  fervido  misticismo  unicamente  spesa  per  l'amore  di  Dio  e  il  bene  della  Chiesa.  A  Dio  egli  dedicò  lo  scritto  In  Orationem  dominicam  ex  oEx  quibus  colligi  illud  potest  non  solum  esse  «  Deum,  ut  dicit  Anselmus,  quo  nihil  maius  cogitari  po«  test,  sed  id  esse,  quod  infinite  maius  est  omni  eo  quod  «  potest  excogitari  ».250.  «  Ego  vero  dico  Chimaeram  quam  mente  conci«  pimus  ».261.   117 positio;  per  la  Chiesa  scrisse  l'opera   poderosa:  In  Astrologiam.   Nella  prima,  che  è  un'analisi  dell'orazione  domenicale, preceduta  da  un'enunciazione  delle  teorie del  Pico,  l'elemento  musicale  è  intimamente  connesso  a  quel  desiderio  il  cui  obbietto  è  il  sommo  bene.  Diremmo  che  quanto  più  la  preghiera è  elevata  e  disinteressata,  tanto  più  è  pura  musicalità.  Quando  l'uomo  prega  non  per  chiedere favori  o  qualche  bene  immediato,  ma  per  essere  purificato  dai  peccati,  per  raggiungere  la  dolce  contemplazione  dei  beati  e  conseguire  la  purezza  degli  angeli  ,  allora  egli  è  in  contatto  di  quel  profondo  io,  che,  come  si  esprime  il  Tagore  rivela  l'intima  natura  dell'uomo  «  più  che  «  il  bisogno  di  sostentamento  per  il  suo  corpo,  «  più  che  la  sua  avidità  di  onori  e  di  ricchezze.  «  E  quella  preghiera  non  proviene  solo  da  lui,  «essa  è  nella  profondità  di  tutte  le  cose,  è  l'in    Scimus  autem  illud  esse  sumnie  desiderandum  «  quod  est  summum  bonum  •.  Opera,  fol.  a  1.  Et  monebimur  ad  petendum  hoc  efficacissime  su«  per  omnia  a  Dee  ut  praeservet  nos  a  peccato.  Nihil  aut  «  de  rebus  huius  mundi,  aut  de  gratiis  gratis  datis  vel  «  desiderantes,  vel  a  Dee  petentes.  Diximus  igitur  nihil  «  ex  his  honis...  adiumento  esse  sicut  scientia  et  dulcedo  «  contemplationem...  ^fol.  a  2.  118 «cessante  stimolo  in  lui  deW Avih,  dello  spirito  «  di  eterna  manifestazione  (5).   Nell'opera  contro  gli  astrologi,  nel  mentre  il  Pico  ribatte  uno  per  uno  gli  argomenti  degli  avversari che  si  erigevano  a  paladini  dell'astrologia, prende  occasione  per  esporre  le  sue  idee  sulla  forma  e  le  leggi  degli  astri,  e  per  far  rilevare anche  quella  superióre  armonia  in  virtù  delia  quale  si  compone  l'apparente  disordine  del  cielo  stellato.  Intanto  fa  risaltare  subito  che  è  assolutamente arbitraria  la  configurazione  dello  Zodiaco,  come  fantastiche  e  ridicole  sono  le  rappresentazioni animali  di  cui  gli  astrologi  popolano  il  cielo  (6).   Bisogna  premettere  che  l'opera  del  Mirandolano  rispondeva  a  un  bisogno  del  tempo  in  cui  era  tutto  un  rifiorire  di  pregiudizi  astrologici,  magici e  negromantici.   Il  Pico  che  in  questo  tempo  (1492)  frequentava  il  Monastero   di   S.  Marco,   in   cui   convenivano    (5)  Tagore,  Sadhana,  reale  concezione  della  vita,  tradCarelli,  Carabba,  Lanciano,  46-47.  Cfr.  Semprini,  La  preghiera  nell'  Imitazione  di  Cristo  e  suoi  rapporti  col  misticismo, in  Rivista  di  Psicologia  an.  1919.   (6)  «  Quod  nos  in  universum  primo  declarabimus,  tum  «  singillatim,  quascunque  aliquis  Astrologorum  signavit  co«  niunctiones  magnas,  retulitque  ad  eventa  rerum  admi«  rabilium,  et  falsas  et  falso  supputatas  et  ad  effectus  falso  «  relatas,  luce  clarius  ostendemus lanti  ammiratori  del  Savonarola,  dovette  sentirsi  stimolato  dal  frate  ad  impugnare  quell'arma  potente contro  la  pretesa  degli  astrologi,  che  consisteva nel  far  dipendere  i  miracoli  dal  potere  diretto  di  Dio  e  quindi  dalla  sua  grazia,  non  già  dall'influsso  degli  astri.  Era  ben  vero  che  egli  andava  con  questo  un    contro  le  convinzioni  care  de'  suoi  amici,  contro  il  fervore  delle  idee  astrologiche  del  suo  tempo  e  in  parte  contro  certe  convinzioni  sue  precedentemente  manifestate.   Ma  appunto  in  questa  serie  di  contrasti,  la  natura sua  battagliera  trovava  stimolo  ad  agire  e  a  incanalare  le  aspirazioni  del  suo  cuore  dietro  le  orme  del  Savonarola.   Era  propria  dei  popoli  primitivi  la  concezione  che  il  mondo  fosse  un  vasto  organismo  le  cui  parti  sarebbero  unite  da  uno  scambio  incessante  di  molecole  e  di  effluvi.   Gli  astri,  generatori  di  energia,  agiscono  costantemente sulla  terra  e  sull'uomo,  e  l'uomo  ha  il  suo  destino  segnato  in  una  delle  tremolanti  stelle  che  vibra  nella  sua  corsa  pei  cieli  insondabili in  armonia  con  quell'essere  umano.  Tale  concezione  sopravvisse  nel  mondo  greco,  s'impose agli  scrittori  latini,  ricomparve  arricchita  di  una  vasta  letteratura  nel  medioevo  e  nel  Rinascimento. Al  tempo  in  cui  il  Pico  scrisse  la  sua  polemica  il  tema  astrologico  trovava  dei  cultori  120 appasionati  e  già  Ambrogio  Traversari,  Paolo  del  Pozzo  Toscanelli  e  Matteo  Palmieri  avevano  preparato,  colle  loro  discussioni  nel  convento  degli Angeli  in  Firenze,  la  materia  per  i  difensori e  gli  oppositori  dell'astrologia.  Era  pur  sempre  in  questi  lontani  e  talvolta  semplicisti  precursori  della  Astronomia  moderna,  l'aspirazione  a  poter  misurare  il  corso  dei  pianeti,  ridurre  in  numeri^  in  intervalli  di  tempo  la  danza  delle  infinite  stelle  i  cui  movimenti  complessi  producono  «  l'armonia  delle  sfere  »  .  Ma  il  Pico,  sebbene  avesse  avuto  un  concetto  così  grande  della  potenza  dei  numeri  e  avesse  propugnato  la  sua  ars  numera/idi,  quando  vide  con  quale  leggerezza  fossero  numerate  le  plaghe  del  cielo  (universas  coeli  partes)  e  con  quale  baldanza  venissero  attribuite  ad  esse  le  diverse qualità  della  natura  umana  (diversas  in  rebus naturalibus  proprietates),  reagì  con  la  voce  del  buon  senso.  È  impossibile  trovare  un'affinità  matematicamente determinabile  fra  le  figure  del  cielo  e  le  affezioni  umane,  com'è  anche  assurdo  voler  determinare   dai    segni,  dalle    case  e  dalle    con  Soldati,  La  Poesia  Astrologica  del  Quattrocento,  Firenze, Sansoni,  1906,  199-220.  «  Erraticae  stellae  per  zodiacum  aequo  cursu  non  «  deferuntur,  hoc  est  non  acquali  temporis  intervallo...  qui  «  igitur  metiri  illorum  motus  et  dirigere  in  numeros  volu«erunt  ».561.  121  giunzioni  degli  astri,  il  sesso,  le  qualità  fisiche  e  morali  degli  individui.  Anzi  il  Pico  sembra  andar contro  persino  alla  sua  favorita  idea  dell'armonia che  gli  faceva  vedere  rapporti  musicali  non  solo  negli  oggetti  tra  loro  ma  anche  fra  la  natura  e  l'uomo.  Egli  crede  che  si  voglia  correre  troppo  quando  si  applicano  questi  rapporti  musicali agli  astri,  poiché  la  loro  infinita  distanza  rende  impossibile  qualsiasi  esatta  determinazione.  Vi  sono  dei  moderni,  egli  dice,  che  vorrebbero  trovare  delle  dissonanze  e  delle  armonie  negli  astri;  come  i  musici  le  trovano  fra  le  diverse  voci  del  suono.  Troverebbero  delle  assonanze,  come  tra  la  terza  e  la  quinta,  o  dissonanze  fra  la  quarta  e  la  settima,  anche  tra  i  triangoli  stellati  della  quinta  e  i  quadrati  della  quarta.  Ma  è  un  volere,  soggiunge  il  Pico,  prendere  per  realtà  ciò  che  non  può  essere  che  similitudine.  Non  vi  sono  spazi  celesti  muti,  altri  dissonanti,  altri  armonici, perchè  il  cielo  non  emette   voce  alcuna  .    «  Excogitata  postremo  neotericis  quibusdam  de  «  musicis  consonantiis  alia  ratio,  ex  qua  radios  planeta«  rum  tum  concinnere  invicem,  tum  dissonare  harmonia«  rum  quadam  similitudine  tradunt.  Est  enim,  inquiunt,  apud  «  musicos  comprobatum  ratione  et  experientia  tertiam  vo«  cem  et  quintam  primae  consonare,  quartam  vero  et  sep«  timam  nequaquam  ».596.  «  Nos  vero  ut  omittamus  istas  in  tam  diversis  re«  rum  generibus  similitudines,  efficaciam,  rationem  decla 122 Vi  è    l'armonia  anche  nell'universo  stellato,  la  legge  musicale  vige  anche  in  mezzo  alle  erranti  comete  e  all'immobile  fascia  lucente  della  via  Lattea.  Ma  questa  musicalità  è  avvertibile  da  ben  altri  orecchi  che  non  siano  questi  sensibili,  essa  appartiene  a  quel  grado  di  cui  la  musica  dei  suoni  è  la  forma  più  grossolana  e,  per  essere gustata,  richiede  un  processo  laborioso  della  mente  umana,  un'elevazione  spirituale  che  non  a  tutti  è  dato  raggiungere.  Nondimeno  tale  elevazione fu  raggiunta  e  quei  pochi  tra  i  mortali  che  hanno  potuto  gustare  il  concento  della  sinfonia  universale,  si  sono  sforzati  di  tradurre  le  impressioni in  quelle  forme  del  nostro  linguaggio  che  obbediscono  più  visibilmente  alle  leggi  della  musica. Nell'opera  del  Mirandolano  contro  gli  astrologi si  trova  spesso  citato  il  salmo  XVlll  in  cui  il  profeta  Davide  fa  risaltare  la  grandezza  di  Dio,  richiamandosi  all'armonia  del  firmamento.  .  E  invero  pochi  brani  delle  varie  letterature  possono rivaleggiare  con  questo  salmo  che  sintetizza  e  rende  quasi,  con  sublime  laconicità,  il  linguaggio' degli  astri.  «  Coeli  enarrant  gloriam  Dei,  et  «  opera    manuum    eius    annuntiat    firmamentum.    «  rabimus  non  habere  atque  computationem  et  similitudi«  nem  non  procedere...  sed  (coelum)  nuUam  vocem  emit«  tit  ».  Opera,  597.  123   «  Non  sunt  loquelae,  neque  sermones,  quorum  «  non  audiantur  voces  eorum.   «  In  omnem  terram  exivit  sonus  eorum  :  et  in  «  fines  orbis  terrae  verba  eorum».  Il  suono  della  musica  stellare  è  cosi  diffuso  e  riempie  di    ogni  punto  della  terra,  che  non  c'è  creatura  che  non  goda  di  una  tale  armonia  e  non  esulti  alla  vista  del  re  degli  astri  che    spunta  fuori  qual  gigante  per  correre  il  suo  cammino».  La  musica  degli astri  ha  la  sua  scala  e  le  note,  di  cui  questa  si  compone,  risuonano  in  modo  diverso  nel  cuore  umano.  L'uomo,  se  è  proclive  ai  beni  frivoli  della  vita,  non  trova  negli  astri  un'armonia  diversa  da  quella  che  ci  descrissero  gli  astrologi.  Se  intende l'armonia  degli  astri  da  un  punto  di  vista  naturalistico,  considera  il  cielo  alla  stregua  di  tutte   le  cose    create    soggette  a   trasformazione.   Le  stelle  percorrendo  le  loro  orbite  sono  illuminate da  altri  astri  a  volte  compagni  inseparabili, a  volte  sconosciuti  che  incontrano  forse  una  volta  sola  per  non  più  rivedere  nel  periodo  lunghissimo della  loro  esistenza,  durante  la  quale  mostrano  la  giovinezza  nelle  iridescenze  del  verde  aranciato,  la  pienezza  matura  nella  chiarità  bril  «In  sole   posuit  tabernaculum  suum:   et   ipse  tamquam  sponsus  procedens  de  thalamo  suo:  Exultavit  ut  gigas  ad  currcndam  viam  •.  Ps.  XViiI,  5.  124 lante,  l'agonia  nel  tremulo  guizzo  di  porpora.  Ma  se  invece  l'uomo  cerca  nel  cielo  un  simbolo,  nelle  leggi  che  regolano  il  corso  delle  sfere  un  termine  di  confronto  per  le  leggi  eterne  che  sgorgana  dal  profondo  del  suo  io,  allora  egli  non  può  non  proiettare  in  questi  mondi,  così  lontani  dalla  propria esperienza,  la  trama  delle  sue  piij  squisite  elucubrazioni.   S.  Agostino  ci  ha  descritto  in  alcune  pagine  delle  sue  Confessioni  il  momento  in  cui  egli  con  la  madre  Monica,  ragionando  della  felicità  eterna  di  fronte  al  mare  di  Ostia,  fu  compreso  da  quelle  squisite  risonanze  che  sembravano  provenire  dall'alto. «  Peragravimus  gradis  cuncta  corporalia  et  «  ipsum  coelum  unde  sol  et  luna  et  stellae  lucent  «  super  terram  ».  Dinanzi  a  quella  musica  tutto  quanto  sapesse  di  suono  era  uno  strepito^  anche  il  timbro  della  voce  più  cara  parlante  di  cose  spirituali: «Et  dum  loquimur  et  inhiamus  illi,  at«  tingimus  eam  modice  toto  ictu  cordis  et  suspi«  ravimus  et  relinquimus  ibi  religatas  primitias  «  spiritus  et  remeavimus  ad  strepitum  oris  no«  stri,  ubi  verbum  et  incipitur  et  finitur  »  .  Tutto  doveva  finire  e  scomparire  dinanzi  a  ciò  che  era  la  vera  realtà,  la  musica  celeste.  «  Si  cui    AUG.  Conf.  lib.  IX,  cap.  X.125 «  sileat  tumultum  carnis;  sileant  phantasiae  ter«  rae  et  acquarum  et  aeris,  sileant  poli  et  ipsi  *  sibi  anima  sileat  et  transeat  se  non  se  cogi«  tando.  Sileant  sommia  et  imaginariae  revelatio«  nes,  omnis  lingua  et  omne  signum,et  quidquid  *transeundo  fit,  si  cui  sileat  omnino  ».  Ecco  espresso  con  linguaggio  umano  ciò  che  rappresenta la  musica  pura,  il  misticismo.  11  silenzio  profondo,  ottenuto  con  l'astrazione  da  ogni  flusso  del  tempo,  da  ogni  ritmo  che  accompagna  le  cose  viventi,  da  ogni  procedimento  verbale  che  esprime  il  pensiero,  è  indispensabile  per  metterci  in  contatto con  V Armonia,  che,  come  ben  la  definì  il  Pico,  è  quella  legge  suprema  in  cui  si  compone  ogni  discordia,  si  rappacifica  ogni  contesa,  si  unifica  ogni  cosa  dispersa.   Tale  è  la  dottrina  occulta  del  Pico,  dottrina  che,  pur  avendo  nel  suo  autore  diverse  denominazioni :  ars  numerandi,  ars  combinandi,  alfabetaria  revolutio,  si  riduce  a  un  concetto  sempre  chiaro  nello  spirito  dell' autore:  musicalità  o  armonia.   Ciò  che  ci  riempe  di  ammirazione  per  il  Pico  è  il  vedere  come  abbia  saputo  valorizzare  tutto  ciò  che  nel  mondo  e  nella  vita  vi  è  di  occulto      di    misterioso,    come    protendesse    sempre    lo    {!>  AuG.,  Con/.,  lib.  IX,  cap.  X.  126 sguardo  suo  curioso  al  di    della  natura  fenomenica e  cogliesse  da  ogni  dottrina,  da  ogni  scuola,  da  ogni  manifestazione  del  pensiero  anche  meno  evoluto,  anche  più  avvolto  nelle  favole  e  nei  miti,  quegli  sprazzi  di  luce  sulle  arcane  verità che  accendevano  ognora  la  sua  fervida  immaginazione. Ed  è  bello  vedere  questo  giovane  dovizioso  e  fervente  compreso  della  verità  di  questa dottrina  occulta  che,  pur  essendo  implicita  nelle  più  antiche  filosofie,  dalla  Pitagorica  alla  Platonica,  dall'Egiziana  (Ermete  Trimegisto)  alla  Cabalistica,  non  ha  mai  trovato  alcun  assertore  della  sua  importanza  metodologica,  di  scienza,  cioè,  atta  a  farci  penetrare  nel  sacrario  delle  segrete discipline.  È  bello  pure  vederlo  sostenere  la  bontà  della  sua  dottrina  contro  gli  oppositori  e  i  giudici  del  santo  uffizio.   Egli  si  sforza,  è  vero,  di  trovare  qualche  scappatoia per  sfuggire  alla  condanna  e  si  rifugia  nella  casistica  della  scolastica,  quando  distingue  una  Cabala  vera  (tradita)  da  una  falsa,  una  Magia naturale,  da  una  illegittima;  ma,  pur  attraverso i  suoi  distinguo,  egli  afferma  solennemente  la  lealtà  delle  proprie  intenzioni,  la  sua  sincera  dedizione alla  verità.  Convinto  che  la  sua  dottrina  esigesse  da  parte  degli  esaminatori  una  competenza in  materia  occulta,  cioè  una  vera  e  propria  iniziazione,  egli  prega  gli  amici  e  i  nemici,  i  buoni  127 e  i  cattivi,  i  dotti  e  gl'ignoranti  che  vogliano  leggere i  suoi  scritti,  con  quella  purità  d'intenzioni  da  cui  era  stato  mosso  nel  redigere  le  Tesi.  E  poiché  molte  cose  da  lui  dette  potrebbero  trarre  in  errore  coloro  che  non  hanno  pratica  di  scienze  occulte,  spera  che  ciò  che  è  stato  scritto  per  gì'  iniziati  non  venga  esposto  pubblicamente  a  tutti,  perchè  sarebbe  come  dare  le  perle  ai  porci  e  peggiorare  la  sua  causa.   Nel  corso  della  narrazione  vedremo  come  venissero ascoltate  queste  parole,  e  come  rimanesse  il  nostro  fedele  alla  sua  dottrina  esoterica  .    (Il  «Oro  igitur,  obsecro  et  obtestor  amicos  et  inimi«  cos,  pios  et  impios,  doctos  et  indoctos...  non  explicitas  «  non  legant,  quando  Inter  doctos  eas  proposuimus  di«  sputandas,  non  passim  legendas  omnibus  pubblicavimus  ».  Opera,  237.  Parte  di  ciò  che  formava  il  contenuto  di  questo    doveva  essere  pubblicato  nella  collana  Ritmo  f  ndata  da  Diego  Ruiz,  alle  cui  idee  originali  sul  concetto  di  musica,  benché  contrastanti  con  le  mie,  devo  rendere  qui  omaggio.      VII   La  pri:xioiiia  del  Pico  in  Francia.  8cc(MmIo    soggiorni»    a    Firenze    Il  Pico  clic  riguardava  la  città  di  Parigi  come  un  luogo  in  cui  sarebbe  più  facile  ottenere  quel  successo  che  a  Roma  non  aveva  potuto  conseguire, s'incamminò  sulla  fine  del  1487  alla  volta  di  Francia.  Innocenzo  Vili,  non  contento  degli  ordini  impartiti  alle  autorità  religiose  perchè  denunciassero o  impedissero  ogni  tentativo  del  Pico  per  divulgare  le  sue  Tesi  e  la  sua  Apologia,  si  rivolse  anche  all'autorità  secolare,  come  fece  con  un   breve   indirizzato   ai   sovrani   di   Spagna,    fi)  Bolctin  de  la  Rcal  Accademia  de  la  tìisioria,  Madrid,  Pico  de  la  Mirandula  y  la  inquisición  cspanola.  Breve  inedito  di  Innocenzo  Vili,  cfr.  DoREZ  et  Th,  op.  cit.,  71,  n.  1.   130 perchè  si  procedesse  all'arresto  del  Conte  recidivo.  Nel  Gennaio  dell'anno  seguente  mentre  il  Pico  attraversava  il  Delfinato,  veniva  a  conoscenza  del  breve  del  5  agosto  «  essendo  io  nel  cammino  di  Pranza»,  e  fatto  arrestare  dal  Signore  di  Eresse,  zio  del  re  di  Francia  e  governatore  del  Delfinato.  L'ordine  di  questo  arresto  si  spiega  subito:  avendo  il  papa  inviato  in  Francia  ai  primi  di  Gennaio  due  nunci  di  valore  Leonello  Chieregato  ,  vescovo di  Traìi  e  il  protonotario  Antonio  Flores,  per  trattarvi  affari  di  grande  importanza,  come  il  processo  dei  vescovi  che  si  erano  dichiarati  contro  la  reggente,  e  il  ritorno  alla  Prammatica  Sanzione,  incaricò  pure  costoro  di  far  ottenere  l'arresto  del  Mirandolano.  Ed  essi  con  una  tenacia «degna  di  cagnotti  polizieschi  »,  riuscirono,  malgrado  che  in  favore  del  Conte  intercedesse  presso  il  re  l'ambasciatore  del  duca  di  Milano,  a  farlo  trattenere  in  carcere.  La  rocca  di  Vincennes  nella  quale  venne  rinchiuso  il  giovane  conte,  dovette ispirargli  ben  tristi  riflessioni  sul  proprio  avvenire  con  la  prospettiva  di  una  lunga  prigionia. Forse  allora  piia  che  mai   avrà  sentita  a      (1,1  BERTI,  /.  e.  doc.  I,  52.  Simeone  Ljubic,  Dispacci  di  Luca  de  Tolentis  e  di  Lionello  Chieregato,  Zagabria,  1870,  9-11.Cfr.  DoREZ.  et  Th.  op.  cit.,  72,  n.  2.  131 vicina  l'ombra  del  grande  Origene,  le  esperienze  della  cui  vita  egli  ripeteva  con  non  poca  somiglianza! Ma  se  il  Pico  aveva  dei  nemici  che  tentavano ogni  mezzo  per  perderlo,  contava  altresì  amici  che  sinceramente  lo  amavano,  e  che  non  l'abbandonarono  nella  sventura.  La  figura  del  Magnifico  assume,  durante  questa  drammatica  vicenda, un  aspetto  del  tutto  nuovo  e  simpatico,  forse  perchè  ci  è  meno  noto,  e  tanto  meglio  riconosciamo l'umanità  del  suo  cuore,  in  quanto  sta  a  lui  di  fronte  l'anima  intransigente  di  Giambattista Cybo,  che  portò  sulla  Cattedra  di  San  Pietro  i  difetti  della  sua  scarsa  intelligenzaLa  lettera  che  scrisse  in  questo  tempo  (19  gennaio)  Lorenzo  al  Lanfredini,  il  quale  non  appare  molto  ben  disposto  verso  il  Pico,  è  una  bella  testimo  (Ij  Fu  la  sua  bolla  contro  la  stregoneria  (1482)  che  elevò,  per  dirla  col  Symonds,  a  metodo  la  persecuzione  contro  disgraziate  vecchie  e  idiote.  Lo  Sprenger  nel  Malleus  maleficarum  nota  che,  nel  primo  anno  dopo  che  quella  fu  pubblicata,  41  streghe  furono  bruciate  nel  distretto  di  Como.  Intorno  alle  persecuzioni  contro  le  streghe  nella  Valtellina,  vedi  Cantù,  Storia  della  Diocesi  di  Como,  e  Folengo  nella  sua  Maccheronea.   Non  bisogna  però  disconoscere  il  debito  che  deve  a  Innocenzo  Vili  l'Università  di  Roma  «sotto  il  quale  co«  minciò  a  respirare,  e  a  riprendere  in  gran  parte  il  vigore  «  e  il  lustro  primiero  ».  RoviNAZZi,  Storia  dell'  Università  degli  studi  di  Roma,  Roma,  1803,  196-197.  132 nianza  dell'  affetto  che  Lorenzo  nutriva  per  il  giovane Mirandolano.  Essa  dice  che  le  molte  persecuzioni che  in  Roma  si  tramano  contro  il  Pico,  potrebbero  menarlo  per  disperazione  a  «  qualche  via  cattiva»;  che  è  piiì  facile  riuscire  nell'intento  con  le  maniere  dolci  che  con  bolle  e  scomuniche,  che  avendo  fatto  esaminare  l'Apologia  a  persone  religiose  e  dotte  e  intelligenti,  le  quali  non  trovarono nulla  contro  la  fede,  non  può  comprendere  perchè  si  voglia  essere  così  intransigenti,  massime  quando  chi  ha  scritto  tali  cose  è  un  «  giovane  doctissimo  et  fresco  su  la  doctrina».  Meno  nota  ancora  è  la  parte  che  ebbe  in  favore  del  Pico  Chiara  Gonzaga,  sorella  del  Marchese  Francesco di  Mantova,  la  quale,  andata  sposa  nel  1481  a  Gilbert  di  Montpensier  della  Casa  Borbonica,  cooperò  con  insistenza  presso  il  consorte,  così  che  questi  «  motus  praecibus  et  commendationibus  «  quae  ex  Italia  mittebantur  »  ,  ottenne  che  il  re  Carlo  Vili,  che  non  nascondeva  le  sue  simpatie  verso  l'illustre  erudito,  menasse  le  cose  per  le    (Ij  Berti,  1.  e,  32.   (2i  «  Numerose  lettere  gli  arrivavano  ugualmente  dal«  r  Italia,  in  cui  contava  molti  amici,  tanto  alla  Corte  di  «  Milano  che  a  quella  di  Roma,  i  quali  lo  pregavano  di  «  usare  tutta  la  sua  influenza  sul  re  in  favore  della  causa  «  del  Mir.  »  Dorez  et  th,.  op.  cit.,  97.  V.  anche  nella  stessa  opera  appena,  doc.  V,  4,  133 lunghe.  I  nunci,  frattanto,  la  cui  opera  svolta  in  rigida  conformità  ai  brevi  pontifici,  è  ampiamente  trattata  col  sussidio  di  preziosi  documenti  dal  Dorez  e  dal  Thuasne  nell'opera  piìi  volte  citata,  dovendo  lasciare  Parigi  per  accompagnare  la  Corte  «  pour  l'expédition  des  autre  affaires  dont  ils  étaient  chargés  »,  incaricarono  il  vescovo  di  Grenoble,  Laurent  Allemand,  di  volerli  sostituire.  Ma  ormai  era  troppo  tardi:  il  Pico,  dopo  una  prigionia  di  circa  un  mese,  venne  posto  in  libertà,  e  potè  passare il  confine.   Corse  allora  la  voce  ch'egli  si  fosse  recato  in  Germania,  avendo  più  volte  espresso  il  desiderio  di  visitare  la  biblioteca  del  Cardinale  di  Cusa  e  di  fare  acquisto  di  libri.   Si  disse  pure  che  fosse  stato  invitato  dal  re  di  Castiglia,  Ferdinando,  che  si  era  mostrato  desideroso di  riceverlo  onorevolmente  nel  suo  regno .  il  vero  si  è  che  il  Pico  ripassò  le  Alpi  e  giunse  all'ospitale  Torino.  Mentre  attendeva  a  riordinare  in  questa  città  le  sue  cose,  libri  e  ba  ll i  DOREZ  et  Th.  op.  cit.,  92.  Qual'era  il  movente  di  questo  re,  si  domanda  il  Dorez,  la  cui  slealtà  e  perfidia  sono  i  suoi  caratteri  salienti, ad  invitare  nel  suo  regno  il  Pico?  Forse  per  impadronirsi della  sua  persona  e  consegnarlo  al  Santo  Uffizio  per  ingraziarzi  Roma?  l'ipotesi  non  è  inverosimile.  Op.  cit.,  99-100.  134 gagli,  che  durante  la  cattura  erano  stati  manomessi, e  a  scrivere  in  tal  senso  a  Filippo  di  Bresse  e  ad  altri  personaggi,  di  cui  ora  non  aveva  piiì  nulla  a  temere  0);  ricevette  una  lettera  dal  Ficino  (30  maggio)  che  gli  offriva  1'  amichevole  protezione  del  Magnifico  e  lo  invitava  a  Firenze.  Intanto  nell'animo dei  nunci  si  era  prodotto  un  cambiamento  singolare,  come  lo  dimostrano  le  parole  con  le  quali  terminano  uno  dei  loro  rapporti  al  papa:  «  Existimamus  qiiod  bonum  esset  si  Sanctitas  Vestra  «  eius  conversioni  et  ad  gremium  suum  reductioni  «  operam  darei  »  .  Tuttavia  l'animo  del  pontefice  era  lungi  dall'essere  placato  e  disposto  a  rimetterlo nella  sua  buona  grazia;  forse  gli  suonava  sgradita la  frase  con  cui  il  Pico  lo  aveva  qualificato  nell'Apologia:  cui  ab  innocentia  vitae  nomen  meritissimum.  Si  sa  infatti  che  Giovan  Battista  Cybo,  prima  di  abbracciare  lo  stato  ecclesiastico,  visse  nella  depravata  Corte  aragonese,  conducendo  una  vita  punto  migliore  dagli  altri,  ed  ebbe  due  figli  naturali  :  Teodorina  e  Franceschetto.  Sebbene,  come  osserva  il  Pastor,  non  si  abbiano  testimonianze  sulla  sua  condotta  morale,  allorché  entrò  nello  stato  sacerdotale,  pure  quando  fu  divenuto  papa,    Op.  cit,  100-101.  Docum.  V,  6,  cit.  dal  DoREZ  et  Th.,  op.  cit,  162    anche  101.  135 -correvano  voci  sopra  altri  figli,  ed  è  notorio  un   epigramma  del   poeta   Marnilo  che  taluno  prese   alla  lettera:   .  Octo  nocens  piieros  genuit,  totidenque  puellas;  Hunc  merito  potuit  dicere  Roma  patrem  •.   Del  resto  è  con  questo  papa  che  si  accentua  quell'infausta  politica  che  produrrà  la  piaga  del  nepotismo  da  cui  tanti  guai  derivano  all' Italia.  Innocenzo  Vili  pone  sulla  scena  politica  il  suo  figlio  Franceschetto,  giovane  più  che  mai  dissoluto, il  quale  «  commetteva  disordini  tali,  che  in  «un  figlio  del  papa  doppiamente  sconvenivano  »,  a  cui  diede  in  isposa  Maddalena  de'  Medici,  stringendo  così  parentela  con  Lorenzo  il  Magnifico (l).  Questi  perorò  insistentemente  la  causa  del  Mirandolano  presso  il  papa,  il  quale  da  uomo  debole  ed  arrendevole  com'era,  si  lasciava  con  dì Pastor,  1.  e,  197.   Se  Sisto  s'era  arricchito  colla  vendita  di  ogni  sorta  di  grazie  e  di  dignità,  Innocenzo  e  suo  figlio  eressero  addirittura una  banca  di  grazie  temporali,  nella  quale  dietro  il  pagamento  di  tasse  alquanto  elevate,  poteva  ottenersi  l'impunità  per  qualsiasi  assassinio  o  delitto:  di  ogni  ammenda 150  ducati  ricadevano  alla  Camera  papale,  il  di  più  a  Franceschetto...  Per  Franceschetto  la  questione  principale era  di  sapere  come  avrebbe  potuto  piantare  tutti  con  quanti  tesori  poteva,  nel  caso  che  il  papa  venisse  a  morire.  Burckhardt,  op.  cit.,  126.  136 vincere  dai  malevoli  per  intentare  qualche  cosa  di  serio  al  Pico.  Ad  irritarlo  maggiormente  contribuirono alcuni  famigliari  del  Mirandolano,  i  quali,  avendo  «  troppo  temerariamente  e  super«  bamente  parlato  contro  il  papa  »  erano  stati  messi  in  carcere,  recando  così  pregiudizio  alla  causa  stessa  del  loro  Signore.  Questo  incidente  impensierì  non  poco  il  Pico,  cui  premeva  che  le  dicerie  esagerate  a  suo  riguardo  non  finissero  per  alienargli  la  simpatia  di  Lorenzo,  e  in  questo  senso  chiedeva  informazioni  al  Salviati,  fornendogli  le  prove  della  sua  incolpabilità  in  tale  faccenda.  A  questa  lettera  rispose  il  Ficino  rassicurandolo  della  costante  benevolenza  di  Lorenzo  il  quale  soggiungeva «  il  tutto  volentieri  udì  e  per  ciò  po«  temmo  considerare  che  nell'animo  suo  non  era  «  odio  alcuno  verso  di  voi,  ma  tutto  amore  »  .  Che  così  fosse  lo  vediamo  in  un'altra  lettera  del  Ficino  (30  maggio  1488)  in  cui  narra  che  Lorenzo,  pur  nel  dolore  per  la  morte  di  una  sua  figliuola,  trova  modo  di  pensare  al  Pico,  la  cui  sorte  travagliata gli   pare  simile   alla  sua,  quasi   che  un    (1  «  É  ti  fa  l'effetto  di  un  uomo  il  quale  si  lascia  consigliare da  altri  più  anzi  che  da    stesso  »,  scrive  l'ambasciatore fiorentino  il  29  Agosto  1484.   2'  Come  attesta  una  lettera  del  Ficino,  lib.  Vili,  trad.  Figliucci  senese,  Venezia,  1548,  t.  II,  114.   137 fato  gravi  sulla  vita  dei  principi  e  degli  uomini  grandi,  il  medesimo,  dopo  aver  accennato  da  «quanti  pericoli  sia  questo  giovane  minacciato»,  rivolgendosi  al  Ficino  dice:  «E  voi  avete  mai  di  questa  cosa  qualche  più  ascosa  causa  ritrovato  ?  »  Al  che  il  Ficino  risponde,  conforme  alle  sue  teorie,  che  la  causa  risiede  nelle  essenze  che  presiedono,  come  ai  vari  ordini  di  uomini,  alle  congiunzioni  dei  pianeti;  per  cui  essendo  tanto  Lorenzo  che  il  Pico  nati  sotto  la  «copula  di  Saturno»,  i  demoni di  questo  sono  ostacolati  da  quelli  di  Marte.  Tuttavia  siccome  Saturno  è  superiore  a  Marte,  così  i  demoni  che  presiedono  alla  loro  sorte,  avranno  il  sopravvento  su  quelli  avversari  (1  ).  Questa lettera  illustra  l'indole  mistica  e  superstiziosa  del  Ficino,  il  quale  dilettavasi  di  predire  il  futuro agli  amici,  e  a  proposito  del  Pico  soleva  dire  che  era  nato  l'anno  in  cui  egli  aveva  posto  mano  alla  traduzione  di  Platone,  ed  era  venuto  a  Firenze  il  giorno  e  l'ora  stessi  della  publicazione.   Il  Pico  da  parte  sua  si  tenne  sempre  esente  da  queste  aberrazioni,  grazie  a  quell'amabile  ironia  insita  nella  sua  natura.  Ecco  com'egli  scherza  sul  significato  del  pianeta  Saturno  e  sulla  fede  che  l'amico  dimostra  nell'influsso  delle  stelle.  «  Forse,      lib.  Vili,  119-120.   10  138 «  dice,  Saturno  non  è  cosi  propizio  come  voi  as«  serite,  perchè  il  suo  moto  retrogado  comunica  «  la  stessa  direzione  ai  vostri  passi  ogni  volta  «che  v'incamminate  per  venire  da  me,  perchè  «per  ben  due  volte  siete  tornato  indietro*.  Ritornando  a  Lorenzo,  questi  non  si  lasciava  sfuggire  nessun'occasione  per  rendersi  utile  al  Conte.  Essendo  di  passaggio  per  Firenze  Anton  Maria,  fratello  del  nostro  Giovanni,  che  si  recava  a  Roma,  Lorenzo  lo  incarica  di  «  operare  gagliar«  damente  per  indurre  il  Pontefice  a  far  venire  a  «  Roma  il  conte  Giovanni.  A  me  piacerebbe  que«  sta  venuta  perchè  forse  (Giovanni)  purgherebbe  «  questa  sua  calunnia  et  contumacia,  et  sua  San«  tità  lo  raccoglierebbe  in  grazia  »  .  Veramente  nessuno  sembrava  più  indicato  a  perorare  presso  il  Papa  la  causa  di  Giovan  Pico  del  fratello  Anton Maria,  il  quale  godeva  la  benevolenza  di  Innocenzo Vili,  ed  era  dal  medesimo  protetto  in  ogni  contesa  che,  a  causa  della  signoria  della  Mirandola,  aveva  col  fratello  maggiore  Galeotto.  Ma  non  pare  che  quegli  si  desse  molto  d'attorno  per  Giovanni,  e  il  Papa  era  pieno  di  un  si  osti  li) Epist.  libr.  Vili,  120.  Dal  carteggio  mediceo,  riportato  dal  Berti  nel  suo  studio  1.  e,  35.  139 nato  rancore,  che  nulla  valeva  a  migliorare  la  situazione  del  Mirandolano.   Tuttavia  le  insistenze  del  Magnifico  riuscirono  alfine  a  smuovere  l'animo  di  Innocenzo  Vili,  che  accondiscese  a  permettere  al  Pico  di  venire  a  Roma  a  discolparsi  dinanzi  a  testimoni,  riservandosi di  dargli  quella  penitenza  che  avrebbe  creduta necessaria  all'uopo.  Il  Mirandolano,  cui  era  pervenuta  una  lettera  di  Lorenzo  che  si  dimostrava contento  dell'esito  promettente  delle  sue  premure,  non  sentendosi  ancora  disposto  a  fare  il  gran  passo,  credette  più  opportuno  di  fermarsi  a  Firenze  (giugno  1488).   Quivi,  nella  città  che  aveva  dato  il  primo  spunto  alla  sua  gloria,  vicino  agli  amici  che  teneramente   10  amavano,  si  senti  rinascere  alla  gioia  dello  studio,  una  gioia  però  velata  da  un'intima  tristezza che  gli  derivava  dal  suo  sogno  svanito.   11  dissidio  interiore  che  qualche  anno  addietro  aveva  provato  nella  città  fiorentina,  si  era  approfondito in  un  doloroso  travaglio,  che  non  toccava  solo  come  allora  una  parte  della  sua  attività,  oscillante  da  una  forma  di  espressione  a  un'altra,  ma  investiva  tutto   il  suo  essere,      «  Laurentius...,  scrive  il  Ficino,  praestantissimus,  et  «  metuetur  et  Picum  ad  Florentem  revocat  urbem  ».  Opera. da  portarlo,  attraverso  a  una  crisi  spirituale,  sulla  via  del  misticismo.  Pur  in  mezzo  agli  amici  e  alle  persone  dotte  di  Firenze  che  ambivano  la  sua  compagnia,  si  sentiva  inquieto  come  se  qualcosa indefinibile  ma  necessaria  gli  mancasse;  la  parola  «eretico»,  ronzando  insistente  all'orecchio  anche  tra  i  conviti  e  le  adunanze  allegre,  gli  dava  un  senso  d'isolamento  che  lo  rendeva  malinconico. Gli  amici,  che  notarono,  senza  forse  comprenderne  i  moventi,  l'avvenuto  cambiamento,  s'affrettavano  a  darne  notizia  agli  altri  lontani,  in  vario  modo.  «  Il  signor  Giovanni  Pico  scrive  «  il  Ficino  ad  Ermolao  Barbaro  che  ora  in  Fio«  renza  alla  filosofia  attende,  assai  vi  si  racco«  manda  ».  E  Lorenzo  che  ha  sempre  per  il  suo  Pico  parole  di  tenerezza,  scrive:  «Il  conte  «  della  Mirandola  si  è  fermato  qui  con  noi,  dove  «  vive  molto  santamente,  ed  è  come  un  religioso,  «  ed  ha  fatto  e  fa  continuamente  degnissime  opere  «in  teologia;  commenta  i  salmi;  dice  l'officio  or  Knte  et  Uno».    Appena  il  Pico  ebbe  terminato  il  suo  Ettaplo  l'inviò  per  primo  a  Lorenzo  al  quale  l'aveva  dedicato, e  il  A\aj:;nifico  si  affrettò  a  passarlo  a  Roberto Salviati,  perchè  lo  facesse  esaminare  dai  dottori,  e  poscia  pensasse  alla  pubblicazione.   Il  Salviati  risponde  che  l'opera  del  Pico,  «primizia  de'  suoi  studi',  gli  fece  nascere  un  sincero  affetto  per  il  giovane,  ben  degno  dell'amore di  Lorenzo;  perciò,  essendo  stata  giudicata eccellentissima,  sarà  suo  dovere  di  curarne l'edizione  con  la  massima  diligenza  perchè  riesca  utile  agli  studiosi.  E  infatti,  tosto  che  V  Ettaplo  fu  terminato  di  pubblicare,  venne  dal  Salviati distribuito  a  tutti  i  letterati  di  Firenze  e  inviato  agli  amici  delle  varie  città  d' Italia.  Quest'opera armonicamente  concepita,  scritta  in  un  latino   150 piano  e  scorrevole,  non  privo  di  colorito  nei  passi  più  salienti;  con  la  fusione  ben  riuscita  delle  varie  teorie  che  s'imperniano  tutte  intorno  a  un'idea  centrale:  la  identità  di  pensiero  che  riusciva  a  svelare  nei  misteri  di  Mosè  col  pensiero  di  tutti  gli  altri  filosofi  che  hanno  fatto  uso  del  velame  arcano; infine  con  un'intuizione  semplice  e  grandiosa  del  cosmo,  che  dalla  distribuzione  dei  cieli,  delle  cose  create  e  delle  facoltà  dell'uomo,  accoglieva  in  una  euritmica  totalità  il  sistema  cabalistico,  gnostico,  neoplatonico  e  peripatetico,  non  poteva  non  destare  unanime  ammirazione  nei  dotti  di  allora.  Molte  sono  le  testimonianze,  specialmente epistolari,  che  attestano  il  grande  successo ottenuto  dal  Pico,  che  ormai  era  ritenuto  un  vero  portento  dagli  uomini  piij  rappresentativi  di  quel  tempo.  Al  Salviati,  che  era  l'editore  più  importante  di  Firenze,  scrivono  con  espressioni  d'entusiasmo  per  l'opera  del  Mirandolano  da  ogni  parte  d' Italia  gli  umanisti  che  avevano  ricevuto  copia  dell'  Ettaplo.  Nella  raccolta  delle  lettere  comprese  nelle  Opere  del  Pico,  troviamo  quelle  del  canonico  della  Badia  di  Fiesole,  di  Baccio  Ugolino,  di  Giuliano  Maio  di  Napoli,  del  Poliziano, che  non  si  stima  degno  d'essere  avvici  Opera,  393-94  e  303-407-409.  151  nato  al  Mirandolano,  di  Ermolao  ,  che  confessa  d'aver  letto  Vexameron  tutto  d'un  fiato,  del  vecchio  Cristoforo  Landino,  al  quale  pare  di  veder  congiunte  nel  Pico  la  sapienza  dei  filosofi  greci  con  la  dottrina  dei  Padri  della  Chiesa.  E  l'eco  di  questa  unanimità  di  ammirazione  per  V  Ettaplo  varca  anche  i  confini  d'Italia,  come  dimostra una  lettera  scritta  al  Salviati  da  Bartolomeo Ponzio,  addetto  alla  Corte  di  Mattia  Corvino, re  d'  Ungheria.   Forse  nessuna  lode  poteva  tornare  più  gradita  al  Mirandolano  di  quella  tributatagli  dal  suo  antico maestro,  Giambattista  Guarino,  il  quale,  scrivendogli da  Ferrara,  loda  la  vasta  cultura  profusa in  picciol  volume  dal  suo  ex  allievo  (ex  tuo  praeccptorc  factiis  sum  tibi  discipulus).  Il  Pico  era  di  quelli  che  nella  gloria  non  dimenticano  chi  per  primo  ha  aperto  le  porte  dell'anima,  illuminandola alla  luce  del  sapere.   Rispondendo  al  vecchio  precettore,  lo  prega  di  non  corrugare  la  fronte  se  lo  chiamerà  a  partecipare della  gloria  che  gli  deriva  dal  suo  Ettaplo .  Ed  era  sincero,  perchè  non  c'è  soddisfazione  più   intima  di  quella   che  si  prova  al    PoLiT.  Epist.  lib.  II.  Opera,  390-91.     Opera,  396-9.7  152 riconoscimento  del  proprio  valore  da  parte  di  quegli  che,  essendo  stato  maestro  nell'adolescenza, rimane  impresso  come  un  giudice  equo  e  spassionato.   Ma  quanto  favore  incontrò  V  EU  apio  fra  i  dotti  umanisti,  altrettanto  severamente  venne  accolto  da  parte  dei  teologi  romani  che  vedevano  in  esso  un'altra  prova  del  persistere  del  Pico  nell'attitudine contraria  alle  dottrine  ortodosse  della  Chiesa.  Non  migliorava  quindi  la  posizione  del  Mirandolano  di  fronte  al  Pontefice,  il  quale^  facendo  suo  il  giudizio  della  Curia,  assumeva  un  atteggiamento sempre  più  intransigente.  Invano  si  adoperava Lorenzo  per  mezzo  del  Lanfredini  a  mitigare l'animo  di  Innocenzo  Vili,  e  invano  gli  faceva  pervenire  uno  schema  di  Breve,  compilato  dallo  stesso  Pico,  per  dimostrargli  a  quali  condizioni  il  conte  si  sarebbe  sottomesso.   Il  Papa  era  irremovibile  e  rispondeva  al  Lanfredini che  «  il  caso  del  Pico  era  importantissimo  »  e  che  ben  «  altra  cosa  era  gratificare  Lorenzo  del  «  figliuolo  (accenna  al  cardinale  Giovanni)  o  com«  piacerlo  non  entra  questi  casi  della  fede».    Berti,  Op.  cif.  39.  Ecco  parte  della  lettera  del  27  agosto  1489  in  cui  il  Pico  dopo  aver  espresso  la  gratitudine sua  al  Magnifico,  seguita:  «  Quello  ch'io  desidero  «  è  un  Breve,  nella  forma  eh'  io  scriverò  di  sotto.  Faccia  »  vedere  la  Sua  Santità  se  per  concederlo,  ne  li  può  na 153 II  fratello  Anton  Maria  aveva  riferito  al  nostro  Giovanni  che  un  certo  monsignore  di  Napoli  lo  accusava  di  due  cose:  che  cioè  egli  aveva  sparlato della  Bolla  a  Parigi  e  che  continuava  a  trattare di  nuovo  quelle  cose  che  gli  erano  state  vietate.  II  Pico  allora  si  difende  contro  la  prima  asserzione,  chiamando  a  testimoni  gli  stessi  «  ora«  tori  che  erano  in  Pranza,  se  non  vogliono  tacere  «  el  vero  »  :  e  contro  la  seconda  che  «  non  ho  «  scripto  altro  di  nuovo  che  quella  expositione  «  sopra  el  Genesi  ch'io  ho  mandata  alla  M.^'^  Vo«  stra,  et  Lei  può  far  fede  se  è  contra  el  Papa  o  «  no,  che  tanto  è  distante  dalle  materie  di  quelle  «conclusioni,  quanto  è  il  cielo  da  la  terra».  II  Magnifico,  infatti,  faceva  fede  che  l'opera  era  «  stata  veduta  da  quanti  religiosi  dotti  ci  sono  e  «  uomini  di  buona  fama  e  di  santa  vita  e  da  tutti  è  «  sommamente  approvata,    io  però  sono  si  cat«  tivo  cristiano  che  quando  ne  credessi  altro,  me    •«  scere  o  danno,  o  vergogna,  o  scandalo  alcuno  nella  Ec«  desia  di  Dio,  ch'io  so  gli  sarà  detto  di  no,  se  ne  sa«  ranno  domandati  huomini  non  passionati.  Il  Breve  voria  «  che  fusse  in  questa  forma:  Havendo  tu  già  proposte  per   «  discutere  alcune  conclusioni fu  iudicato  per  noi  che   «  il  libro  di  queste  non  fosse  Ietto,  come  in  una  nostra  «tale  Bolla  si  contiene  ecc.».  Dall'Appendice  II,  doc.  I,  nello  studio  del  Berti,  1.  e.  39  e  51-53.   Berti,  doc.  I,  Append.  Il,  52-53.  154 «  lo  tacessi  o  sopportassilo.  Sono  certo  se  costui  «  (il  Pico)  dicesse  il  credo,  cotesti  spiriti  malvagi  «  direbbero  ch'è  un'heresia  ».  La  lettera  poi  accenna  alla  debolezza  del  Papa  il  quale,  essendo  occupato  in  molte  altre  cose,  si  lascia  raggirare  da  persone  malevoli  che,  «  come  diavoli  lo  ten«  tano  con  queste  persecuzioni  e  sono  troppo  cre«duti».  Avverte  che  il  conte  è  «un  istrumento  «  da  saper  fare  il  male  e  il  bene  »  così  che  tormentarlo sarebbe  farlo  deviare  dal  bene  («e  ul«timamente  si  era  ridotto  qui  a  vivere  santamente  «e  con  buoni  costumi  e  quetare  l'animo  suo  *)  e  fargli  tentare  cosa  che  «  potrebbe  essere  di  gran  «scandalo».  E  conclude:  «Se  la  forza  gli  farà  «  pigliare  altra  via,  io  ci  perderò  poco  perchè  in  «  ogni  luogo  dove  anderà,  so  mi  vorrà  bene,  per«  che  ne  voglio  assai  a  lui».  Esorta  quindi  l'oratore a  fare  il  possibile  per  riuscire  nell'intento  «  che  non  potreste  mai  stimare  quanto  questa  cosa  «  mi  è  molesta  e  che  passione  mi  da  »  .  Tutto  inutile;  il  Papa  era  irremovibile  e  non  sapeva  capacitarsi a  veder  persistere  uno  che  aveva  ancora  l'aspetto  di  scolaro  imberbe,  a  sostenere  cose  di  teologia,  per  le  quali  si  richiede  una  lunga  vita    Lettera  conservata  dal  Fabroni  Laurentii  Medicis  Magnifici Vita,  voi.  II  291.  Cfr.  Berti  in  op.  citata  pag.  39.  Id.,  40.  155 di  studio:  «perchè,  diceva  il  Papa,  non  si  mette  «  a  fare  della  poesia    Questa  gli  pareva  un'applicazione più  rispondente  alla  sua  giovane  età.  Cotesta  frase  del  Papa,  che  può  parere  ironica,  ed  è  invece  sprezzante,  dimostra  quanto  poco  ei  sapesse  comprendere  quell'anima  assetata  di  gloria e  di  luce,  che  coiu)Sceva  tutte  le  ansie  del  dubbio  e  il  tormento  di  tante  notti  insonni  per  decifrare,  nei  libri  degli  orientali,  qualche  sparso  raggio  della  divinità.  11  Papa  arrivò  a  dire,  anzi,  che  V  Ettaplo  peggiorava  la  causa  del  Pico   «  es *  sendosi  trovata  questa  opera  sopra  il  Genesi,  «  et  vista  per  questi  docti  di  Sacra  Scriptura,  «l'hanno  dannata,  perchè  in  molte  parti  entra  «  nelle  medesime  heresie,  et  quelle  medesime  cose   *  che  sono  state  detestate  per  indirecto,  lui  le  in«  troduce  in  questa  opera  in  molti  luoghi».  Bisogna  poi  aggiungere  che  il  libro  del  Pico  sortiva in  un  brutto  momento  per  trovare  in  Innocenzo Vili  un  animo  ben  disposto,  essendo  in  quel  tempo  amareggiato  dai   gravi   scandali  che    Cit.  dal  Berti,  I..  e.  39.   Si  deve  convenire  che  contrariamente  all'asserzione  del  Pico  che  sosteneva  non  aver  tenuto  ncW  Ettaplo  parola  del  contenuto  delle  conclusioni,  abbonda  invece  di  quelle  idee  che  erano  state  condannate  nelle  Tesi.  E  noi  abbiamo dimostrato  come  l' Ettaplo  sia  la  sistemazione  delle  varie  teorie  che  formano  argomento  delle  conclusioni.  156 erano  avvenuti  proprio  a  Roma  in  seno  alla  sua  famiglia.  Stando  cosi  le  cose,  il  Pico  si  rassegnò per  il  momento  a  rinunciare  ad  ulteriori  pratiche  e  tutto  s'immerse  negli  studi  ch'erano  forse  l'unica  cosa  in  cui  trovasse  continue  e  pure  soddisfazioni.   Riprese  con  gioia  lo  studio  delle  Sacre  Scritture e  in  particolar  modo  dei  Salmi,  di  cui  voleva continuare  l'esposizione  esegetica.  A  farsi  aiutare  nel  lavoro  di  traduzione  dall'ebraico,  il  Pico  teneva  presso  di    un  giovane  ebreo,  Clemente, il  quale,  essendo  stato  convertito  al  cristianesimo e  indotto  a  vestire  1'  abito  di  S.  Domenico, è  richiamato  da  Lorenzo  come  una  prova  dello  zelo  cristiano  del  Pico,  e  un  esempio  per  stornare  la  vana  calunnia  di  eresia  .  Grande    Nell'anno  1489  venne  scoperta  in  Roma  una  lega  d'impiegati  senza  coscienza,!  quali  esercitavano  un  traffico lucroso  con  Io  spaccio  di  Bolle  papali  falsificate.  Franceschetto  Cybo  dava  l'esempio  peggiore  e  getta  uno  sprazzo  di  luce  sulle  condizioni  morali  della  Corte  pontificia.  In  compagnia  di  Girolamo  Tuttavilla  percorreva  nottetempo  le  vie  e  per  futili  motivi  aggrediva  le  case  dei  cittadini  riscuotendo  di  necessità  scherno  e  vergogna.  Presso  il  cardinale  Riario  perdette  in  una  notte  1400  ducati  e  si  lagnava  poi  col  papa  d'essere  stato  raggirato.  Pastor,  237.  L'accenno  nella  lettera  di  Lorenzo  al  Lanfredini  è  testualmente  così:  tra  gli  altri  segni  di  vita  cristiana  del  Pico,  vi  è  quello  «  di  aver  convertito  un  ebreo,  giovane  157 era  l'aspettativa  per  questo  lavoro  del  Pico  tra  i  letterati  e  gli  amici,  le  cui  lettere  di  questo  periodo vi  alludono  come  a  qualche  cosa  del  genere  dell'  Ettaplo.  «  Ci  aspettiamo  davvero  qualche  «cosa  di  delizioso,  scriveva  Matteo  Vero  al  Sal*viati,  dagl'inni  di  David,  ch'egli  ò  dietro  a  in«terpretare  e  a  spiegare  con  grande  premura.  «  A  compiere  il  qual  lavoro  mi  compiaccio  che  «in  questo  momento  abbia  scelto  la  quiete  del  «  nostro  Cenobio  di  Fiesole,  dove  il  solo  vederlo  «e  udirlo  è  una  vera  gioia».  Siccome  all' infuori del  commento  al  salmo  XV,  di  cui  abbiamo già  parlato,  non  ci  rimane  nulla,  se  non  qualche  frammento  inedito,  scoperto  dal  Ceretti,  che  possa  giustificare  l'ipotesi  che  il  Pico  facesse  un  Commentario  di  tutti  i  salmi,  dobbiamo  ritenere  ch'egli  continuasse  lo  studio  dei  salmi  più  tosto  per  un  bisogno  suo  particolare,  per  fare  cioè  una  specie  di  esercizi  spirituali;  e  questo  spiega  anche  perchè  amasse  ritirarsi  nel  Cenobio  fiesolano.   Ad  avvalorare   questa   nostra   supposizione  ci  soccorre  la  lettera  ch'egli  scrive  il  13  gennaio  1490    «  assai  dotto  in  quella  lingua,  al  quale  faceva  tradurre  «  certe  opere  in  casa  sua  e  colle  armi  sue  medesime  e  «  ridotto  a  farsi  cristiano,  che  non  sono  opere  da  eretici  ».  Il  Berti  corregge  il  Fabroni  da  cui  desume  questa  lettera e  che  publicata  con  la  data  del  1492  è  invece  del  1489.  1.  e.  41.  Cfr.  anche  Cassuto,  315-317.  Opera,  393.  158 da  Firenze  a  un  certo  padre  F.  B.  C.  che  lo  esortava a  una  vita  pia  e  virtuosa.  «  Vedrai,  sog«  giunge  il  nostro,  che,  quando  mi  sarà  dato  di  «  ritirarmi  nella  solitudine,  allora  potrò  filosofare  «  piamente  (pie  philosophari)  e  congiungere  la  «pietà  alla  sapienza.  Anch'io  sono  convinto  non  «  esservi  vera  sapienza  quando  manchi  la  eterna,  «  poiché  il  trattare  le  varie  discipline,  può  ben  «  dare  il  colore  alla  pelle,  ma  non  farci  più  belli.  «  Ma  la  mente  sana,  ferma,  gagliarda  non  si  può  «sperare  che  dall'integrità  della  vita,  dai  buoni  «  costumi  e  infine  dalla  santa  religione  ».   Non  dobbiamo  credere  che  i  soli  salmi  assorbissero il  suo  tempo;  coltivava  anche  gli  studi  teologici e  filosofici,  certo  anche  quelli  poetici,  come  si  ricava  da  una  lettera  datata  da  Firenze  l'undici  febbraio  dello  stesso  anno,  indirizzata  ad  Aldo  Manuzio.  «  Ti  mando  1'  Omero  che  mi  hai  chie«  sto  tempo  fa;  mi  trovo  così  stretto  dalle  occu«  pazioni,  Aldo  mio,  che  non  ho  neppure  il  tempo  «  di  respirare.  Mi  sono  dato  alle  lettere  le  cui  «  esigenze  sono  cosi  grandi  che  ho  appena  il  «tempo  di  rimettermi  in  salute  .  Tu  che  stai  «  per  accingerti   alla  filosofia,  ricordati  che   non    Opera,  375.  Questa  frase  indica  che  la  salute  del  Pico  doveva  essere  alquanto  scossa,  e  forse  si  era  ritirato  a  Fiesole  anche  per  scopo  di  cura.  159 «  vi  è  nessuna  filosofia  che  ci  dispensi  dalia  ve«  rità  dei  misteri:  la  filosofia  cerca  la  verità,  la  «teologia  la  trova,  la  religione  la  possiede'».  In  queste  tre  sentenze  il  Pico  ci  dà,  in  ct)mpendio,  il  programma  de'  suoi  studi,  i  quali  andavano orientandosi  verso  quella  fase  finale  della  sua  attività,  che  è,  come  in  ogni  processo  della  vita  umana,  la  liberazione  dello  spirito  dagl'impacci del  mondo  esteriore.  E  così  avremo  modo  di  notare  come  nel  Pico  questo  processo  si  svolgesse con  ritmo  più  accelerato  che  in  altri,  e  il  ciclo  si  chiudesse  proprio  nel  periodo  che  d'ordinario separa  il  trapasso  dallo  spirito  volitivo  che  cerca  di  fissarsi  nel  limitato,  allo  spirito  libero che  aspira  all'infinito.   Durante  la  primavera,  per  riprendere  il  vigore  delle  sue  forze,  usciva  sovente  con  qualche  amico  a  passeggio  pei  dintorni  di  Firenze:  e  il  Ficino  ci  ha  descritto  con  insolita  semplicità,  in  una  sua  lettera  a  Filippo  Valori,  una  di  quelle  passeggiate che  i  due  filosofi  solevano  fare  insieme,  ragionando  con  poetico  fervore  delle  comodità  della  vita  .  Ecco  in  che  modo  il  Pico  stesso  faceva    conoscere    a    Battista    Spagnuoli     come    Opera,  359.  «  Alli  giorni  passati  andando  a  spasso  il  nostro  Pico  «  della  Mirandola,  uomo  certamente  meraviglioso  e  io  per  «  gli  colli  di  Fiesole,  riguardavamo  cosi  per  il  cammino  tutto  160 passasse  il  suo  tempo.  «  Al  mattino,  dice,  mi  «  applico  assiduamente  alla  concordanza  di  Pla«  tone  e  di  Aristotile,  serbo  le  ore  meridiane  agli  «  amici,  alla  ricreazione  dello  spirito  mediante  la  «  lettura  dei  passi  e  degli  oratori,  le  ore  della  «  notte  le  ripartisco  fra  lo  studio  delle  sacre  carte  «  e  un  breve  sonno».  Come  si  vede  il  Pico  aveva  intrapreso  un  lavoro  che  lo  teneva  occupato le  ore  migliori  della  giornata,  e  cioè  la  concordia  dei  due  massimi  filosofi  dell'antichità.  A  tale  intento  domanda  in  prestito  agli  amici  i  libri  che  gli  occorrono  e,  se  non  li  trova  a  Firenze, li  chiede  per  lettera  a  quelli  che  risiedono  in  altre  città.  Ringraziando  in  una  sua  Baldassarre Migliavacca  di  Milano  delle  copie  dei  libri  greci  inviatigli,  lo  prega  di  acquistargli  il  commento di  Giovanni  Grammatico  sulla  fisica  di  Aristotile  e,  se  gli  è  possibile,  anche  la  metafisica dello  stesso  filosofo  .  Nel  mentre  che  si  fa  inviare  dal  carmelitano  Battista  Mantovano  l'indice della  Biblioteca  di  Bologna  in  cui  risiede,  gli  chiede  ragguagli  intorno  alla  vita  di  Filostrato    «  il  paese  di  Fiorenza,  habitazione  per  certo  felice,  pur  «  che  due  soli  incommodi  si  schivassero,  cioè  la  nebbia  «che  l'Arno  cagiona  e  i  gran  venti  del  monte  che  gli  è  «  opposto  ».  Fi(;;iNO,  Epist.  voi.  cit.  lib.  IX.   Opera,  358-59.  Opera,  370.   161  e  del  filosofo   Zaccaria  che  il  frate  aveva   conosciuto a  Roma .  Da   tutte   queste  lettere   traspare il  grande  affetto  che  ormai  legava  il  Pico  al  Poliziano  e  nei  saluti  agli  amici  troviamo  sempre congiunto  il  nome  di  lui.  Scrivendo  agli  ultimi di  luglio  a  Ermolao  lo  prega,  con  dolce  rimprovero, di  voler  moderare  le  sue  lodi  {me  iani  qiiacso  lauda  modice)  poiché  gli  è  stato  riferito  dal  fratello  Anton  Maria  che  Ermolao,  lo  portava  a  cielo   dinanzi   a  lui,  agli   altri   e    «  allo   stesso  Pontefice  »  :  per  altro  lo  prega  di  amarlo  senza  ritegno  {diun  iamen  anies  immodice)  e  termina  la  lettera:    «Ti  saluta  il   Poliziano  amandoti  e  lo«  dandoti  sempre  un  immodico  (immodicus)  ".  Ed  Ermolao  rispondendogli  a  sua  volta  da  Roma  il  13  agosto,  dopo  aver  detto  che  a  ciò  è  mosso  da  un  prepotente  bisogno  di  essergli  vicino  col  pensiero,   con   la    voce,   con    lo    scritto,    perchè  trova    più   giocondo    il    dire    che  l'udire    essere  l'amico  suo  pieno  di  candore,  di  bontà,  di  umanità,   termina    lo    scritto:   'Vale    cum    Politiano  «meo^>. appunto  perchè  sa  che  così  si  rende  più    accetto    all'  amico    .    Anche    nell'  epistolario del  Poliziano  abbiamo  la  testimonianza  di    lei.  369.359-360.   391.  162 questo  attaccamento  reciproco  dei  due  letterati.  Degna  di  nota  è  la  lettera  che  il  poeta  scrive  alla  «fedele  Cassandra»,  dotta  fanciulla  di  Venezia, la  quale,  desiderosa  di  mettersi  in  corrispondenza col  più  celebre  poeta  del  tempo,  gì' invia alcuni  suoi  lavori  letterari  (orazioni,  epistole,  versi,  scritti  di  argomento  filosofico  ecc.);  ed  il  Poliziano  trovandoli  scritti  con  eleganza,  con  gravità, e  con  una  certa  virginea  semplicità,  non  priva  di  dolcezza,  così  la  saluta:  «  Decus  Italiae  virgo»,  nuova  Aspasia,  Saffo,  Corinna,  degna  di  stare  accanto  alle  donne  più  celebri  dell'antichità.  Ma  non  si  appaga  dell'ammirazione;  egli  vorrebbe  contemplare  il  volto  castissimo  della  vergine,  vedere il  portamento  e  le  movenze  della  sua  persona, bevere,  quasi,  con  orecchi  assetati,  le  parole  ispirate  delle  muse,  poiché  allora  trasumanato  (consuinatissimus)  dall'aflato  suo,  non  temerebbe  nel  canto  il  Tracio  Orfeo  e  la  di  lui  madre  Calliope. «  Certamente  finora,  soggiunge,  soleva  am«  mirare  Giovanni  Pico  della  Mirandola,  come  il  «  più  bello  e  il  più  dotto  dei  mortali.  Ed  ecco  «  che  ora.  Cassandra,  io  presi  ad  amare  te  ancora  «subito  dopo  di  lui,  anzi  insieme  con  lui».  Come  si  vede,  c'era  una  differenza  tra  l'affetto  del  Pico  e  l'amore  del  Poliziano  :  in  realtà  quello    POLITIANI  Episf.  ed.  cit,  103-05.   163 del  primo  era  un'amicizia  che  derivava  da  quell'ascendente che  non  può  non  esercitare  un  temperamento poetico,  quand'anche  l'esteriorità  della  persona  non  abbia  alcuna  attrattiva e  del  Poliziano si  dice  che  fosse  alquanto  deforme  — ;  quello  dell'altro,  invece,  era  quasi  un  amore  ispirato dalla  contemplazione  estetica  di  un  giovane  dalle  forme  squisite,  tanto  più  ammirate  in  quel  tempo  in  cui  rinascevano,  fra  tante  altre,  le  preferenze classiche  per  la  bellezza  androgina.  Un  fatto  che  in  questo  tempo  tornò  di  sommo  gradimento  al  Pico  e  a'  suoi  amici,  fu  la  notizia  dell'elezione  a  patriarca  di  Aquilea  di  Ermolao  Barbaro.  A  lui,  che  da  Milano,  dove  aveva  rappresentato in  qualità  di  oratore  la  Republica  di  Venezia  presso  Ludovico  Sforza,  era  passato  a  coprire  lo  stesso  ufficio  a  Roma,  presso  Innocenzo Vili,  rivolge  il  Pico  la  seguente  lettera:  «  Mi  congratulo  con  te  della  nomina  a  Patriarca  «  di  Aquilea  dove  potrai  dimostrare  il  tuo  valore.  «Vi  sono  tre  generi  di  vita:  il  civile,  il  contem  Una  nota  simpatica  di  questo  circolo  di  dotti  fiorentini, al  quale  apparteneva  il  Pico,  è  l'assenza  sia  dalla  loro  vita  come  dai  loro  scritti  di  quell'immoralità  che  imbratta come  viscido  fango  i  nomi  dei  più  celebri  umaninisti  delle  altre  Accademie.  Per  Pomponio  Leto,  che  fu  imputato  di  Sodomia,  vedi  la  monografia  dello  Zabughin,  Grottaferrata,  voi.  I,  1909,  pp.,  33-35,  37,  56-'J7.  164   «  piativo  e  il  religioso.  Esigiamo  dal  primo  la  «  prudenza,  dal  secondo  la  dottrina,  dal  terzo  la  «santità.  E  tu  per  l' innanzi  nel  trattare  gli  affari  «  dello  stato,  ti  sei  dimostrato  prudentissimo,  e  «  gli  studiosi,  amandoti  e  ammirandoti,  ti  tengono  «per  loro  maestro  nelle  buone  discipline:  e  non  «  abbiamo  dubbi  di  sorta  che  saprai  del  pari  «svolgere  le  tue  mirabili  doti  nella  Chiesa».  Ermolao  risponde  con  espressioni  di  rimpianto  per  il  bel  tempo  speso  negli  studi  pei  quali  teme  ora  di  non  esser  più  libero  di  dedicarsi  come  nella  vita  secolare,  e  sopratutto  perchè  teme  che  l'alto  ufficio  che  ora  deve  coprire,  induca  il  Pico  a  tenere  un  contegno  piii  riservato  verso  di  lui.  E  questo  non  vuole  che  avvenga  per  nessuna  ragione.  «  Ti  scongiuro,  esclama,  per  quella  be«  nevolenza  che  mi  hai  sempre  dimostrato  di  vo«  lere  far    che  anche  sacerdote  io  sia  tenuto  da  «te,  se  è  possibile,  per  quell'Ermolao  che  hai  «  amato  nel  secolo  e  che  ora,  fatto  soldato  di  «  Cristo,  desidero  esserti  ancor  più  caro.  Sappi  che  «  Aquilone  mi  ha  trasportato  oltre  la  verità,  che  «  Favonio  mi  ha  rapito  oltre  l'amore  »  .  Chi  avrebbe  detto  che  il  suo  desiderio  di  poter  attendere  alla  filosofia  lontano  dalle   occupazioni,    Opera,  359.392.  165 si  sarebbe  cosi  presto  realizzato,  ciie  anzi,  mentre egli  diceva  :  Si  hoc  cveniut,  ne  avesse  il  presentimenio  ?  Difatti  il  Senato  veneziano  che  si  arrogava  il  diritto  di  nominare  il  Patriarca  di  Aquiiea,  si  sentì  offeso  dall'atto  di  Ermolao  Barbaro, il  quale  aveva  accettato  la  nomina  da  Innocenzo Vili,  senza  prima  chiedere  al  governo  il  permesso  voluto  dalla  legge;  e  per  questo  condannò il  Patriarca  all'esilio.   Questa  sciagura  che  privava  Ermolao  della  speranza di  rivedere  la  cara  patria  che  tanto  amava,  fu  però  sopportata  con  stoica  fermezza  e  ricompensata dal  piacere  di  poter  riprendere  i  dolci  studi.  1  suoi  sentimenti  in  proposito,  che  manifesta in  una  lettera  al  concittadino  Antonio  Calvo  (22  luglio  1491)  sono  la  fedele  espressione del  suo  animo  puro  ed  elevato,  uno  di    «Nulla  vi  ha  di  più  preclaro,  nulla  di  più  elevato   della  fortezza  dell'animo.  Essa  brilla  al  disopra  di  ogni     altra  virtù;  essa  è  la  migliore  fattrice  di  voluttà   e  di   pace,  e  mentre  tutte  le  altre  s'inchinano  all'impero  della     fortuna,  la  sola  fortezza  l'affronta  e  la  pone  in  ceppi.  «  Ma  fingi  pure  che  io  abbia  ricevuto  una  ferita  più  pro«  fonda  ancora  di  quella  che  al  presente  mi  grava;  quanto  «  presidio,  quanto  sollievo  non  credi  tu  che  a  me  rima«  nesse  da  queste  tenui   lettere  che  sin   da  fanciullo  ho   coltivato?  Godendo  io  sanità  di  mente  e  di  corpo,  quale     calamità  poteva  sopravvenirmi  che   m'involasse  il  con •  torto  degli  studi  ?  Essendo  questi  sani  e  intatti  la  mia  166 quei  nobili  caratteri  del  secolo  XV  non  abbastanza studiati.   Frattanto  il  Pico,  per  meglio  attendere  a'  suoi  studi,  fece  dono,  nell'aprile  del  1491,  di  tutti  i  beni  che  teneva  nel  Mirandolese,  e  della  terza  parte  del  Principato  per  la  somma  di  trentamila  ducati  d'oro,  al  nipote  Gianfrancesco,  il  quale  con  tanto  amore  doveva  in  seguito  curare  l'edizione delle  opere  dello  zio  e  scriverne  la  vita.  In  quel  medesimo  anno  il  Pico,  in  compagnia  del  Poliziano  e  del  Crinito,  fece  un  viaggio  nell'Alta  Italia  per  visitare  le  biblioteche  delle  principali  città,  Bologna,  Ferrara,  Padova,  Vicenza,  e  i  particolari di  questo  viaggio  sono  riferiti  dal  Crinito(l).  Senza  dubbio  il  motivo  di  questo  viaggio  doveva  esser  quello  di  procacciarsi  i  libri  che  riteneva  necessari  per  condurre  innanzi  il  suo  lavoro  intorno alla  concordanza  di  Platone  e  di  Aristotile.   Nella  vita  del  nostro  si  alternano  con  una  certa  frequenza  periodi  di  vivacità  espansiva,  con  altri di  calma  e  riposata  solitudine.  Così  ora,  mentre è  tutto  immerso  nello  studio  dei  due  sommi    «  vita  non  può  essere  se  non  tranquilla,  gioconda,  ono«  revole.  Oh  felice  calamità  che  mi  hai  restituito  alle  let«  tere  e  le  lettere  a  me,  anzi  a  me  stesso  !  »  Dalle  Epìst.  del  Poliziano,  ed.  cit.  514-18,  la  traduzione  è  del  CoRNiANi,  /  secoli  della  Letferat.  Italiana,  279.   Rassegna  Bibl.  della  Leti.  Italiana. filosofi  della  Grecia,  si  sentiva  di  ritornare  alla  pietà  e  al  bisogno  di  quiete.  Con  minore  assiduità prese  a  frequentare  i  convegni  e  le  feste,  cui  Lorenzo  per  le  sue  mire  politiche  dava  largo  incremento;  cominciò  ad  essere  notata  la  sua  assenza nei  conviti  in  cui  era  solito  accompagnarlo  il  Poliziano.  Questi  prova  rincrescimento  e  per  lusingarlo  gli  descrive  ora  lo  spettacolo  di  una  giostra  {cquitum  ccrtamcn  hastis  concurrcntium),  al  quale  partecipa  il  fiore  della  gioventù  fiorentina e  in  cui  Piero  de'  Medici,  ch'è  divenuto  il  beniamino  della  moltitudine  e  la  gloria  della  sua  famiglia,  ottiene  la  palma  della  vittoria.  Ora  invece  gli  descrive  un  banchetto  offertogli  da  un  certo  Paolo  Ursino,  il  cui  figlio,  bimbo  di  undici  anni,  si  rivelò  un  prodigio  (un  enfant  prodigi  diremmo  noij  sia  nel  suono  e  nel  canto,  sia  nella  recitazione  di  prova  oratoria,  sia  nel  cavalcare  un  focoso  destriero  in  singoiar  tenzone  con  Piero  de'  Medici.  «  11  fanciullo,  soggiunge  il  Poliziano.  «  aveva  dei  capelli  d'oro  che  gli  scendevano  mol  POLITIANI  Epist.,  «  I  Medici  con«  cepiscono  una  vera  passione  per  la  giostra...  Già  ancor  «  sotto  Cosimo  (1459),  e  poi  sotto  Piero  il  vecchio  ebbero  «  luogo  in  Firenze  giostre  celebratissime;  Piero  il  giovane  «  poi  per  tali  esercizi,  trascurò  perfino  il  governo  e  non  «  voleva  essere  dipinto  se  non  rivestito  dalla  sua  splen.  dida  armatura».  Burckhardt,  op.  cit.,  II.  108-109.  168 «  lemente  sulle  spalle,  gli  occhi  vivaci,  lo  sguardo  «  intelligente,  il  portamento  elegante  e  nel  tempo  «  stesso  marziale.  E  quando  in  mezzo  al  convito  «  prese  a  cantare  accompagnato  dagli  strumenti  «  musicali,  sentivo  penetrarmi  la  sua  voce  soa«  vissima  nel  cuore,  e  inondarmi  di  una  voluttà  «quasi  divina».  Questo  brano  ci  dice  quale  ammiratore  fosse  il  Poliziano  della  bellezza  androgina; anzi  quale  affinità  di  sentimenti  avesse  con  gli  esteti  dell'antica  Grecia  e  sopratutto  di  Roma  imperiale  di  cui  abbiamo  uno  specchio  nel  Satyricon  di  Petronio.   Ma  il  Pico  era  un  mistico  e  non  un  sentimentale; non  amava  i  festini  e  la  vita  gaudente  che  per  un  poeta  come  il  Poliziano  erano  fonte  di  sempre  nuove  impressioni.  Ormai  il  contatto  delle  cose  esteriori  cominciava  a  nauseare  il  nostro  assetato  di  quella  bellezza  che  trascende  ogni  forma sensibile.   Ai  primi  del  1492  pubblicò  il  libro  De  Ente  et  Uno  che  volle  dedicare  ad  Angelo  Poliziano  il  quale,  appunto  in  quegli  anni  1490-1492,  soleva  intramezzare le  sue  lezioni  di  letteratura  greca  e  latina  con  la  lettura  dell'etica  di  Aristotile  o  di  qualche  brano  filosofico  di  altri  autori  .  A  tali  lezioni  inter  POLIT.  Epist.  lib.  XII,  447-50.  .2)  Isidoro  del  Lungo,  Florcntia,  Firenze,  Barbera,  1897,  176-180.  169 veniva  talvolta  anche  il  Pico  e  la  presenza  del  dotto  principe  tornava  molto  lusinghiera  al  poeta  di  Montepulciano  che  all'amicizia  univa  una  grande  ammirazione  per  le  qualità  dell'ingegno  del  Alirandolano.   Nella  dedica  il  Pico  ci  fa  sapere  come  l'argomento gli  sia  stato  suggerito  da  una  disputa  sorta  tra  Lorenzo  e  il  Poliziano  sul  modo  di  considerare Vesscrc  e  V  unità.  Il  Poliziano  stava  con  Aristotile che  ne  aveva  sostenuta  l'identità  e  il  Magnifico coi  Platonici  che  si  erano  pronunziati  per  la  disparità.   Il  Pico  si  schiera  decisamente  coi  primi  e  viene  a  dimostrare  che  anche  Platone  identifica  l'essere  con  l'uno.   Dove  egli  trova  la  più  rassicurante  risposta  alla  sua  tesi,  che  nella  mente  d i  Platone  l'essere  e  l'uno  si  convertono,  è  nel  dialogo  del  Parmenide, ove  Platone  dimostra  non  già  la  superiorità  dell'uno  sull'essere,  ma  la  loro  identità.  Perciò  Aristotile,  che  parte  dal  cuore  della  filosofia  platonica e  vi  scorge  questa  identità  dei  due  principi, non  dissente  aflatto  dal  suo  maestro.   Tuttavia  il  Pico  che  non  era  un  superficiale  conoscitore  della  filosofia  aristotelica,  non  poteva  nascondersi  che  il  pensiero  dello  Stagirita  è  stato  sempre  su  questo  argomento  ondeggiante,  sia  quando  disse  che  «  l'essere  non  è  assolutamente  170 uno»,  sia  quando,  parlando  dello  stesso  essere,  l'ha  definito  ora  in  un  senso  ora  in  un  altro.  Lasciando stare  l'equivoco  di  linguaggio  a  proposito della  parola  essere,  che  è  impiegata  in  numerosi sensi,  e  che  quella  di  sostanza  è  impiegata  almeno  in  quattro,  sta  di  fatto  che  la  contraddizione è  flagrante  e  ogni  tentativo  per  eliminarla  riuscirebbe  vano.  Ma  il  Pico,  tendendo  alla  conciliazione ad  ogni  costo,  concepisce  quella  superessenza  che  in    comprende  l'essere  e  l'uno,  sorvolando sopra  a  tale  contraddizione  con  un  ragionamento che  non  è  privo  di  acume.   L'essere,  egli  dice  nel    quarto,  si  deve  considerare  come  concreto  e  come  astratto;  nel  primo  caso  l'essere,  come  partecipazione  di  qualcosa, è  inferiore  all'uno;  ma  nel  secondo,  cioè  l'essere  per  sé,  é  un  essere  uno,  superiore  ad  ogni  ente  (adeo  est  ut  sit  ipsum  esse,  quod  a  se  est  et  sit  ipsum  esse,  quod  a  se  et  ex  se  est  et  cuius  partecipazione  omnia  sunt).   È  evidente  che  in  questo  caso  l'essere  è  Dio,  il  quale,  come  l'unità,  é  principio  di  tutte  le  cose  (Tale  autem  est  Deus  qui  est  totius  plenitudo,  qui  solus  a  se  est,  et  a  quo  solo  nullo  intercedente  medio  ad  esse  omnia  processerunt).   Così  il  Pico  si  spiega  non  solo  la  convertibilità dell'essere  nell'uno,  ma  anche  come  l'essere  e  l'uno  siano  in  Dio,  il  quale  é  un  superessere  e  un   171  superuno,  e,  come  dice  Dionigi,  quia  unice  est  omnia.   V  indirizzo  mistico  dei  suo  pensiero  porta  il  Pico  ad  operare  la  conciliazione  di  Piatone  e  di  Aristotile  mediante  Dionigi  e  a  convertire  l'ontologia  in  una  concezione  teologica.  Cosi  l'assertore  della  dignità  dell'uomo  diviene  il  paladino  dell'infinita  potenza  di  Dio,  al  quale  l'unica  lode  checonvenga  è  il  silenzio.   Il  Poliziano  fu  molto  commosso  della  dedica  del  libro  e  l'accolse  con  espressioni  tali  che  parrebbero  esagerate,  o  per  lo  meno  dettate  da  un  senso  di  adulazione,  se  non  avessimo  avuto  agio  fin  qui  di  notare  la  sincerità  della  sua  ammirazione per  il  Pico.  «  Arsi  sempre,  dice  il  Poeta,  arsi  forse  un  po'  troppo,  te  lo  confesso,  dal  desiderio di  una  perpetua  fama,  a!  punto  da  ritenere  per  un  niente  le  ricchezze,  la  dignità,  la  potenza  e  i  piaceri  in  paragone  di  una  gloria  duratura.  Ma  poichò  ciò  che  ho  scritto  non  mi  è  valso  molto  a  perpetuare  il  mio  nome  tu,  Pico,  sei  apparso  a  prestarmi  ciò  che  non  avevo  potuto  da  me,  dedicandomi  il  tuo  commentario  De  Ente  et  Uno,  nel  quale  richiami  le  accademie  alla  vera  sorgente  e  congiungi  in  una  due  filosofie  e  la  nostra  teologia. Che  altro  dovrei  cercare  per  poter  vivere  nei  campi  Elisi,  se  vivrò  per  mezzo  tuo  e  insieme  con  te  ?  La  posterità  narrerà  un  giorno  esservi  stato  una  volta  un  certo  Poliziano,  il  quale  fu  tanto   stimato   da   meritare   che  il    Pico,  luce   di  172 ogni  sapere,  parlasse  di  lui  nel  bellissimo  libro  che  tratta  di  cose  sublimi.  Ti  rendo,  dunque  per  l'immortalità,  grazie  immortali».  Questi  segni  di  affetto  dei  due  letterati  dovevano  senza  dubbio tornare  graditi  al  sofferente  Lorenzo  che,  ammalato da  alcuni  mesi,  era  assistito  dal  Poliziano,  dal  quale  si  faceva  leggere  ora  alcuni  passi  del  De  Ente  et  Uno,  ora  s'intratteneva  a  parlare  delle  virtìj  e  dell'ingegno  del  suo  diletto  Pico.  «  Quanto  desidererei,  disse   una  sera  l'infermo,   passare  quest'altro  po'  di   tempo   che   Dio   si  degnerà  concedermi,  negli  studi  filosofici  con  te,  col  Ficino  e  con  Pico  della  Mirandola.  E  quando  fu  presso  a  morire   in  Careggi   (scriveva  il   Poliziano a  Jacopo   Antiquario)  guardandomi   dolcemente, come  sempre  soleva, Oh  Angiolo,  mi   disse,  sei  tu  qui  ?    e  insieme  levando  a  stento  le  languide   braccia,   mi  afferrò   strettamente ambo  le  mani.  Io  non  poteva  trattenere  i  singhiozzi  e  le  lagrime,  cui  nondimeno  sforzavami  nascondere,  volgendo  altrove  la  faccia.  Ma  egli,  senza  punto  commuoversi  proseguiva  a  stringere le  mie  fra  le  sue  mani.  Quando  si  avvide  che  il  pianto m'impediva  di  parlargli,  a  poco  a  poco,  quasi  naturalmente,  mi  lasciò  libero.  Corsi  allora subito  nel  vicino  gabinetto  ed   ivi  diedi    POLITIANI  Epist.  ed.  cit.  452.  173 «  sfogo  al  mio  dolore  e  alle  lagrime.  Poscia  asciu«  gatomi  gli  occhi  e  tornato  dentro,  appena  egli  «  mi  vide  e  mi  vide  tosto,  mi  chiama  di  nuovo  «  a  se  e  mi  chiede  che  faccia  Pico  della  Miran«  dola,  gli  rispondo  ch'era  rimasto  in  città,  per«  che  temeva  d'essergli  molesto  colla  sua  pre«  senza.  Se  io,  disse  Lorenzo,  non  temessi  che  «  questo  viaggio  gli  fosse  di  noia,  bramerei  pure  «  di  vederlo  e  di  parlargli  per  l'ultima  volta,  prima  «  di  abbandonarvi.  Debbo  io  dunque,  gli  dissi,  «  farlo  chiamare  ?  Sì,  certo,  rispose,  e  il  piij  «presto  possibile;  così  feci,  e  già  era  venuto  «  il  Pico  e  si  era  posto  a  sedere  presso  il  letto.  «  E  io  ancora  mi  ero  appoggiato  presso  le  sue  «  ginocchia  per  udir  meglio  per  l'ultima  volta  la  «  già  languida  voce  del  mio  Signore.  Con  quale  «  bontà,  Dio  buono,  con  quale  cortesia,  dirò  an«  Cora,  con  quali  carezze  lo  accolse  Lorenzo  !  «  Gli  chiese  prima  perdono  di  avergli  arrecato  «  un  tale  incommodo,  lo  pregò  a  riceverlo  come  «contrassegno  dell'amicizia  e  dell'amore  che  «  aveva  per  lui,  e  gli  disse  che  moriva  piiì  volen«  fieri  dopo  aver  veduto  un    caro  amico».  Il  volto  gentile  del  Pico  era  valso  a  calmare  l'agitazione  convulsa   di  quell'uomo   in  preda  agli    PoLiTiAN!  Epist.,  ed.   cit.   124-37.  Vedi  Berti,  1.  e.  44-45.  174 ultimi  strazi  dell'agonia,  resa  più  triste  forse  dal  ricordo  dei  falli  commessi  durante  la  vita  di  principe; e  gli  occhi  vitrei,  prossimi  a  spegnersi  per  sempre,  parvero  rischiararsi  alla  luce  calma  e  celeste che  riverberavano  gli  occhi  azzurri  del  Mirandolano.  Il  male  di  cui  soffriva  il  Magnifico  era  di  quelli  che  non  perdonano,  e  il  grande  mecenate, r  astuto  politico,  uno  dei  primi  poeti  del  Rinascimento,  moriva  l'otto  aprile  all'età  di  quarantaquattro  anni.   Si  discuterà  sull'opera  sua  di  governo,  sulla  sincerità  o  meno  della  sua  liberalità  e  del  suo  mecenatismo,  quel  ch'è  certo  si  è  che  Firenze  e  l'Italia  godettero  sotto  di  lui  di  una  prosperità  come  poche  volte  fu  dato  nella  storia  della  nostra patria;  che  tanti  uomini  d'ingegno  lo  amarono e  lo  riverirono  non  sempre  per  adulazione  (e  la  lettera  del  Poliziano  è  una  prova  della  più  sincera  devozione)  ma  perchè  riconoscevano  in  lui  oltre  che  un  reggitore  politico,  un  uomo    cuore  e  d'ingegno.  Valga  la  considerazione  di  ciò  che  accadde  all'Italia  dopo  la  morte  di  lui  per  dover  ammettere  che  Lorenzo  fu  una  delle  personalità  più  spiccate  e  complesse  del  Rinascimento, un  uomo  che,  come  pochi,  ha  rappresen  TiRABOSCHi,  Storia  della  Letteratura  Italiana,  t,  VI,  part.  I,  lib.  1,  cap.  XV.  175 tato  le  sorti  di  una  nazione.  E  il  Pico  fu  di  quelli  che  esperimentarono  la  generosità  disinteressata  di  Lorenzo  le  cui  lettere  e  documenti  fanno  fede  dello  spontaneo  disinteressamento  che  sempre animarono  ogni  suo  atto  verso  il  giovane  filosofo,  al  quale  si  sentiva  legato  da  un  affetto  sereno  e  sincero.  E  se  il  Pico  era  sfuggito  alle  persecuzioni  dei  propri  nemici,  se  aveva  potuto  trovare  in  Firenze  un  asilo  comodo  e  sicuro,  se  era  riuscito  ad  esplicare  liberamente  la  sua  attività di  studioso,  lo  doveva  a  Lorenzo  che  per  lui  fu  non  solo  un  amico  ma  un  carissimo  padre.      IX.   Il  Pico  a  Ferrara  nel  14i>2.  Crisi   Uelii^iosa.   L'Orazione   Domenicale.    Invitato  dal  duca  Ercole  I,  si  recò  il  Pico  a  Ferrara  per  assistere  alla  disputa  che  doveva  aver  luogo  in  occasione  del  Capitolo  generale  dei  Frati  Predicatori.  Alcuni  anni  addietro  aveva  partecipato  a  un  altro  Capitolo,  a  quello  di  Reggio, dove  era  stato  fatto  segno  all'aminirazione  generale  pel  suo  ingegno  precoce.    anche  ora  dovettero  mancargli  i  segni  di  deferenza  e  di  ammirazione da  parte  dei  convenuti;  ma  mentre  un  tempo  si  sentiva  accendere  ai  sogni  della  gloria  e  «all'uso  di  Gorgia  da  Leontini  cercava  fama,  sostenendo  qualsiasi  cosa  »  ;  ora  molte  foglie  vedeva cadere  avvizzite  dalla  sua  corona,  dopo  che  ne  aveva   sperimentata  la  vacuità   piena   d'ama    178 ritudine.  Anzi  adesso  provava  un  sentimento  d'inferiorità davanti  a  quei  frati  il  cui  nome  non  sorpassava  la  cerchia  ristretta  delle  conoscenze  personali,  ma  la  cui  vita  al  compimento  della  quale  mettevano  in  uso  tutte  le  loro  energie  riteneva alla  sua  superiore.   Questi  sentimenti  del  Pico  li  leggiamo  in  una  lunga  lettera,  in  data  15  maggio  1492,  ch'egli  scrive  al  nipote  Gianfrancesco.  Ivi  lo  consiglia  di  non  dolersi  delle  difficoltà  che  dovrà  incontrare nella  via  del  bene,  giacché  sarebbe  oggetto  di  meraviglia  se  a  lui  solo  fra  i  mortali  fosse  dato  di  andare  in  cielo  senza  fatica  (sine  sudore). E  dopo  avergli  ricordata  la  massima  di  S.  Giacomo:  Gaudete  fratrcs  cum  in  tentaiiones  varias  incideritis  nec  immerito  quidem,  gli  spiega  come  ogni  stato  sia  irto  di  difficoltà  e  pericoli  :  così  quello  del  marinaio,  del  mercante,  del  principe. Per  questo  egli  ha  scelto  la  quiete  del  suo  studio,  e  nulla  a mbisce  in  questo  mondo  i  cui  seguaci  gridano  unanimi:  laxati  sumus  in  vias  iniquitatis,  perchè  le  innumerevoli  cure  della  vita  li  agita  come  un  mare  fervens  quod  quiescere  non  potestSiccome  tutte  le  cose  terrene  sono  caduche,  incerte  e  vili,  lo  invita  a  rompere  i  lacci  delle  passioni,  a  rendersi  piacevole  più  a  Dio  che  agli  uomini,  a  scegliersi  la  via  stretta  della  virtìi  che  mena  al   cielo.   Per  fare  questo,  179 gli  consiglia  due  cose:  a  pregare,  e  pregare  non  solo  con  molte  parole  (multiloquio)  si  bene  nel  segreto  della  propria  mente  e  di  ascoltare  nei  penetrali  della  coscienza  la  voce  divina  che  rischiara le  tenebre  ed  unisce  a    coi  modi  più  ineffabili:  e  infine  che  la  preghiera  non  sia  lunga,  ma  ardente  e  interrotta  spesso  dai  sospiri.  L'altro consiglio  è  di  lasciare  le  favole  dei  poeti  per  aver  sempre  nelle  mani  le  sacre  scritture  (nocturna  versare  manu,  versare  diurna)  nelle  quali  è  nascosta una  tal  forza  sovrumana,  così  viva  ed  efficace,  che  trasfonde,  in  chi  vi  si  accosti  umilmente, un'ammirabile  amore  divino.  Termina  la  lettera  ricordandogli  quanto  gli  ha  detto  altre  volte,  che  cioè  per  quanto  lunga  possa  essere  la  vita,  si  deve  pur  morire  e  che  il  cavallo  che  ciascuno di  noi  cavalca  non  ha  da  percorrere  che  un  breve  stadio.  Quale  passo  ha  fatto  il  Pico  di  questa  lettera,  dal  Pico  dell'epistola  critica  a  Lorenzo  cosi  piena  d'entusiasmo  e  di  giovanile  baldanza  o  dell'Apologia  in  cui  scoppiettavano  a  volte  un  virulento  sarcasmo,  a  volte  espressioni  così  ardite  e  per  quel  tempo  insolite  !  Questa  lettera sembra  scritta  da  un  padre  religioso  tanto  è  compenetrata  di  pensieri  e  di  massime  divote:  il  distacco  dal  mondo,  gli  orrori  dell'inferno,  l'e  Opera,  340-343.  180 sortazione  alla  preghiera,  trovano  un  accento  cosi  fervente,  che  ci  sembra  d'avere  innanzi  un  vecchio stanco  della  vita  e  anelante  al  riposo  del  sepolcro.  Il  Pico  era  ancor  giovane,  non  aveva  che  trent'anni,  eppure  il  suo  spirito  era  invecchiato, 0  meglio,  poiché  lo  spirito  non  invecchia,  era  cambiato  il  contenuto  della  sua  vita.  Ciò  che  ora  lo  attraeva  non  era  più  la  poesia  e  le  sue  lettere  e  i  suoi  sonetti  ci  attestano  quanto  egli  avesse  amato  la  poesia  (omissis  j'am  fabulis  nugisque  poetarum  cosi  consiglia  al  nipote^  neppure  forse  piiì  la  filosofia  e  questa  era  stata  la  sua  grande  passione,  quella  per  cui  aveva  rinunciato alla  vita  di  principe,  per  cui  aveva  sofferto persecuzioni  e  prigionia  ciò  che  ora  Io  attraeva  era  una  vita  più  degna  d'essere  vissuta,  per  la  quale  voleva  dare  non  solo  una  parte  della  sua  attività,  l' intellettuale,  ma  quella  affettiva, quella  pratica,  insomma  tutta  l'anima.  E  dessa,  è  ormai  evidente,  era  la  vita  religiosa.   Ma  gli  era  d'uopo  conciliarsi  con  la  Chiesa,  dare  al  Pontefice  un  attestato  persuasivo  della  sua  nuova  disposizione.   Era  quello  l'anno  nel  quale  avvenne  l'espulsione degli  Ebrei  da  tutta  la  Sicilia  e  molti  si  sparsero  in  ogni  parte   d'Italia.    Uno   di   questi    Opera,  343.   181  (siculus  quidam  hebraeus)  si  era  spinto  sino  a  Ferrara,  portando  seco  gran  copia  di  libri  ebraici.  Il  Pico  si  senti  stimolato  dall'antica  curiosità  ed  attrattiva  per  il  misterioso;  per  lui  un  libro  nuovo  era  un  tesoro,  e  Io  leggeva  con  la  convinzione di  trovare  in  esso  ciò  che  la  sua  anima  vagheggiava  e  che  tutti  i  libri  precedenti  non  avevano  saputo  accordare.   Ricordava,  non  senza  tristezza,  quali  orizzonti  aveva  intravveduto  nello  studio  della  Cabala  e  quante  notti  aveva  vegliato  per  decifrare  gli  arcani dell'antica  sapienza.  Chi  sa  che  anche  ora  non  potesse  scoprire  qualche  verità  riposta  nei  libri  di  quel  giudeo,  il  quale  gli  acuiva  il  desiderio di  leggerli  coll'annunciargli  la  sua  partenza  da  Ferrara  entro  venti  giorni  ?   Al  nipote  che  lo  richiedeva  di  consigli,  rispondeva che  non  si  aspettasse  per  qualche  tempo  da  lui  nessuno  scritto  essendo  occupato  notte  e  giorno,  sino  quasi  a  perdere  gli  occhi,  su  quei  libri  dell'ebreo,  che  contava  di  finirli  prima  della  di  lui  partenza.  «  Addio,  conclude,  temi  il  Signore  e  pensa  ogni  giorno  che  devi  morire  ».  Non    i\)  Opera,  360.  Questa  lettera  porta  la  data  del  30  maggio 1492.  Alcuni  giorni  prima  aveva  scritto  a  Troilo  Malvezzi ringraziandolo  dell'invio  fattogli  del  suo  libro  De  Sortibus  che  aveva  trovato  diligente  in  quanto  alla  lingua,  acuto  nelle  osservazioni  e  gli  promette  d'inviargli  alcune  182 pare  che  da  tali  letture  ne  traesse  il  frutto  che  si  era  ripromesso  e  nemmeno  la  benché  minima  soddisfazione  dello  studio  per    stesso.  Ormai  era  inclinato  per  quella  via  in  cui  si  sentiva  irresistibilmente trascinato.  Si  ritrasse  da  quei  libri  con  una  specie  di  disgusto,  e  come  da  ciò  che  si  frapponeva  alla  sua  vera  méta.   Riandando  alle  cause  che  determinarono  il  suo  attrito  con  la  Chiesa  e  il  suo  capo,  il  Pontefice,  s'avvide  che  «buona  parte  della  colpa  era  sua,  «  che  aveva  troppo  amato  la  gloria  del  mondo  e  «trascurato  quella  che  sola  proviene  da  Dio*,  e  sopratutto  perché  all'odio  e  alla  nequizia  degli  uomini,  aveva  reagito  coli' impeto  della  passione,  che  é  figlia  di  Satana.   Non  aveva  ascoltato  il  precetto  di  Gesù  quando  disse:  «Si  vos  hodio  mundus  habet,  scitote  quia  priorem  me  vobis  habuit»,e  quindi  aveva  agito  ciecamente  per  la  violenza  della  propria  consuetudine, come  coloro  che  sono  trasportati  dall'impeto della  corrente  di  un  fiume.  Non  aveva  riflettuto sulla  sentenza  socratica  che  se  i  nemici  uccidono  il  corpo,  non  possono  nuocere  all'anima,  e  però  non  si  era  astenuto  dalla  vendetta  che  im  sue  quisquiglie  (forse  alcuni  di  quegli  inni  che  in  questo  tempo  andava  componendo  per  ricreare  lo  spirito  col  suono  della  lirai.  19  maggio  1492,  Opera,  366.   183 pedisce  all'anima  di  udir  risuonare  la  voce  soavissima di  Dio,  unica  guida  alla  verità  e  alla  vita.  Oh  !  come  gli  tornava  spontaneo  sulle  labbra  il  gemito  del  profeta:  «Delieta  iuventutis  meac  «et  ignorantias  meas  ne  memineris:  sed  secun«  dum  misericordiam  tuam  memento  mei  propter  «  bonitatem  tuam  Domine  »  ora  che,  trovandosi  a  Ferrara,  si  risovveniva  del  tempo  della  sua  prima  gioventù  non  scevra  di  quei  trascorsi  che  imbrattano la  coscienza.  "  Pensa,  figlio  carissimo  soggiunge rivolgendosi  al  nipote  che  la  vita  ò  un  punto,  un  istante;  che  i  piaceri,  le  ricchezze  avvelenano l'anima  e  la  sottraggono  al  regno  del  cielo;  che  tutto  ciò  che  forma  la  nostra  gioia  di  quaggiù è  incerto,  umbratile,  falso;  pensa  che  una  grande  ricompensa  sta  preparata  per  colui  che,  disprezzando  queste  cose,  sospira  alla  vera  patria, di  cui  Dio  è  il  re,  la  carità  la  legge,  l'eternità il  modo.  Occupa  l'animo  in  questi  pensieri,  che  lo  stimolano  quando  dorme,  lo  accendono  quando  e  tiepido,  lo  rafforzano  quando  vacilla,  e  gli  apprestano  le  ali  quando  tende  al  divino  amore;  di  maniera  che,  quando  verrai  da  me,  che  ti  attendo  con  grande  desiderio,  ti  possa  vedere  non  solo  quale  sei,  ma  come  voglio  che  sia».    Opera,  344-346.  Questa  lettera  porta  la  data  del  2  luglio,  Ferrara.  184 In  questa  lettera,  improntata  a  una  maggiore  unzione delle  altre  scritte  al  nipote,  il  Pico  ci  si  mostra  ormai  preso  dal  sacro  fervore  de!  mistico.  Ed  è  degno  di  nota  il  fatto  che  il  nostro,  le  cui  lettere  agli  amici  sono  di  sapore,  diremo  così,  profano,  abbia  scelto  nel  suo  nipote  il  confidente  delle  proprie  aspirazioni.  Forse  lo  confortava  a  questo,  oltre  il  legame  di  parentela  che  lo  univa  al  figlio  del  proprio  fratello,  a  cui  non  era  del  resto  molto  distante  per  l'età,  la  serietà  di  questo giovane  principe  che  si  era  rivolto  a  lui  con  un  abbandono  e  una  devozione  che  non  si  smentì  mai.  Ad  ogni  modo  il  Pico,  che  pur  tanti  amici  annoverava,  non  si  aprì  mai  con  alcuno  come  co!  nipote,  non  fece  mai  nessuno  partecipe  delle  sue  ansie,  dei  suoi  ardori  delle  note  piìi  intime  che  gli  vibravano  nell'animo;    mai  nessuno ebbe  a  chiamare  metà  della  propria  vita  (animae  dimidium  mcae)  ,  perchè  nessuno  per  r  innanzi  l'aveva  compreso  come  il  nipote  Gianfrancesco.  È  senza  dubbio  di  questo  tempo  il  commento  all'orazione  domenicale  che  va  sotto  il  nome:  In  orationem  dominicam  expositio.   Il  Pico  fa  rientrare  l'orazione  domenicale,  che  per  i  cristiani  è  la  preghiera  per  eccellenza,  nel    n  ;  Il  nipote  si  era  già  sposato.   (2ì  Questa  espressione  si  trova  nella  lettera  datata  da  Firenze  il  27  novembre  1492,  Opera,  347.  185 quadro  generale  di  una  teoria  della  preghiera;  quindi  prima  di  tutto  la  definisce,  poi  determina lo  scopo  per  cui  si  deve  pregare  ,  infine    la  norma  che  deve  seguire  colui  che  prega  .  La  preghiera,  dice  il  Pico,  è  sempre  un  desiderio, e  ciò  che  si  desidera  è  sempre  un  bene,  e  le  cose  le  amiamo  in  quanto  esprimono  un  bene.  Siccome  poi,  al  dire  degli  stessi  teologi  e  filosofi,  il  bene  sommo  è  Dio,  dobbiamo  perciò  amare  e  desiderare  prima,  e  al  disopra  di  ogni  cosa,  Dio,  e  insieme  con  lui  le  creature  che  più  a  lui  ci  congiungono.  Come  dobbiamo  regolarci  rispetto  a  tante  cose  che  pur  ci  dilettano  (come  i  beni  della  fortuna,  la  bellezza,  la  forza  del  corpo  ed  altri  obbietti  sensibili)  e  nondimeno  non  ci  uniscono  a  Dio?  Col  fuggirli,  risponde  il  Pico;  perchè  non  può  essere  buono  ciò  che  ci  allontana  da  Dio  e  ci  fa  peccare.  E  quando  ci  sono  concessi  tali  beni  da  Dio?  Allora,  incalza  il  nostro,  dob [\)  «Orare  non  est  aliud  quam  per  elevationem  men •  tiset  affectus  excitationem  sua  desidcria  Deo  notificare  -.   i2i  «  Si   ergo   debcmus    scire,  quoniodo   sit  orandum,     oportet  prius  scire  quid  sit  desiderandum...  •.   i3     Scimus  autem   illud   esse  sumnie  desiderandum     quod  est  summum  bonum  •.  L' Esposizione  di  cui  stiamo  facendo  l'esame  è  inserita  in  principio  delle  Opere  del  F*ico,  edizione  Basilea  già  citata.  Mancando  la  numerazione  delle  pagine,  citeremo  per  ordine  numerico  degli  a  che  contraddistinguono  i  fogli.    13  186 biamo  ricordare  il  detto  di  S.  Paolo  che  ci  consiglia di  far  uso  delle  cose  di  questo  mondo,  tenendo  da  esse  distaccato  il  nostro  cuore.  Chi  vuole  distaccarsi  da  ciò  che  è  caduco  deve  far  uso  della  meditazione,  della  compassione,  della  imitazione.  Poiché  solo  meditando  la  passione  di  Cristo,  noi  sentiremo  il  nostro  cuore  punto  di  compassione  per  le  infinite  sofferenze  di  Gesù  ;  ma  a  nulla  gioverebbero  le  nostre  lagrime  se  non  cercassimo  di  imitarlo  nella  sua  vita,  nelle  sue  parole,  nella  sua  inalterabile  pazienza  a  sopportare i  più  grandi  dolori.  E  non  solo  dobbiamo  sopportare  le  afflizioni  della  vita,  ma  anche  coloro che  ci  fanno  del  male.  Se  vogliamo  che  Dio  rimetta  i  nostri  peccati  e  ci  preservi  dalle  tentazioni, accordandoci  la  sua  misericordia,  la  quale  è  come  la  medicina  per  il  corpo,  perchè  dovremmo  negare  al  prossimo  ciò  che  noi  chiediamo  a  Dio,  vale  a  dire  la  misericordia  ?   Se  è  vero  che  è  per  essa  che  noi  siamo  salvati e  non  già  per  i  meriti  nostri,  a  maggior  titolo dobbiamo  usare  verso  gli  altri  questa  grande  benevolenza  che  distingue  gli  animi  eletti.  Quando  infine  Cristo  c'insegna  adire  al  Padre,  «liberaci  dal  male»,  non  possiamo  fare  a  meno  dal  non  raffigurarci,  nella  rappresentazione  del  Demonio,  l'insieme  di  tutti  i  mali,  l'ipostasi  di  tutto  quanto  è  triste  e  peccaminoso;  ecco  perchè  noi  dobbiamo   187 fuggire  dal  male,  come  da  una  bestia  orrenda  e  rifugiarci  nel  seno  del  Padre  nostro  in  cui  riposeremo sempre  che  lo  serviamo  con  santità  e  con  giustizia.   Il  28  luglio  giunse  a  Ferrara  la  nuova  della  morte  di  Innocenzo  Vili,  e  pochi  giorni  dopo,  quella  dell'elezione  alla  cattedra  di  S.  Pietro  del  cardinale  Borgia  col  nome  di  Alessandro  VI.  L'avvento  di  questo  nuovo  Papa  che,  per  la  larghezza  delle  sue  idee  e  i  suoi  gusti estetici,  era  ben  noto  nel  mondo  letterario  ed  artistico,  produsse  nel  nostro  un  senso  di  sollievo poiché,  essendosi  rivelato  di  un  carattere  del  tutto  diverso  da  quello  del  defunto  Pontefice,  sperava  di  trovarlo  meno  restio  a  concedergli  la  sospirata  assoluzione.  Un'altra  circostanza  si  presentava intanto  a  lui  favorevole:  l'elezione  del  Rettore  dello  studio  di  Padova,  il  cipriota  Podocataro,  a  segretario  pontificio.   Il  Pico  scrisse  da  Ferrara  il  16  agosto  una  lettera di  congratulazione  al  suo  vecchio  professore,  rimettendogli  una  supplica  per  il  Papa,  colla  preghiera d'intercedere  per  la  sua  causa  .    [\  I  Opera,  foL,  a,  4.   (2^  DoREZ,  Giornal.  Star.  d.  ietterai.  Italiana,  voi.  25,  1895,  355.  188 Egli  intanto  si  mosse  alla  volta  di  Firenze,  per  potere  poi  proseguire  per  Roma  ove  non  gli  mancavano  amici  e  ammiratori,  tra  i  quali  il  suo  affezionato  Ermolao,  patriarca  di  Aquilea.  A  Firenze,  essendosi  imbaltuto  in  un  fascio  di  libri  greci  (ex  his  graecorum  librorum  fascibus  extricavero)  s'intrattenne  per  poterli  consultare.   In  questa  città  desiderava  raggiungerlo  il  nipote  che  ormai  non  sapeva  più  vivere  da  lui  lontano.  Ma  lo  zio  l'ammonisce  di  rimanere  per  due  motivi: primo  perchè  potrebbe  arrivare  a  Firenze  nel  contrattempo  ch'egli  sarebbe  in  viaggio  per  Roma  (ut  illuc  mihi  eudum  sit,  causam  nosti)  oppure per  Mirandola  ;  l'altro  che  avrebbe  dovuto  lasciare  per  lui  la  moglie,  verso  la  quale  l'obbligavano dei  doveri  inerenti  al  matrimonio,  cui  egli  non  potrebbe  sottrarsi  senza  venir  meno  al  comando divino  in  cui  è  detto  essere  gli  sposi  un'anima  sola.  «  Infatti,  soggiunge,  'non  puoi  es«  sere  più  tutto  tuo  dal  momento  che  hai  voluto  «  assoggettarti  alle  leggi  nuziali,  nondimeno  puoi  «  essere  tutto  di  Dio,  al  quale  sei  meritevole  nello  «  stesso  tempo  che  lo  sei  a  te  stesso  ».  Lo  esorta  infine  a  starsene  in  casa  per  attendere  alle  proprie occupazioni  e  alla  meditazione  delle  sacre  scritture  e  in  special  modo  del  Vangelo.  A  vederlo non  istarà  molto  tempo,  avendo  in  animo   189 di  ritornare   a   Ferrara  al   cominciare  della    primavera .   Siccome  non  arrivava  nessuna  risposta  alle  pratiche  che  aveva  inoltrate  a  Roma,    credeva  riuscisse  per  niente  proficua  la  sua  andata  in  quella  città,  decise  di  trattenersi  ancora  a  Firenze ove  poteva  almeno  attendere  agli  studi.  In  questo  periodo  attraversava  egli  un  momento  di  grande  sconforto;  aveva  molto  bisogno  di  affetto  e  di  parole  buone  e  in  questo  senso  è  improntata la  lettera  che  scrive  ad  Ermolao  nella  quale  gli  chiede  anche  il  volume  di  Tolomeo  sulla  musica  .   Arriva  un  momento  nella  vita  in  cui  la  mente  nostra  fa  un  cammino  a  ritroso  e  invece  di  guardare avanti  e  di  sognare  si  volge  indietro  e  ricorda. Fra  le  persone  che  conoscemmo  ed  amammo  ve  n'è  sempre  una  che  rimane  nella  nostra  memoria coi  caratteri  indelebili  di  una  bontà  semplice e  gioviale.  Felici  noi  se,  mentre  la  contempliamo in  immagine,  tale  persona  vive  ancora  e  può  accoglierci  nel  suo  seno  e  ridirci  la  parola  che  consola.  Il  Pico  era  cosi  giovane  quando  questo  periodo  era  per  lui  arrivato  che,  si  può  dire,  tutti   coloro   che  aveva  conosciuto   nell'in  Opera,  346-47   la  data  di  questa  lettera  è  del  27  novembre  1492.  (2    Opera,  374.  190 fanzia,  erano  ancor  vivi  e  tra  questi  la  persona  che  Io  aveva  palleggiato  bambino  tra  le  braccia,  e  che  ora  ricorda  con  tenero  affetto  nella  sua  lettera  che   gì' indirizza  senza  rivelarci  il  nome.   «  Nulla  mi  tornò  più  dolce  e  piij  gradito,  gli  «  scrive,  della  memoria  della  tua  antica  famiglia«rità  e  soavità  di  costumi.  Se  la  sede  dell'ami«  cizia  sta  nell'animo,  in  noi  allora  essa  è  vera«  mente,  vale  a  dire,  non  c'è  motivo,  come  scrivono  «  Platone  ed  Aristotile,  perchè  in  noi  possa  for«  mare  un  dissidio  la  distanza  di  luogo  e  di  tempo.  «  Pensavo  or  ora  in  che  modo  poterti  essere  «  vicino,    altro  mi  venne  in  mente  che  il  farti  H  pervenire  la  mia  elucubrazione  de  septiformi  «  in  sex  dies  geneseos.  Se  noi  partoriamo  dei  li«  bri  quasi  come  dei  figliuoli,  e  il  padre  è  in  gran   *  parte  nel  figlio,  vengo  io  ancora  con  esso  lui  «  che  ho  generato.  Ricevi  dunque  il  mio  figliuo«  letto  che  viene  a  te  com'  io   soleva  ilare  e  fe *  stante  bambinello.  Ti  piacerà,  lo  so,  perchè  mi  «  ami,  e  ti  dispiacerà  anche  perchè  mi  ami.  Nam   *  eiusmodi  pietatis  est  et  eorum  errata  qtios  ama«mus  signanter  introspicere  ut  emendemus  et  in*trospectis  leviter  undulgere  ne  vexemus*.   Da  ciò  si  vede  che  il  Pico  considerava  V  Ettaplo  come  il  suo  lavoro  prediletto;  e  invero  esso    Opera,  375.  191  e  proprio  figlio  del  suo  spirito:  tutto  ciò  che  aveva  studiato,  sognato  e  amato,  egli  lo  aveva  trasfuso    dentro  e  se  in  qualcosa  sperava  ripromettersi perpetuità  al  suo  nome,  era  appunto  in  esso,  che  rimane  del  resto  anche  per  noi  l'espressione più  notevole  del  suo  ingegno.  Frattanto non  tardò  a  venire  la  lettera  di  risposta  del  suo  Ermolao,  ch'egli  trovava  quale  si  era  ripromesso, e  cioè  piena  di  sentimento  e  di  parole  buone,  vera  immagine  di  quell'anima  semplice  e  mite,  che,  pur  cosi  erudito  passava  allora  per  uno  dei  più  eletti  stilisti  latini    rifuggiva  il  plauso  esteriore,  pago  unicamente  della  stima  degli  amici.   In  verità  questi  gli  corrisposero  e  più  di  ogni  altro  il  nostro  che,  esaltando  i  suoi  meriti  letterari, esclamava:  «Voglio,  o  dottissimo  Ermolao,  «  che  tu  sappia  che  ti  sono  amicissimo  e  che  le     tue  virtù  mi  accendono  alla  stima  e  venerazione     per   te,  così   che  a  nessuno,  anche  se  ti  fosse     consanguineo,   permetterei    di    amarti    come   ti     amo  io».  Ai  primi  del  1493  giunse  a  Firenze la  notizia  che  Ermolao  era  stato  colto  dalla  pestilenza  che  serpeggiava  allora  nel  Lazio;  il  Pico  e  il  Poliziano  n'ebbero  il  cuore  trafitto.  Il  Pico  volle   tentare  di  soccorrere   l'amico  invian  do Opera,  374-375.  192 dogli  per  mezzo  di  un  corriere  uno  specifico  da  lui  stesso  comprato  e  che  credeva  atto  a  domare  il  morbo  pestilenziale.  Ma  quando  l'espresso  arrivò a  Roma,  Ermolao  Barbaro  era  già  spirato.  Contava  trentanove  anni;  con  lui  spariva  una  delle  figure  più  amabili  del  suo  tempo  e  più  che  per  le  sue  opere  letterarie  fra  cui  le  Castigationes  plinianae  erano  meritamente  celebrate,  egli  emergeva  fra  i  contemporanei  per  le  squisite  doti  del  suo  cuore,  doti  che  solo  in  parte  possono  trasfondersi  negli  scritti  e  che  la  morte  porta  inesorabilmente  seco.  Per  far  meglio  intendere  l'indole  di  questo  umanista,  vogliamo  riferire  in  parte  la  lettera  che  scrisse  alcuni  mesi  prima  di  morire  ad  Antonio  Calvo,  il  quale  gli  annunziava  la  morte  del  padre  suo  Zaccaria  avvenuta  in  Venezia.   Dopo  d'aver  detto  il  rammarico  provato  per  non  aver  potuto  dalla  terra  d'esilio  andare  a  porgere  l'estremo  saluto  all'autore  dei  suoi  giorni,  soggiungeva:  «Forse  egli  andando  sicuro  incon«  tro  alla  morte,  era  solo  sollecito  del  mio  dolore;  «  sono  certo  eh'  egli  non  sapeva  con  che  animo  «  sopportassi  la  mia  sventura,  perchè  se  mi  avesse  «  veduto,  oh  allora,  senza  dolore  sarebbe  passato  «  da  questa  vita.  Del  resto  mi  conforta  il  pen«  siero  ch'egli  abbia  lasciato  il  mondo  con  la  co«  scienza  d'avere  fatto  il  proprio  dovere  e  di  avere   193 «  speso  la  sua  vita  per  il  bene  della  patria  e  delia  «famiglia.  A  te  raccomando  i  miei  fratelli,  sii  loro  «  consolatore  in  vece  mia  e  che  continuino  ad  «amare  il  padre  loro  oltre  la  tomba».  La  perdita  di  un    caro  amico  gettò  un  velo  di  tristezza  sull'animo  del  Pico;  il  pensiero  di  rendersi utile  alla  Chiesa  divenne  ora  il  dominante  fra  ogni  altro.  A  farlo  persistere  in  esso  contribuiva notevolmente  l'influsso  che  su  di  lui  esercitava la  vita  austera  di  Girolamo  Savonarola.  Dopo  la  morte  del  Magnifico,  colui  che  in  Firenze aveva  acquistato  maggiore  autorità  era  il  frate  predicatore,  la  cui  eloquenza  dall'intonazione  profetica,  la  cui  vita  rigida  e  intemerata,  cominciavano a  guadagnargli  le  anime  stanche  della  vita  0  desiderose  di  purificazione.  Il  Pico,  che  già  da  tempo  conosceva  il  frate  ,  ora  che  sentiva  più  urgente  il  bisogno  d'una  persona  la  quale  piij  che  amica  gli  fosse  guida  nel  nuovo  cammino, si  rivolse  al  frate  di  San  Marco  come  all'albero  maestro.  Riprese  con  fervore  le  pratiche di  pietà,  passava  le  ore  nella  Biblioteca  di  S.  Marco  a  conversare  col  Savonarola  di  cose  religiose,  riceveva  con  piacere  nella   sua   abita  li j  Roma,  13  dicembre,    14^2.  Dalle  Epistole  del  Poliziano ed.  cit.  518-20.  (2;  Cfr.  la  Vita  del  nipote.  194 zione  le  visite  di  coloro  che  desiderassero  intrattenersi in  dotti  e  cristiani  argomenti.  In  questo  tempo,  si  legge  nella  vita  scritta  dal  nipote,  il  portamento  del  Pico  aveva  assunto  un  fare  più  timido  e  contegnoso,  il  suo  volto,  di  solito  ilare  e  calmo  (vulio  hilari  semper  erat  et  placido)  ,  sembrava  ora  trasfigurato  dagli  ardori  mistici  cui  si  abbandonava.  Più  volte  fu  veduto  col  flagello  in  mano  (meisque  oculis  saepius  [cuncta  in  Dei  gloriam  redeant]  flagellum  vidi)  (4)  macerare  le  proprie  carni  per  espiare  i  falli  commessi  e  in  memoria  della  morte  in  croce  di  Cristo.  Più  nulla  poteva  ormai  commuoverlo  dal  suo  proposito.  Solo  una  cosa  lo  avrebbe  irritato,  se  cioè  vedesse  andar  perduti  certi  scrigni  {nisi  scrinia  quaedam  deperirent)  ripieni  delle  sue  elucubrazioni,  frutto  di  lunghe  veglie  e  che  credeva  tornassero  di  grande  utilità  alla  Chiesa  di  Dio.  Se  il  paragone  non  fosse  irriverente,  diremmo  che  uguale  si  presenta  in  intensità l'attaccamento  per  il  denaro  dell'avaro  che  tiene sul  cuore  le  chiavi  dello  scrigno  ove  sta  il  suo  tesoro,  e  dell'umanista  per  i  libri  e  gli  scritti  che  tiene  nel  suo  studio  :  l'uno  e  l'altro  ne  morrebbero di  dolore  se  vedessero  andare  distrutto  ciò  che  considerano   metà   della   loro   anima,  come.    Cfr.  la  Vita  del  nipote.   (21195 secondo  Pontico  Virunio,  incanutì  dal  cordoglio  quell'umanista  che  perdette  in  un  naufragio  la  cassa  contenente  i  libri  che  portava  dall'Oriente.    Maffei.   Verona  illustrata,  Il,   134.   Cosa  tenesse  il  Pico  nei  suoi  scrigni  ce  lo  dice  il  nipote: una  farragine  di  lavori  incompiuti,  scritti  con  carattere malagevole  a  leggersi  «di  modo  che,  come  d'in •  gegno,  cosi  fu  si  celere  di  mano  che,  essendo  stato  da  «  giovane   ottimo  calligrafo,  finì   quasi  col  non  intendere     più  egli  stesso  ciò  che  aveva  scritto.  Soleva  anche  scri«  vere  or  qua  or    scrivendo  cose  nuove  sopra  le  vec •  chie,  molte  opere  interrompeva  dopo  d'averle  incomin«ciate».  Egli  allora  attendeva  con  più  di  proposito  a  un'opera  in  cui  si  prometteva  di  combattere  i  sette  nemici della  Chiesa:  gl'increduli,  i  pagani,  gli  ebrei,  i  maomettani, i  cattolici  non  osservanti  a  quello  cui  credono,  gli  astrologi  e  gli  eretici.  Di  quest'opera  solo  la  parte  in  cui  prendeva  a  combattere  gli  astrologi  «  egli  aveva,  come     dice   il   nipote,  compiuto   e  limato   in   parte,  e  noi  con     grande  fatica  potemmo  ricavare  da  un  esemplare  tutto     cancellato  e  stracciato  »  (Vita).  Poiché  il  lavoro  contro  gli  astrologi,  che  si  compone  di  dodici  libri  è  vastissimo,  tenteremo  di  esaminarlo  brevemente  più  oltre  nel  nostro  studio.      X.   L'assoluzione  del  Pico.  Risolazioue  della  crisi  nel  misticismo.  Le  «  Disputationes  » .  Sua  morte.    Il  18  giugno  1493  giunse  al  Pico,  quasi  improvvisamente, il  sospirato  Breve  di  Alessandro VI  che  lo  assolveva  in  seguito  alla  relazione  di  una  Commissione,  composta  di  un  vescovo,  di  due  cardinali  e  del  domenicano  Paolo  da  Genova, professore  di  teologia  e  maestro  del  palazzo apostolico  da  ogni  censura  o  nota  di  eresia- Il  Breve,  dopo  aver  fatto  la  storia  della  esamina  delle  900  conclusioni,  di  cui  alcune  erano  state  condannate  sotto  Innocenzo  Vili,  perchè  erronee e  contrarie  alla  fede,  viene  alla  considerazione dell'Apologia.  «  Inteso  poi  il  detto  pre«  decesssore  che  tu  avevi  pubblicato  un  altro  libro  «  apologetico,  dove  le  medesime  proposizioni  in«  terpretavi  in  un  senso  migliore  e  cattolico,  e  ne  chiarivi  l'intendimento  giusta  la  vera  fede,  lo  «  stesso  predecessore  volendo  impedire  che  le  «  premesse  proposizioni  corrompessero  in  qualun«  que  modo  i  cuori  dei  fedeli,  vietò  la  lettura  del  «  libro  delle  predette  novecento  proposizioni,  però  «  dichiarando  che  tu  non  eri  incorso  per  tutto  «  questo  in  alcuna  censura,  siccome  più  ampia«  mente  si  contiene  nelle  stesse  lettere,  il  te«  nore  delle  quali  vogliamo  che  qui  si  abbia  per  «  espresso  * .   Qui  potrebbe  affacciarsi  la  questione  se  il  Breve  di  Alessandro  VI  veniva  a  contraddire  la  Bolla  di  Innocenzo  Vili,  ma  noi  non  crediamo  necessario indugiarci  in  essa  che  ha  dato  campo  a  vivaci  polemiche  fra  alcuni  pubblicisti  rosminiani  e  gesuiti della  Civiltà  Cattolica  .  Ci  basti  dire  che  vera  e  propria  contraddizione  nei  decreti  dei  due    [\)  Documento  citato  dal  Berti  nella  Rivista  Contemporanea, già  citata,  45-46.  Il  10  aprile  1519  Leone  X  spedì  a  Gianfrancesco  Pico  un  Breve  col  quale  permetteva  al  nipote  di  pubblicare le  opere  proprie  e  quelle  dello  zio.  Per  questo  Breve  vedi  Civiltà  Cattolica.  E  per  la  Polemica  vedi  Rassegna  Nazionale,  gennaio  e  ottobre  1899,  198-205  e  537-547;  Civiltà  Cattolica  voi.  cit.  e  il  voi.  8,  320-332.  Vedi  anche  Malavasi,  Pico  della  M.  davanti  al  Tribunale  della  santa  sede.  Mirandola, 1897  ;  Pagani,  Rosmini  (an.  Ili,  voi.  I.  232  e  760,  e  Rassegna  Nazionale,  voi.  cit.  199 pontefici  non  esiste;  ciò  che  appai  e  invece  e  spiega  tutto  è  la  diversità  di  temperamento  nei  due  capi  delia  Chiesa.  Il  primo,  invero,  non  ha  mai  emesso  un  atto  esplicito  di  scomunica  contro il  Pico,  ma  soltanto  tenne  sospesa  questa  minaccia come  una  spada  di  Damocle  sul  capo  del  Mirandolano,  la  quale  valeva  a  paralizzare  la  sua  attività  e  a  tenere  in  angustia  lo  spirito  di  lui  credente;  Alessandro  VI,  d'indole  mono  puntigliosa e  meno  proclive  a  cedere  alle  pressioni  degl'invidiosi  del  Pico,  i  quali  erano  per  altro  diradati,  e  che  in  fondo  non  aveva  nessun  risentimento personale  col  nostro  (si  ricordi  la  frase  dei  Pico  a  riguardo  d'Innocenzo  Vili  nell'Apologia), era  portato  ad  interpretare  nel  modo  più  indulgente  l'operato  del  medesimo,  il  quale,  del  resto,  era  venuto  sempre  più  accostandosi  ai  dettami di  S.  Chiesa  con  una  vita  veramente  pia,  e  ad  «  indulgere  tanto  più  verso  quelli  che,  per  «  nobiltà  di  sangue,  per  sapere,  per  integrità  di  «  vita  e  religione  ortodossa  si  raccomandano  »  la  cui  «  quiete  e  reputazione  ci  sta  a  cuore  quando  «  con  Dio  è  lecito  ».   Questo  Breve  colmò  di  giubilo  il  cuore  del  Mirandolano e  valse  a  togliere  quella  specie  di  op  »  Multa  itidem  vasa  argentea  prcciosasque  supellec«  tilis  partes  in  pauperum  usus  distribuit  ».  Vita  ecc.  op.  citata.  200 pressione  che  gli  si  faceva  sempre  più  penosa  di  mano  in  mano  che  si  accostava  al  centro  della  vita  religiosa.  Questa  era  ormai  l'unica  sua  aspirazione, l'ideale  verso  cui  tendeva  il  suo  pensiero  e  con  cui  sperava  di  dare  inizio  a  una  nuova  vita.   Ridusse  quindi  al  puro  necessario  le  sue  bisogna; la  mensa  rese  parca  e  frugale,  vendendo  parte  del  vasellame  d'oro  e  d'argento  per  distribuire il  ricavato  ai  poveri  verso  i  quali  cominciò a  largheggiare  in  elemosine.  Volle  essere  riconoscente  con  i  fedeli  famigliari,  lasciandoli  usufruire  liberamente  dei  suoi  poderi.  Lasciò  all'amico Benivieni  un  fondo  cospicuo  onde  all'occorrenza alleviasse  le  persone  piìi  indigenti  di  Firenze,  sopratutto  dotasse  le  fanciulle  bisognose, acciocché  potessero  maritarsi.   Considerando  poi  chiusa  la  sua  vita  nel  mondo  decise  di  fare  il  proprio  testamento  che  redasse  l'otto  agosto  e  rifece  il  primo  settembre  dello  stesso  anno  e  a  cui  fecero  da  testi  il  Poliziano  e  il  Savonarola.  Ivi  disponeva  che  l'Ospedale  di  S.  Maria  Novella  fosse  erede  universale  de'  suoi  beni  immobili,  mentre  di  quelli  mobili  eleggeva  a  erede  il  fratello  Antonio  verso  il  quale  non  voleva  riuscire  imparziale,  avendo  già  soddisfatto  largamente  al   figlio  del  fratello  Galeotto.  Sciolto   La  vendita  era  stata  fatta  con  strumento  del  22  aprile 1491.  Ceretti,  Sonetti  inediti  del  C.  G.  P.  Mirandola,  201  così  da  ogni  legame  d'ordine  finanziario,  si  trovò libero  di  dedicarsi  a  ciò  che  piìi  gli  stava  a  cuore.  Due  erano  le  tendenze  che  si  contrastavano dentro  di  lui  e  l'imbarazzavano  nella  scelta:  l'ordine  religioso  dei  frati  predicatori  cui  apparteneva  il  Savonarola,  e  la  vita  del  pellegrino  più  aspra  di  sacrifici  e  più  libera  nell'amore.   Come  luogo  di  ritiro  per  le  sue  meditazioni,  si  era  scelto  la  villa  della  Fratta  dove  pochi  ammetteva, per  non  essere  distratto  dal  suo  raccoglimento: tra  quei  pochi  era  Gianfrancesco.  Un  giorno,  narra  questi,  mentre  ci  trovavamo  a  ragionare del  divino  amore  in  un  giardino  dal  quale  l'occhio  spaziava  lontano  le  prospettive  verdeggianti, mio  zio  proruppe  in  queste  parole:  «Te  «  lo  confido  in  segreto,  appena  avrò  terminato    certe  mie  elucubrazioni,  darò  il  rimanente  de'  «  miei  averi  ai  poveri,  e,  giunito  di  un  crocefisso,  «  scalzo,  a  piedi  nudi,  me  n'andrò  pellegrinando  «  pel  mondo  a  predicare  Cristo  alle  città  e  alle  ca«  stella  ».  Sembrava  che  in  questa  missione  egli  trovasse  la  vera  via  alla  sua  anima  irrequieta  e  bramosa  di  agire  in  conformità  delle  sue  libere  aspirazioni.  Non  altro  che  per  questo  egli  si  era    1894,  22,  n.  2.  Cfr.  anche   Spigolature  in    Giorn.   stor.  di  L.  I.  Vita  in  202   negato  una  compagna,  non  altro  che  per  esser  libero  egli  visse  «  sempre  errabondo  senza  una  sta«  bile  dimora,  benché  abitasse  più  spesso  a  Fi«  renze  e  talvolta  a  Ferrara».   E  quando  gli  ardori  mistici  si  acquetavano  e  l'anima  sua  si  ricomponeva  in  quell'equilibrio  normale di  cui  la  sua  fisonomia  esteriore  era  la  più  soave  espressione,  pensava  al  bianco  saio  di  fra  Girolamo,  alla  maestosa  gravità  che  traspariva  dalla  magra  figura  del  predicatore,  quando  di  sul  pergamo  del  duomo  con  la  mano  che  sembrava  scagliasse  folgori,  con  la  voce  annunciante  l'ira  di  Dio,  con  gli  occhi  accesi  da  quel  furore  profetico, suscitava  brividi  di  terrore  sulla  folla  degli astanti;  allora  sentivasi  trascinato  nelle  braccia di  quell'ordine  che  pareva  istituito  per  convertire a  Dio  con  la  predicazione  e  la  scienza  teologica,  gli  eretici  e  gì'  increduli.  A  tale  scopo  cercava  il  Pico  di  cimentarsi  con  quelle  discipline che  suggerisce  l'ascetica,  per  mettere  a  prova  la  sua  capacità  e  le  attitudini  richieste  ad  un  apostolato. È  forse  in  questo  periodo  ch'egli  compose le  dodici  regole  «  per  eccitare  e  dirigere  «  l'uomo  nel  combattimento  spirituale  »  .  L'idea    Vita,  \n  «  Regulae  XII  partim  excitantes,  partim  dirigentes  «  hominem  in  pugna  spirituali  »,  in  Opera,  ed.  clt.  332.    203   centrale  di  queste  regole  è  la  seguente:  «Non  si  deve  rifuggire  dalla  via  della  virtù  perchè  il  cammino è  aspro  e  difficile,  poiché  anche  la  via  dei  piaceri  ò  seminata  di  spine  e  di  avversità;  se  si  deve  sostenere  in  questo  mondo  una  battaglia perenne,  dato  che  la  vita  dell'uomo  è  una  milizia,  tanto  vale  combattere  per  una  causa  giusta  e  santa  qual'è  quella  che  ci  fa  simili  a  Gesù  Cristo  il  quale  non  ascese  al  cielo  se  non  per  il  martirio    ».  Perciò  il  Pico  viene  a  riconoscere che  fra  tutte  le  tentazioni  dell'uomo  quella  che  si  deve  combattere  e  vincere  è  la  superbia,  radice  di  tutti  i  mali,  contro  la  quale  vi  è  solo  un  rimedio,  il  pensare  che  Dio  stesso  si  umiliò  per  noi  sino  alla  morte  di  croce  .  A\entre  da  una  parte  il  Pico  per  suo  proprio  uso  scriveva  queste    regole  e  cercava  di   metterle   in   pratica,    «  SI  homiiii  vidctiir  dura  via  \  irtuiis,  quia  continue  «  oportet  nos  pugnare  advcrsus  carncm.  et  diabolum,  et  «  mundum  recordetur,  quod  quamcunque  elegcrit  vitam,  «  etiam  sccundum  mundum,  multa  illi  adversa,  tristia,  in«  commoda,  laboriosa  paticnda  sunt  ».  Rcf^.  I.    Sicut  et  caput  nostrum  Christus,  non  ascendit  in  «  coclum,  nisi  per  crucem  ».  Rcg.  Ili.     «  Quare  super  omnes  tentationes,  homo  debet  ma«  xime  se  munire,  contra  tentationem  superbiac,  quia  ra«  dix  omnium  malorum  superbia  est,  contra  quod  unicum  «  remedium  est,  cogitare  semper,  quod  Deus  se  humiliavit  «  prò  nobis  usque  ad  crucem  et  mors  ».  Rcg.  XII.  204 non  trascurava  dall'altra  i  suoi  studi,  massime  in  quanto  potessero  giovare  in  qualche  misura  alla  Chiesa.  Si  proponeva,  come  abbiamo  detto,  di  combattere  i  nemici  della  religione  e  in  particoiar  modo  gli  astrologi,  le  cui  elucubrazioni  piene  di  sofismi  gli  parevano  incompatibili  col  dogma  e  con  la  fede.   il  Poliziano,  venuto  a  sapere  che  il  Pico  si  era  accinto  a  questo  lavoro  contro  l'astrologia,  si  adopera  in  qualche  modo  per  contribuire  alle  fatiche  dell'amico.  In  quel  tempo  leggeva  nello  Studio  ai  giovani  uditori  il  suo  poema  Rusticus  in  cui,  fra  le  altre  cose,  fa  menzione  degl'influssi  della  luna  sui  vari  lavori  dei  campi,  conforme  ai  dettami  di  Esiodo.  «Ora,  egli  scrive  al  Pico,  io  «  cominciai  fra  me  a  dubitare  se  cotali  osservazioni  «  non  avessero  qualche  fondamento  nelle  leggi  «  della  natura  o  piuttosto  non  fossero  derivate  «  dalla  superstizione  del  volgo.  Siccome  tu  stai  «  scrivendo  un  libro  pieno  di  dottrina  contro  gli  «  astrologi,  dove  tratti  appunto  argomenti  che  «  hanno  affinità  con  quelli  da  me  svolti  ad  imi«  fazione  dell'antico  poeta,  così  mi  è  sembrato  d\  «  fare    cosa    a   te  giovevole    riassumere   in  una    «  Quare  quoniam  tu  nunc  librum  cum  maxime  com  «  ponis  adversus  astrologos  multiplici  doctrina,  magnisque  «  argumentis  instructum  ».  205 «lettera  ciò  che  si  contiene  nel  mio  poema  e  in«  sieme  anche  le  ragioni  che  dei  fenomeni  ivi  de«  scritti  sono  date  da  Proclo,  da  altri  e  da  me  «  stesso  ».   Il  Poliziano,  che  dopo  la  morte  di  Lorenzo  aveva  rivolto  tutta  la  sua  devozione  e  il  suo  affetto al  principe  della  Mirandola  (poiché  egli  era  del  numero  di  quelli  che,  avendo  servito  per  tutta  la  vita,  e  si  serve  in  tante  maniere  una  persona,  non  possono  rassegnarsi  a  vivere  senza  un  protettore) scrivendo  all'Antiquario,  gli  dipinge  così  al  vivo  l'amabilità  del  Mirandolano,  da  invogliarlo  a  sua  volta  a  conoscere  l'uomo  celebrato.  Infatti  l'Antiquario  in  una  lettera  a  Bernardo  Riccio,  dopo  aver  accennato  alle  orazioni  e  alle  opere  filosofiche del  Pico,  nelle  quali  si  rivela  un  ingegno  singolare, dice  di  sentirsi  pieno  di  ammirazione  per  uno  che  per  lo  studio  ha  abdicato  alle  dovizie  del  suo  ricco  casato  .  E  il  Poliziano,  rispondendogli  subito dopo,  gli  dice  di  aver  fatto  leggere  la  sua  lettera  allo  stesso  Pico,  come  a  quegli  che  era  il  vero  oggetto  delle  sue  lodi,  e  che  riceverà  dal  Mirandolano  quanto  prima  una  lettera  «  doctani.    (  1  )  Angeli  Politiani  et  aliorum  virorum  illustrium,  Epistolarum  libri  duodccim,  Basilea,  1522.  libro  XII,  455^460.  POLIT.,  Epist.,  libro  IX,  ed.  cit.  353-354,  9  giugno 1494.  206 aciitam,  cordatam,  plenamqiie  humanitatis  ».  Il  nostro  infatti  gli  scrive  da  Ferrara  il  23  giugno, ringraziandolo  delle  benevoli  espressioni  a  proprio  riguardo,  sicuro  che  il  Poliziano  saprà  interpretare  il  suo  pensiero,  poiché  alle  muse  non  si  addice  lo  strepito  di  un  picchio  anzi  l'aspra  voce  di  un'anitra,  com'è  la  sua,  di  fronte  al  canto  di  due  cigni,  quali  sono  loro  due  .   Il  contenuto  di  questa  lettera  del  Pico,  tradisce uno  stato  d'animo  completamente  estraneo  a  quello  cui  sono  intonate  le  lettere  del  Poliziano  e  dell'Antiquario;  qui  si  sente  dell'artificiosità,  fors'anche  dell'ironia,  prova  che  l'animo  del  nostro  si  è  ormai  ritratto  da  ogni  attaccamento  mondano e  non  vibra  più  a  quell'entusiasmo  che  era  si  frequente  nelle  lettere  anteriori.  Questo  risalto  deriva  dalla  comparazione  della  lettera  di  risposta dell'Antiquario,  in  cui  traspare  quell'intima  soddisfazione  che  nasce  ogni  volta  si  ottenga  un  attestato  di  deferenza  da  parte  di  qualche  personalità eminente.  Egli  dichiara,  che  non  ci  tiene  d'essere  paragonato  al  Poliziano,  desiderando  solo  essere  amato   dal  Pico,  per  il  quale  nutre    POLIT.,  Opera. un  affetto  e  un'ammirazione  più  antica  di  quel  che  non  creda,  e  il  suo  nome  di  Antiquario  ne  è  una  prova.  Ad  ogni  modo  non  nasconde  questi sentimenti  per  non  venir  meno  a  ciò  che  l'animo  sente,  e  la  lingua  esprime,  e,  d'altra  parte,  la  di  lui  gloria  6    solida,  che  non  ha  bisogno  di  adulazione,  egli  che  ha  conseguito  tra  i  nati  degli  uomini  il  nome  di  Fenice.  Questo  fascino  che  esercitava  la  persona  del  Pico,  invece  di  scemare,  sembrava  andasse  crescendo  con  gli  anni.  Ad  altri  letterati  si  chiedeva  un  giudizio,  un'espressione  di  simpatia,  un  apprezzamento  qualsiasi;  al  Pico  si  chiede  un  sentimento  d'amore;  non  si  ambiscono  le  sue  lodi  o  la  sua  ammirazione,  si  desidera  essere  da  lui  amati.  E  che  veramente  fosse  felice  l'Antiquario  d'essere stato  onorato  da  una  lettera  del  Pico  (quoniam  me  nuper  tuis  littcris  exornasti),  Io  vediamo  nelle  parole  scritte  al  Poliziano  subito  dopo.  Dichiarandosi  suo  debitore  per  averlo  messo  in  corrispondenza  col  Pico,  soggiunge  :  «  sapevo  «  ch'egli  è  un  amabile  compagno,  ma  non  potevo  «  supporre  che  divenisse  così  presto  famigliare.  «  Ho  proprio  notato  come  le  sue  lettere  rivelino,  •oltre  che  il  sapere,  l'innata  bontà  del  suo  ani«  mo Quando  lo  vedi,  digli  che  riguardi  nelle   PoLiT.,  Episf.,  Cd.  cit.   357-359,  questa  lettera  e  datata  da  Milano,  9  agosto  1494.  208 «mie  lettere  non  ciò  che  vi  è  d'incolto,  ma  la  «  mia  devozione  per  lui,  e  mi  abbia  come  anti«  quario  fra  i  suoi  amici,  poiché  la  legge  dell'af«  fetto  non  può  mai  divenire  antiquata».   Il  movimento  decisamente  mistico  che  aveva  per  centro  il  Savonarola,  alle  cui  prediche  traevano in  folla  sempre  piiì  frequenti  gli  uditori,  aveva  poco  per  volta  attirato  nella  sua  orbita  tutti  gli  uomini  piìi  in  vista  di  Firenze.  Il  Benivieni,  che  diverrà  in  seguito  «  il  poeta,  per  così  «  dire,  ufficiale  delle  pie  solennità  con  le  quali  il  «  priore  di  S.  Marco  si  studiava  di  riformare  i  «  costumi  »  ,  rimase  così  vinto  dal  fascino  del  Savonarola  che  poco  mancò  non  desse  alle  fiamme  le  sue  poesie  d'amore,  che  esprimevano  un  passato di  vita  leggera.  Anche  il  Ficino  si  senti  scuotere dall'eloquenza  del  predicatore,  ch'egli  chiamava «novello  profeta»,  e  rimase  suo  seguace  finché  la  fortuna  fu  favorevole  al  riformatore;  mentre  quando  si  tratterrà  di  confessarlo  nel  momento della  sventura,  egli  lo  abbandonerà  vilmente con  parole  indegne  di  un  filosofo.  Il  Pico  piiì  di  ogni  altro  subì  l'influsso  del  Savonarola,  al  quale  si  sentiva  legato  da  vincoli  di  ammirazione di  lunga  data,  e  per  richiamare  il  quale  da  Reggio  a  Firenze  aveva  speso  i  suoi  buoni  uffici    POLIT.,  359-360,  porta  la  stessa  data,  Rossi,  //  Quattrocento,  Milano,  281.  209 presso  Lorenzo.  Il  frate  aveva  acquistato  tale  impero  sull'animo  del  nostro,  da  permettersi  aspri  rimproveri  al  suo  divoto  che  indugiava  ad  entrare  nella  vita  religiosa,  e  gli  presagiva  gravi  punizioni se  non  rispondesse  al  più  presto  alla  voce  che  veniva  dall'alto.  E  il  Pico  prometteva  di  vestire l'abito,  appena  avesse  dato  termine  ai  suoi  lavori  in  corso,  che  in  fondo,  diceva,  sarebbero  tornati  assai  utili  alla  Chiesa.  Quasi  tutti  ormai  sapevano  dell'imminente  pubblicazione  dell'opera  polemica  del  Pico  contro  gli  astrologi  di  cui  se  ne  faceva  ovunque  un  gran  parlare  ;  e  il  Ficino  che,  come  sappiamo  oltre  essere  filosofo  era  anche medico,  e  la  sua  medicina  aveva  per  fondamento molti  postulati  astrologici,  cominciò  a  pensare che  l'amico  suo  non  avrebbe  certo  risparmiato alcune  di  quelle  teorie  che  gli  erano  care  e  che  aveva  sostenuto  negli  scritti.  Senza  por  tempo in  mezzo,  scrisse  al  Poliziano,  che  condivideva  le  opinioni  del  Conte  e  collaborava  alle  sue  ricerche bibliografiche,  una  lettera,  nella  quale,  facendo  le  viste  di  convenire  con  loro,  cercava  di  difendere quanto  gli  era  possibile  salvare.  Riferiamo  parte  della  lettera  singolare:  «  Contro  molti  astro«  logi,  che  come  già  i  Giganti  a  Giove  il  cielo  «torre  tanto  invano  quanto  empiamente  si  sfor«  zano  meritamente,  il  Pico,  figliuolo  di  Pallade  e  VlLLARI,  \,  76-82.  210 «voi  figliuolo  d'Ercole,  spesso  felicemente  com«  battete...  E  io,  come  in  tutta  la  mia  vita  sempre  «  sono  stato  del  medesimo  animo  (?)  che  voi,  in  «  questo  studio  ancora  con  voi  mi  unisco.  Gli  «  platonici  le  celesti  imagini  degli  astronomi  de«  scritte,  non  riprovano,    si  studiano  approvare.  «  Ma  Plotino  di  tali  cose  al  tutto  si  ride,  e  io  «  ne'  miei  commentari  sopra  di  lui,  come  suo  in«  terprete  ugualmente  me  ne  fo  beffe,  parte  nella  «  sua  autorità  confidato,  parte  perchè  nessuna  «  certa  ragione  ho  di  tal  cosa.  Ma  nel  mio  libro  «  della  vita,  com'io  posso  d'ogni  luogo  diligen«  temente  ricerco;  non  disprezzo  al  tutto  quelle  «  imagini,    tutte  quelle  regole  refuto...  e  quivi  «  narro  le  disposizioni  dei  segni  e  de  le  imagini  «  non  come  appresso  gli  Platonici,  ma  come  ap«  presso  gli  Astrologi  ho  osservato...  oltra  di  que«  sto  nel  libro  del  Sole  non  tanto  cose  astronoonarola  :,  il  morto  suo  conhdente  ;  egli  che  aveva  reso  acuto  colle  sue  recriminazioni quel  dissidio  interiore  che  aveva  fatto  penare  per  tutta  la  vita  il  povero  Mirandolano;  egli  che  avevi  esacerbato coi  suoi  V,  ultimi  giorni  ed  alteralo con  la  sua  :  :  .^ta  dalle  astinenze  lo  sguardo  dolce  e  mansueto  del  biondo  Kìovane.  Ciò  non  basUva:  ei  doveva  perseguitare  anche  nel  regn».  del  riposo l'ombra  del  Pico  e  molestarla  con  le  sue  tetre  predizioni. Ma  coloro  che  l'avevano  amato  sinceramente,  ne  sentirono  tutta  l'amarezza  del  vuoto  lasciato;  e  la  sua  morte  immatura  fece  nascere  più  d'un  sospetto.   Si    narra  che   (ierolamo  !  per  il   dolore  della   pi-rdila  dellamico,  fosse  sui  .  ^i  darsi  la  morte.  La   frase  del  Savonarola    non  avrei  mai  creduto  questo  .,  la  descrizione  della  malattia  fatta  dal  nipote,  in  cui  si  parla    del  gonharsi  delle  viscere  e  di  una  febbre  insidiosissima .,  inhne  la  e  tfatta  alcuni  anni  dopo,  il  22  agosto  1497,  da  e.  ;  ;o  di  Casalmaggiore  di  avere  avvelenato  (.  lo  tosegoc  ..  dice  il  SA>arr()  nei  Diari.  Tom.  I,  coli.  714.  715,  726)  il  Pico  di  cui  era  segretario,  sono  argomenti tutti  che  inducono  a  credere  che  la  morte  del  Mirandolano  non  sia  stata  naturale.  Il  Dorez  che  ha  studiato sui  vari  documenti  la  questione,  emette  due  ipotesi:  runa  di  carattere  privato  il  cui  movente  era  esclusivamente uno  scopo  pecuniario;  l'altra  di  natura  politica,  e  connessa  coi  Utrbidi  giorni  del  94  in  cui  a  Firenze  si  contrastavano partiti  e  tendenze  diverse  che  mettevano  capo,  alcune  al  papa,  altre  a  Pietro  De'  Medici  o  a  Carlo  Vili.  226 Fra  le  molte  vittime  non  è  escluso  che  anche  il  Pico,  un  tempo  amico  di  Lorenzo  ed  ora  seguace  del  Frate,  sia  stato  preso  di  mira  come  uno  che  aveva  tradito  la  causa  dei  Medici  (Giorn.  Stor.  ecc.  voi.  32,  362).   Un  documento  del  vivo  rimpianto  che  lasciava  dietro  di    il  Mirandolano,  lo  abbiamo  in  una  lettera  del  Ficino,  proprio  dell'uomo  che,  per  il  suo  carattere  incostante,  ci  parrebbe  il  meno  degno  di  fede.  Se  il  vecchio  medicofilosofo provò  mai  il  nostalgico  affetto  per  una  persona  amata,  partita  per  sempre  dalla  vita,  fu  senza  dubbio  nei  giorni  che  seguirono  la  morte  del  Pico;  questa  lettera  ci  mette  a  nudo  per  l'unica  volta  forse,  l'anima  del  Ficino,  non  spoglia  però  di  ogni  finzione  allegorica,  parlante  nel  suo  linguaggio  tronfio  eppure  accorato.  «  Oh!  Germano,     scrive  al  Presidente  della  Sorbona,  desideri  aver  la  con«  ferma  della  morte  del  Pico,  vuoi  accrescere  il  tuo  dolore,  «  poiché  ora  che  non  sei  ben  certo  se  sia  morto,  ti  duoli  «  amaramente,  credo  che  ti  dorrai  ancor  di  più  quando  te  «  ne  sarai  accertato.  Ah,  perchè,  mio  Germano,  mi  preghi  «  di  una  tal  cosa!  Come  vorrei  essere  ancora  in  dubbio,  «    posso  compiere  questo  pietoso  ufficio  senza  piangere.  «  Il  nostro  Mirandolano  ci  ha  lasciato  il  giorno  stesso  in  «'  cui  re  Carlo  entrava  in  Firenze,  e  compensava  i  gemiti  «  dei  letterati  coll'esultanza  del  popolo  ch'egli  liberava.  «  Se  non  fosse  stata  la  luce  apportata  dal  re  di  Francia,  «  forse  Firenze  non  avrebbe  mai  veduto  giorno  più  oscuro  «  di  quello  in  cui  si  è  spento  il  luminare  di  Mirandola.  «  Con  ilare  fermezza  passò  il  Pico  dall'ombra  di  questa  «  vita  come  se  passasse  dall'esiglio  alla  patria  celeste.  «  Qualche  rara  volta  i  sacerdoti  concedono  per  un  poco,  «  agli  occhi  dei  profani,  i  misteri  più  riposti  e  tosto  li  na«  scondono,  così  Dio  concedette  ai  mortali  questo  divino  «  filosofo,  Pico  della  Mirandola,  e  lo  tolse,  appena  maturo,   *  a  trentadue  anni  ».   La  morte  del  Pico  troncava  molte  speranze  e  lasciava  in  sospeso  molti  lavori  di  cui  si  attendeva  il  compimento.  227 L'erede  spirituale  del  Pico,  quegli  che  per  l'ingegno  e  la  non  poca  coltura,  sembrava  più  indicato  a  continuare  l'opera del  filosofo,  era  il  nipote  Gianfrancesco;  a  lui  si  appuntarono gli  sguardi  di  tutti  coloro  cui  stava  a  cuore  vedere publicate  le  opere  inedite.  Infatti  il  libro  contro  gli  astrologi,  di  cui  il  manoscritto  era  in  caratteri  cosi  indecifrabili che  lo  stesso  autore  stentava  a  leggerli,    Gian«  francesco,  al  dire  del  Ficino,  così  pio,  come  intelligente,  si     sforza  tuttora  (quotidie)  di  trarlo  dalle  tenebre,  e  il  me •  desimo  scriverà  la  vita  e  le  opere  dello  zio  ».     Da  te,  poi,  Gianfrancesco,  gli  scriveva  fra  Battista  «  Mantovano,  che  erediti  le  virtù  dello  zio,  quasi  che  il  suo  spirito  si  sia  trasfuso  nel  tuo  come  quello  di  Elia     in  Eliseo,  ci   aspettiamo  questo:  che  raccolga  gli  opu •  scoli  suoi  i  quali,  benché  lasciati  imperfetti,  causa  l'im •  matura   morte,  non  possono  non  essere  dalla   posterità     degnamente  letti,  amati,  adorati».  .Mantova.  Il  medesimo  in  una  lettera  del  3  gennaio  dell'anno seguente,  narrandogli  un  sogno  avuto  in  una  notte  giocondissima,  in  cui  il  filosofo  gli  apparve,  discutendo  di  cose  arcane  del  cielo  e  della  terra,  lo  esorta  a  scrivere  la  vita  dello  zio  della  quale  nessuno  è  meglio  informato  di  lui  e  più  adatto  a  farlo,  per  essersi  proposto  d'imitarlo  come   un    esemplare    di    sapienza   e  di   religiosità.   Essa,  conclude,  riuscirà  di  grande  conforto  a  tutti  coloro che,  come  me,  hanno  amato  il  filosofo  e  sofferto  per  la  sua  perdita  un  dolore  più  grande  che  per  quella  di  qualunque  altro.  Mi  sono  doluto  si  della  morte  di  Giorgio  Merula,  mio  condiscepolo  e  precettore  e  di  quella  d'Ermolao  e  del  Poliziano,  due  uomini  illustri;  ma  di  gran  lunga  superiore  fu  il  cordoglio  per  quella  del  nostro Pico.  Piangono  la  sua  morte  l'eloquenza,  l'arte,  la  filosofia  e  ogni  speculazione,  che  trovarono  in  lui  un  degno  cultore;  ma  tuttavia  egli  non  è  morto  invano,  noi  stimolati  dal  suo  esempio  ci  sforzeremo  di  pervenire    dov'egli  gode  già  di  essere  pervenuto  ».  Tale  era  il  rimpianto  che  lasciava  dietro  di    il  personaggio scomparso,  tale  la  somma  di  pensieri,  di  affetti,  di  care  simpatie  che,  a  guisa  di  scia  luminosa,  tracciava  nel  percorso  della  sua  breve  vita. Egli  scompariva  dagli  occhi  di  tutti  in  quel  mezzo  in  cui  s'incrocia  col  fascino  della  giovinezza  non  ancor  sfiorita tutto  ciò  che  vi  è  di  bello  e  di  profondo  nella  vita  dell'uomo;  e  non  è  a  stupirsi  se  nell'immaginazione  dei  contemporanei  tanto  alto  assurgesse  colui  che,  per  la  bellezza della  persona,  per  l'ingegno  favorito  da  una  memoria prodigiosa,  per  il  cuore  sensibile  a  ogni  impressione e  per  tutte  quelle  prerogative  che  non  si  possono  tramandare  cogli  scritti,  dovette  certo  figurare  uno  di  quegli uomini  che  sono  il  vanto  e  la  meraviglia  di  un  secolo Fu  osservato  che  il  Rinascimento  è  l'epoca  delle  forti  individualità  che  spiccano  con  caratteri  originali sull'amorfa  moltitudine.  Quelle  individualità che,  come  Farinata  degli  Liberti,  il  Conte  Ugolino,  Pier  delle  Vigne,  Francesca  da  Rimini,  emergono  nel  mondo  delle  ombre  per  opera  del  pensiero  di  Dante  (e  il  pensiero  precorre  sempre  l'azione)  si  realizzano  in  carne  ed  ossa  nei  condottieri, nei  commercianti,  negli  artisti,  negli  uomini di  Stato,  nelle  donne  celebri  del  Rinascimento. Non  pochi  di  questi  personaggi  giunsero  sino  a  noi  e  sono  ancor  vivi  nella  storia,  non  tanto  per  quello  che  hanno  lasciato,  quanto  per  quello  che  hanno  fatto;  non  tanto  per  quello  che  hanno  fatto  quanto  per  quello  che  hanno  suggerito ad  altri  di  fare. Borgia  non  ha  lasciato  nulla   che    giustifichi    la   fama   che    rende celebre  il  suo  nome,  ma  le  sue  gesta,  il  suo  carattere, hanno  gettato  il  loro  forte  riverbero  nella  mente  del  Macchiavelli,  il  quale  fu  tratto  a  scrivere il  Principe.  E  cosi  dicasi  di  tanti  altri  uomini di  quel  periodo  glorioso  la  fama  dei  quali  giunge  sino  a  noi  per  opera  di  scrittori  e  di  biografi.   Altrettanto  può  dirsi  di  Pico  della  Mirandola,  ir  quale,  se  lasciò  non  pochi  scritti,  non  è  già  per  questi  che  è  ricordato,  ma  per  le  lodi  di  cui  è  stato  insignito  dai  contemporanei.   Siamo  qui  dinanzi  a  un  problema  che  non  sempre è  stato  valutato  adeguatamente.  È  proprio  vero  che  la  grandezza  di  un  uomo  si  debba  misurare da  ciò  che  ha  lasciato,  da  ciò  che  anche  per  i  posteri  può essere  materia  di  esame  ?  Se  si  dovesse  risolvere  il  problema  in  modo  affermativo, allora  molte  figure  storiche  dovrebbero  relegarsi  nell'oblio,  fuori  del  quale  esse  rimangono tuttavìa  chiare  e  sempre  splendide.  Ben  disse  il  Balbo  che  Cesare  appare  piìi  grande  di  Pompeo  per  quello  che  ha  lasciato,  ma  non  per  quello  che  ha  compiuto;  certo  in  questa  assegnazione  del  compito  non  sempre  la  storia  si  rivela  giusta  e  imparziale.  E  non  ci  sembra  privo  di  significato  il  detto  del  Leopardi  quando  afferma  che  la  gloria  di  un  uomo  dipende  più  dal  caso  che  dal   merito.  Ma  noi  crediamo che  la  vera  soluzione  del  problema  si  abbia  quando  si  tenga  conto,  oltre  di  ciò  che  può  da  noi  essere  giudicato,  anche  dell'elemento  di  quell'unanimità che  è  possibile  riscontrare  nei  giudizi  dei  contemporanei  su  di  un  dato  personaggio.  Perchè,  torniamo  a  ripetere,  non  tutto  ciò  che  vi  è  di  bello  e  di  profondo  nella  vita  può  sempre tramandarsi  cogli  scritti,  nei  quali  molte  particolarità che  rientrano  nella  componente  di  una  personalità  storica,  possono  essere  trascurate  o,  comunque,  taciute.  E  nel  caso  del  Pico  non  tutto  ciò  che  vi  era  di  nobile  e  di  affascinante  in  lui,  che  lo  rendeva  così  singolare  in  vita,  si  può  vedere  negli  scritti  suoi.  Quindi  il  nostro  giudizio  finale  sul  Pico  oltre  che  da  un  esame  della  sua  dottrina  doveva  essere  integrato  da  quanto  scrissero  e  giudicarono  i  contemporanei.  Ecco  perchè  nello  svolgere  la  sua  vita  e  le  sue  opere,  non  potemmo  trascurare  anche  le  lettere  e  i  giudizi  di  alcuni  uomini  del  suo  tempo,  massime di  quelli  che  vissero  con  lui  nei  pii!i  intimi  rapporti.  Inoltre  per  meglio  ritrarre  la  figura  del  Mirandolano,  abbiamo  voluto  seguire  un  metodo  che,  contrariamente  a  quanto  avviene  negli  studi  d'indole  storico -filosofica,  seguisse  lo  svolgimento del  suo  pensiero  procedente  di  pari  passo  con  lo  sviluppo  storico  della  sua  vita.  Forse  non  saremo  riusciti  nel  nostro  intento,  e  la  monografia-profilo  tra  gli  altri  difetti  presenterà  quello  di  essere  inordinata,  sconnessa,  e  poco  chiara.  Ma  non  dovremmo  sperare  indulgenza  se  in  cambio  potremo  dare  la  sensazione  di  essere  rimasti  sempre  fedeli  allo  spirito  del  nostro  autore  ?  Noi  ci  siamo  adoperati  a  mettere  in  rilievo  sopratutto ciò  che  nell'opera  del  Mirandolano  rispecchia fedelmente  gli  stati  del  suo  spirito,  travagliato da  una  crisi  interiore  che  si  rivela  piij  intensa  che  negli  altri  contemporanei.  Il  Ficino  visse  più  del  doppio  del  Pico  e  pure,  benché  si  parJi  della  sua  conversione  nel  tempo  in  cui  prese  gli  ordini  sacri,  non  offre  esempio  di  quel  doloroso  dissidio  che  fece  soffrir  tanto  il  nostro  autore.   Il  Poliziano  trasse  sino  alla  tomba  l'inalterabile serenità  della  sua  anima  ellenica.  Il  Pico  che  si  era  spinto  col  pensiero  nei  vari  campi  del  sapere,  perseguendo  un  ideale  che  gli  sfuggiva sempre,  la  concordia  di  tutti  i  filosofi  e  di  tutte  le  scuole,  cominciò  a  provare  quella  specie  di  disillusione  che  subentra  con  la  coscienza  dell'inanità dei  propri  sforzi.  Dall'aere  rarefatto  in  cui  l'avevano  portato  certe  sue  elucubrazioni,  senti  il  bisogno  di  abbassarsi  un  poco  più  vicino alla  solida  terra  dell'esperienza  e  di  restringere i  suoi  studi  a  quegli  argomenti  che  si  fondano sulle  incrollabili   basi  dei  pochi  ma  sicuri scrittori,  le  cui  opere  hanno  sfidato  i  secoli.  E  infine,  non  trovando  più  neFlo  studio  che  aveva  coltivato  con  tanta  passione,  la  pienezza  cui  anelava la  sua  anima  irrequieta,  pensò  di  darsi  alla  vita  attiva  del  religioso  e  di  confondersi  umile  e  negletto  tra  i  semplici  del  volgo  dai  quali  aveva  cercato  di  distaccarsi  colle  sue  aristocratiche  teorie.   Non  v'è  figura  forse  nella  storia  che,  come  quella  di  Pico  della  Mirandola,  si  contrapponga  con  tanta  evidenza  al  dottor  Faust.  Mentre  questi, nauseato  dei  libri  e  degli  alambicchi  della  sua  stanza  solitaria  in  cui  era  invecchiato  precocemente, abbandona  lo  studio  al  quale  invano  aveva  chiesto  la  soluzione  degli  enigmi  piij  affannosi, e  si  slancia  nella  vita  festante  dove  sorride il  volto  soave  di  Margherita;  Pico  invece  lascia  giovane  e  bello  la  corte  principesca  con  le  sue  caduche  frivolezze,  per  il  fascino  di  ciò  che  vi  è  d'imperituro  e  non  declina  come  la  luce  del  giorno,  per  le  idee  che  illuminano  i  nascosi  sentieri  della  verità  a  coloro  che  sanno  formare  in  se  stessi  gli  organi  atti  a  contemplarle.  Ciò  che  infine  piace  nel  Pico,  è  di  vedere  in  lui  compendiati molti  caratteri  singolari  della  stirpe  italiana, che  più  di  ogni  altra  sente  il  fascino  della  bellezza,  della  gloria  e   sa   per    esse   immolarsi.   Questa  nostra  stirpe  ha  sempre  dimostrato,  fin  da  quando   nel   Pantheon  dei  Cesari  accoglieva tutte  le  divinità,  di  saper  comprendere  ed  apprezzare le  manifestazioni  religiose  degli  altri  popoli; e  anche  quando  unificò  gli  spiriti  nella  religione cattolica  romana,  diede  prova  della  sua  tolleranza  in  quella  stessa  Roma,  in  cui  all'ombra del  Vaticano,  potevano  vivere  indisturbati  gli  ebrei,  che  altrove  erano  perseguitati  e  vilipesi.  Ogni  volta  poi  che  questa  stirpe  fu  colta  da  quelle  profonde  crisi  che  non  risparmiano  alcun  popolo,  essa  ha  saputo  riformarsi  senza  cadere  in  quegli  eccessi  che  fanno  rompere  ogni  rapporto  col  passato 0  che,  abbandonandoci  al  caos  rivoluzionario, ritardano,  invece  di  far  avanzare,  la  civiltà.  E  noi  assistiamo  sovente  a  questo  fenomeno  che  come  nella  massa  della  nostra  gente,  si  avvera  nei  singoli,  e  cioè,  che  quanto  più  il  volo  della  fantasia  o  lo  slancio  dell'ingegno  li  porta  a  varcare i  confini  della  tradizione  e  delle  leggi  civili  e  religiose,  proprio  allora  succede  un  ritorno  o,  meglio,  un  più  forte  sentimento  di  amore  e  di  venerazione  per  la  religione  e  le  usanze  dei  padri.  Se  è  vero  che  nell'individuo  sono  compendiati  tutti  i  caratteri  della  specie,  possiamo  ritenere  che,  come  pochi,  riesce  il  Pico  a  compendiare  queste  caratteristiche  della  razza  italiana.  Onde,  nel  modo  istesso  che  egli  soleva  dire  che,  se  fosse  vera  la  teoria  pitagorica  della  trasmigrazione delle  anime,  avrebbe  creduto  che  in  Marsilio  fosse  redivivo  Platone;  cosi  noi  potremmo  dire,  in  senso  metaforico,  che  in  ciascuno  di  noi  rivive  un  poco  dell'anima  entusiasta  e  pugnace  di  Pico  (iella  Mirandola.   Concludendo,  il  nostro  j^iudizio  sarà  diverso  la  quello  pieno  di  rimpianto  che  di  lui  e  delle  ne  opere  formularono  i  suoi  contemporanei,  se)ndo  I  quali  la  morte  precoce  impedì  al  suo  ingegno  di  raggiungere  la  pienezza  degli  anni  maturi.  La  monografia -profilo  che  abbiamo  tentato di  fare  del  Pico,  ci  induce  a  scartare,  come  assolutamente  infondata,  questa  opinione  che  potrebbe anche  apparire  a  un  esame  superficiale  ilella  vita  del  Mirandolano.  Noi  siamo  del  parere  che  il  Pico  non  mori  quando  la  sua  carriera  letteraria  era  a  mezzo,  ma  piuttosto  quando  era  compiuta.  Se  la  morte  lo  sorprese,  fu  soltanto  tlla  svolta  della  sua  vita,  quando  già  egli  era  per  intraprendere  un  nuovo  cammino.  Il  Pico  se  fosse  ancora  vissuto,  si  sarebbe  dato  alla  predicazione,  a  una  vita  di  apostolato  in  servìgio della  religione  cristiana:  egli  insomma  non  avrebbe  più  lavorato  per  la  gloria  del  mondo  e  quindi  per  la  scienza,  ma  unicamente  per  la  gloria celeste  e  cioò  per  la  sua  anima.   Già  gli  ultimi  frammenti  della  sua  produzione  letteraria,  accusano  i  sentimenti  di  un  morituro  alla  vita  del  mondo,  di  un  nascituro  a  quel  genere  di  vita  che,  rinnegando  il  mondo  e  le  sue  comuni  soddisfazioni,  è  una  preparazione  a  una  buona  morte. Il  Pico  poeta.   Come  abbiamo  detto,  tra  la  farragine  di  scritti  che  teneva  ne'  suoi  scrigni,  egli  aveva  le  Disputationes  e  i  versi  raccolti  in  più  libri  i presumibilmente  cinque);  a  quelle  egli  diede  pubblicità,  e  questi  volle  consegnare  alle  fiamme.  Tuttavia  qualche  cosa  sfuggi  all'incendio:  una  trentina  di  sonetti  in  volgare  che,  scoperti  contemporaneamente  dal  Dorez  e  dal  Ceretti,  furono  publicati  sulla  fine  del  secolo  scorso;  e  in  latino  alcuni  distici  ad  esaltazione  della  Bucolica  di  Benivieni  i2j;un  breve  epigramma  laudativo  ad  Angelo  Poliziano  i3),  e un  carme  elegiaco. Dorez  li  pubblica  in  una  rivista  romana  la  Nuova  Rassegna  e  il  Ceretti  a  Mirandola.  Sono stampati.  ^Ac.  74b  delle  opere  del  Benivieni  stampate  a  Venezia  per  Nicola  Zoppino  e  Vincentio  Conipapagno)  e  in  Opera. Poliziano  espresse  il  suo  dolore  in  un  epiragmma  slg  "còv  tcìxov  perchè  il  Pico  diede  alle  fiamme  le  sue  poesie.  In  ed.  Del  LUNGO,  pagina 217,  num.  LUI. Opera,  339,  Dei  quattro  carmi  latini  due  :  «  De  expellendis  Venere et  cupidine»  e  «  In  martyrem  Laurentium  Hymnus  »  publicati  nei  Carmina  III.  Poet.  appartengono  al  nipote.  L'elegia  «  In  Inudem  Dei  et  prò  oratione  ad  Deum  facienda. Siccome  poco  o  nulla  possiamo  dire  del  Pico  come  poeta  latino,  soffermiamoci  alquanto  sui  suoi  meriti  come  poeta italiano,  attendendoci  all'edizione  dei  sonetti  curata  dal  Ceretti.  Il  nostro  scopo  in  questo  breve  esame  non  è  quello  di  risolvere  una  questione  estetica  e  molto  meno  di  offrire  un  testo  critico  delle  rime  in  volgare del  Mirandolano;  esso  mira  unicamente,  in  coerenza  all'indirizzo  che  abbiamo  seguito  nel  corso  del  nostro  studio,  a  indagare  se  anche  nei  componimenti  poetici  si  rivela qualche  nuovo  "lato  della  personalità  del  nostro  autore. I  sonetti  del  Pico  appaiono  più  esercitazioni  sco.  lastìche  che  espressione  di  stati  d'animo;  essi  trattano  per  lo  più  argomenti  d'indole  filosofica  e  morale.   L'intonazione  petrarchesca  si  rivela  sin  da  principio:   Ed  io  sono  esemplo  al  popol  tutto   il  qual  verso  richiama  il  noto  sonetto  del  Petrarca  che  incomincia: al  popol  tutto  Favola  fui  gran  tempo.   Cosi  dicasi  del  primo  verso  di  quell'altro  sonetto:  Spirto  che  reggi  nel  terrestre  bosco   che  ricorda  il  petrarchesco  :   Spirto  gentil  che  quelle  membra  reggi.   Tuttavia  anche  in  alcuni  di  questi  sonetti  come  nel  quarto  della  raccolta  citata,  non  è  difficile  notare  qualche sprazzo  di  luce,  un  afflato  poetico  che  dimostrano  come  Pico  sapesse  talvolta  elevarsi  colle  proprie  penne    e  l'ode  «Ad  Pctrum  Medicem  =>  (che  insieme  all'epigramma  per  il  Poliziano si  trova  nel  cod.  Laur.  XC,  sup.  37)  sono  d'argomento  religioso,  moraleggiante.  G.  Bottiglioni,  La  Lirica  Latina  neUa  2.  metà  del  secolo  XV  in  Annali  della  R.  Scuola  .Normale  di  Pisa, nel  cielo  della  poesia  5  .  Un  indice  che  il  Mirandolano  era  anche  uno  studioso  di  Dante  lo  abbiamo  nel  sonetto  V,  in  cui  tenta  di  esprimersi  con  lo  stile  forte  e  solenne  del  Poeta,  come  nella  quartina:   Quinci  colei,  da  cui  mai  non  iscampa  Scese  nel  mondo  e  in  alto  precipizio  Guida  chi  del  gran  primo  benefìzio  Grata  memoria  non  riscalda  e  avvampa.  Nel  sonetto  VI  c'è  un'eco  delle  sue  ansie  di  mistico,  del  suo  sospirare  alla  patria  lontana  che  forse  il  presentimento della  morte  vicina  rendeva  tanto  bella  al  pensoso  giovane:   Non  m'accorgeva,  dico,  ahimè  infelice  !  Esser  qui  in  viaggio,  esser  qui  posto  in  bando  ;  Altrove  esser  la  patria  e  la  mia  stanza.  C'è  qui  anche  una  visione  tetra  della  vita  che  oscura  le  cose  più  leggiadre,  come  i  fiori  che  intristiscono  sul  loro  stelo,  le  balde  esistenze  discoloro  che  avanzano  frementi di  speranza  e  finiscono  tòsto  per  cadere:  E  che  quando  l'uom  crede  ch'egli  avanzi  Spesso  al  suol  cade  ed  e'  gran  sonno  dorme,  E  che  seccarsi  e  diventar  può  informe  Subito  un  fior  che  verdeggiava  dianzi.   Ma  se  il  suo  pessimismo  se  così  può  denominarsi)  è  appena  momentaneo,  egli  non  poteva  ancora  essere  assalito dal  dubbio  assillante  dell'autore  di  Amleto,  ne  da  tutto  il  travaglio  del  pensiero  critico  che  troverà  la  sua  espressione  nelle  poesie  del  Leopardi.  11  Pico  era  ancora  in  quell'età  in  cui  l'uomo  appena  s' inoltrava  nelle  vie  del    (5.  Ci  atteniamo  airedizione  del  CERETTI,  Sonetti  Inediti  del  Conte  F  G  Mirandola,  189».  Non  hanno  notevole  interesse  la  canzone  e  .1  sonetto  che  si  trovano  nella  raccolta  Delle  Rime  Scelte  di  GABRIEL  G.OLITO,  Vinesia,  dubbio,    ritraeva  tosto  inorridito  e  abbracciava  la  croce  come  un'ancora  di  salvezza.   E  mentre  al  mio  passato  erro  pensando  Tengo  fermo  nel  cor  l'alta  radice  Di  carità,  di  fede,  e  di  speranza.   E  ci  descrive  anche  quando  egli  si  distillava  il  cervello per  decifrare  gli  antichi  codici  cui  sperava  di  carpire qualche  segreto;  e  come  al  chiaror  della  lampada,  nell'alta  quiete  della  notte,  fisso  in  quei  punti  oscuri  che  arrestano  ogni  slancio  del  pensiero,  egli  provasse  l'ansia,  il  dolore  fino  alle  lagrime  per  ciò  che  invano  sospirava  di  poter  chiarire:   Versan  lagrime  sempre  le  mie  luci  E  pur  quand' altri  posa,  il  sol  si  parte,  Non  men  quando  al  ritorno  scuote  l'ombra  Mentre  il  sudor  distilla  in  qualche  libro  Pel  caldo  a  cui  non  trovo  aura    ombra.  Abbiamo  accennato  altrove  come  il  Pico  non  fosse  di  forti  passioni,  se  si  esclude  quella  per  la  gloria;  non  ebbe  una  forte  passione  per  la  donna,  e  anche  quando  ne  parla,  non  esprime  nulla  di  suo  e  cade  nella   rettorica.  Tale  ci  appare  il  sonetto  che   incomincia:  "Era  la  donna  mia  pensosa  e  mesta  „,  nel   quale  il  Pico  fa  apparire il  suo  cuore  nudo  "  a  guisa  d'un  messaggio    a  Madonna che,  mossa  alfine  a  pietà,  "  nell'umido  suo  seno  allori'accolse  „.    riesce  più  efficace   quando  per  colorire   meglio    dei    sentimenti   che    non    provava,   ricorre  alla  mitologia.   Così  nel  sonetto  fX)  "  Per  quel  velo  che  porti  agli  occhi  avvinto  „,  pieno  d' invocazioni  a  Venere,  a  Psiche  e  a  Cupido.  Notevole  nella  sua  forma  esteriore  è  il  sonetto  (XIII >  che  incomincia:  " Io  mi  sento  da  quello  ch'era  in  pria  Mutato  da  una  piaga  alta  e  soave    che,  anche  tecnicamente,  è  uno  dei  meglio  riusciti  del  nostro  autore.  Non  privo  d'interesse  è  il  sonetto  iXlV)  a  forma  di  dialogo  tra  Pa  e  Po,  il  quale  appare  anche  nella  «  Raccolta  di  Poesie  italiane  inedite  di  duecento  autori  del  Trucchi ».  Nel  sonetto  XII  sembra  abbia  coscienza  della  sua  incapacità  a  trattare  di  amore,  perchè  mettendosi  a  celebrare un  grande  personaggio  del  tempo  <  forse  un  Papa  o  Lorenzo  il  Magnifico  immagina  che  Apollo  Io  consigli  a  lasciare  Amore  e  a  cantare  "  d'un  chiaro  splendore  che  alluma  l'universo    ;  e  riconosce  che  quando  vuole  emulare altri    il  Petrarca    riesce  meno  abile:   e  fatto  emulo  altrui  Spesso  ad  altrui  mi  fa  parer  men  chiaro.  Non  privo  di  grazia  appare  il  sonetto  XVI  nel  quale  Pico,  che  si  ora  innamorato  di  una  donna  da  altri  amata,  la  paragona  a  una  cerva  inseguita  da  due  cacciatori  e  incerta se  fuggire  o  gustare  il  dolce  miele.  A\a  il  poeta,  commosso  della  sua  sorte,  poiché  era  In  pericolo  di  cadere vittima  del  traditore,  esclama:   Ed  io  di  ciò  me  ne  affannava  molto  Che  m'accortala  del  ricoperto  fele,  E  mentre  me  ne  doglio  ella  disparve.   Forme  e  modi,  come  si  vede,  convenzionali,  come  convenzionale  è  pure  il  sentimento  della  natura,  non  diverso da  quello  che  ci  forniscono  i  modelli  classici.  Ecco  come  II  Pico  dipinge  nel  sonetto  XI  la  campagna  che  si  ridesta  al  soffio  primaverile:   Chiara  gemma  più  assai  che  chiaro  Sole  Quando  apre  l'anno  verde,  e  rivi  e  colli  Orna  di  fresche  e  pallide  viole  !  Ed  ecco  come  parla  dell'estate  nel  sonetto  XV:  Era  nella  stagion  quando  il  Sol  rende  A'  due  figli  di  Leda  il  bell'uffizio.  Quando  ch'io  giunsi  all'ombra  d'un  ospizio  Ove  natura  le  sue  forze  estende.   L'amore  ei  lo  fa  nascere:   Quando  la  terra  Si  riveste  di  un  verde  e  bel  colore;  242 e  questo  amore  è  il  dio  platonico  che  non  muore  mai:  Ojfendeti  la  morte  o  la  vecchiezza  ?  No,  che  rinasco  mille  volte  al  giorno.  Ma  quando  il  suo  pensiero  da  soggetti  frivoli  o  comuni, passa  ad  argomenti  più  elevati,  per  esempio  a  quello  di  patria,  allora  pare  che  si  ridestino  in  lui  i  nobili  sensi  della  sua  stirpe  guerriera,  e  la  sua  penna  sa  foggiare  parole taglienti  come  lama  acuminata.  Dopo  avere  notato  come  il  prestigio   che  un  tempo  aveva  l'Italia  stia  per  passare  oltr'Alpe,  e  specialmente  in  quella  Gallia  che  doveva, proprio  nel  giorno  della  sua  morte,  mettere  il  piede  ferrato  sull'Itali^  egli  allora  guarda  la  patria  italiana  come  a  un'ombra  dell'Inferno  dantesco:   Allora  mi  parca  come  del  ceco   Regno  di  Dite  stanno  i  spirti  bui;   Che  si  conosce  un  ben  quando  é  perduto.   Ed  è  pieno  di  reminiscenze  dantesche  la  chiusa  del  sonetto:   E  quando  il  danno  tuo  fìa  conosciuto  Intenderai,  se  avrem  da  pianger  teco.  Dicendo  :  non  sai  più  quella  eh'  io  fui.   Anche  le  competizioni  di  parte,  le  lotte  intestine,  le  guerre  fratricide  tra  città  e  città,  tra  regione  e  regione,  trovano  un'eco  nel  sensibile  suo  cuore.  Egli,  che  aveva  studiato  e  agito  per  trovare  una  conciliazione  fra  le  idee,  per  perseguire  il  suo  ideale  di  pace  fra  gli  uomini,  deve  constatare  che  questi  non  cessano  di  combattersi  fra  loro  in  forma  violenta  e  sanguinaria.   II  sonetto  XVII  è  l'espressione  del  suo  cuore  angustiato di  figlio  di  questa  misera  Italia,  e  sebbene  si  senta  l'ispirazione  di  Dante,  pure  il  Pico  sa  rendere  abbastanza  la  sincerità  del  suo  sentimento.   Misera  Italia,  e  tutta  Europa  intorno   Che  il  tuo  gran  padre  Papa  giace  e  vende.   Marzocho  a  palla  gioca  e  lunge  stende.   La  Biscia  è  pregna  ed  ha  in  sul  capo  un  corno.  Fernando  infuria  e  vendica  il  gran  scorno,  San  Marco  bada,  pesca  e  poco  prende,  La  vincta  Biscia  ora  S.  Giorfiio  offende,  La  Lupa  a  scampo  veglia  notte  e  giorno.   Nulla  di  notevole  preserftano  i  cinque  sonetti  che  compaiono  nella  seconda  parte  della  raccolta;  prevale  in  essi  l'intonazione  filosofica.  Ciò  che  si  rileva  è  l'aspirazione del  poeta  ad  elevarsi  dagli  amori  frivoli  e  passeggeri di  questo  mondo  a  quell'unico  amore  che  arde  sempre nella  inalterata  beatitudine.  Egli  che  aveva  provato  le  pene,  le  gelosie,  i  languori  degli  amanti:   Uno  star  divoto  più  che  divino   Basi,  sussurri,  risi:  in  un  momento   Mi  han  fatto  servo  :  e  dir  non  so  di  cui.   ebbe  però  anche  la  forza  di  dominarsi  e  di  drizzare  l'occhio alla  contemplazione  del  sempiterno  bene:   e  degno  obietto  Nel  guai  ogni  sua  forza  ha  posto  il  Cielo   E  veramente  pur  me  stesso  lodo  Che  a  tanta  electionc  hebbi  intelletto  Levando  totalmente  a  gli  occhi  il  velo.   Dopo  questo  sommario  esame  dei  sonetti,  la  figura  del  Mirandolano  ci  rivela  un  altro  lato  della  sua  caratteristica personalità.  E  se  alle  opere  filosofiche  egli  deve  maggiormente  la  sua  celebrità  presso  i  contemporanei, e  se  per  esse  lo  riteniamo  degno  di  studio  noi  moderni, non  dobbiamo  misconoscere  anche  i  suoi  meriti  letterari.  Noi  riteniamo  che  non  sia  lecito  tacere  del  suo  contributo,  modesto  quanto  si  voglia,  alla  letteratura  italiana, le  cui  manifestazioni  se  furono  cosi  splendide  nel  cinquecento,  ciò  si  deve  al  solerte  lavoro  di  preparazione,  di  prove,  di  conati  che  caratterizzano  il  quattrocento,  del      quale  il  Pico  se  fu   l'ultimo  in  ordine  di   tempo,  non  fu  l'ultimo  per  merito  e  importanza. Sul  contenuto  e  sul  valore  delle  poesie  del  Pico  esiste  un  lavoro  di  Valdimiro  Testa,  «  Pico  della  Mirandola  e  i  suoi  contributi  in  rima  alla  lirica  del  Quattrocento»,  Aquila,  1902,  che  noi  non  riuscimmo,  per  quante  ricerche  fatte,  a  trovare.  In  Rassegna  Bibliografica  d.  L.  Ita-  liana, an. Vedi  la  recensione  del  Flamini  alla  publicazione  dei  sonetti  fatta  dal  Dorez  e  dal  Ceretti.  Cfr.  pure  Giornale  stor.  di  Leti.  Italiana,  voi.  41,  p.  170  e  la  Rivista  Abruzzese.  Vedi  infine  Giorn.  stor.  di  Letteratura  Italiana. Giovanni Semprini. Semprini. Keywords: il deuteuro-esperanto di Grice, PICO (vedasi). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semprini.” Semprini.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senea: la ragione conversazionale della scuola di Caulonia – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorian cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senocrate: la ragione conversazionale della scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean. Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senofante: la ragione conversazionale della scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean – Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Serbati: la ragione conversazionale del divino nella filosofia italiana – la scuola di Rovereto -- filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo italiano. Rovereto, Trento, Trentino-Alto Adge. Important Italian philosopher. Frequenta  l’imperial regio ginnasio. Studia a Padova. A questo proposito i famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età, legge alla luce della sua aureola.  E in occasione della venuta a Rovereto del vescovo di Chioggia per consacrare le chiese di S. Maria del Carmine e di S. Croce, appartenente all'omonimo monastero, che, prendendo parte alla cerimonia, ottenne il diaconato. Mostra una profonda inclinazione per la FILOSOFIA, incoraggiato in tal senso da Pio VII.  Si trasfere a Milano dove strinse un profondo rapporto d'amicizia con Manzoni che di lui ebbe a dire -- è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità. Manzoni assistette S. sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare, Tacere, Gioire". La sua filosofia destarono l'ammirazione, tra gli altri, anche di Stefani, Tommaseo e Gioberti dei quali pure divenne amico. Dopo aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue posizioni incontrati da parte del vescovo di Trento fonda al Sacro Monte Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità, detta dei "S.ani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa, contenute in un libro che cura per tutta la vita, sono approvate da Gregorio XVI. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale in un collegio S.ano, il "Collegio S.", regolato dalla Congregazione della Provvidenza S.ane. Svolge una missione diplomatica per conto del Re di Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. E presidente dell'Accademia Roveretana degl’Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte fu assunto da Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di Casa S.. Tra le sue volontà del vi e anche quella di donare a Rovereto un terreno nell'attuale zona di S. Maria per costruirvi l'ospedale cittadino, e Paoli onora tale decisione. Porta avanti tesi filosofiche tese a contrastare sia l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità dei diritti naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata, entrò in polemica con il socialismo e il comunismo, postulando uno Stato il cui intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì le concezioni di Agostino e AQUINO, rifacendosi anche a Platone.  I suoi esordi filosofici si ricollegano a GALLUPPI, sia pure polemicamente, in quanto S. avverte con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale sensismo gnoseologico.  La necessità di concepire una funzione ordinatrice dell'esperienza, e a questa precedente, porta S. a guardare con interesse la filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto stesso del conoscere.  Il problema filosofico di S. si configurava perciò come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con immediata evidenza, universalità e immutabilità.  Questo principio è per S. l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza, quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque, costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è perciò innata (“Saggio sull'origine delle idee”).  Ma qui i problemi del kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con urgenza: di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, ha chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il predicato si determina e la sensazione si certifica: se questa è la funzione propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di un giudizio; né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del giudizio.  Tuttavia non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli una natura oggettiva e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Chi lo nega come il nichilismo cade in una vuota posizione nullista.  Accanto a questa ontologia la sua etica si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale). Dedica alla politica una breve ma intensa fase della sua vita. Seguì Pio IX riparato a Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua formazione attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale e tale per cui e costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX vuole istituire una commissione incaricata della preparazione del testo per la definizione del dogma dell'immacolata concezione, nonostante ben due suoi saggi (Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) sono all'Indice. Chiamato a prendere parte a tale commissione, e favorevole allo stato liberale (vagheggiando la monarchia costituzionale), al costituzionalismo e anche alla separazione tra stato e chiesa, sebbene non assoluta. Critica lo Statuto Albertino proprio per il suo porre ancora il cattolicesimo come religione di stato, elogiandone comunque il tentativo distensivo nei confronti della Santa Sede. Critica la legge laicista ed anti-clericale. Si convince della sostanziale bontà della maggior parte delle conquiste dell'età moderna, criticandone solo le modalità: in tale ottica, critica sia la rivoluzione francese che l'Ancient Regime, riconoscendo invece la sostanziale bontà dei princìpi sanciti, distinguendoli dalle successive de-generazioni rivoluzionarie, in polemica con chi, da una parte e dall'altra, sostene una società perfettista. Continua a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo sistema di pensiero con saggi come “Logica” e “Psicologia”. Ratzinger, quando la questione S.ana era ancora ben accesa, nell'ambito di una serata organizzata a Lugano, dice. Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi della chiesa, almeno nell'epoca moderna.  Ma se io ora guardo i grandi e fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da S. a Guardini, o nel nostro tempo de Lubac, Congar, Balthasar quanto più attuale è la loro parola rispetto a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della Chiesa.  In loro diventa chiaro anche qualcos'altro: il pluralismo non nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio, ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come voce e via della verità.  Del resto io penso che vale la stessa regola anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate: teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più adeguatamente possibile.  E così questa teologia è diventata anche tanto francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi.  Abbiamo veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente grande. Pio VIII dice a S., in udienza. È volontà di Dio che voi vi occupiate nella filosofia. Tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la logica, e la Chiesa al presente ha gran bisogno di filosofi. Dico, di filosofi solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugl’uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del Sacro Ministero. Gregorio XVI, successore di Pio VIII, in risposta alla lettera che S. gli aveva indirizzato. Diletto Figlio, a te il nostro saluto e la nostra Apostolica Benedizione. Abbiamo volentieri e con animo lieto ricevuto la tua lettera con i sensi della tua devota sommissione a Noi e alla Sede Apostolica in cui ci parli della pia Società, chiamata Istituto della Carità e che con le tue fatiche è stata fondata nel territorio della diocesi di Novara con l'approvazione del Vescovo. E soprattutto ci hai anche informato che il medesimo Istituto è stato da poco chiamato anche dal Vescovo di Trento nella sua diocesi e che qui molti ecclesiastici, di provate virtù, vi hanno aderito. Per questi fatti davvero rendiamo il nostro umile grazie a Dio autore di ogni bene. E quantunque questo Istituto non sia stato ancora confermato dall'autorità di questa Santa Sede, tuttavia speriamo in bene di esso e ci allietiamo che lo stesso si dilati con il consenso dei nostri Venerabili Fratelli nell'Episcopato. Quindi, per quanto riguarda le Sante Indulgenze connesse a questo istituto, che domandi siano concesse, ricevi diletto figlio il nostro Rescritto unito a questa lettera, da cui sicuramente comprenderai che rispondiamo positivamente alla tua richiesta. Ti assicuriamo anche che ci è pervenuto il libro sopra i Principi della Dottrina Morale da te edito e mandatoci in omaggio e ti dichiariamo il grazie del nostro animo per il dono. Tuttavia per la tensione nelle gravissime fatiche del Governo Apostolico non abbiamo ancora letto lo stesso libro, ma siamo certamente persuasi che esso sia in tutto conforme alla più sana dottrina e utilissimo alla sua difesa. Continua dunque, diletto figlio, lo studio e prosegui a spendere le tue fatiche ad onore di Dio per l'utilità della Chiesa; in Cielo sarà copiosa la ricompensa per la tua opera. Frattanto la paterna carità con cui ti abbracciamo nell'umanità di Cristo sia pegno dell'apostolica benedizione, che sgorgante dall'intimo del cuore ti impartiamo.»  (Da Breve pontificio di Gregorio P.P.XVI,) Pio IX rivolgendosi al Vescovo di Cremona dopo il decreto Dimittantur opera omnia parlando di S. disse:  «Non solo è un buon cattolico, ma santo: Iddio si serve dei santi per far trionfare la verità. Leone XIII, al tempo delle aspre e dolorose lotte che si svolgevano intorno al pensiero S.ano sul finire del diciannovesimo secolo, in una lettera indirizzata agli arcivescovi di Milano, Torino e Vercelli, fra l'altro scrisse:  «Ma non vogliamo che con questo abbia a patir detrimento il religioso Sodalizio della Carità; il quale come per lo innanzi spese utilmente le sue fatiche a beneficio del prossimo, secondo lo spirito dell'Istituto, così è desiderabile che fiorisca in avvenire e prosegua a rendere ognora più abbondanti frutti. Col decreto del Sant'Uffizio "Post Obitum"  firmato da Leone XIII, vennero condannate, in quanto "non conformi alla verità cattolica", XL proposizioni contenute nelle opere del S., le quali la Sacra Congregazione romana "giudicò doversi riprovare, condannare e proscrivere, nel proprio senso dell’autore", chiarendo inoltre che non era lecito "a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, siano per veruna guisa approvate".  Giovanni XXIII, negli ultimi anni della sua vita, meditò in ritiro spirituale le S.ane "Massime di Perfezione Cristiana", assumendole come propria regola di condotta. Anche Paolo VI prestò interesse nel S.: in occasione dell’anniversario di fondazione dell'Istituto della Carità inviò un messaggio all'allora padre generale, in cui elogiava l'intuizione del S. nel dare un grande peso alla missione caritativa già nel nome del nativo istituto religioso, appunto l'Istituto della Carità. Pubblicamente Paolo VI lo cita durante il discorso tenuto alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana  riguardante la cultura cattolica e l'Europa. Inoltre sotto il suo pontificato venne tolto il divieto di pubblicazione dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa.  Alla morte di Paolo VI venne eletto Giovanni Paolo I, laureato in sacra teologia alla Gregoriana con il saggio, “L'origine dell'anima umana”. È bene precisare che Luciani e fortemente critico nei riguardi del pensiero S.ano, solo successivamente cambiò opinione, rivolgendo nei riguardi di S. parole di ammirazione e stima.  Tuttavia fu con il pontificato di Giovanni Paolo II che il pensiero S.ano ha potuto liberarsi delle aspre critiche e delle condanne che accompagnavano l'Istituto della Carità fin dai tempi della sua fondazione. Nella Lettera Enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II l’annoverato tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio». Ne ha inoltre concesso l'introduzione della causa di beatificazione, conclusasi nella sua fase diocesana novarese.   Ratzinger da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede emana il famoso documento Nota ai Decreti dottrinali sul Rev.do sac. S.. La nota si concludeva confermando la validità del decreto Post obitum sulle quaranta proposizioni, e allo stesso tempo con la riabilitazione di S.:  «Il Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio sulla negazione formale di verità di fede da parte dell'Autore, ma piuttosto al fatto che il sistema filosofico-teologico del S. era ritenuto insufficiente e inadeguato a custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur riconosciute e confessate dall'Autore stesso. Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna di quaranta proposizioni. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo decreto, non appartiene in realtà alla sua autentica posizione, ma a possibili implicanze. Resta tuttavia affidata al dibattito teoretico la questione della plausibilità o meno del sistema S.ano stesso, della sua consistenza speculativa e delle teorie o ipotesi filosofiche e teologiche in esso espresse. Nello stesso tempo rimane la validità oggettiva del Decreto Post obitum in rapporto al dettato delle proposizioni condannate, per chi le legge, al di fuori del contesto di pensiero S.ano, in un'ottica idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina Cattolica. Il documento ribadisce la diversità di linguaggio e apparato concettuale del sistema S.ano rispetto al tomismo, l'assenza di apparato critico nelle opere postume e la permanente "difficoltà oggettiva di interpretarne le categorie, soprattutto se lette nella prospettiva neotomista".  Benedetto XVI autorizza la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo della guarigione di Ludovica Noè, attribuito alla sua intercessione. Tra quelli portati dalla postulazione dei padri S.ani, si è scelto di dare maggiore impulso a quello della guarigione della suora sopracitata, poiché il medico che la curò si convertì in seguito all'accaduto.  Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, a margine del Convegno sulla sfida educativa tenuto a Milano, ha tenuto un intervento intitolato "Istanze educative e questione antropologica" in cui riconosce le sue istanze pedagogiche. A. Bagnasco ha presieduto a Stresa la celebrazione eucaristica per il suo Dies Natalis. Nel corso dell'Angelus domenicale e ricordato per la sola carità intellettuale e perché testimonia la virtù della carità in tutte le sue dimensioni e ad alto livello. Avversario del sensismo e dell'illuminismo e mentore e maestro intellettuale di quattro pontefici eletti consecutivamente: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II.  Nulla osta della Congregazione per la dottrina della fede che consente l'inizio della causa di beatificazione. Apertura del processo informativo diocesano dopo la nomina dei censori teologi e delle commissioni storiche in Novara. C. Papa diventa postulatore della causa succedendo a Belti, storico dell'Istituto e già Direttore del Centro di Studi S.ani di Stresa. Chiusura del Processo informativo Diocesano. Consegna del Trasunto alla Congregazione per le cause dei Santi. Apertura del Trasunto. Decreto di Validità del processo diocesano. Schema per la stesura della Positio. Consegna del lavoro sul Post obitum curato dal Postulatore. Il Relatore generale approva il lavoro sul Post obitum e il lumen oculorum tuorum Consegna del lavoro sul Post obitum alla Congregazione per la Dottrina della Fede.Il giorno dell'anniversario della morte di S. viene pubblicata sull'Osservatore Romano la Nota della Congregazione per la dottrina della fede sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do sacerdote S., a firma del cardinal Ratzinger e di mons. Bertone.  Rilascio del Nihil obstare per la Causa di Beatificazione.  Il Relatore approva e firma la Positio.  Conclusione della stampa e consegna alla Congregazione per le cause dei santi della Positio. Consegna del Trasunto super miro alla Congregazione per le cause dei santi. Validità dell'inquisizione diocesana sul processo super miro. Presentazione fattispecie super miro. Revisa della fattispecie con firma del sotto-segretario. Relatio et vota del Congresso Storico (con esito positivo). Relatio et vota del Congresso teologico super virtutibus (con esito positivo). Ordinaria della Congregazione per le cause dei santi: esito affermativo. Ponente della Causa  Fisichella.  Benedetto XVI autorizza la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto di esercizio eroico delle virtù. La Consulta medica della Congregazione per le Cause dai Santi, si esprime con esito affermativo (all'unanimità 5 su 5) circa l'inspiegabilità scientifica dell'evento di guarigione avvenuto a Noè. Il presunto evento miracoloso è avvenuto. Al termine del dibattito, i Consultori si sono unanimemente espressi con voto affermativo (7 su 7), ravvisando nella guarigione in esame un miracolo operato da Dio per intercessione Benedetto XVI autorizza la pubblicazione da parte della Congregazione per le Cause dei Santi del riconoscimento della virtù eroica di S.. A Novara si celebra la beatificazione dando lettura del decreto di Benedetto XVI che l’iscrive tra i beati. La beatificazione è avvenuta a Novara: appositamente è stato fatto allestire il Palasport della città, unico luogo capace di raccogliere un numero di fedeli così significativo.  Con il pontificato di Benedetto XVI le beatificazioni vengono preferibilmente celebrate dai cardinali, per rendere ancora più piena la comunione tra loro e il successore di Pietro, e viene privilegiato il luogo in cui il candidato agli onori degli altari ha vissuto. Così, in qualità di delegato pontificio, la celebrazione è stata officiata da  J. Martins, allora prefetto della congregazione per le Cause dei Santi. A fianco dell'altare erano disposti gli spalti da cui hanno concelebrato circa 400 sacerdoti, non soltanto S.ani.  A prendere parte alla processione e celebrare sull'altare, insieme al preposito generale Flynn c'era il segretario generale dell'Istituto Domenico Mariani con gli allora componenti della Curia Generalizia dell'Istituto della Carità, il Vicario per la Carità SpiritualeCrish Fuse, il Vicario per la Carità Intellettuale Taverna Patron, il Vicario per la Carità TemporaleDavid Tobin, l'allora preposito della Provincia Italiana don U. Muratore (profondo conoscitore di S.) e il postulatore della Causa di Beatificazione, Papa.  Hanno partecipato alla celebrazione anche il cardinale ex prefetto della Sacra Congregazione per i vescovi Re, il cardinale arcivescovo di Torino S. Poletto, il vescovo di Novara, mons. R. Corti, l'arcivescovo di Trento, mons. Bressan, il vescovo S.ano mons. Antonio Riboldi e fra gli altri anche G. Zaccheo (che sarebbe improvvisamente scomparso due giorni dopo), vescovo della Diocesi di Casale Monferrato, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (che durante la III sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II fece per primo il nome di S.), l'allora segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana G. Betori, G. Lajolo, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, l'allora rettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Rino Fisichella, il Vicario Episcopale per la Vita Consacrata dell'arcidiocesi di Milano monsignor Ambrogio Piantanida e il preposito generale dei barnabiti, padre Villa.  Tra i numerosissimi fedeli (più di diecimila) accorsi da diverse parti del mondo per presenziare alla celebrazione, hanno preso parte anche personalità politiche.  Tra queste il senatore a vita Scalfaro, l'allora presidente del Senato, Marini, e Parisi, al tempo Ministro della Difesa. S. è il primo beato della Provincia del Verbano Cusio Ossola.  In occasione della beatificazione sono stati moltissimi i quotidiani e periodici italiani e esteri che hanno dedicato articoli, pagine e interi numeri alla figura di S.. Sono numerosissimi i suoi saggi. Certamente il più importante a livello ascetico e spirituale e le “Sei massime di perfezione”, su cui anche Giovanni XXIII fa delle riflessioni prima di morire. Gli costarono la messa all'Indice dei libri proibiti le opere "Delle cinque piaghe della santa chiesa" e "Dalla costituzione secondo la giustizia sociale". In filosofiia meritano di essere ricordato il “Saggio sull'origine delle idee”. Altri saggi: “Principii della scienza morale”; “Filosofia della morale”; “Antropologia in servigio della scienza morale”; “Filosofia della politica”; “Trattato della coscienza morale”; “Filosofia del diritto”; “Teodicea”; “Sull'unità d'Italia”; “Il comunismo e il socialismo”. Le sei massime di perfezione sono formulate per definire il fondamento spirituale sul quale ogno uomo puo avere un cammino nella perfezione. Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (Matteo 5,48). Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto. Orientare tutti i propri pensieri e le azioni all'incremento e alla gloria della Chiesa di Cristo.  Rimanere in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Cristo, lavorando per essa secondo la chiamata di Dio.  Abbandonare se stesso nella provvidenza di Dio.  Riconoscere intimamente il proprio nulla.  Disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di intelligenza. Di particolare interesse e “Le cinque piaghe della santa Chiesa". Mostra odi discostarsi dall'ortodossia dell'epoca. Per tale ragione il saggio fu messo all'Indice e ne scaturì una polemica nota col nome di "questione S.ana". L'opera eriscoperta al Concilio Vaticano II. Il primo a parlare al Concilio di S. e Bettazzi. Mi sia consentito ricordare S., molto legato ad Aquino. Ma anche studioso e amante del suo tempo, e che certamente guadagna a Cristo non pochi uomini. Tutto questo mi sembra si accordi con le cose che sono state già dette da non pochi padri su questo schema in generale, che cioè gl’uomini non si aspettano dalla Chiesa soluzioni particolari, ma piuttosto la presentazione di valori che li aiutino a trascorrere questa vita umana più nobilmente e con maggiore sicurezza. Parlando della libertà, esaltare i valori dell'umiltà. Parlando del matrimonio, il ruolo della fortezza. Parlando dei problemi economici e di molti altri problemi, l'efficacia di un certo disprezzo delle cose. Occorre dunque mettere in luce la necessità dell'ubbidienza, della castità, della povertà, non solo nella vita e nell'esempio (e nella Bozza di Documento!) dei religiosi, aiuto agl’uomini di questo tempo, perché possano vivere la loro vita umana nel modo migliore e più efficace. Il primo e principale compito dunque per gl’uomoni che coltivano la sapienza dev'essere, alla luce del Magistero, l'amore delle Scritture e l'amore di questo mondo in un colloquio franco e aperto. Paolo VI dice. I suoi saggi sono pieni di pensiero, una filosofia profondo, originale che spazia in tutti i campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, sopra-naturale, religioso, ascetic -- filosofia degna di essere conosciuta e divulgata. È stato anche un profeta. Le Cinque piaghe della Chiesa (una volta la chiesa non aveva piacere che si mettessero in luce le sue mancanze, le sue debolezze). Previde partecipazione liturgica del popolo. La sua filosofia indica uno spirito degno di essere conosciuto, imitato e forse invocato anche come protettore dal Cielo. Ve lo auguriamo di cuore. “Delle cinque piaghe della santa chiesa” è suddiviso in cinque capitoli corrispondenti ciascuna ad una piaga, paragonata alle piaghe di Cristo. In ogni capitolo la struttura è la medesima:  un quadro ottimistico della Chiesa antica segue un fatto nuovo che cambia la situazione generale (invasioni barbariche, nascita di una società cristiana, ingresso dei vescovi nella politica) la piaga i rimedi. La prima piaga e la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico. Nell'antichità romana, il culto era un mezzo di catechesi e formazione e il popolo partecipava al culto. Poi, le invasioni barbariche, la scomparsa della lingua dei romana, la scarsa istruzione del popolo, la tendenza del clero a formare una casta hanno eretto un muro di divisione tra il popolo e i ministri di Dio. Rimedi proposti: insegnamento della lingua romana, spiegazione delle cerimonie liturgiche, uso di messalini in italiano. La seconda piaga e l’nsufficiente educazione del clero. Se un tempo i preti erano educati dai vescovi, ora ci sono i seminari con piccoli libri e piccoli maestri: dura critica alla scolastica, ma soprattutto ai catechismi. Rimedio: necessità di unire scienza e pietà. La terza piaga e la disunione tra i vescovi. Critica serrata ai vescovi dell'ancien régime: occupazioni politiche estranee al ministero sacerdotale, ambizione, servilismo verso il governo, preoccupazione di difendere ad ogni costo i beni ecclesiastici, schiavi di uomini mollemente vestiti anziché apostoli liberi di un Cristo ignudo. Rimedi: riserve sulla difesa del patrimonio ecclesiastico, accenni espliciti di consenso alle tesi dell'Avenir sulla rinunzia alle ricchezze e allo stipendio statale per riavere la libertà. La quarta piaga e la nomina dei vescovi lasciata al potere temporale. Compie un'approfondita analisi storica sull'evoluzione del problema e critica i concordati moderni con cui la S. Sede ha ceduto la nomina al potere statale (e, accenna prudentemente, per avere compensi economici). Rimedi: propone un ritorno all'elezione dei vescovi da parte dei fedeli. La quinta piaga e la servitù dei beni ecclesiastici. Sostiene la necessità di offerte libere, non imposte d'autorità con l'appoggio dello Stato, rileva i danni del sistema beneficiale, propone la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei bilanci.  A Rovereto gli ha dedicato il liceo che frequentò quando ancora si chiamava Imperiale e Regio Ginnasio. Borgomanero ospita l'Istituto S.. Domodossola ospita il liceo delle Scienze Umane "S. (istituto parificato). Roma ospita la sede dell'Istituto Comprensivo. Torino ospita la biblioteca Antonio S. del polo biomedico universitario che in passato fu un istituto scolastico attivo fino alla fine del XX secolo. Trento, dove si trova il liceo "S.". Farina, Prosser  Prosser Bonazza, L'Accademia Roveretana degli Agiati, su agiati, Accademia Roveretana degli Agiati, «Paoli  artefice della rinascita dell'Accademia e suo president. Ragionamento sul comunismo e socialismo, Grondona, Genova, Questa tesi fu messa in discussione da Abbà a cui S. controbatté nel Diario filosofico di Adolfo, Riv. S.ana, Pagani Rossi. Nota sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere).  Angelus: S., esempio per la Chiesa, su agensir, Biografia di S. su vatican.  Istituto S., su S. borgomanero. Liceo delle Scienze Umane su cercalatuascuola.istruzione. Istituto Comprensivo S., su ic-S.  Biblioteca S., su biomedico campusnet.unito.  su vivoscuola. M. Farina, Gl’Agiati, Brescia, Morcelliana Edizioni,  Italo Prosser, El pra' de le Móneghe: cronistoria del monastero di S. Croce nell'antico comune di Lizzana, Rovereto (Trento), Stella, Approfondimenti Sciacca, La filosofia morale di S., Torino, Bocca, Pusineri, S. (Edizione riveduta e aggiornata da  Belti), Stresa, Edizioni S.ane Sodalitas, Dossi, Profilo filosofico di S., Brescia, Morcelliana, Valle, S. Il carisma del fondatore, Rovereto, Longo Editore, Marangon, Il Risorgimento della Chiesa. Genesi e ricezione delle "Cinque piaghe" di S., collana Italia Sacra, Roma, Herder, S., Frammenti di una storia della empietà, a c. di Cattabiani con una nota filologica di Albertazzi, Trento, La Finestra, Giorgi, S. e il suo tempo. L'educazione dell'uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa Brescia, Morcelliana, Dossi, Il Santo Probito, La vita e il pensiero di S., Trento, Il Margine, Gomarasca, La forma morale dell'essere. La poiesi del bene come destino della metafisica, Milano, Angeli, Paoli, S., Virtù quotidiane, Verona, Edizioni Fede e Cultura, Paoli,  Maestro e profeta, Milano, Edizioni San Paolo, Sapienza, Eclissi Dell'educazione? La sfida educativa nel pensiero di S., Roma, Libreria Editrice Vaticana, Giuseppe Goisis, Il pensiero politico di S. e altri saggi fra critica ed Evangelo, S. Pietro in Cariano, Gabrielli, Comunità di San Leolino, Una profezia per la Chiesa. Verso il Vaticano II, Panzano in Chianti, Feeria-Comunità di San Leolino Muratore, S. per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Stresa, S.nane Sodalitas, Bergamaschi, S. La perfezione della vita cristiana, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, S. per l'unità d'Italia. Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano, FrancoAngeli,. Domenico Fisichella, Il caso S. Cattolicesimo, nazione, federalismo, (Roma, Carocci); Muratore, Apologia della fedeltà. In difesa dei valori etici e spirituali, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, Stefania Zanardi, Le lettere di S., un "cantiere" per lo studioso. Introduzione all'epistolario S.ano, Venezia, Marsilio, Zanardi, La filosofia di S. di fronte alla Congregazione dell'Indice Milano, Franco Angeli. Treccani Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Crusca. In S. l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità, impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare, seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese.  Una trattazione piuttosto ampia si trova già nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina Provvidenza che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21, sotto la rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale recita:  «La mente umana non può produrre a sé medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione proposta la materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri sussistenti' la mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre senza lo stimolo di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti (88-89). In altre parole, «l'uomo  conosce solamente quello che a Dio piace di manifestargli  naturalmente  soprannaturalmente» (94), ossia il mondo fisico (96) e i contenuti della rivelazione (97).  Dono di Dio non può che essere anche il mezzo per passare dall'uno agli altri, ossia il lin-guaggio, perché la rivelazione - principio paolino - si fonda sull'udito e inoltre presuppone già esistente la facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non potea dare a se stesso il linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche questo mezzo di conoscere» (99).  La funzione semiotica è condizione necessaria della conoscenza, in quanto l'uomo «senza i segni non potea né pure concepire gli astratti» (100); e qui, diversamente che altrove, segni vuol dire senz'altro parole, e precisamente i nomi di qualità. È questo il punto cruciale della questione: non c'è astrazione senza segni-parole, ma i segni-parole presuppongono le astrazioni. Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno, cioè da Dio, il primo nucleo motore, già formato, di segni-parole. La tesi dell'origine divina, già nettamente delineata,  trova così la sua enunciazione esplicita:  Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso, mentre per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana  mente (102)28.  Tali 'voci', prosegue S., poterono essere i nomi che, conforme al racconto biblico, Dio attribuì a ciascuna delle opere della creazione al fine di renderle conoscibili (106), e costituirono le prime astrazioni (111), in grado di mediare tra il visibile e l'invisibile (107).  Non dovette trattarsi insomma di un insegnamento esplicito del linguaggio, bensì della sua trasmissione indiretta unitamente alle verità della salvezza: «Quindi le eterne verità furono, io mi credo, al linguaggio incorporate e con esso insieme insegnate» (108), e con esso altresì, «nella forma materiale della lingua quasi in arca ben chiusa», custodite e tramandate di padre in figlio pur nel variare storico dei sistemi linguistici (114). La sapienza e il linguaggio,dunque, «furono dati all'uomo congiunti nella stessa guisa, sarem per dire, come furon creati congiunti alla materia i suoi accidenti» (112). Non per nulla la Bibbia attribuisce allo Spirito santo il dono delle lingue:  Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse (110) 29.  Nel Nuovo saggio, com'è ovvio, quello delle funzioni del linguaggio e della sua origine, nel senso gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un tema cruciale che sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro edizioni dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa sede, e riconoscendo che «S. non è tutto nel  Nuovo saggio»30, mi limiterò a qualche annotazione utile nel prosieguo del discorso.  Intanto, occorre rilevare che la critica alla teoria sensista dell'origine del linguaggio non è sviluppata nel capitolo espressamente dedicato a Condillac (del quale lì viene discusso unicamente il Traité des sensations) bensì di fatto nel capitolo su Dugald Stewart, dove S. avverte che il discorso svolto contro di lui, ovvero contro Adam Smith, vale né più né meno per tutti i sostenitori del «romanzetto di questo selvaggio» inventore e segnatamente per Condillac, al quale peraltro riconosce il merito di «aver chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua relazione della favella e del pensiero»31. E notiamo per inciso che alcune delle contestazioni al «misterio metafisico del lockismo» (49 nota 2), e il tono ironico con cui sono avanzate, torneranno molto simili nelle pagine di Manzoni.  Per mostrare come nel 1830, data della prima edizione, l'impostazione S.ana siaancora sostanzialmente quella del saggio poi confluito nella Teodicea, riporterò soltanto due brani. Il primo è la conclusione di una nota facente parte della lunga critica alla teoria della precedenza dei nomi propri sui nomi comuni, sostenuta da Stewart sulla scorta delle Considerations concerning the first formation of languages di Smith; il punto, osserva  S., è sapere come la mente possa pervenire alle prime astrazioni, e conclude:  Ora la mia opinione sopra di ciò la espressi già nel Saggio sui confini della ragione umana [...]. Io dimostrai in quel luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosso a ciò da qualche segno esterno (lingua), che segnasse la cosa astratta da se sola; e tale che fosse atto a eccitare e tirare la sua attenzione e nella sola qualità astratta concentrarla. E fu di qui che io dedussi l'impossibilità che avea l'uomo d'inven-  tare da se stesso un linguaggio completo e accomodato a' suoi bisogni.  Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra nella dimostrazione del linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e accanto alla presa di distanza da Bonald, presenta una distinzione molto importante. «Avvertasi - scrive S. - che qui non è mio intendimento d'investigare, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa manifestamente apparisca»; ed ecco la nota:  È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non possegga idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad idee che non ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio, senza il linguaggio»; se non che conveniva restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue. Non essendo stata fatta questa divisione, Rousseau potè intravedere una verità rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig.  Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, io credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione rigorosa che può tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da sé ravvisarla e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul linguaggio, e da ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana ragione.  La distinzione in realtà apre nel tessuto teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco oltre; e Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per essere una lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: «si è o non si è una lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia soprannaturale33, dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la condizione umana primordiale, e scrive:  Supponiamo adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sé non avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella colla qual solo vien tratta all'azione la sua potenza di riflettere e d'astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovarla egli medesimo.  La fictio speculativa si prolunga - poco manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione intorno alla lingua primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo. Basato sull'ipotesi «che Iddio abbia il primo parlato all'uomo primitivo» (p. 27) insegnando in tal modo agli uomini ad astrarre, il gioco ha termine con la conclusione secondo la quale «la lingua primitiva è parte divina, e parte umana» (p. 28). Una conclusione conciliatoria e però rischiosa, ma che permette a S. di non entrare in contraddizione con se stesso, perché se è vero che la parte umana è, come aveva scritto nel Nuovo saggio, la più nobile e formale', la parte divina è quella primaria e fondamentale.  Pur con qualche sfumatura, dunque, la posizione iniziale del saggio del 1827 è mantenuta lungo tutti gli anni Trenta, e la si ritrova immutata ancora al momento della riedizione come primo libro della Teodicea. Senonché di lì a poco tale posizione risulterà modificata in un modo assai significativo, se non capovolta34. Possiamo fare un primo tentativo di ricostruzione, se non di spiegazione.  Se torniamo ai due brani già citati della Teodicea e li rileggiamo con le correzioni apportate a mano dall'autore (praticamente le sole modifiche di contenuto in tutto il libro) su un'esemplare dell'edizione Pogliani, troviamo un ragionamento più articolato e in definitiva una tesi differente. Primo brano della Teodicea (le modifiche sono evidenziate in corsivo):  Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso fin ch'era solo, ché per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. E dato ancora che, aggiunta la sua compagna per le necessità del convivere, avessero i due coniugi trovati, con un solo attocomplesso, i segni e gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe bisognato ad arricchirsene in qualche copia? e con quella scelta che era necessaria pel progresso morale, e per elevare le loro menti alle cose invisibili? Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate;  queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana mente.  Secondo brano della Teodicea:  Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui si mostrasse (110).  Come si vede, la conferma dell'origine divina si accompagna all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile, formazione umana. Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con le sole proprie risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma ai fini dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di Dio mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è sostenibile l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi simili mediante degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi.  I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva un adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo brano del Nuovo saggio:  Ora l'uomo ha bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò gli serva.  Nel secondo brano del Nuovo saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: «Avvertasi, che qui non è mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della possibilità»; ed ecco la nuova nota:  È impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, il Rousseau potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può inventare il linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili, nel quale stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri agli altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo umano coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si possono fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio prima d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni prima d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo negativamente. La seconda, «se potrebbero fare queste due cose contemporaneamente, cioè trovare de' segni e coll'atto stesso formare delle astrazioni», e questo non lo crediamo impossibile.  Una considerazione più attenta della natura costitutivamente sociale e altresì sistematica del linguaggio ha condotto S. a modificare il proprio convincimento iniziale: non si tratta più di singoli individui alle prese con singoli segni-parole, bensì di comunità che danno forma a un sistema linguistico. Scrive infatti nell'Antropologia soprannaturale: «Se prendiamo una parola isolatamente dall'altra non mostra veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime. Ma all'incontro pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de' pensieri. Egli è per questo, che le lingue sono sistemi di segni così eccellenti che possono esprimere tutte le cose.  Può aver contribuito al ripensamento in questa direzione lo studio attento delle prime produzioni linguistiche della nipotina Marietta, consegnato nelle analisi e riflessioni - semplicemente straordinarie - del paragrafo del Rinnovamento della filosofia. Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza manzoniana sul concetto di 'interezza' delle lingue; la si sente risuonare ancora, per esempio, nella definizione di lingua data nella tarda Logica:  «un sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana, adeguato a significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono comunicare reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo saggio siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del resto la precede 37. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di «offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee astratte. Ora S. è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè «con qual progresso e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio.  Il momento iniziale è dato dall'istinto, che spinge l'uomo ad esercitare le proprie facoltà vocali naturali e, mediante esse, a produrre dei suoni indipendentemente dalla loro capacità significativa, la cui scoperta avviene in un secondo momento; «questo - osserva S. - è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta non c'entra ancora. Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali umane?  Riprendendo la tesi lungamente sostenuta nel Nuovo saggio, S. ripete che la loro natura è di nomi comuni, salvo a precisare però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione di non poco conto all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith, precedentemente avversata. Da qui la ricostruzione, al tempo stesso filogenetica e ontogenetica, di come «un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti » di una stessa classe, un tipo di nomi che andrebbero definiti sostantivi qualificati anziché aggettivi sostantivati.  L'attribuzione dei nomi comuni però non comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale dell'astrazione, che è successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare le quali, S. esplicita e spiega il proprio ripensamento sull'origine del linguaggio:  Noi abbiamo altrove espressa l'opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità. È indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l'avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua [...]. Ma trattandosi d'una semplice possibilità metafisica, se l'umana famiglia (non l'uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l'umanointendimento.  I «pochissimi astratti (forse di divina origine) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono insomma dal domandarsi come «l'umana famiglia potesse giungere d a s e stess a agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi. La risposta di S. consiste sostanzialmente nel fare appello al meccanismo cognitivo elementare della metafora a base metonimica: avendo già gli uomini coniato un nome per il braccio in quanto arto anatomico, per nominare la proprietà della forza che distingue quell'arto dagli altri, invece di inventare appositamente un nuovo nome, adoperano la designazione primitiva estendendone il significato. Un'illustrazione nobile di questo meccanismo semiotico la si trova nel commento al prologo del vangelo di Giovanni:  Pare, che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna significata in vece di imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando, che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito cogli organi della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché esigge uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltrediché le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le notizie più antiche e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo significato, e ritenendo solo il nuovo 38.  Ma restiamo sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto vede la chiave naturale per poter accedere alle astrazioni: «Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell'astratto. Giunge così a termine l'indagine sul modo in cui «comincia a formarsi naturalmente una lingua. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll'aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura,quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane n a tu -  ral ment e spiegato.  Nessun ostacolo logico dunque impedisce di ritenere la lingua un prodotto umano, inventato al doppio fine, cognitivo e comunicativo, di dare slancio al pensiero individuale e di socializzarne le acquisizioni: «Nel che - conclude S. - è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell'uomo l'istinto, e di più gliene ha egli stesso comunicati i primi elementi.  La conseguenza del nuovo atteggiamento di S. è che il linguaggio sparisce progressivamente dal suo orizzonte speculativo. Anche a non volersi spingere così oltre nella spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è paragone tra la ricchezza e l'importanza delle riflessioni semiotico-linguistiche disseminate nelle sue opere fino alla Psicologia, e — se ho visto bene - la scarsità di spunti, pur interessanti, presenti al riguardo nell'immensa Teo-sofia39, che lo impegnò negli ultimi anni.  7. Torniamo ora per finire allo scambio epistolare del 1831 da cui siamo partiti. La mia convinzione è che, dopo il silenzio seguito, non sia stato Manzoni a convertirsi all'idea dell'essere, della quale poteva già essere ben persuaso, salvo ad esitare davanti alla 'question di cominciamento'; è stato piuttosto S. - messo in allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile esito pansemiotico della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del tutto estrinseca mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in sostanza avrebbe identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca sulle idee la cui origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più costituito un problema - a ridurre la portata cognitiva del linguaggio esteriorizzandolo e tenendolo sotto il controllo della ragione in modo da poterne postulare l'origine umana, sia pure in uno con la capacità di astrazione.  Non per niente il ruolo del linguaggio ai fini della formazione delle idee astratte passa dalla necessità nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio per muovere la nostra intelligenza a formare gli astratti) alla utilità nella Psicologia («fu da noi provata l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti»: 1379), per di più con la restrizione: «utilità che in altro non consiste se non..». E pur considerando che questo paragrafo della Psicologia iniziadistinguendo il problema della pensabilità di un'idea dal problema della sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei nominalisti consistente nel ritenere che le idee astratte non siano «né possibili a formarsi, né pensabili senza i segni del linguaggio» è in palese contrasto con l'enunciazione netta di Teodicea 100 secondo la quale «senza i segni non potea neppure con c e pir e [che qui equivale a formare] gli astratti»; un contrasto non sanato e forse nemmeno rilevato, che del resto si mantiene nella stessa Psicologia: «gli astratti sono pensabili per se stessi senza bisogno dei segni» (1380), e contra: «le astrazioni hanno bisogno di segni [...] per pensarsi» (1523). S. passa così in qualche modo dalla coimplicazione di pensiero e linguaggio, o quanto meno da una loro stretta correlazione, alla strumentalità del secondo rispetto al primo, chiaramente attestata dalla Logica dove chiama i segni, o meglio i sistemi di segni, le gambe e anzi le stampelle o i trampoli del pensiero (885).  Per quanto riguarda specificamente il nostro tema, riprendendo i termini degli studi recenti di storia del pensiero linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di Manzoni, S. parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne potrebbe essere un indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse sfumature: l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere umano, l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso il funzionamento del linguaggio in atto.  Si tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo esito paradossale è infatti che nella Psicologia S. finisce col pervenire, come s'è visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si istituzionalizzano nella loro funzione semiotica (1460, e 1462 con applicazione all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono diventare segni» (Postille 15) 41. Ciò facendo S. capovolge anche, di fatto - malgrado la distinzione fra  'natura' e 'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi astratti» delle lingue antiche siano «forse di divina origine, spiega l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente fisico (1472): ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente» (1473). Questa attitudine appare palese nella conclusione già citata di Psicologia 1532, dove cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche asserendo che l'origine del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi on e immettendone l'istinto e fornendone «i primi elementi».  In conclusione, mentre la propensione storica orientata sui 'fatti' linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e non solo l'origine umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa di una questione di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla confezione di un 'sistema' filosofico complessivo fece passare S. da una tesi ad un'altra ma sempre all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica originaria delle  'proprietà' del linguaggio. Ma è la prima prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del  Settecento alla storicità dell'Ottocento si è rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del linguaggio.Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati. Antonio Rosmini. Rosmini. Serbati. Keywords: gl’agiati, Agostino, Aquino, la tradizione Latina italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Rosmini e Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Serbati.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sereniano: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sereniano was a philosopher who visits the emperor Giuliano. He followed the doctrine of the Cinargo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sereno: la ragione conversazionale dell’ondella tranquilità dell’animo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He belongs to IL PORTICO and is a friend of Seneca. Seneca dedicates some of his works to him. In the dialogue “On the tranquility of mind,” Seneca depicts them discussing the problems S. has with maintaining his firmness of resolve. Anneo Sereno.

 

Luigi Sperana -- Grice e Serra: la ragione conversazionale dell’economia filosofica – storia dell’economia romana – massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Dipignano). Filosofo italiano. Dipignano, Cosenza, Calabria. Mercantilista. Considerato il primo filosofo dell’economia politica in Italia, e uno dei primi in Europa. A lui va il merito di avere composto per primo un trattato scientifico, seppure non sistematico, sui principi e sulla politica economica. Poco si conosce della sua vita: laureato probabilmente in utroque, imprigionato nelle carceri della vicarìa di Napoli forse a causa della sua partecipazione al complotto architettato da CAMPANELLA per liberare la Calabria ma più probabilmente dietro accusa di falso monetario.  Mentre e in carcere compose “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere” e lo dedica al vice-ré di cui spera l'aiuto. Riusce a farsi ricevere dal nuovo viceré, III duca d’Osuna, per proporgli un programma di riforme utili al Regno. L’incontro fu infruttuoso e e ri-mandato nelle carceri della vicarìa, dove probabilmente muore. Essendo molto gravi le condizioni finanziarie del Regno di Napoli -- esausto il tesoro pubblico e l'onere del fisco già così gravoso da indurre molti a lasciare la città per sottrarvisi -- Santis propone di limitare l'esportazione della moneta e di abbassare i tassi di cambio con le piazze estere. La polemica con Santis è alla base della proposta di S. Dimostra con esempi tratti dalla antica storia romana  l'inutilità e anzi il danno di questi presunti rimedi. Da ciò trae occasione per spiegare la vera causa della prosperità della nazione italiana. Analizza la causa della scarsità di moneta nel Regno di Napoli e il fattore che puo invertire questa tendenza economica. Il primo ad analizzare e comprendere appieno il concetto di bilancia commerciale incluso il bene di servizio e il bene del movimento di capitale. Spiega come la scarsità di moneta nel Regno di Napoli e causata dal deficit della bilancia dei pagamenti. Utilizzando le sue scoperte e in grado di respingere l'idea per cui la scarsità di denaro e dovuta al tasso di cambio. La soluzione prospettata al problema e indicata nella promozione attiva delle esportazioni. S. segna il distacco dalla concezione moralistiche scolastica per passare ad una spiegazione laica ed è assolutamente innovativa per l'epoca tanto che Croce la define lampada di vita. Galiani a scoprirlo, tessendone un elogio in una nota del suo celebre trattato Della Moneta. Chiunque legge questo trattato, scrive, resta sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale ignoranza dell’economia filosofica ha S. chiare e giuste le idee della materia di cui scrisse e quanto sanamente giudicasse delle cause de nostri mali e de soli rimedi efficaci. Galiani paragona S. a Melon e a Locke, considerandolo superiore per avere vissuto molti anni prima in un'epoca di ignoranza dell’economia filosofica.  Egli, che in vita era stato del tutto trascurato e per secoli, tranne appunto quell'elogio di Galiani, completamente dimenticato, dopo molto tempo è stato finalmente riscoperto. Addante, Cosenza e i cosentini: un volo lungo tre millenni, Rubbettino, Martelloni, Regno di Napoli e Terra d'Otranto, Aspetti economici e sociali di una crisi, in Perrotta, La scienza è una curiosità. Scritti in onore di Cerroni, Manni, Benini, Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza. Avendo ottenuto di parlare al vice-ré duca d’Ossuna per comunicargli cose utili allo stato, e udito, presenti i consiglieri, ma, giudicandosi che avesse detto ciarle e chiacchiere senz'altro concludere, e ri-mandato al suo carcere. Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra,  Destefanis, Illuministi Italiani, Galiani, Milano-Napoli, Galiani, Della moneta, Napoli, Salfi, Elogio, primo filosofo di economia civile, in Addante, Patriottismo e libertà. L'Elogio di Salfi, Cosenza, Custodi. Scrittori classici italiani di economia politica, Milano, Pecchio, Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, Narrazioni tratte dai giornali del governo di Girone duca d'Ossuna vice-ré di Napoli scritti da Zazzera, Archivio storico italiano, Savarese, Trattato di economia politica, Napoli, Ferrara, Prefazione, in Trattati italiani, Torino, L. Bianchini, Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, Napoli, Andreotti, Storia dei cosentini,  Napoli, Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza; Fornari, Studii (Pavia); Amabile, Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia” (Napoli); Marco, Teorie economiche, Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, classe di lettere e scienze storiche e morali, Benini, Sulle dottrine economiche, Appunti critici, in Giornale degli economisti,  Economisti, Graziani, Bari, Arias, Il pensiero economico di S., in Politica, Croce, “Storia del Regno di Napoli” (Bari); Economisti napoletani, Tagliacozzo, Bologna,  Einaudi, Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Schumpeter, Storia dell'analisi economica, Torino, Rosa, I critici, Atti del Congresso storico calabrese, Napoli, Galasso, Economia e società nella Calabria” (Guida); Nuccio, Rivista storica del Mezzogiorno, Colapietra, Introduzione, in Problemi monetari negli economisti filosofici napoletani, Colapietra, Roma, Aquino, L’approccio monetario all'analisi della bilancia dei pagamenti, in Studi economici, Colapietra, Genovesi in Calabria, Rivista storica calabrese, Manoscritti napoletani di P. Doria, Galatina,  Toscano, La disputa sui cambi esteri del Regno di Napoli, Rivista di politica economica, Rije, ed. anast., Napoli, Ricossa, Cento trame di classici dell’economia, Milano, O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, Sassari, Il Mezzogiorno agli inizi del Seicento, Rosa, Roma-Bari, Alle origini del pensiero economico in Italia, I, Moneta e sviluppo negli economisti napoletani, Roncaglia, Bologna, Zagari, Moneta e sviluppo, Rosselli, La teoria dei cambi,  Landolfi, Valentia, A. Placanica, Storia della Calabria (Roma); Roncaglia, Rivista italiana degli economisti, Addante, Repubblicanesimo e mito di Venezia, Istituzioni e sviluppo economico, Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero economico, Roma-Bari, Grilli, Visto da Grilli, Roma, Villari, Politica barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza, Roma); Roncaglia, S., in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma,  Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, Milano; Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Roma; L. Addante, La politica del Breve trattato (Soveria Mannelli). Mercantilismo Storia del pensiero economico. Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia. Antonio Serra. Serra. Keywords: massoneria, circolazione degl’idee massoniche, mito di Venezia, economia romana, l’economia del liceo, roma antica, antica roma, Machiaveli, mercantilismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Serra” – The Swimming-Pool Library. Serra.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sertorio: il deutero-esperanto nella filosofia ligure – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. S. partecipa al dibattito pubblicando dapprima il saggio  “Elementi di grammatica analitica universale,” poi “Un esame filosofico della grammatica universale,” e, infine, “Il problema della lingua universale.” In quest'ultimo saggio, a proposito dei diversi sistemi inventati – incluso il deutero-esperanto di H. P. Grice, S. individua tre fondamentali tipologie di lingue ausiliarie. Il primo tipo comprende quella categoria di linguaggi che definiamo a posteriori che riprendono alcuni, o tutti gli, elementi, non di rado modificandoli, da lingue storico- naturali, come può essere l'italiano, il francese, il cinese, ecc.. Il secondo tipo è costituito da quelle lingue che definiamo a priori con le quali è possibile comunicare sia in via scritta che in via orale, ovvero che presentano una forma ideografico-fonetica tale da permettere non solo la semplificazione della scrittura, ma anche una sua agevole e veloce riproduzione tramite foni. L’ultima tipologia è costituita da quelle lingue che adottano delle scritture tipografiche, crittografiche, numeriche, nelle quali gl’elementi fondamentali della lingua sono utilizzati per trasferire solo l'idea della cosa che si vuole comunicare, ma che non presentano un reale metodo di comunicazione orale. Della seconda categoria discute ampiamente nel primo saggio dedicato al problema della lingua universale, che intende come lingua adatta alla comunicazione tra persone adulte, che hanno già delle idee proprie sviluppate attraverso l'uso della loro LINGUA MADRE – l’inglese oxoniano di H. P. Gice. Qui S. s’occupa innanzitutto della definizione del sistema numerico della lingua ideale, e ne propone di due tipi differenti, sia a base decimale che sessagesimale, e, poi, del suo sistema GRAMMATICALE – cioe, morfologia, sintassi, morfo-sintassi – (“Pirots karulise elatically”) e lessicale (“pirot, karulise, elatic”. Le informazioni seguenti sono tratte da S., Elementi di grammatica analitica universale,  Porto Maurizio, Tipografia Prov, di Demaurizi. Il sistema decimale  romano – I II III IV V VI VII VIII IX X -- S. associa ad ogni numero da 0 a 9 una consonante, secondo le seguenti corrispondenze: 1  = b, 2 = g, 3 = d, 4 = c, 5 = 1, 6 = m, 7 = n, 8 = p, 9 = 1, 0 = z.  A partire dalla virgola che separa i numeri interi dai decimali si pongono in ordine da destra a sinistra le 5 vocali (a, e, i, o, u) e questo ordine è invariabile. Le vocali vanno scritte al di sotto delle consonanti precedenti e, durante la lettura, questi nessi di c+v (che possiamo allora intendere come SILLABA – ma, pa, da) sono da pronunciarsi assieme (del tipo “be” e non “b – e” (prima articolazione). Le cifre devono sempre essere raggruppate a gruppi di tre, secondo l'ordine decine, centinaia, migliaia, milioni, ecc.) e laddove non vi sia alcuna cifra a coprire le sedi di queste terne si inserisce lo zero. Si avrà allora qualcosa di simile all'esempio successivo: 372,215,8976,340 -- 4 d n g    .cgb.1pr. n m d    Z e  a i a u i  e  a. Il numero così composto in italiano si dicee "trecento-settanta-due miliardi, quattro-centovent-uno milioni, cinque-centottanta-nove mila, sette-cento-sedici virgola trecento-quaranta.” Nella lingua di S. solamente "denagu, cogibe, lapuro, nibema, ducozi.” I vantaggi sono molteplici, come dice Frege – nella trauduzione di Austin per Blackwell, favorita di Grice -- se si riconosce oltre all’evidente brevità – cf. Grice, “Be brief (avoid unnecessary prolixity (sic))” -- anche il fatto che in un sistema numerico-alfabetico di questo tipo le vocali che occupano un posto fisso permettono d’individuare perfettamente l'ordine di grandezza di ciascuna cifra senza dover ricorrere ad altre parole per indicarlo. Cosi si sa che la combinazione c+e+c+a+u corrisponde sempre all'ordine dei miliardi, c+a+c+u+c+o a quello delle centinaia, ecc. Il secondo sistema proposto è quello a base sessagesimale in cui ad ogni cifra da 0 a 60 S, associa una sillaba cv, del tipo 1 = ba, 2 = ge, 3 = di. Nonostante anche questo metodo assicuri una brevita d’espressione considerevole (centoventitré › bagedi), risulta meno convincente del precedente per il semplice fatto che quello prevede uno schema di composizione RICORSIVO basato su POCHE semplici regole – la composizionalita com’essenza d’una lingua come il suo oxoniano nativo, mentre questo aumenta notevolmente il grado di difficoltà mnemonica associato ad ogni numero a causa del maggior numero di combinazioni esistenti e  dell'arbitrarietà delle stesse.  Per quanto riguarda invece la parte della SINTASSI, LA MORFOLOGIA, e la MORFO-SINTASSI – la grammatica ragionata -- e lessicale della sua lingua ideale, S. indica delle caratteristiche fondamentali che questa deve possedere per essere di semplice comprensione. La separazione d’un MORFEMA LESSICALE (‘be’) d’un MORFEMA SINTATTICO – “Fido *is* shaggy; Fido e Rex *ARE* shaggy”; ‘Rex is SHAGGiER than Fido’ (One pirot karulises elatically; therefore, pirots karylise elatically – in an elatic way. L’esistenza di particelle SINTATTICHE nuove, più semplici, meno *ambigue* -- cf. Grice, “Do not multiply the senses of ‘if’ beyond necessity, Strawson!” -- di quelle  esistenti. L’invariabilità delle parole – cf. Grice on word meaning – shaggy’. A questi aspetti deve aggiungersi anche l'esistenza d’un vocabolario o lessico in cui ogni elemento possede UNO E UN SOLO SIGNIFICATO (O STRETTAMENTE, SENSO) – “Senses are not to be multipled beyond necessity”: Grice’s modified Occam’srazor --. La sintassi verte intorno al verbo o PREDICATO (“... is shaggy”, “kaurlise”), che da solo e opportunamente coniugato (Fido is shaggy, Fido and Rex are shaggy; a pirot karulises, but pirot karulise -- è in grado di descrivere non solo l'azione, ma anche il SOGGETO (cf. Grice on ‘the’ – discussione con Sluga --) della stessa, il suo NUMERO – cf. Grice on Peano, (Ex), “some, at least one”; il genere, e le circostanze di modo (modo indicativo, ecc.) e di tempo (cf. Grice, “Actions and events,” basato su von Wright). A questo, se necessario, si possono associare ulteriori complementi di pro-posizione, anch’essi declinati, per descrivere  l'azione in MODO più particolareggiato (non volitivo, ma ottativo).  L'alfabeto utilizzato è composto di diciassette lettere, le stesse che sono state utilizzate per il sistema numerico decimale visto in precedenza. Ogni particella sintattica o parte del discorso presenta un ordine vcvcv ed esse sono riconoscibili a seconda delle lettere che vengono  poste in ciascuna sede. I verbi sono riconoscibili dal fatto che presentano nella sede della prima consonante una «b» o una «g» e questa, assieme alla seconda vocale, forma il modo verbale -- diviso in: «ba» INFINITO (‘to be shaggy’), «be» PARTICIPIO, «bi» GERUNDIO (‘being shaggy’), «bo» INDICATIVO (‘is shaggy’), «bu» IMPERATIVO (please be shaggy, o ‘is shaggy, please’, «ga» SOGGIUNTIVO (‘that Fido be shaggy’), «ge» CONDIZIONALE, i. e. con-dictum (‘si Fido e shaggy, Fido e amato’), «gi» MORALE (“Jones is between Richards and Smith”, «go» FISICO (“Jones is between Richards and Smith”), «gu» MATEMATICO O ORDINALE). La vocale iniziale indica la forma del verbo («a» = verbo IN-transitivivo (“Fido IZZ shaggy”, «e» = ri-flessiva, «i» = attiva (Paride ama Elena), «o» = passiva (Elena e amata da Paride), «u» = neutra»). Le ultime due lettere, consonante e vocale, indicano il tempo, il numero e la PERSONA (Grice, “Someone, i. e. I, is hearing a noise”) a cui il verbo stesso si  riferisce, secondo ua tabella:129tem  0. Particelle  numero d  del e personal  1R28  22  มา สิ  1.ª  TO  3."  Singolare  IP838a  아비아비비이  2  Plurale  130  3.  Specificazione del Tempo  = Più che perfetto  = Passato anteriore  =  Passato indefinito  Passato definito  Imperfetto  Presente  Futuro  Futuro anteriore  =  • Dipendente  = Indipendente  = Persona  Numero. Così ad esempio il verbo 'mangia!' (Grice, hobble) può divenire «ibupe», dove «i» indica la forma transitiva (eat a nut – Grice, as ordered to his pet squirrel, squarrel, Toby), «bu» il modo imperativo – cf. Hare, “The window is closed, please -- e «pe» la seconda PERSONA persona singolare (you, not ye) del tempo presente. Allo stesso modo si compongono i nomi. La prima lettera - vocale - indica il genere (del tipo «a» comune – man --, «e» sessuale – flower --, «i» maschile (aquila macchio), «o» femminile (“ship”), «u» neutro» (‘ship’), la seconda - consonante indica la declinazione e il numero, ed esistono cinque declinazioni. La terza e la quarta lettera - vocale e consonante - delimitano l'idea in ordine alla quale si riferiscono le preaccennate qualità di genere e numero, cioè costituiscono la parte che potremmo in qualche modo chiamare morfema lessicale, RADICE (v this little piggy went to market) lessicale SIGNIFICANTE (‘the shag of shaggy) della parola (cf. Grice, word meaning); l'ultima vocale indica il caso di appartenenza. In questo modo poi si formano anche tutte le altre parti del discorso. Il problema d’un sistema di questo tipo è che la riuscita di una buona conversazione dipende in maniera non trascurabile dalle capacità mnemoniche e combinatorie degl’individui interessati – Grice: “That’s why I say: who cares?”. Oltre alla notevole mole di nessi consonantici e vocalici esistenti, oltre al fatto che questi cambino significato se non SENSO in base alla posizione, oltre all'enorme numero di combinazioni possibili, un aspetto penalizzante e soprattutto la struttura stessa delle parole che, indipendentemente dalla parte del discorso interessata, deve necessariamente essere di cinque lettere o di sei lettere, in ordine VCVCV o CVCVCV.  Per quanto riguarda invece la terza categoria delle lingue inventate ad uso internazionale individuate da S., si riporta un esempio di lingua puramente ideografica, numerica. Esempio:  Ne Il problema della lingua universale, S. propone la frase italiana. Il grammatico intelligente interpreta facilmente questa scrittura; perchè il significato o SENSO unico di ciaschedun segno è reperibile istantaneamente  nella trascrizione numerica seguente del terzo metodo:  - 12. 111. 15. 2101. 1245 - 27. 33. 72. 2152. 1151 - 14. 114. 18. 0454. 3293 - 3 - 364 - 14. 111. 15. 1564. 4252 - 14.  112. 16. 0435.1555 -15. 33.72 - 1533. 1265 - 1. Ad ogni cifra associa una funzione grammaticale, sintattica o di senso (ad esempio il numero «1» finale esprime il punto fermo, la fine della sentenza. Il numero «3» corrisponde al punto e virgola. Il «111» significa 'soggetto della proposizione. Il «15» il caso nominativo nella sua forma singolare. Il «364» significa 'perché; ecc.. I trattini indicano l'inizio di ciascun termine e i punti dopo le cifre separano i fattori che fanno parte di ciascun termine. Esempio tratto da S., Il problema della lingua universale, Porto Maurizio, Berio.  La volontà è quella di limitare (ma non del tutto) la fusione dei morfemi e piuttosto apporre nuove cifre che siano ognuna portatrice di un determinato significato (del tipo 'leone-femmina' e non  'leonessa', o ‘aquila macchio’ e non ‘aquilo’). S. è perciò convinto che, tra quelli individuati, il più esatto dei metodi e il  terzo, visto che: La ragione dell'evidenza, che ammirasi nel linguaggio algebrico e che spesso riguardasi come un privilegio di questa scienza dell’arimmetica, si è che nei ragionamenti algebrici o arimmetici non entra mai un segno il di cui valore assoluto e di posizione non sia esattamente definito. Cf. Grice sul formalismo di Peano e l’informalismo di suo alievo Strawson. La sintassi, che attualmente più soddisfaccia alle esigenze filosofiche è la sintassi algebrica o arimmetica – Frege, il concetto di numero, traslato da Austin, read by Grice -- ed i precetti di questa  dovrebbero essere comuni ad una lingua universale. Di nuovo quindi, l'interlingua in grado di descrivere in maniera conforme la natura delle cose è di tipo numerico e algebrico o arimettico e per essere utilizzata necessita di tanti vocabolari quante sono le lingue storico naturali esistenti. Giacomo Francesco Sertorio. Sertorio. Keywords: Il deutero-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sertorio”. Sertorio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Servio: la ragione conversazionale VIRGILIANA – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Nei "Saturnali" di Macrobio, rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, S. appare uno degli interlocutori. La sua attività filosofica ha per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esalta come il maestro di ogni sapere e che commenta in un’opera di cui rimangono due redazioni. La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di S., mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis", dal Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del commento d’Elio Donato. Si discute se gl’appartengano l’Explanatio dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre saggi di metrica. Il commento include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle fonti usate da S.. Si è voluto fare di S. un seguace dell’accademia. Ma, da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e, dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono proprie di essa, perchè appartengono all’accademia in generale, a Posidonio, o anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima, immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi destini dopo la morte, teoria delle sfere. Quando, oltre alle tre parti dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si allontana dalle teorie tradizionali inclusa l’accademica. Quando S. afferma che nulla esiste salvo i quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in complesso la cosmologia del PORTICO esposta da VIRGILIO, che però cerca di liberare dal suo materialismo originario. Del resto, esplicitamente S. loda i filosofi del portico -- et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum -- che contrappone ai filosofi dell’Orto, che critica spesso. In S. mancano un coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze mistiche dell’età sua.  Un'edizione del XVI secolo di Virgilio con il commento di S. stampato sulla sinistra del testo. S. Mauro Onorato. Grammatico e commentatore romano.  L'appellativo Deutero-S. o S. Danielino si riferisce alla pubblicazione da parte di Daniel di un'edizione del commentario di S. all’Eneide contenente alcune aggiunte rispetto all'originale serviano. Tuttora è discussa l'autenticità del cosiddetto S. Danielino. S. ompare come uno degl’interlocutori nella “Saturnalia” di Macrobio. Alcune allusioni presenti nei saggi ed una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a S.. Saggi: “Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Commentarii in Vergilii Bucolica, Commentarii in Vergilii Georgica. Del commento alle opere di Virgilio esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve e conciso, attribuito di per certo a S., ed è chiamato “S. Minore". A una seconda classe di manoscritti appartiene un altro commento, molto più esteso, infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di S.. L’autore è ignoto. Questo secondo è chiamato "S. Auctus" o "S. Danielinus" da Daniel, che lo pubblica. Esiste una terza classe di manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la diffusione di questi commenti.  Per quanto riguarda il "S. Minore" è in effetti l'unica edizione completa esistente di un romano scritta prima del crollo del principato in Occidente. È una vasta critica al testo di VIRGILIO, con critiche anche ai commentatori prima di lui -- in un certo qual modo ci fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti. S. non usa un linguaggio particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di S. contengono abbondante materiale filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è derivata da fonti di filosofi anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene interpretata nel suo aspetto filosofico.. Commentarius in artem Donati, Raccolta di note grammaticali d’Elio Donato. De centum metris ad Albinum - Un trattato di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino. De finalibus ad Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali. De metris Horatii ad Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio, forse dedicato ad Atilio Fortunaziano. Vita Vergilii. Enciclopedia italiana. Funaioli, S., in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pellizzari, S.. Storia, cultura e istituzioni nell'opera di un grammatico (Firenze, Olschki); Ramires, S., Commento al libro IX dell'Eneide di Virgilio; con le aggiunte del cosiddetto S. Danielino, Bologna, Patron, su Treccani  Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S. su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Avogadro. S. Open Library, Internet Archive. Opere complete di S., su forum romanum.org. V · D · M Grammatici romani -- Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Grammatici romani Romani. The second version was named the Egyptian, which is a puzzling name since the first reference to this particular descent/ascent concept seems to come from a commentary on Book IV of the Aeneid of Publius Vergilius Maro, or Virgil, by the commentator S. In S.’s version, each planetary sphere is associated with one of the seven major vices. The list is as follows: I avarice avarizia from Saturno; II desire for dominance and gluttony from Giove; III violent passions or anger from Marte; IV pride from the Sole; V lust from Venere; VI envy from Mercurio; and VII sluggishness from the Luna. Some philosophers differ as to *which* vice to assign to which *planet*, e. g., sluggishness is often assigned to Saturn instead of the Moon. It should be noted that each of these seven vices, are all psychological characteristics as is befitting of a soul. Roman philosopher and grammarian, commentator on Donato and Virgilio There is some doubt as to his name. The commentator on Donato in the Parisinus Latinus codex (GrL) is called _Sergio_, as is the commentator on Virgilio in the Bernensis codex. In other manuscripts, the commentator on Virgil is called S. but no mention is made of the rest of his name (Marinone). In the Saturnalia, MACROBIO (si veda) gives a portrait of as him  an adulescens; and Daniel asserts, in a note to the Bernensis codex that he is one of Donato’s students. If these indications hold true, it would appear that he lives in Rome, where, according to MACROBIO, he belonged to the intelligentsia of the ACCADEMIA. Of considerable importance are his commentaries on Virgil's Aeneis, Eclogae and Georgica, surviving in two ms. codices of varying length. The shorter is published by Daniel, who adds several scholia -- the Scholia Danielis -- to it. It is commonly known as the S. Danielinus. Critics disagree as to the contents. Thilo holds that the additions are probably a fusion of an original text with parts of Donato’s lost commentary on Virgil. His commentaries, based for the most part on his predecessors (Donato in particular), enlarge on and enhance that tradition by virtue of the quality of the grammatical observations and the comparisons of Virgil with other philosophers. Various grammatical treatises bear his name but modern criticism unhesitatingly ascribes to him only the Commentarius in artem Donati (GrL). Prisciano mentions S. as the author in Institutio de arte grammatica (GrL). Other attributions are uncertain. The two books of the Explanationes in artem Donati (GrL) are apparently posterior to S. (Schanz-Hosius). The tract De littera de syllaba de pedibus de accentibus de distinction (GrL) gives "Sergius" as the author but seems to be an extract from the Commentarius and thus not a work intended by S. to stand alone. Criticism is divided over attributing to S. De centum metris (GrL), a treatise on metrics: Müller excludes S. as the author while Marinone defends the opposite view. The treatises De finalibus (GrL) and De metris Horatii (GrL) are similarly controversial; see Müller. In his Commentarius in artem Donati, S. brings home two points which characterize Roman grammatical thought, as seen in the artes. First, grammar is intimately connected with all the disciplines dealing with language – philosophy – GRAMMATICA FILOSOFICA – SEMANTICA FILOSOFICA -- dialectics, and esp. rhetoric (GrL). Second, grammar has a distinguishing subject matter which consists, according to S., of the analysis of the VIII parts of speech – Latin does not have an article, but it has interjection. S.’s admiration for Donato derives, in fact, from the latter's unswerving conviction that a grammatical treatise ought to begin by defining the partes orationis -- other grammarians were hesitant and inconsistent).‘That is why Donato is wiser, who starts out with VIII parts of speech that concern the grammarians – including the philosophical grammarians – specifically – UNDE PROPRIUS DONATUS EST DOCTIUS, QUI AD OCTO PARTES INCHOAVIT, QUÆ SPECIALITER AD GRAMMATICOS PERTINENT – Commentarius. S. holds, together with Donato, that the study of grammar, taken to be the study of the partes orationis, is a prerequisite for literary analysis, i. e., for commenting on poetic texts, such as Virgil’s. Although S. contributes to enriching the discussions of the grammatical distinctions formulated by Donato, by citing and criticising the work of other philosophical grammarians, S. leaves unsolved the many problems inherent in the categories handed down by tradition. For example, some grammarians considered the 'future' tense to be a separate MODVS and not a tense of the 'indicative' mode, given that, properly, one can 'INDICATE' only what one knows and not the future, by definition an un-known. “And remember I’m a philosophical grammarian!” Grice: “In Rome, grammarians simpliciter were usually slaves!”. S. expounds the question clearly (GrL), but does not venture an answer. "Martii Servii Honorati Commentarius in Artem Donati" (GrL).  "Commentarius in Artem Donati"; "De finalibus"; "De metris Horatii"; repr. Hildesheim. S. Grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Thilo e Hagen eds., Lipsiae. Editio Harvardiana, Rand et al. eds., Lancastriae, Ad Aeneam; Stoker/Travis eds., Oxonii (Ad Aeneam). Commento ai libri 9 e 7 dell'Eneide di Virgilio, with introd., biblio. and critical ed. by Ramires, Bologna. BARATIN, La naissance de la syntaxe à Rome, Paris. Id., CRGTL, BARWICK, "Zur S.-Frage", Philologus; BRUGNOLI, "S.", Enciclopedia Virgiliana, Roma. KASTER, "Macrobio and S., Verecundia and the grammarian's function", HSCP; MARINONE, "Per la cronologia di S.", AAT; MÜLLER, L. "Sammelsurien", Jbb. für Klass.Philologie; SCHANZ, M. e HosIus, Geschichte der römischen Literatur, München, TIMPANARO, "Note serviane, con contributi ad altri autori e a questioni di lessicografia latina", Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura; WESSNER, "S.", RE. Keywords: Virgilio, Donato. Servio Mario Onorato. Servio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sestio: la ragione conversazionale del fallito morale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds his own school in Rome that draws heavily on La Setta di CROTONE and IL PORTICO. S. preaches an ascetic way of life, which includes vegetarianism, and exhorts his followers – whom he called ‘Sestiani’ – to reflect at the end of each day on their moral failings – “if any.” Upon his death, his son, also called Quinto S., inherits the school, but it does not long survive him. One of the Sestiani is SOTIONE, who becomes Seneca’s tutor – Seneca himself is influenced by the school’s teachings for some time. Quinto Sestio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale delle sentenze trasformative – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. is a compiler – The “Sentences of Sesto” are mainly of an ethical nature and show signs of a variety of influences including traditional wisdom literature, and IL PORTICO. They proclaim that wisdom is attained through the conquest of the passions. – Chadwick, “The sentences of Sextus,” Cambridge. Grice: “Chomsky thought that the sentences of Sextus were ‘transformational’!”

 

Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale del’accademico d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Antonino. Antonino regards him as something of a role model and greatly admires the morality and humanity of both his life and his teachings. Accademia. Suda thinks that S. is of the scesi only because he confuses him with Sesto Empirico!

 

Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studies philosophy with Stilio (si veda). He becomes the principe di Roma when his cousin Elagabalo is assassinated. His principate is not however a success and he is himself assassinated not long after. So much for the line of succession. Severo Alessandro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del’amico lizio d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, friend of Antonino. Claudio Severo.

 

Luigi Speranza --Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma—filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Severo rules the Roman empire and it is said that he is well-versed in philosophy. Severo Settimio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Settala: la ragione conversazionale dei problemi sessuali d’Aristotele -- desiderio e piacere – la scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Profisico. Studia a Brera e Pavia. Insegna a Milano. Si prodiga in occasione della famosa peste dei “I promessi sposi”. Manzoni lo nomina una prima volta  quando parla del figlio, Senatore S., medico, membro, insieme a Tadino del tribunale della sanità ai tempi della vicenda di Renzo e Lucia. È tra i primi ad accorgersi che la strana malattia che si diffonde nella zona lecchese, e la peste. Saggi: “In librum Hippocratis Coi de aeribus, aquis, [et] locis, commentarii V. Appositus est Graecus Hippocratis contextus ope antiquorum exemplarium, restitutus et emendatus cum indice rerum et verborum locupletissimo una cum nova eiusdem in Latinum versione” (Colonia: Ciotti); “Problemata di Aristotele” (“Commentariorum in Aristotelis problemata” -- VII primas sectiones – secundam heptadem -- continens, ab eodem Latine facta”) (Francoforte sul Meno: Wecheli, Marnio, Aubri);  “Animadversionum et cautionum medicarum libri VII quorum materiam sequens pagina indicabit” (Milano, Bidell); “De peste et pestiferis affectibus libri V (Milano, Bidell); “De ratione instituendae et gubernandae familiae libri quinque” (Milano, Bidell); “Della ragion di stato” (Milano: Bidelli); “Cura locale de' tumori pestilentiali, che sono il bubone, l'antrace, o carboncolo, ed i furoncoli contenente tutto quello che si ha da fare esteriormente nellquesti mali tolta dal libro della cura della peste” (Milano, Bidelli); “Preseruatione dalla peste” (Brescia: Fontana); “Anti-rotario romano con l'aggionta dell'elettione de semplice e prattica delle compositioni e di due trattati, vno della teriaca romana, l'altro della teriaca egittia aggiontoui in questa vltima impressione auertenze e osseruationi appartenenti alla compositione de medicamenti” (Milano: Bidelli); “Avertenze, et osservationi appartenenti al curar le ferrite” (Milano: Cardi); “Compendio per curare ogni sorte de tumori esterni et cutanee turpitudini, raccolto da osseruationi fisice, e chirurgice” (Milano: Monza); Statistica medica di Milano Milano, Guglielmini e Redaelli, Belloni, Borromeo e la Storia della Medicina, in San Carlo e il suo tempo: convegno, Milano. Edizioni di Storia e Letteratura,  Bartolomeo Corte, Notizie istoriche intorno a medici scrittori milanesi, Milano,  Argelati, Bibliotheca scriptorum mediolanensium seu acta, et elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani, Sangiorgio, Cenni storici sulle due Pavia e di Milano e notizie intorno ai più celebri medici, chirurghi e speziali di Milano dal ritorno delle scienze sino all’anno. Opera postuma, Longhena, Milano, Renzi, Storia della medicina italiana, Napoli, Ferrario, Intorno alla vita ed alle opere mediche Cenni, Milano, Capparoni, Profili biobibliografici di medici e naturalisti celebri italiani, Roma, Cava, La peste di S. Carlo. Note storico mediche sulla peste, Milano, Ricerche Firenze Ferro, La peste nella cultura lombarda, Milano, Cosmacini, Il medico e il cardinale, Milano. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Firenze,  Molini,  Facchin, S.: un intellettuale barocco fra scienza e arte Treccani Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Mellerio,S., in Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, openMLOL, Horizons Unlimited srl. Patricio Milanese. ys id À L904.7. V WM C th    "s  rex. fà vnm e LOOyV. n. Fe  viu Leve. (ue » meéen ah -, 2 COMMBRO/ VEM s  X ^21/ dién sd 2    L * 1 mtmbys p APP A p memi.  LUÜU DN. ",  Uvtvnow- . l  i! AK PE / ^» Ü (oft  i A4 Un ^V - Z^"* " AÁe en, ./ 64 !  Irstra- Jim vfldecur " ovi " du - e acu ly Kaitnllido !  4 EL j^ ur aco v, la x .  Ier 'aofevet dian. p, Y, «tecti ]4^ X (26 " n Dod Kn din.  I ^ /  "SETA E AH. "Jo Job Áago " 16.. v  P T€ 72 P1 ortaluy Za- Ü (pube Xe t  I 2 " fy " à . 2 i 1  Iitont, bo br rim V "De canttemk- vm GÀ "dit: CCCII  KL oc( wy tm . axi. eade dta » 17 s  "T »vnajá/- 64. Cw 3*4. hri "  X »" ud pF 2. 0b LE  / e 0709 - e € zT214URA pL Hæ "T. ( - "a  »  (Pl (ijAÓ '  2 d 4. 9e sedi  / Gus A6vEuntod i  € 4 2 sí "V^ ir TT /Au£ 20.  fri mtn Lg ^w n QC ef 1 - Deep uvm tort í  Æ. uit? i s  ei Ac » ; . p de 4, (s ma € vent . i V WX D69. ARA 4/7 n ^ C "4 z det made  K 4, M. /j [^ » 22.  Joni amv ) EU ^ P 2  odn 4 rw 26. " Jevikgunt ecfpute onm tu .  A x Q 22 i " 3 2 s "  buy - ! . Ó 4  PZLIAZ y. : y po «€ [47 4»,  "T. *«? À,  V us. Ier did / CMM - (s icu. Z4, T Ao  àx/ 05 VIVPUA "bL. : , Vy 4  MndER M n eeec. Lb.  * E ^ A Zecoiu JA z*    UM n    " te PH.    o a PA, JUund- . IU» € eoí 2 Vendncuh. 9 dic. $. E^ Antea  - "E  " awful. M MP wmnlb y  Me    de.    et y, TM. ex  VACOm EL. De Jh    Die qutt.    $.    mend lbvat.    d Æ ( o NAM    VET    fe m undtemgpve- 2 9 to. £v    i  Jle tmd rer  e£ Dwwehst   24-.  e. ra    9 de d. Qe r3    M pugamiata  Sos,  i iA ge p^ Et ^ nén é 2: B t  ded mdi E  né dmi ] itt '    Los CUNa i    2 PU fac, po    íi ] n tf    jo qud t di    E pt.    miden: al  Véteseom y Du" ^ h n    m. eias    Ze pos igi cadsgnt. 3v a (eue    x gite tty li    OC    V DOVICI    bob I ASI  WEDIOLANENSIS.    MEDICI CLARISSIMI,; P    £nimadverfionum, er Cautionum 74edicarum » 3    LIBRI SEPTEM,    "T nuo 3b Aotore recogniti, et hac pofiremaz, ^.  editio: ;,C,€X xpurg catis 3q! IET np! urimis mene à 1  dis novo nitori rellitut ONE CH    EN f. d A. e   » Am" 3m d Cx  diiery,,» iycans    d seis   Y  y ».  RCCÓNS DOS SEPTALIVS  iau Py  PW pu    ATAVII, ff: ypogi rrr dit Ihuilii. [628., LE    Projlant apud Paulum Frambottum s. PER ILLVSTRLE  et Excellentiffimo Viro IOANNI PREVOTIO MEDICINÆ DOCTORE et Professori Primario.Paulus Frambottus Bibliopola Patavinus. BAM A cít virtütis pulchritudo;ut  dd cxtemisctiam fenfibusfubtracta,ex veftigiis in precla«  ro pectore impreffis cluceJenscm/ r3 (cat, mirabiles fui exci»  Ice leramor es. i Mas abibo longius, Te te, Prevoti Perilluftris et Excellentiff. exemplum  ftatuo, in quo rarz virtutis,& folidz doMirinz grata quadam confpirat harm 9e  inia, ut commiuni do&torum calculo, et falima: publice teftimonio apex eruditionis  limeritó audiaris. Nec enim fola Philofoliphia et Medicina, quam cum fumma lauide doces et cxerces, tead unguem expoli  vit fed ctiam alie difciplinz tibi, affiduo  i 2 Dre    9  2  £  94    fuo culto; (ingularia orriamentá fe debe-[U  ic fatentur. udi res cm notior fit, quaàmu]  üt ego tenui ftylo et filoprodam et pro-Jij  bemitum omnesin tui amorem tacita qua];  dani illecebra pertrahit;. Ego vero; ut obi]  fervaniriam, qua te colo et veneror ; pübli-4) ]  ce teftaret ; diu rnultumq; cogitavi : feci  hufquam mihi cómodior fefe obtulit oc:  cafio, quàm cüm novam,eamq; lorige e;  iiendatiorem editionem Cautiorium me:]  dicaium celeberrimi viri Ludovici Se  ptalii pararé: quam proinde fub felicis tui]  nominis celebritate emitti cüravi, planis  perfuaías,opufculum hoc,mole quidem  xiguum, pondere maximum, genüimump  foetnm fummi viri;qui fibi totícriptis moy  numentis pofteritatem devirixit ; tibi virqi"  do&iffimo, et de Medicina preclaré meg.  renti, gratiffimum fore. Quare fiferem]i;  fronte hoc quidquid cft libelli, argumeng  tum niez in teobfervátia.fufceperis, mee]  folita beneuolétia amplexus fueris, candiifi...  diore hoítia me litaffe exiftimabo, V AL E    AS VIE uM «Iq ena o e942* 164937 C6 dle:  XA FT :   NIST be ees; AS ears; ESSE ev E£3£ t 223 2, $9 "2; €2, -.  s[EReps: iis t 5 c» T3TU P SV: Iq  s] Qe os cota cs Aj bnc gear ee dpQp o 25  7 (x QE a  ! icesb 9» Ges? 32 €x 3d ue æe 3» 629 1939 Gé ei S.  y   ^a    à4d T axi à  : ^cr Via hein lo: fote,ut biclabot meus iri: h vatios (ctmones eorüm; qui    itüt! tatioSeimm averent cognofce  hs s res vel  ccgbitam improbatent;  gp üt o hominum  geneti pfe tibfire era primm  lom nium It anitno háb beo. Cüm ab juv enillbus an  jnisa d hofce jam e3 cXaCLz etatistertnibos, ita tneddicam ! lianc f2ctitavilfem artemsut fimul alias lio  fiiine libero dienasartesaff  BieXpoitulavete mecum amici  fiotüni Iiéteratüm e2enere pius alic quantó Viderer  Mponete labo tis;ac itudii, quim 1n hac ipfa faculIlKite; dade nominis,ac virz z leaüdor nobis peti  qxur uai verfus. Q iipp ) €; 1] *baut,moftros in Hippo Ja  ^ Cratem, et in cione P MA ccn Corbin   C.  (cr  v  "m  - et colertem  homines, quód in    t3»    tATlIos.        tários,itemque de Ne vorum varietate Commer  tarium » quaimyis ad ipfos Medicina fontes haudij'"  dubié pertinerent ; non tamen attingere confueesj o"  tudjnem,& ufum artis,& equum etfe; ut quadra:4i^  ginta annorum,quotfermé contrivimus in how  medico negotio, fructus aliquis ad publicam utiifi"  litatem exí(taret. luíta omnino,« piena fenfu  .humaniffimi vifa eft querela,fecimá ufq; libenté: ind  uraninium,& cogitationem à noftri: oble Games  tisad commune beneficium avocaretmus. V erümpiuz  enimveró cum attenta meditatione mecum ipfi  confiderafem, ecquis in tanta librorum varietatufil  vacuus locusinduftriz mea celictus foret, 1ta regu  periebam, otània, quecumque vel (cientiaé petu  veítigatione, vcl differendi tubtilitare trademdigji    effent, exp icaffe inagnos viros, quorum nec virgi    [1 gere, necequaregioriam poffem: ltznova cutdibis  folicitabatanimum meum; et haud fané medicis  criterangebar. Nam neque placebat actum agegpiir  do tempus conterere,neque certandocum eXceepiü  lentibus ingeniis mereri reprehenfionem ; et capi  villos;& recté monentibus ; atque cohortantib»]  atoicis animuserat fatisfacere. In bac fluctuanij  apim1 folicitüdine di multumque volutátussari  madverti tandem »locis'aliis omnibusoccupat:)  eum vacare,qui veluti moresartis» et quotidilj  nam diíciplinam contineret. Nam etfi partez  hancipfam attigere permu'tl» veriüs tamen at  gere, quà ad plenum funt exíecut; : Et plerum  que ità variantopinionibus » atque fenrentilss    haud fermé vera ratio poffit extricari .Quamed  geni    [i    sh ilperfa, vel contraria concilíando;vel omnia com  tem vel ínchoata perficiendo ; vel colligendo di»    wiMPlectendo via quadam, et ratione; videbar aliiu] id conferre poffe viciffim arti, que nobis et vi  ujee die nitatem,& commoda rei familiaris, et gra  iliam ;& amicos, et vitam denique ipfam confett,    drelut zmula Fortunz, certé diving opis ad mint  wlkra . Cæterüm fcianr, quorum in manus hzc no  ilEra cura pervenerit, fummam e(Te voti,ut vergzen: 2    ihe jam ztate; patri& profimus extremo conattis    iatera concupi(cere ; vel fequi defitum mihi effe. «sciant item, quamvis certifima hzc fit; et (impli«hiffima experimentorum difciplina ; quam táàm  AMiu tractando calamitates humani corporis,int  ldpfo pta (ertim Valetudinario Mediolanenfi,thea  ro morborum omnium; haufimus, haud tamen    dupuenaciter nos defendere quidquam, et affirma  idre.Sententiam mcam expono; inde fædum nce»    dpcusfædum exitu quod vitet, fumat juventus,que  alprodit nunc primüm ad publice valetudinis cu  jram. Primus Liber zfeimad'verftomes et: Cautiones continet, qua ad Medi  cum pertinet quatenus AMedicusi  e$t ; et proamait loco effe poterit .   Secundus, eas,quain reda vidus)  vone,poti[simuin acutisocctmrat:)   Tertiuseas, qua ad pbarmaceutt-)  cum negotium pertinent. UATtHs, £45, quatn fanguints mif  s: 7ene ob'ventunt, n   Quintus;easquain curandis febr'vh  bus obf erwari delent .   Sextus 2245s verfatur.qua ad mor9  bos partic nlares Acapite ad meti.  bra naturalia pertinent .   Se eptimus eA$ conmpre! hendit, qui  ka reliquis morbis ob[e META Y i"    REA T  e y9 TITLE  Bnimaduerfionum, et Cautionum Me.  dicarum, Continens eas,    Que ad Medicum pertinent, quatenus Medicus  ejV : quz proeezz loco e [Je poterit - EDICVYVS pietatis, et relioionis .,M*4/*   TÉ e. TAN c pietatis cul   "4 maxume fit cultor, arque ad ean- «n   4721/4. dem x2ros ccnetur revocare.   É 2. Habitu corporis in omnibtis. 5, ;,, rp,   fanitatem praíeferat,, quantunx prafeferat   peculiaris ejus natura concefferit : putant enim.   plerique horminum,;fiqui minüs feliciter cc rp us   difpofitum habeant; eos neque aliis confülere   poffe. Flipp. Zb. de Ædico. namajunt : Cauet   primum fesct tunc me illi daba. RÆ IR  3« Caveant igitur Medici, ne fe valetudina- ],;,,];:..   tios prædicent ;, et fi quando periodicis morbis. tentantur, cur illos eyirare nequeant» often»  dant ; quomodo autein fácilé illos evincant ;  etiam doceant.  . Sit ftudiofus externz mundideismanibus  Stadiofus ^ x : . Veg PE  ?/^* sotiffimüm, unguibus » capillis, et barba. Ex  sonnditiet ) qum  Hipp. //b. de AMedico:    oie Caveat tamen exceffum, ne in ttnolli-, / ; nsa  datine,, ticmncadat,neve excrementorum alvi, lotii, et    excretorum "per- tüffim. confpectum averfar1  credatur . nin  ; 6. Veftitu utatur decoro . Hipp. l;b. de 7M eVeilitade-. 1; 9. Caveat, ne in fufpicionem ampullofi artifi£0Yf45 e A. pow ccn   cis cadat,& Sophiftz, quem depingit fuis coic ribus Hippocrates Jb. de deceztzornatu, bis ver bis : Jem conventu faétosambitiosa  queffuosa   fna profeffione decipientessia urbium circulis ver-   fantur .- Quos ex vefhitu (&* catevis ornamentas   quis cognofceye poterit « Quin etiam, quà [umptuofiusornari fuerit, eo majore odio ave r[andi, ab  RSS o oc eisquieos circum [pexerint, fusiendi. Ex u[n au-  iu tem fuerit, contrarium in bis fpettare ; quibus 102  zne[t exquifttus, neque curiofus ornatus» ui [eje c   cultus venuftate e frugalitate, non tam ad fuperflum curiofitatems quam ad optimam ex fliimationem » prudentiam ; C animizaoderationem compavarunt . Càm enimilli dodtrinà fibi au&torita-  rem comparare nequeant, fplendore au n,veftium cultu medico ; ac fervorum grege, eam  A comparare ftudent ; quos ridens Anftophanes  p ram *- ip INebul. joco vocat cOpatyldoyv e pyo Xo TES.  ar adimi ' quód digitos ad ungues ufque annulis erpent.    y? Odoratis utatur; cavcat tamen, ne morbi r, o45,;7.  inde concitentur : fepe enim mofchui, et fimi- qualis.  lia. redolentes, hyftc 'TIcas mulieres enecant .  Sintigitur temperata omnia .   9. Qualis effe debeat Medicus in omnibus y,,4;77; i   ftans, non aliis verbis, quim Hippocratis, o5 ibus  defcribendus videtur, Jib. de deceztz orgatu . ti pra]is  reliquo vitz cultu muni mé fint diffluentes, auf quati ac  fuperfiu1 ; id eft . honefti in omnibus;f ftudentes,   dicto, nec facto fuas actiones u]trà quàm decet  jactantes,; fed cum candore,veritate,& inteeri-  tate, fepofità omni fimulatione, finceré omnia  reprefentantes; 1n hominum concurfibus oraves; ad refp da dum, et docendum faciles,&  appofiti ; ad  altercantes graves, et pro  veritate conftantes ; in fimilium amicitiis con-  trahendis s prof b 1C jentes ; cum omnibus huma-  n1, familiares, et affabiles ; in feditiofis contentionibus taciturni, eofque audiant patientet, et us  in refpondendo, fi effucere non poffint, mode- A  fti et quafi cogitabundi prudenter refpódeant;  errores aliorum ita corricant,ut non reprehen--  fionem, fed veritatem ob oculo sfib1 pra fixiff e  oftendant. In occafione prudenter capta indà,  et coenofcendàoculati. In victu fru cales, e  paucis contenti; liberales fint, non fordidi ; aut  petaces .. Patientes fint in occafione exfpectan-  dà, neque finantfe, aut deri, aut.affiftentium  precibus; aut importunis verbis vinci, ant'ad  e entum ante tempt Tene    ores cibos ; vinümque concedendum .. Non    à c  / (4 m de  À a fint    i2 Qs      fint taciturni, neque loquaces ; f-d in eàzemo-  derationem fervenr ;; promptitudinem tamen;  datà occafione, ad ratiocinandum oftendant ; |  nihil fine demcnftratione proferentes;non bàr- ^  baré,aut populariter?oquantur, fed cum affi- M  ftentibus; et zero eleganter; et pure, cum Me--  dicis Lariné . R ectefaaàt perfüadere ; nam Pfa AA ve m9 Qo pde Legibus,vodr, ut primum doceat, et ,    Æ - perfuadeat Medicus quid fitxgrofaciendum,  | i  4cnon priüs imperer, ita promptiüs parebit..i  Quare dicebat Ariftoteles: Parebo lubens; fi vera58  bacsqua dacts « effe.demion[lraveris. Xlonores per.  fe contemnant, ambitione ca£entes ; fed ob vir-  tutem cujus comeseft edoria ;. pro1pfo.etiam    et vtabtm - honore certenz, virtutem tamen certà ratione    "Non :nani  gloria n 77.  fmi amore  gentetur . ftabilitam Hibenier admittant ;ine opinionis fuæ  nimiim ftudiofi videantur. Caveantmaximó, ne inani elorià, aut ni-  mio fui amore rententur 5 1llà enim ; quod ne-  fciuntdifcere prz pudore renuunt;neinfcitiam  cum rübore-prodant per ;dium vero có pervce-  niffe fe rerfuadent fibi, quó perzendum erat.  10. 'Ne fe alicujusfectz, tamquam 1nanci MIT À ; "i E  ^ pu fi pium, addicant; necjurent inalicujus auctoris  feta. fententiam, fed nudam rnaim fectenrur wer p «i    Suvalis £z  &walis £n  e» rreffibas.    tatem, ilíquefchi fübfcribant .  11. "Medicorum cóngszeffus, et confultatio- : nes libenter admittant; iltud cbfervantes s ut in|  jis fuperflua omnia devatent, nibil ad pompam i|  proponant:contradicendi ftudio non ducantuz;  fed ciun f. ]um fibi finem prafigant;ut mc rbumy  £vin-  f.    evincant, ac priftinam reftituant fanitatem. Congretfus hi, et plurium Medicorum  confültationes feclufis arbitris fiant, neque affi-  nes, et dometfticradmittantur: liberis enim fic  proferuntur fentent&e, atq; facta à primo Medico » fi quando correcte ne indieent, corriot  liberé potfünt, fine rtot$ ienorantiz; qu v fi fir-  mis rationibus erunt firmata, facilc à Medico  admittentur; quz fi palàm, et domefticis au-  dientibus proponantur ; ab eodem mordicus  defendentur, etiam fi falfum defendere fe cos  gnoverit, ne fi mors fubfequatur,iMlTius caufa in  eunr referatur. Vnde perpetva diffidia inter  Medicosoriuntur, quod antiqui Patres noftri  ir hac noftri urbe, et noftro €cleeio obfervans  tes, lege caverunt, ne confültationes medic  pu ibIice haberentur ; unde etiam tanta conccr-  diainter Medicos magna Rujus urbis fempet  perfeveravit, ut in£er tam mu[tos vix unum re«  perias, qui altum ad medicas conífültatiores.  non admittat   13« SyInam medicamentorum: praffantiffiTorum ad morborum eenus quodcumq; prom  ptamad manus habeant ; ne ina2rverte morbo;  ac inducias non faciente, veluti in fàlo harere  videantur.   14. Vtfelectiora quedam, et experta, fi-  piifque ex perientià confirmata habere eos có«  venit ; 1ta 1l[a in arcanis ita habere non decet,  ut etiama iliis communia ncn faciant.   1j.Sit re ; et opere Medicus, non famá, avt   A 3 noml- $    Confalta-o  Loz 65 fang   feciufis are  bitris »    Sy'uam mo  4.€^826€5nf10e  rumed ma  2/M5 habeot    Secrefa Tr dia noz    ) b sbeat, fedi    CQÓaAunittf.    Qu enis de    et     exciledus- nomine tantüm.; quod ut affequatur,his omníbus przditum effeoportet;de quibus Hipp. /b.   Y: de Lege. Nam excoli optime debent hominum   ingenia, fi ad perfectionem in hac. facultate   ;ervenire debeant. Qualis enim in terris nafceuum eft culturastalis euam Medicine cognitio.   Indigemus igitur IVatura » Dotlrina s Moribus  genero[is, Loco ad di[cendum accommodata, In[ltutione Apuero, Induflria s et Tempore. Natura   no[ftva veluti ager efl doemata vero docentium veluti femina funt . Infliturio à puero refpondet opportuno tempori » quo [emina terra committi debent »   Locus flIudiis aptus eft veluti ambiens æv, à quo €   terrana[centibus nutvimentum accedit . Induflvia,   € flndium cultura e[t . "Tempus tandem bac omma  eonfirmat, ut perfecte nutriantur . Exercitationem medicam fub docto ; et   ds perito viro facere non dedignetur, neque erud ha d befcat difficilia queque perfcrutari, atque de   icd "^  obfcuris interrogare : fic peraliquod temporis   intervallum in magnis urbibus fefe exerceat ;   exa codea. non ftatim in vilibus oppidis, ftipendio conftiA iwel. Lf. tuto, quod plerique faciunt ; ad medicinam fa-  E T ciendam fefe accingat. Modeftià. quàdam accinctus zerotan-  pus ingre titm. domos ingrediatur; quilibet enim horà  distar.  Virgines, matronz, occurrunt, ut continentiam   ómnibus in rebus et habere, et reprzíentare  teneatur.  Cg gl. 18. Cumimpernts,& mulierculis de mor-  culis, chi» bor:m caufis, aut prefidiis adhibendis non2  agat;    E xerceat fe    / 253  Mod» Íe ao    Avw, GCL C [LE €  Bat ; fed neceffaria folüm proponat : folent peritis de;  énim imperiti Medici, ut gratiam apud multos rebus. snee    aucupentut ;, hoc medio mulieres et imp 'Cr1tos  feducere; quafi illas multi facientes, ut fi quan-  do morbis tententur ; eos ad curationem accer-  fà nt.   19. Gratisaliquando medendum tum pau-  peribus, tum veris amicis;ne aut fordidi animi,  aut minus grati notam fübire coeantur .   o. Neque tamen velim Medicos mercedem  aut datam no recipere, aut oblatam quafi aver-  fari, aut exhibitam quafi cum rubore, aut velu-  t furtim excipere : fi enim prompté mercedem  recipere viderit ; fibieger perfuadebit, Medi-  cüm illius curationem libenter fufcepturum.,  neque quippiam eorum omiífurum, quz pro   anitate introducendà fuerint peragenda. Mer-  cede autem non receptà,aut dubitabit, inre ani-  mo curationem non füfcepiffe,aut certé dignum  illum eà non fe cognofcere ; unde contemptus ;  et exiftimationis non levis jdn ra. Sunt enim,  qui hac raüone multorum curationes aucupen tur, quibus cum cxpeélationi pramium ncn.  oftmodüm correfpondeat aut moleftiam, et  I f],,    onus illud fine fructu fuftinere coguntur ; aut  muffitantes, et in angiportu deinerati animi  vitio conquerentes, quafi ridiculi, amiffis la-  boribus, et laborum pramiis, deferuntur, aut  euam exploduntur, alis in illorum locum.  poets   . Impium eft ; magno morbo urcente  A    ; de  A nie    ditis non  [ferat »    Gratis ali  quando Cii.  rand 26 ^    Mercedem.  Bromptée ac.  CibiAo    De mirede non pa- mercede pacifci:ut enim in nobih hacarte feres  eifcatur.  per hocindignuin videtüt, ita urgente tDorbos  impium : occafio enim mederidi fepeavolat ;  dumdemercede z$er dehberat : hujus enim  opportunitatis momenta redire nequeunt, et  cà elapsà, inclinatio fitad mortem, autad de  terius .   43. Atneetiam, fi quem ingratum futurum  Ingeetos 1 arbitretur;in periculis deferat; fatis enim fern-  seceffitati- per fait, ingratos etiam fututos humanitate.»  us non de (crvare ; quàm inhumaniter obingratitudinis  ferat inetum deferere: et nielius multó eft; à morbo   evalefcentibus exptobrare, quàm calamitose  affe&tos deferere . Hipp. zz Praceptionbus.  M Neimmoderaté, aut immodetfté nimià  Non fit i4. cy, ya tantià ninrim polliceatur : nimia enim  ét bund'h. tc cnrationem pollicitatio;exculationem poft  e» nm! cutam requirit. :  pollicitator. N A dis idein  z4. Nec rationein curandis morbis folüm;  Docheina, sitatar; nec ufu, aut nüdà experienuà : claudi-  C "[4p9l- cat enim Medicus alterutro horum crure defti-  sini tutus, Ratioigitur ab experienuà incipiat ; et  in eam etiam definat : Experientia autem du-  cem habeat rationem, et 1n eam dentque termi-  hetur 5 utra enim per fe indigzens;altera alterius  auxilio'ecet.  2$. Non inhumaná feverirate ubíq; utatur s    Nox fii fe. led fecundum conditionem hominum fe guber- .    veru;  net; nonnumquam eratis curet, vel ob eratitu-  dinis memoriam, vel pre(entem exiftimatione,    né avaridü » notam incurrat ; Quod fi occafig    exclexercende liberalitatis fefe obtulerit, vel pere-  erino, vel eeeno omnino füccurrat: Si enim ad-  fuerit benignitas, aderitetiam artificio cóm pa-  ratus artiamor. Adeó ut quidam eeri, etiam fi  fentiant morbum fuum calamitofum éffe, ta-  men propter Medici benignitatem, fibi perfua-  deant, fe ad fanitatemredire poffe. Hipp.sz  Preceprtozibus . Prolaborantiumvariá naturá, et condi-  tione, in congrefTibus, et fermonibus conferen-  disorationeminftituat ; et materiam fibi deli-  gat : alio enim modo cum viro philofopho eft  differendum,& aliocumaulico;diverfa eft ratio   alloquendi puellam vireinem, et matro-   nam gravem : cum bibacealiquid de  vino loquetur, de frieide, et  limpidz aqua deliciis cum  abftemio ;. et fic  in fineulis.,    In fermori  bus varius  pro agreráá  VATRCÍATE o  PEDI b  MEDIOLANENSIS,  Animaduerfionum, et Cautionum Me-  -. dicarum,  Continens eas,    Quein vetlavitlus ratione » potiffggum. 1n acutis  occurrunt.    Vstlus 1n  acatis te-  20H55 CHI»    c Vamvis acuta febre. laboranti-  E busvictus tenuis conveniat, pro  Xarietgte acutiel immutandus,  ; E] Gut materie coricoquenda na-   ; turamæis poffit vacare, atque   morbo et fymptomatibus conflictata, cibo  etiam et craffiori, et plurioppreffa, non fuc-  cumbat. Virtute tamen debili per fe1pfam exi-  ftente, et ncn vimorbi, aut forma vià üs per  unum graduri aut faltem quantitas erit augé-  da.Si veró vi morbi debilis reddatur, ut aliquo    Vidus'vtr-  ule o fe  dei b; d^ 4i--  ge duse:  foi Y723* ; ff vt    bow folà modo quantiras.augeri poteft; Itánumquai  quátitate . forma viclás crit immutanda. In virium imbecillitate, alia fit ratio vi1-  éüsin qua intitate, fi 1 per refolutionem fiat et  alia.fi 1 per acefava tic nem : in hacenr np árüm,  et raró;inillà parüm,& fepé cibus offeredus eft.  ji V ictüs forma, et quantitas, licecab Hip-  pocrate et Medicis prafcribatur definita; pro  conditione morbi mpg cautio tamen ma-  xima adh iben da eft, pectu naturalis tempe-  ramenti, cüm alios « di inedi. im minüsidoneos  M idea imus, alios Jejunio ne tantillum quidem  debilitart: : Quareaugendam 1n illis quantita-  em dicimus; quin et formzx eradumaliquando  immu tandum, ut in calidis, et calidis et ficcis  obfervamus;, in quibus nifiid fiat, et acuüntur  ce bres, adgratirti humores, et exliau-    untur fpiritus ; unde in animi deliquia,fynconi et maraífmum denique terminantur cori.  4. Cautio etiam adhibenda eftin victu infii-   ti iendo, qualis fit corporis habitudo, an mollis,   laxa;poris pervia; an folidior, torcfa;& durior:    - :  I 'U:rYidufo    YAYO » [4 per  aggrauatie  (EP; J/! be tal  rcf p»? (0x e  p? TY HZ, C  45€ € 6 Z4 7713  Viéiusiun-  JTHARAMS  rattome 16é-  peramone  tora    it  i  E    Vicdlus ime  mutandus    rattonc ba-   in i]l|à enim quantitas erit cibiaugenda, inhac £was co;-  potius minu crida L poris.   $. Habenda etiam maximé eft ratio ventri- V/«s imculi : $1 enim veegetus fit calore, et multo fenfu  przditus;aliquanto plus HH: erit concedendum:  fiad coctionem iners; et calore deftitutus ; füb-  uahendum de qi lantitate erit.   6. Viris, quàm mulieribus;iracundis, et ro-  buftis, quàm poni animi ho muncionibus;pl Us  femper eft concedendum.   7. In&tatbus ; ut pueris; et adolefcentibus  plura    mut TT  Yattone diftofitionis    ventrictlt e    PS do  ( ;bi. quan    IHto$ 2114  da vefteéin  f Xs .    M Ó /  Puæris Co    gm tesa e RE        :£z. adolefcensi plura funt concedenda,tum ob difflaüonem ni] gri  &us pluse - miam;Scob caloris robur, et ob teneram, mol-'1:::  bicateden- lémque fübffantiz compagem, tum quód per-.] i  dum quà cnni quodamcorporis motu agitati, facile ex-- eii  fenibus-. hauriuntut:ita fenibus liberius etiam jejunium) i52  poteft imperari. Cave tamer, ne inter fenes de- (ou:    Decrepitis : áo abs e pe" i Ai :  parum, c. CEepltos collocaveris ; hrenim;cum virium ime jr    fp. becillitate tententur; ac fpirituum paucitate;utr| ui  pauco: cibo fünt reficiendi, ne paucus calor ài yiii  multo füffocetur ; ita fepé cibandi, ne coníu--| iii  mantur.r. Z4pbor.14-  griff ra. |. 9« Inquantitateveró, qualitate; numero ex-4 oi  tiopyo va- hibitiorum,ac forma victüs, et confuüetudini 5 1  vietate con et regioni multum tribuendum cenfebat Dicta-4 (««  fuetudinis, tor nofter 1.4pbor. 17.quia quorum ventriculuss| cj  €» regionis (emel, aut bis humefcere intumefcere, et con-J c;  eit mutan- coquere con(üevit, fr defraudetur ; muratà con-4  ;j;  di. füetudine,temperamentum;habitum;, et actio-4  nem immutat . Et fi mufta et ingerere, et con-4 i.  coquere folito aut potionem fimplicem;aut for-4 ».;  bitiunculam exhibeas, in marcorentcitó indu-4  Ces, ac vires vitales quàm primüm deftrues .  9. Cavendum etiam in quantitate cibr prz-4.  fcribendà in febribus, nefemper, et omnibus$),.,  gonceden-- » jade d n "T. Dun  4i;, fed r4. ARI temporibus eandem definiamus,cum hye-4;.  vius; 4ifta 86)& vere, quód ventres tunc naturali calore.  fe minus, làaximé abundent, vnica exhibitione plus fii!  ftd fapius . exhibend um :' hoc enim eff; quod docebatur alli s.  Hippocrate, 1. Zfphbor. 15. Æftateautem, S,  autumno, cüm calor langueat, minor quantita:4?  fingulis vicibus erit concedenda ; fed fzepius re«4?  p   Hyeme pi?    TA    Mur 3 petenda, ut calor, qui.diffolvitur, poffit inftau-   rari : quódnfinuavit 1. Z4phbor. 18.    IO. Cautio tamenfit, ut zftate, fi partitas    "A cfilate    exhibitiones, et quantitatem totam, autnius 44modo  dici ;aut integri quatridui metirus eris major PI eonce-  fit quantitas, minar atizem hyeme: nam hyeme 4*24»m i»  minor adeftneceffitas quód tunc minüs refo]- ^^'**    partitis vicibus conceffo,& imbecillirati caloris  fatisfaciemus, minus fineulà vice exhibentes ;  et miim refotutioni, fzepiirs Gibiuexhibentes:  quod Galenus infinuavit 1.4e rat. wit az acut.  44. ubrenumerans, quzad:cibi in zeris fiibera-  €tonem faciunt,unumid.effe inter aliascribit,  quód hycme quis laboret;minus.enim tunccibi  erit offerendum : recenfens autem quz ad cibi  adjectionem faciunt, unum effe dixit, fi atate  laboret, quod Avic. 1.4.7 a£. 2.cap.8. de ciba-  tione febricitantium in generali æens confir-  mavit.   11. Obfervandum autem, predicta non per-  petuam habereveritatem, neque ratione cor-  porum, neque ratione temporum anni :    vatur corpus; etate autem coplofiori cibo, fed men "M^    * V7T^ ^V dt $ d    o  Hyeme  uandomi    aliqua. 54; puryig    enim dantur corpora, quorum natuiraliscalor dug.    adeo eft imbecillis;ut à frieiditate hyemis faci-  lé cvincatur, calore veró zftatis quafi fcveatur:  alia etiam, five occultà quàdam, et nobis inco-  gnità proprietate, in aliquibus dictorum tem-  porum annt; in robcre virium, aut imbecillita-  te; proportione non refpondent difpofitionibus  £X ann] temporibus profluentibus; aliquos  enim    í    rci n  Victus: for-  a 12 4€H    is variarda pro vavietate  véeft, nc  tinuà.;   vftate robuftiores reddi » quàm  Ca lioe fortlotes autumno, quàm vere.  In his is ratione victüs inftituendà  refpectu quantitatis, 1d; quod proximé dictum  n erit fervan düm; tum in quantitate con-  tà. Echyeme pauciora, fed  fiepiüs ;eftate plura;fed rariàs erunt conceden-  «la ; et anni tempora, fi fi naturalem non fervave-  rint naturam, victum inftituendum oftendent  cujus naturam induerüt.    enim Récid    hvet Inc    pro ratione tem poris;    tum in difcre     potiffimu m    12. Forma etiam vids pro-regionum va  rietate, et locorum confuetu dine; aliquo modo  eftimmutanda, et quidem càdem ferv atà propor done per oradus  rati inetempol 1    le laud andi IS. ÁÀ ver. 7    s,utip quantitate variandà  um obfervan dum dixin  « Colieét.cap. 10. cim    .Vnin fuà.regiope. ;nemp ein Hifpaniz parte cali-  dior, |, tenuilmam ditam effe aut cremoremip    hord a€1 l« s àl    aut: dux mmum melice 3 X  és fórma folà im]    it angu autincifu m; aut friatum ex:  ; cüniantiquis, et Galeno potiffi-   omnimoda quatriduana ine dia  ; fictamen, ut vi--Jiz  : eradum unum i1mmute--Jffi  rautem ied fiat non à eradu ad era    1  dum, fed à.tenüi ad medium; &.aliavando    eti ip» ut pid aim n pof 280.48 ad E lenuü In, Qua fi Pea cpLEIdJJMDUS  Dac VICI    jo^te Péceaph,quod in mu duis I    Hp    Hi " * Y e  k AJpTpX CI ILE R4    iliz nobilif-, et Gallos  eEa dà veró  s ium; etiam  legendus eft pul]-J    Ccher    x  ha eatur ratio, WEINE Copfi     chetrimusejus liber-De zere.. aquis, G' locis, qui    luftratus.   13. Ex vite inflituto, ex arte etiam, quam.  exercent, defumenda erit à Medic et formas  quandoque victüs; et quantitas,càque utraque   mutanda, prout magis, minüfve et laborib folidiores partes colliquantur, et huimcres, fj  finifve exhauriuntur.   r4« In quantitate ettam fu [us benda À ante-  actz vitz rationem habere ;nonTj 'arvi Y0noJr.enpt    ti eft : fi enim laute altus fit, fi plura ingeffefit) anres    :: btrahenda erit quantitas : fi veró jejenaverit,   et pauca,c: aquec nCO ctu facillima afivimg pfit  pr aliquod temporis intervallum quantitas érit  augenda, aut forma erad us.   1 $. Cuin à morbi lc ineitudipe, aut brevitate  diftantiaque flatus nx rb limaxime ác IDattr a  EN rma victis, et alic uie parte qu ántitas,tüt   miris 1 d quam cinis victus rátio ; CUN TRC  fultum Medias, et   Paris cenfemus, quod àb Avac. conftitutum eft:  Cum jenoras egritudm di » fubtilia recen. id  enim in morbisà materi pendcnüibus cmnino  intelligendum eft: Bie eniti) lo tempcris in-  tervallo materia ncn auccturinec virtus-diflra-  hiturà proprio furgendo murere agendi in.  materiam: interim enim fuis fc fio eple miciBus,  et materia faciens morbum. facilét ficnect.   16. Vtveriffimum eft Medicórüillvd pra-  Céptum ; et commune tani ditturpis mcrbis .     Bo95d-  |! eiiam luculentis Comm entariJs à nobis eft il- dab. vs    y   9, €L    ; is,9ui $e ali-,  utm  banda e    $  p Aser - EX!    SÉ,    !    e ien    Acuttstn  fóribus te  nutus ciba  dum quá 1  elus acutis    Tenutfs. vi  dla medz  sn flatu se  frg. Abb.  8S. veriffi--  9 de ffa1u benes  f»mptoma-  ?4. quàm acutis ; JI flatuytenuiori vicluutendum e[- .| v.    e, quam in principio; quoniam tamen fx penume-   ro evenit;ob ingluviem in aliquibus civitatibus;  ventriculos primis ftatim diebus, qui principio ||    debétur, crudis humoribus effe refertos,in lifde:  etiam tenuiori victu, quàm per principium li--| ;...    ceret, uti, et aliquando etiàm tenuiori, quàm ini|  ftatu, cüm et inedia aliquando omnimoda con--|  veniat, oportere cenfendum eft. Celfus /rb. 2..|  cap. 16.dicebat: Jzgiria morborum primum [amem.»,|  fitimque de[iderant .   17. Laudanda illorum eft. diftinctio, inte-1 :  nui,aut craffo victu inftituédo 1n acutis, et d1u-!  turnis morbis ; quód in febribus acutis tenuior)  efTc debet, datà càdem brevitate, quàm in aliiss]  acutis morbis ; quodin illis magis coctioni 1a-4  cumbendum fit; quàm virtuti;ac majora fubfinttj  fymptomata : in diuturnis autem. febribus mi-j  fius tenuiter alenduni eft ; quàm in aliis diutur--j  nis morbis, quodin illismajor;quàm in his fiatt  virium exfolutio, et proptereà etiam magis im  febribus virtuti eft profpjciendum..    m    13. Cüm Hippocraus aphoriftice fententia]?    quàm máximé univerfales etfe foleant; ea itidé;J  que lib.r. propofita eft numero 8. quà afferitur:j    Cum morbus in [uo vicore con[Iteyit., teutlfimon ^    vitlu utendum e[l. ut univerfalis fityomnibüfqued,    morbis conveniat;de ftatu intelligenda erit,quiil| "    ex magnitudine fvmpromatü fumitur : fic enim)  tam vera erit.1n morbis non fervantibus mate--«!  riamad unam criucam expulfionem, quàm in,  ícr-  L4  fervantibus, fecüs quàm communiter Medici  crediderint ; qui Aphorifmum illum folüm ve-  tum effe ce .nfüer int in morbis fervantibus ma-  teriamad unam criticam expulfionem, de ftatu. ^  arbitrantes Hippocratem loqui, quià coctione céisndnit P  fu mitur : in quc D bfervàrunt, Hippocratem Et.  de vitiu acuit. 22. 1n morbo non fervante mate-  riam ad unam criticam expulfi ionem,ut in plev-  ride, 1n ftatu sn ies coctionem plenius nu-  ciendum ftatuiffe. Quod fi ftatum penes ma-  anitudinem fymp tomatum eti umin iis morbis  fumamus, utin plevritide, etiam tenuiffimo  v1 tu utitur eogezs lib.tex.a21. Cümos amarefcit,  et ficcus morbus eft, tenuius ericalendum; tunc  enim,.etiamfi fit principium, aut augmentum.  penes coctionem,in flatu tamen penes fympto-  mata confütutus efti morbus. Quamvis veriffima Hippocra tis fenten-   A    bu "x Tenuisi-  tia I. Zfp5or. 7. tenuiffimá. dira. utendum effe,    1530 "viélta ]t    ubi morbus per purse cít,ó TU EE soul  bores; cxim end tamen ab his omnino erunt donsdas 458  fcbres peftilentes, in qi ET quamvis fummo raris, pe-  fint fymptomata, et ciaflime ad ftatum perve- gilestes ta    niatur, quód vires in cis flatim quafi collaba- se» feres  Ícunt, lautiüs et uberiüs eft nutriendum, ipfo fut excie-  etiam v190ris tempore ; ut abundé demon(ftra- 2:c74«.  vimus in noftro] ibro 4e Peffe. t4   20. Ad formam victüsinfüituendam, puta, "(257  an Ver coena tenul,anmediocri,anomni- "^    'TST da li nedi ?1 ;al (o k )po yu all fo rbition! bi IS,an c    64  £ercu lis, pU La ; UC Xtà pt lan à, pane coricifo, aut  LA COR - Ü * den     ^.  4634€44, C"    po  4 770A" contritoex jure;quamvis virtus primum locum  fibi vendicet; Galeno refte, 9. AMeth.smed.cap.11«  (P 13. 1. de.vat. vitl. 1n cut. 44. quod cüm.  morbus fui ablationem folum indicet,virtus verofui cuftodiam ; hac potiífimüm victüs formam oftendet, morbi ramen difpofitio etiam ad  hoc concurrit: nam ZApbor.7.dicebat,//b: smorbus    peracutus eft, C fLatim extremos habet labores,extreme tem[[imo vitlu utendum e|! . pex labores,  acceffiones ; et fymptomata intelligens, que  morbi difpofitionem conftituunt, ut et colligi  poteft ex 24phor. feq. C" 1. acut. 42. 43« 44- (2.    esic- dut, 36. ubi ad formam victüsinveftigandam.»,    bud qu^ xewndicit neceffariam effe cognitionem et roboris  E    virium,& difpofitionis morbi; et 3. acut. 61. Et  jure quidem merito: quis enimncefciat, ex lon-  cis, gravibüfque acceffionibus, gra ibüfque  íymptomatis formam victüs tenuiorem indica-  ti, nenatura tuncin refiftendo caufz morbificze,  et (ymptomatibus detenta, ad concoquendum  cibum diftrahatur ? Verüm nec virtus fola fufti-  cit, neque illi conjuncta morbi difpofitio, nifi  iis diftantie ftatüs pracognidonem adjunga-  mus; nam,etfi ex conftitutione morbi, et viadü  robore folam potionem in prfenti convenien-  tem effe cognoverimus;perfedlé ramen hocífci-  renon licebit, citra ftatüs przecognitionem, an  ciboillo in pofterum fufficere valeat ; Citra vir-  rutisincommodum .: Obid Hippocrates, poft-  quàm morborum difpofitionem recenfuiffet,. fi  fubintnlit : Coz];cere atttem oportet » &gvotamtem,    fi feficiet,    ANIM A4DFERS. LIB. II. i9    fi [fficiat, cum vitlu perdurare, doge snorbus con-  f ftat . Fi tcb 1d. Hippocrates in cc onfidcratione  virtutis, ftotüsn.eminit. A morbi igitur difpO« sev» "Ad  fincne victüs fcrmam ei iemus ; deindea Oro- ew.  tantis virtutem infpiciemus ; deinde ftatüs di»  antiam conjlciemus ; demümzaftimabimus;  an eo victu, qvem mcrbi conftitutio indicat;  virtus zgrctantis ad ftatum, citramagnum vi  rium incommodt :, durare queat; in quá fen-  rentiam veniffc G: ehum videmus r. "hor. 12.  21. Cümin vi& üsinflitutioneillud maximé  fita pud et antique esp atrcs noftros, et recentio-  tes contr: verfum, cum d ces admodum ne- presaléte S  ectio et fermo vic iis ; et qvantitas determina- dicatióne  ta prafcribi r« f: t; ad quam partem przftet de- 555,    Errores 45  tenunatiu,    clinare, vt minüs Izxdamus, an ad: iumpliorem, fas. ders.  in ad tenuicrem ; cb locos Hippocratis co ntfO- riores, f im  Verícs, 1. 7 por. C07 2.derar.vict4z acut. acfecia.  al:0s .1n €à cif cultate has adhibeat cau e nes  Medicvs, Cümà virtute primó illa dicatur infütvi, et per fe, ; peradjectionem ; fecunda fio,   ! peraccidens à morbo, per fü btrad 1onem.,   fi Medico 1n victüs ratione inftituendà, tum i  fcrmá,tum in quantitate, viribus non ma  validis, nec morbo multin n co intrà Indicante,  contineataliqvantifpera recta victüsratione»  defiectere Paucis Ito eft, pauló pleni r vt)  victu, et ad latus ( ut ajunt) plenioris accedete,  quàm ad t:nvicrem, prevalente indicaticne s  virtitis . quàm rc A lav ctiam exemp lo cc nfir-  iEaVIt Gal.1.4cnt.a2 .Quc madmodum écontfà, Preoalegte  Bv a consoc LED. SEPT.4ALII M EDIOL.    anorbe funt contraindicatione morbi fübtrahendi przva-   deteriores lente, et viribus validis, ceteris enam morbum   fei exctffd- adjuvantibus, preftabitomnino ad tenuioremi  deflectere, acfi quando errando à recto illotra-  mire recedat, minüs peccabit, fiad latus tenuio  risaccedet; fic enim ratio dictat, prevalente;có  quód fübtrahendum effe indicat;morbo, quod  ibidem Galenus affirmavit.   Ires ino 22. Obfervandumautem fi pat fit indicatio   forma vi-- à virtute, « contraindicatioà morbo, in victüs   dius pari i- formà inftituendà equale omnino effe pecca1 5c  545a    gutant, qua fortiora [untynocerent s qua debiltora,  prode[Jent.facilis [ant ves erat : Multum emm de  fecuro detrahere oportebat, ut ad d ebiliffimum de-  duceretur . INunc autem uon minus delutum, nec  oninus ladit hominem; ft pauciora, defectuaftora,  euàm [atis eft, affumantur : fames emm magnam  potentiam in naturam bhomims babet Ci famandisce  dlbilitaudi, € occidendi : multaautema etiam alia  wala diver[aquimedlen ab ii:,qua ox veplettone fanty    "mom    quit : $; quidem igitur [inapliciter, velut. aliqui    ANIM.ADVERS. LIB. II. 2n    gan minus autem gravia, inanirionis [unt 5 quamee  obremmulto variegatior eff, et majorem diligen-  tiam requirit s oportet enipa modum aliquem cone  qePlare . Modum autem, neque pondus, ueque ne  Ier aliquem; ad quem referas,cogno[ces ; Cer-  titudinem enim exattam non veperies aliam, quati  corporis fe fenfim... Quayropter valde operofum eff,  za exatte condi[cer e, ut parum 1n alterutram pay-  tem del ling "AS $ quamquam ego eam eum AM edi-   cum vehementer laudarem, qui parum delinquat ;  Certitudinem enim exatiam varo viderc contineit. Mox comparat malos Medicos malis na- ARA  vium eubernatoribus ; qui dum tranquillum. Je  na mare, etiam fi aberrent;ncn fiunt mani» 7^9 .    eft eorum errores : atv bi tc mp  inoru erit;  »iHa eorum det tceit vriencrantia : Ita et Me-  dicorum errcres, dum falvbres my db OS CUFahts    etiam 1fi n hirixime celinavant, ncn fiunt manifefti :atubio raves m« rbifefei1llis cfferunt curan-  di,tunc manifefte d leprel enduntvr. Moxexem-  plo (Litieiim docet, non mincra 1nccmmoda,s    provenireà repletione, quàmab inanitione ; et  loquitur non de quantitate, - de formà vie  étüs, ut patet ex pr imis, cum dk 151 que fortto-  ya [unt, "0cezt . quod ad fü nct ciborum  pertinere conftat.   23. At veró paribus, et ex virtute. et ex mor-  bo vigentibusindica tionibus, fi quisin metlen- ^    "m  $ Z    Krrores i5  JENNSMAM e    dà quantitate à rectà ratione recefferit, 1ita ut fip les  plusin quantitate, quàm o pot teát, exhibest, 4445" quá    aut et *a debità meníurza à aliquid ca letraha p^ P uta, (1 e foy?  P3 fex    PT) LVD. SEPT ALII MEDIOL.    fex uncias fucci ptiffanz exhibere debeat, et aue  . octo,aut quatucr prebeat,maj us commtttet er-  ratum, fi octo concedat, quàm fi quatuor folas  propinet: hoc enim eft;quod Hipp.zex. 57 lb.  2.4CHf. docebat: adjecticni autem cibcrü multó  minüs attendendum. Et rationem reddit,jnam  quod plus eft;noxas affert inemendabil 65; quod  veró minus, facilé emendatur, nempe fi virtus  labafcere videatur, cibi exiguum poffum: is mi-  niftrare; verüm fi in ventré cibus fit abforptus ;  quod füperfluit ; fialiàs, multó magis in acutis  morbis, tollere eft difficile. Vbi et Hip pecra-  tis, et Galeni verba non de formà victüs, "s d de  quantitate effe, manifeftum eft. M [cüm veró  id refert, quot niam viciüs f rme«&eradu, et  fpecie diverfz funt;cognofcique,& e iei, difcer-  nique Medico, in Hippocraus, et Galeni ope-  ribus excrcitato poteri ^  SIQve in ea errores  committantt: ir, neceffe eft, freciem mutare» ;  sícque mæ2na erit muta ee etiamfi per upum  folum eradu m,aut fpeciem tranfieris,ut à meli-  crato ad inediam,vel fic um pütfanz ; unde et  parerrorcommittitur. Átin quantitate;cum»  eonjecturà folà uti poffimus, an macis, an mi-  nus fit exhibendum, non eft rar ra tio; ; quia ; fil  tantam quantitatem exhibe eris primá cibatio- lt «  nc, ut commode conficere poffit; nullo morbi  autin veh emen tià, aut In acceffionibus facto:|  augmento,& eam quantitatem facile ferat, Vi-  dcatürq; majorem etizm quantitatem citra in-  commodum ferre poffe ; quia inde conjicis, te:  minus, quàm oportet, exbibuiffe, in fequena  oblatione parüm adjicies, ita ; quod minus eft,   facilé emendatur ; quód fi plus exhiberemus ;  quàm zerotantis natura ferre poffet, noxasma  emendare ita facile non effet : Nam hunc erro-  rem hec fequuntur incommoda,gravitas hypo-  chondriorum, frequentia anhelitus, febriles in-  cenfiones, fitis, capitis dolores, et hujufmodi,  quz omnia difficile tolli poffunt; nam repletio-  nem hanc dedi camento o tollere non 1 licet, eum.    nem. In formà veró fecüs ied; nam fi à debiri  forma,vel fup rà, vel 1nfrà ctiam, per unum eræ  dum tantum deflexeris, egrum præcipitem.  æes in mortem, ut longa oratione docuerunt  Wppdersteo! et Galenus 1. ACHT. 30.40. (P 44 Co"  2. ACHf. 19. e ?* 49. Locus veró ^ "Apbor. $. qui  » determinationi € directo adverfari videtur,  ull odi reptienat ; neque enim loquitur de  tenulori victu,quàm par fit, fed de erroribus,&  Izefronibus 1n tenui victis ratione evenientibus,  dicens, efle majores læfiones, quz accidunt ex  rroribus in tenui victu accidétib js, quàm qua 5  x erroribus commiffisin pauló pleniori. Vel  m dici poteft, inillo $. Aphorifmoloqui de  totà victis rationis formà in toto morbo, quse  multó periculofior eft, quia errores commifli  maois lædüt:at 2.4€41.237.loquitur de unicá;aut  alterà cibi exhibitione in quatitate, quz fi plus  fuerit quàm oportet, plüs lzdit,quàm fi minus.  D 4 24.4 Ne    LVD. SEPT ALII AfEDIOL.    Giuspem 24: Ne quis errorem cenfeat,fi Medicus ali-  lb deterier quando ex pluribus cibis non malis, minus bo-  sod) f44- num feligat, et per totum morbi decurfüum ino vtor conce fam ducat, fi multó magis palato zorotanus v iia e arrideat five ex confüetu linefiveexnaturàpes |!  Fielligédi - culiari, fiveex appetitu in morbo : Docebat 2d enim Hippocratés id omnino preftandum 2.  "Apbor.58. Sed diligenter attendat,ne luxu, et  intemperantià ægri in Crrores ducantur, quod [itu   paffim ab adulantibus Medicis fieri video ; qui   ut principum virorum cule tamquam manci-   pia inferviant, abutentes utiliffimà Hippocra-   tis fententil;aut zgrotantes pracipites agunt in    mortém, intemperantiz, et dominandi cujuídabo prorogato    libidinis poenas dantes ; aut mor  arumenas fuas omnino 1mplentes ; cüm fciants  Hippocratem dixiffe non abfoluté, fed pauló  deteriorem prxftantiori, modo fuavior fit; effe  preferendum.  ibit 25. Gratificandum preterea quandoq; cgris  ibis grati docebat Hipp.6. Epid. fett. 4-tex.S. At id aliquid  ! amplius eft, unam enim, aut alteram cibatione:j    24    cdit &gris ce dis Had Col eo  eri contra. ÉCLpYCIC 1n quà deje&toappetitu aut V1 morbt »  reglas. aut longitudine ; aut utobfequentem magis 3  reliquis habeamus; aliquid concedendutrb s4t jj;  quod extra limites inftituti victüs etiam fit po-4 i;  (itum, modó modicum fit : interim plura pol-  liceantur, ut importunitatem cohibeant.  Adoersstj».  26. Aliquando tamen eó ufque dejecta eftin  omaino vi- €grisappetentia,ut cibi eenus omne refugiant:  Ái aliquan. ac averfentur; quin etiam,ratione fuadete» cun  v1m    e  Vini fibi ipfis inferant cibos affumentes ; ftaum  illos evomunt, et tunc Medicus deterrima que-  que concedere femel aut iterum debet, ut vires  cuftodiat, ne in certiffimam mortem cadant :  fepé enim evenit;ut ex malo illo cibo affum pto  expetito natura inftauretur,& morbus omnino  quafi conclamatus fuperetur.   27. Caveantin averíantibus cibum, neali-  menta przparentur ipfis przfentibus ; aut enum  major ex diuturnà vifione fübfequetur verfio ;  autreculàaliquà minüs illis arridente vis à, in»  majorem cadent abominationem .,8. Cüm Hipp.t.-dphor. 16. tebricigngum  victum omnem puer n effe d debere fcribat  cave, ne cerfeas de humido folüm p iotentik ie    qui ; quamvis enim et illud requiratur, humi-  dum tamen actu,five liquidum;effe debere ma-  nifeíté intellisit:nam alibi,ut 1.7e D£etz,cibum    humidum effe debere, id eft, potentià imbecil-  lum;fits expertem, coctu facilem, et liquidum  omnino teftatur, qualem ibi ptiffanam confti-  tuit: humidumveró potentia etiam liquidum  cí(e debere, docet et Cornel. C ii 5. 3. CAp.6.  CU EI etiam rei ratione m re ddit Gal. Jib. de gpr.   Seta ad T brafib. 4.càm ait: Quoniam qua conco-  quuntur » effumduntur, ideo C mox diftvibu untur,  49 &grotantes nonvuulto labore in cibis cor ncanes d /$  indieent. Et ab his praceptum ua[citur, Iquidos ci-   bos omnes f'ebrici qon comvezire . Quod con-  firmavit t. acut. 38.69 1. 4d Glauc. cap.13.de UHTA  febr. cont. fine euctie ; ubi cibos omnes fe^  bri.    * a)  do etia pep  fima conte  denda.    Cibos  4-  vexfant tss  ne cibos  praparare  videant «    Vasiius Le  tmidas fe-  bricitantie  bus ofai-  àus Cconvute£e  nit acínu e£  "T    2115    talis  bricitantium debere effe liquidos teftatür;quiz  humida actu, et facilis in chyli formam redu-  cuntur, et ceteris paribus, facilius multó con-  coquuntur : cüm enim ex febrecalor naturalis  imbecillior reddatur, ea erunt exhibenda; que  facile conficiuntur. V iderint ieitur, quàm bene  victum in febricitantibus inftituant, qui Pe-  P2 AÀ tronam imitantes folidiora concedunt, et non  us folum clixatas carnes exhibent, fed affatas etiá,   Y in quibus vix humiditas in potentiá reperitur.   Sed de hoc pofteà.   ANS 29. Vtveriffimum eft, in acceffionibus, id  ? agi "s eft, principio, au gmento, et ftatu, abfünendü  d», d de, declinatnionémque in continuis, et potius  quando cj 1ntervallum in incermittentibus commodum  banda, tempus effe nutriendi, ut colliei poteft ex 1.   A phor.t1. C? za fige 1. de ratione vill. in acut. ita.  declinante febre acutà, fi viresurgeant;forma.,  aliquo modo erit mutanda, ut fi ptiffana hor-  deacea fit forma, in fine ftatüs, aut inchoante.;  dechnatione;primó potionem dabimus;ut cre-  morem hordei, vel jufculumrefrigerans, vel  füllatum carnium cum aliquá aquá refrige-  rante, mox interpofitis tribus, aut quatuor ho-  ris, cibum jam inftitutum concedemus, ut in-  nuit Hipp. 1.acur. zz fige.    jo30. In Synochis veró, quz uniformes fint,   In $550- . Camdémque à principio morbi ad finem nfaue   AS 242,- fetvant formam, unicàqu e acceílione perficiun   72 cibsg--. tUt ; quandonam fit eger cibadus, docuit-Gal.   dam . Yr. eth. fed. cap. j.nempe quando xger faciJiüstolerare morbum videtvr, et quando;dum  fanitate frueretvr, cibum fimere confueverat:  fiigitur et facilior tolerantia cum folità horà  ccincidat, hac erit eligenda : fin minüs;femper  pravalebit facilis tolerantia, quz fi immanife-  fta modó fuerit, à folà confuetudine tunc tem-  pus nutriendi erit defumendum.   31. Quod fi contingar, in intermittentibus  om intervallum nullum effe, et declinante»   jorbo novam exfpectari acceffionem, ita üt  tantum temporis à fine ftatüsad novam inva-  fionem non intercedat, u t cibus ingeftus coqui  poffit, puta ; (p: LC Jp trim horaru m tantüm»  ia ut    ne R^ m fit aut 1n fum mmo v19o renu-  E, vel fequenti accefficnioccurrere cibo in-  co&o, et repleto ventricrlo, quod fzpé in pra-  xicxercend àoccurrit, quid in eo ca Mh £a |Cjen-  dumerit? Anne fatius erit vieenteacceffione -  cibv m pro pin: I6, 2n potius viecreevitato, fa-  tius erit ; Cibo in ventriculo exiftente, febri oc-  currere ? Con mp hiter ?b cmnibrs refponde-  trr, deterius effe mu Itó In principio cibum.  exhibere, quàm in ftatu; quód nocumenta,  principi! cim aliis temporibus ccemmunican-  tur, ncn fc: artem nocumenta ftatüás. Verümmvltó fecüs Gal. 11. A erb. sued. ult. rem banc  M eerivir ; ubi, cafu p ropofit eodem, confide-  randum effeid docet, o uo d mæis ureet,quod-  que ma g1s noCituI 'um judicaverimus, fuoien-  dum : dox cétque, eííe ccnfideranda locumaffe-  (tum; affectionem, princi pli et ftatüs naturam,  tum    Cibare bre  f2af12 fine  ffa1?, qu  prote tnos  ffonem ; c»  ouando. (4 / ul "424 h^.    ya.  tum et morem morbi . Locus quidem, et affe-  éctio;ut fi ventriculus, vel hepar afficeretur in-   flammatione, fi pauló ante acceffionem cibare-  mus,omnino effet perniciofüm : hepate enim  affe &o alvi dejectiones unà cum acceffionibus  folentinvadere : ore autem ventriculi vexatos  fyncopes fuperveniunt. Vbi veró abeft in-  flammatio, et vires debiles fuerint; ftatu om-  nino evitato, propius principio cibum iie  cx pedit, potillimüm fi mos mor bi; princi pii et  ftatüs mori refpondeat ; hic veró confideratur  in vigore, et principio, fiannotaverimus im.  fümmo vigore, an citramagnitudinem febr T.  caloris ficeus t. [fu dens, an citra [qualorem  nurenss Priorem namque h bumetlante vitlumade-  facere quamprimum oportet : In [ecundo.dum plu-   vinum calovis remittat » e. vfpettare . In principio  vero acce [ponis morem &[imabis, at corporis ex-  trema perfrigeret, magna [anguimis revocatto-  zen ad interiora corporis faciat, an omutimo corpus  zn premat : quippe [ecuedum bocscen faciles man-  fietumve contesanes y 1m priore diflinguas oportet.   Nam [i ab[que vi[ceris pblegmone, aut [uccorum.  vedundantia, motus ad interiora tin acce[[iontbus  pollet» zibil offendes paulo ante cibans ; fin vel  phleemone, vel redundantia [ubfit, cavenda eff  ante acce[Jfwnem cibatio, ceu vesss AXIE nóxia . Cüm tamen multó major fit quantitas morbo-  rum,& habitudinum corporis quæ expofcüt,  ut potius in fine ftatíis nutriamus, quàm prope  principium nov acceflionis, mæis laudarem,  Cal     || eam propofiuonem medicam, quà aflereretur;  urgente hac neceffhitate, praftare e 1n fine ftatüs  nutrire, quàm etiam per duas horas ante prin-  cipium, quód major quantitas febrium fit ex genere iride ex obítructione ob abun-  ;] dantiam crafíorum humoru m, et ex interni, vel externa phleeg: mone; in quibus, Galeno tc-  I fte, prai (tat in fi ine fta tüs nutrire, quam p roximc  :| ante principium.   EL . Commendandus tamen aliquando cibus   X 1n 1 principlo, et inauemento, et ftatu, et  Booxined ante principium, ubi habitus COrpo-  iisaridusadmodum, à tque fc qual lens fuerit; et    9    in febre admodum ardente ; biliofo humore,    rante, atque ad ventriculi os trans-  lit inedia, vigilias    |i  d^ qp ] ee o6. di  4 M - (* ] "m, c ws bu et ..  ininoadecratasltrititia, c folliatudo, auibus et    exiiccatuim elit pius nilniO, c excaicractutin  p -  Tp ^ 4^7 Ox "£X Ld "E" "e -.  COI1 pus » ir ILICQtiC CODn9 C111 a3cr« y s EX HII jdaaces  A et  1 ME e£ a. dai 141 N t^ i E qu E o  inunmores: proquarebpence inte iii£g ence Mii  Àet   aus cit. L3a1C€hlis noitcti,I x. IM eti :2CG. eC   |» 1»211í0« ve dob: e N- í  f. inqgi 1lDuUus caàlibDiis pI. (tabit a  nt ein: y: 'nei   L   : a d "111 ! j  &in l DEYi IC11 LG ASM-Æ Lu an |t Lt  Verum cum hoc rarius contingat, in caf pi    /" ! » f1,, Z "   Xf». (17 ^ 44A Bm 1 $7175 *4 13^ 47 p 1 *Yy Poe  polito, ub1 à itatu à DI1nci Ji nOV. invalid  nlsS nuum temporis Jntercedit, ut comqiTnock  CIDLi n i1w vis 1illiitlooe«.iLA&LALCICCIC 3 Ai!    liüs effe n n atüsnuütrlre, quàm pr    ;Galen./z Com. multó plura referant incommo-   da, fi quis in principio cibum offerat ; quàm fi   in ftatu. Et hoc eft, quod innuit 1. Zdphbor. 11.   cüm dicit,» acceffiomibus ab[Hinere oportetd eft;   et ptoxime ante, X inchoante invafione . Mugmotà 33. Quoniamautemaut incomplicatione»  acc ejfinis duarum febrium, aut in unà ediamyin qvàtem-  minus in- pora adeo extenduntur, ut anteqv àm fup erve-  commod? Sat declinatio, nova acceffio fuperveniat, sic-  ibat que neque intervallum, neque declinatio repe-   quá flatus: v rariin quibus cibum offerre ex ratione pc ffi-  mus,1n ambiguo Medicorum animus hzret ;   r* quandonam cibum offerre expediat. Auemen-  ti tempus prusotes et minores fecum invehe-   re lzfiones cenferem ; quód nec ea immineant   damna, quz fequi docvit Gal. € 11. AMetb.  1.acut.penult. CÓ" 4.atnt. 39. neque eó ufque ca-  lor, et fymptcmata pervenerint ad fummum,  utin vieore. Non negandum, noxas etiam ex  oblato ciboin augmento non parvas excitari 5  atindicatione à virtute ur2ente,ccm modo teni  pore. morbi importunitate füblatà, illud elit    cendum cenfemus, quod mincra fecum inves- prium    hiti incommoda .    Plorg tres  D um CR  acuoatione    34. Cav eant,ne rempus trium horarum cen--|ii  eant fufficere à cibi oblatione ad novam inva-4ii:    ad acc:fio fionem, quod pleriqve cenfrerunt, Galeni au-Juj    nem » 20 faf cord durer. 8. AMe: b. 4. lH bi: d f(Terit/fatis effe,    fiia.  fities horas aqu inoctiales, quatuorve, inter]  balneum, acceffionffque tempus interpc »natntzj    ibalneo enim cibum exhibere folebant ; cümm alioqui Gal. 11. 2etb.1 s. docuerit; maxime in  omni febre coctioni 1ncumbendum efle : quia  fi adveniente acceffione, cibu s in eric )  non fit confectus, ex retractione caloris ad in-  terna febris omnino butsiiesü,; pefimma illas  fvmptomata producentur, de quibus Hipp.&  Gal.4.4cut.59. Et Avic. 1. 4. T racf.2. cap. 6. 1tà  in febribus cibandum praci pit, ut vacuo ven-  triculo occurrant : hzc veró concociio ne in  fanisq juidem trium horarum fpatio confici po  teft, cumin xeris natura ex morbo d« cbilis red-  dita feeniter coctioni vacet. S1 igitur fuerit    "    forbitio, ut ptiflana, aut contrltus pan ida tus  ex jure,aut idem concifus,aut hujus 5qi isi WT  i ., ; 211-3 4 1^ VEN NS I  quinque;iox,al tetiam feptem ati onc eden-  A [|   daxíunt, plus minus, prorcbcre ventriculi,«&  :] A   22-594 I " -   p! «conditione Tebris int num [1$ pecccantlsS .    fantiCcriun, aut niicuium aiteératum, tres aGul1 ! EB É im MN 3  dem hor xquinoctiales fufncient; de qva re  "4Q "EM  locu us eit 45» €ID.4. GC XCCCOCCO €nif1n  1 L|  raaicum apiiioquitur,non dCIcIDIUCRhC, aut    ferculo, quz non exhibuifle ccpttat cb angu   ftiam temporis ad fequentem acccftionem;füb-  dit enim : $7 vero ctrca ve[peram, aut duabus bo-  yis cttius acceffto iervadar um laville mane licea?,  tum ciba[[e; ux evitecillaincommoda,;qua fequi  docet Hipp. 4.aczu£. 39. ubi cibis incocts in, *  ventriculo accefito fi ervenerit: Pezter emm;  inquic cær, faflidit cibum, 1mtenditur bypochbonr  J^4244912  6Y1477 ;  drium, 1atlatur corpus propter saterzam tuyba-  tionem, quens fixamon eft, dolet. ager, lancimaturs  -pellicatur, vomere affeélat, c fi mala evomnuerit,  dolet  ipo me[- 3$. Excipienda tamen ab hac tegulà, et ho-  c»weaad- Yarum cibandi ante acceffionem, et non ofte-  do offre rendi alimentiautin principio;aut ante princi-  eibi er" piumacceífionis, ea corpora, qux et calidas  162,00 10. et ficca funt temperamento, et habitu eracilt;  jeibus^ quibus fpiritus facilé diffolvuntur, quz ore»  ventriculi admodum fentente, et in quibus  acris humor, et mordax ad ventriculum trans  fufus ita egrum infeftat, ut inipfius etiam in-  vafionisinitio fvncope indudià, vcl etiamins  fimplicibus tertianis intermittentibus fzpenus4  4A- meró mortem inducat; in llis enim ante inva-  fionem,velin illius principio cibandum cenfuit  Gal.1o. 7Metb.cap.2.3.4.€9 f.    CibusgnA-  36. Adhibenda tamen ea eft cautio, quód;,|    do offerédus fi animi deliquia in febrium initio fupervencejn principio tint, affluente acri humoread ventriculum, &y    acceffion,. os iius mordicante, cibus vel immediaté ante    c quand? acceíffionem, velin ipfo principio erit exhiben-4    pauloante* dus, utadmixta cibo bilis minüs mordicare.  valeat. Si veró ex fpirituum fübtilitate exfolu-4i V    tio fequatur in principio febrium ; nutriendi  erüntzeri per duas, tréfve horas cibis hujuf. modi, qui citó inflaurare poffint fpiritus ; faciww rPa9vatm (couccommutarL, ut funt ova forbilia, jufcula    qux inftaurativa dicuntur ; et fimilia, quibu:    4 adítringents fi &onnihil addiderimus, ut fucc]    era eranatorum, aurantiorum, aut fimiliu m,opti-  me illis confultum fore exiftimamus.   ;7. Inacidis tamen iis in ufum du cendis ;il- 4ciderZ s  lud maximé cavendum exiftimo, ne nimio plus fs iz febr:  limonum fuccus, aut acidorum aurantioruma 45 acatis  addátur, quod paflim etiam à doctiffimis viris stilis fed  fieri video; qui in acutis, et malignis febribus, shOÆTAT-  in omnibus ferculis, et jufculis fucci limonum Enn   quàm plurimum adjungunt, non animadver- voii  tentes, tantá illi ineffe acerbitatem, ut, fi modü  excedat, aut coctione non temp eretur, quod in  fvrupo de limonibus, et de fucco citri fit, aut  facchari mixtione non moderetur, obftructio-  nes in venis pariat inemendabiles, ideó mode-  atéillo utendum ; in quà menfura fi in ufum.  veniat,refrieerabit, et incidet;altiüfque medi-  catas potiones exferere faciet. Aurantiorum.,  fuccus aliquanto minorem habet aufteritatem;  c proptereài non tantà liquoris miftione in-  fier   38. Vidum omnem aut craffum, aut tenué,  aut tenuiffimum antiquos conftituiffe, docuit  Hipp. lib.de prifca Medicina, nempe cünrcraf-|. etu  (à comedimus,cim forbemus, et cüm bibimus: nw  Quarttim Galenus victüs genus addidit, om- ^ e  nimodam cibi, et potüs abftinentiam, 4- Com. ui vecipi?  I oleum ent [mum 2 ppellavit; 2u5, c qui   quód fi quz forbentur;bifariam partiamur,n£-. exclades-  e in tenuem, et craffam forbitionem, omnes 45.  victüs habebimus ditfere ntias.Verim quatuor  fünt, quz acute febricitantibus conveniunt :    E Craffa    Vicdlus tt-  nauis (n 4-- s di à "e b y ma e  ACERO, REDE 1 forbitio,de quà r. cut. 26. eftinteera ptiffana;  alica,panis lotus, five contritus, five conciíüs ;  et conta carnium. Tenuis forbitio eft, ut  tiffana colata, aut fercula eàdem tenuiora. .  buen funt autoxymel antiquo more para-  tum, mulfa, ftillatitius liquor ex carne, jufcula  cujuifquegeneris. Aquz veró frieide potus, ju  aut omnimoda abflinentia, fümmé illum te-.i  nuffimum victum confütuunt. Quz omnes |i  victüs rationes, ultimá exceptà, vires augent,  atque inftaurant, quamvis aliquando imbecil-  las vires reddere dici foleant, habito refpectu  ad corpora fanorum,qui fi illis victibus uteren-  tur; ad marcorem ducerentur . Noftris tamen  vidus ext e-temporibus victus i1leextremé tenuiffimus, et  me tenuit - quatriduana 1lla 1nedia,aut ob confictudinem,  we nee autobregionem, exterminari omnino debet ;  $ ww. Utpote periculi omnino plena, ex quà et mors  E: zensinducitur, et Medicis infamiz nota inu-  ritur, fed loco illius potiones induci debent,  fyrupus acetofüus, vel de ficco citri, cum ftilla-  ütio àliquo liquore, aut jufcu]a alterara, vel  cremor hordei .  Viclus 39.. Cavendum tamen, netranfitvs fiat ad  eraffns i victumillum, qui extra limites victüs febrici-  4CHII5 "^ tantium continetur, ne fcilicet que comedun- hi  tine». ear, sáintquefolidiora, non liquida, concedan- 1  »! OS P eur gr panis, carnes, et quod deterius eft, ho- Orb  ded [7- viri fruétus, quod paffim extra hanc provin- t  CUT  gam fierividimus.  Herdesm40. Cüm nihil fit, quod inzerotantibuscibandis,; et apud anuquos ;.& apud recentio Ies,   antiquo more febricitantibus maximé recte yi-  Ccumaünsftituentes, magis inu fu m ducaturipsà  putt. lana ho rdeaceà, o pame confultun |. Medicis  in hisameis Cautionibus pradicis cenfii ; fi ali-  gna OC loco mterp ofüero de rectà conficiendg  puffanz ratione, de qna etiam Gal. 1. de al.   facul.cap.9.ab dep nf[anascapA. O mde Colicit.  I. 11. et Dàul. /zb. 1. cap. 78. podffimüim cum  adeo varlare jn cà fcriptores dang 10s videam ;  recentiorum autem aliquos. doctiffimos etiam  longé aberrare.In cà igitu1 Lprma fit in clectio-   ne hordei cautio, qt ód cüm Bardqum fit du-   plex, alterum quod fpopte nudu n nafcitur, 1.  dc M æne cap. 13.2" lib. EC RN: yicin,  cap.6. quod in Cappadccià naía fcribit ; ut ali-  cubi euam apud nos Infi; bres ; alterum vefti-  tum, quod mæis commune eft ; ; poftremum  hoc eligi debet, deglubitum ta men, et à corti-  ce exutum; quamvis enim ulti primo illo po-  tius utendum cenfeant, €à forté ducti ratione,  quod cüm Galenus arte corticem adimat;fatiüs  videatur fponte tali nato uti ; fed non bono arpro ptiffaAna quale  eligend& »    Hordeum  «lind fine  cortice  eraffo na-  feitir, a-  lttd veffs  UG.    eumento: ro ieenim illu dicium noverltl.4e    alim. facul. 13.e0 tamen non vtitur ; quin fpecie  ab alio differre afferit, f;rtéque etiam faculta-  te : Vnde Herodctus. Galenoontüquior apud  Oribafium r1. Col/e£. dicebat ; illud plurimum  Ruttre ; multum fuccum. habere, et proxime   1tritici naturam accedere ; quibus rationibus  minimé in acutis convenit : quz enim nimis  E 4 multum inultum nutriunt, queve craffum, et eglutino-   firm füccum generant, ut triticum;inaácutisfe. bribus minimé convenire poffunt. 1. dealipzfaa |i  cult.cap.4.   4I. Sed quáarte preparandum fit; ut cum ^  fru&u, fine damno in ufum duc poffi t; noh5  levem requirit diligentiam, multáque cautio-  ne indiget. Farinàaliqui utunturaquz,;aut ju-  ri mifcentes, et pultem efformantes ; quam.  tamquam flatulentam, et excrementa multa producentem omnino rejicit Gal. /jb. de atre-  emuante vitfus vationescap. 6. Cf 1. de raf. vid. is  acut.cap. 18.Freffo alii, et fracto utuntur ; at re-  felluntur 11 ab eodem Gal. /zb. 1. de al TCI.  cap. 9. ^ lib. de attezuante vithucap.6. 9 1. de 2  VAI. Vitl. 12 acutis, cap. 18. quód tormina faciat  hy pochondria diftendat, non levis fit ; non Tu-  brica, quód denique craffos fuccos producat .  Leviter torrefaciunt alri, ut faciliüs exter nà tu-  nicà fpoliati poffit, et flatus exuere: At fic ptif-  íanam minüs humectantem reddunt, iminüfveuu  aptat alvum folvere; collieitur id ex Herodo- to, referente Galeno; 1. de alim. facult.cap.13.. fi  pritenam ex ze torrefactà alvum cohibere,af- di  ferente : Vnde Oribafius, 4. Collet]. cap. 7. ex. Dievche, hordevumin polentà rorrefa&um al-  vum cohibere atfferit5 quod confirmavit Gal. )  1.de alizz.9. qninimó cap.2 2. ejufdlen : frixa em- t  n4 flatum quidem deponunt, fed di "fficile coquum- iln  uv, Co adftringunt, craffun yque fuccurm, cenerant. quód obfervans Trallianus /&. 8. cap. 8. voluit    in    HKordeum  quomodo  jaradum  fro puffana. in dyfenterià hordeum torreri,ne fi fine frixio- piam     ne uteremur, alvum fübduceret ; non cohibee etum.  ret. Braffavolus hordeum aqvà fz piüs mace-   rat, mox ficcat;& in mortario ligneo illud Con-  rundens decórticat. Atfi pro primo cortice»  expurgando id facit, non eft, quód aquàail Illud   prius maceret ; fi pro fecunda briliori, malé    facit, cüm coctione fol ^ eximatutr. Galenus igi- vto vn ai    cur capit hordeum Integrum» levi manu contu-  fum, et hoc modo decorticatum, atque mox  panno afpcro pe erfricatum, ut reliquum corti- ^  cis fi quid reliquum eft ; anod verifimile eft ;  air levem ictum, to lli poffi t.   . Cautio autem 1n quantitate hordei ad  zmerdei  Pee m, &aquz ad etin m In pl ra paratione quantita  püffanz, maxima eft adhibenda ; cüm variafit ad. aqua  de his apud grauiffimos euam fcriptores fen- pre ptis  tentia, aliis pro fingulà hordei heminà decem. ^4paran"  aqua adn  ut Dievches apud Ori-  bafium, 4. Collect. 7. cenfuit, quam me  fecutus eft Conftantinus Cafar,lib.de Re ruf. 9  Antvllus veró, eodem Oribafio teferente» ;  4. Colle&£l. 11. pro fingulà hordei heminà quin-  decim aquz adhibet;quam fententiam fecutus  e(t Paulus, /ib.1.c2p.73. Braffavolus autem r.de  rat vill. in acutis 18. pro fingula hordei heminá  trieinta, et triginta quinque aqua mifcebat .  Galenus autem 1. de aliz. facult.9. € 10. c Lb.  de Priffana; nullius quantitatis aqua» aut ejufd&  proportio nis ad hordeum meminit. Neque    yero id prater rationem, fed jure merito,quód  G4 obfer4uanésíÍnu/ ex obfervatfet hordeum pro varietate foli aliud  - facilius coqui, aliud difficiliàs,et docebat ípfez  iet /ib. de cibis bomiCP mmals [nci, cap. $. tum  etiánt pro varietate nature illins erani ; ut paf-  fimi1n ciceribus excoquendisobfervamis; Sed  et aqua non levis habenda eít ratio, cüm aliam  grana, et Cerealia omnia facillimé conficere »   obfervaverimus ; aliam difficillimé, ut docui-  mus 72 Com. 17 lib. de ære, aquis i loc. EH ipp:  Sitamen ejus eeheris affüumamus, quod intu-  [ Ra .ICcat, et coquatur facilé, apiid nos Infübres  mE pro fingula hbeminàillius, quindecim, aut vi-  ginti aqua affumere poterimus; que quantita-  tis aquz varietas erit pro várià conditione hor- dei, et aqua.  Propifa  45. Sed'in ptiffane præparatione quid ob-  na cóuie? fervandum ? et in condiendà quid cavendum ?  da . 2^ Sané Galenus oleum, et acetum addidit, et  addenda, falem; illa quidem 1. de al». facul. 9. 4. tuenda  va T9 valer, 4. Cf $, equ]dem. 8. lib. de M arcove, ult. 7.  : Methb.med.6. S.eju[dem 2. 10.Mfetb.Y1.Orib.  4- Collect. 1. et Paulus rb. 1.cap.88. Salem etiam  indendum conftat ex 1. 2//9.9.& Orib.& Paulo  loc.ctt. Sed quo tempore hec addenda ?. Gal. r.  de alim. 9. acetum indendum cenfuit, cüm ad  füimmum intiimuerit hordeum, deinde etiam  permittendum, utTento igne in füccum diffol-  vatur ; tumaddendum : falem autem addi vo-  luit pauló ante tempus diffolvendz ptiffans :  olevmaddebat pro condimento ; nos, quibus  placuerit; concedemus.. Placet tamen potiüs;  ut cx jure oprimo carnium patetur,five integra  paretur;five colata, addità aut levi portione »  falis ; autfacchari pauxillum plus; pavxillum  enim mellis addebat ptiffanz, 5. rende valet.S.  cujus loco przftabit faccharum indere: aliqua-  to plus illtüs etiamaddentes  admifceatur ; prohibemus enim admixtione»  ilius nefaccharum 1n bilem vertatur .. Quod  fi quisaceti ufurn refugiat, licebit [oco illius  aut fuccum aurantiorum, aut citri, aut etiam.    » fi aceti nonnihil .    L    limonum indere, modo fuccus is aliquandiu guetud AC  plus cum rcliquis ebulliat, fecus quàm paffim. «^ v»  fiat; cim indi foleat füccus immediate tempore ?e/&- e Æ.    affumptionis,qui ob cruditatem ; et acerbitaté  folet nonnihil obeffe; quamvis mixtio fine co-  étione nonnihil terreftreitatis illius, ac adftri-  étionis foleat retundere».   44. In pane concifo, aut contrito, pro fercu-  lo parando hecadhibeatur cautio ; fi febrem.  curemus acutam, aut ardentem, panem omni.   Op rius effe lav andum,. "us. n tatà frpiüs aquà  aut füperinfpersà fepiüs aquà ; fic enim et fer-  menti vis retunditur,« cibüs paratur m inus  nutriens;potiffimüm fi paretur ex jure fimplici  pu Il: gallinacei; fiiccóque aurantiorum con-  fpersatur, fic enim parata panatella minüs    etiam nutriet, quàm ptiffana. Cavendum veró,    ne panis igne pris cremetur, mox abluatur,   quod factum ab Oribafio videmus ; fic enim,   ienex partes concipiuntur in pane, sícque et   ficcius alimentum paratur, et calidius, quod  E 4 per    Panatella  1n ACHtis  quomodo   paranda «    C9 Cor fn    4«o per lotionem minimé corrigi poteft; poterit  tamen fic paratum convenire, fialvi profluvio  cum febre eri tententur, addito aut ficco li-  monum, aut granatorum. In reliquis febribus  ex pane conciío, aut contrito ferculum conve-  (niet; etiam non loto pane, et ex jurecarnium  aliquanto validiore.  Confum- 45: In confumptis juribus ex carnibus pa-  yu Mu randis hzc obfervetur cautio ;. maximéà me;  ex cargo lA dariea, que ex carne vituli macrà conficiü-  vittling, üt » quód vix in eis elutinofum illud reperia-  tur, quod paffim in juribus obfervamus, que  » ex pullis conficiuntur ; cutis enim circumve-  ftiens; et nervofz multe partes alarum, et cru-  rum, gluten illud generare folent;quz vix pof-  funt auferri : in vituli autem carne, licet et fi-  brarum,& nervorum ratione, et capitum mu-  fculorum glutinofa aliqua adfint, mrltó tamen  pauciora fünt;atque ex parte etiam auferri pof-  j funt. Quód fi quifpiam gallinarum, ant ca po- num jus expetar ; cautionem hancadhibeat, ut  alarum duz extreme juncture auferantur, et  coxarum ultima pars ; quód fi cute etiam pul-  lum fpoliare poterimus, (alubriorem cibum et  potum procul d:bio parabimus.   46. Sedentes in lecto alantur;fi enim jacen-  tes cibum capiant, vix ad ventriculi fundum.  cibum effundent ; deindeà cibo fümpto fe mi-  horà fedeant, vel (altem erecti aliquantulum.  femiJaceant.   47. Ante cibum memores fint expurgatio-   nis    euem j-  tum tenc-  re debeat,  dá ciban-  tur.    IL- os alluen  lhis oris: nam à febre plurimi vapores, et fuli-  ipines furfum feruntur, quz limum quemdam  lin linguà efformant., .qui cüm guftum pertur-  Ibet, cibos etiam malà qualitate imbuit: quare  li: et lingua; et os colluendum, et osfophagus;qui TENIS. N  lfzepe per febres areícit, madore aliquef1gan-. ex acels e£ Jac  idus, cui maxime infervit aqua etiam cruda €x - aw .  aceto, et faccharo. EA   49. De potu aquz in febribus pro potu quo- . P^vs 4c  Itidiano, non pro medicamento ; hec fitobíeg- ;"^ qua-  ratio: fi in xerum inciderimus,qui in fanitate it  affuetus fit aquz potul, etiamcitra noxam pof-  Ife nos utiqu e Hone nop tmam,aut fcntanam; BD obe  aut pluvialem cifternin: mc ncedere, aut CCr--,,5 f po  té decoctam fimplicem : fin minus affuetus poditn 2212  Qua cibus  JL ma-  AY »    49Ha no    7u$1nacmAd  tuaque zeer fuerit, ne 1n ea 1ncommoda 1nci- zi.  dat, dc quibuHipp. 4. de rat. viel. in acur. ali-  qu id addi licebit ; quó facilis ex hypochon-  driis meet, cruditas reprimatur, atque etiam. «cea "M eevias  morbo, fi fieri poffit; A Hldd eios ve wis adver- 9e, : canedio  femur; ut fi add faccharum.cinnamomum, E .  anifum,femen coriandrorum;authordeumin-- -.  Ccoxerimus.  49. Deaquà hordei, quem ) potu Imantiquis 444a bar  len Ar m pleri quec enfent, quód nullibi Gale- deris æs  nus ; Oribafius, Paulus, A?tius; &aliiillius *5pro po-  men tionem fec vei ; ita cenfeo, Hipp. 3. de 2 4 epiinide  va) uiél.im acut. 13. (f a. de ratione vilius, 71. po-  "limum autem librà à . de Morbis, ubi laboran-  tibus tor pore c: 1pitis propin andamcenfet aqua  hordeaceam, de cà mentionem feciffe ; ubi eti  1n"aua bor  Kein Of.  nibus amar  615 n0 Con    venit.    v qua ber    dei Que pa  1Anda .    gue intelligere non poteft (accum hordei, quia illis!  có fübjungit ; Maze. pro alimento. [uccum. bor--|vck  dez exhibeo, utnec in aliis duobus locis, cütmi en  potum aquam hordeaceam appellet, füccumaj  autem hordei paffim non potum,. fed (orbitio] ji  nem appellet .. Neque veró rejicienda eft, po] jj  tiffimüm in febribus exurentibus ; quod flatu] ili  lenta fit ; fi enim recte excoquatur, flatulenti&il "T  exuit; neque fi diutius excoquatur, falfedinemi] «1  contrahit, quod ab aliis objicitur ; fi enim ins] s  putfanà, quz longiori tempore elixatur, id nom] «s  veriti funt Hippocrates, et Galenus; nec expe-4 ui:  rientia id oftendit, in quà mæis hoc feqiiilo  deberet,ob hordei majorem ad aquam propor--|  tionem, et quantitatem, quà ob craffitiem faT-  fedo in elixatione loneà contrahi deberet, cufil  idinaquà hordei omninoaquosà, et potu ve--|  tebimur ? Cautio tamen eft adhibenda, ne eail  In omnibus morbis, aur inomnibus febribus ini  ufi m ducatur, ut aliàs fieri foleba 5 fed in iis!  folüm, in quibus magnus eftus fuerit, ut ubiil.  abfterfioneopus et. At veró in eà conficiendail ».  magna adhibenda eft cautio. Accipito hordei  vcri, non fpeltz, feu zez, ut plerique faciunt,  libram unàm duodecim unciarüm, máceretür  tantillumin aquà, mox panno admodum afpe--]  IO Oprimé confricetur,donec omnis arifta deci-  derit, et quippiam etiam ipfius corticis craffi fit  deter(íiim;deinde optiméabluatur,& omniforditie expureata, addantur aque libre quadra- Hi. ^    ginta, et tàmdiu claro ine decoquatur, donec  optime hordeum intumuetit, mox depofito de aMesua   P ám lever.  1ene decocto, permittatur perfrigerari, deinde    transfundatur, quod perfpicuum eft, ac valde   clarum decocti;in vas vitreum, in quofi quippiamiterum refederit, denuó In altertim vas   transfundatur ; quod perfpicuum eft, et relin- quendum donec refideat ; quod pro potu in»   paramus pro medicamento, aut faltem cibo medicato, aut pro potu. Pro medicamento;aut cibo medicato, vel cruda erit, vel cocta; Gal.   cocha.Qinimó etiam coctarum alieinteoré co- (**^* étz fünt;alie imperfecte ; quz eciam magls ; && 4A. vavwe Fat    ufiim duci poterit.  d 1 : Mulfa di  jo. In mulfe melicrative compofitione ma: s A ; 77 (7;  xima adhibenda eft cautio: Vel enim mulfàm  vj ^É  pt an    ''Ali0 »    3.de alim.f acult. 39. €? 12. Afeth. cap. 3. Cruda.o -Á cds    ! E, * . -Á eL.  magis alvum [ubducit, munus uutrtt ; contrá aute TLMN  E . ec *    minus et nutriunt, et dejiciupt, prout magis   aut minus coctionem füfceperint. Vtramque    euam hanc aut meraciorem conftituit, aut di-  jutiorem Hipp. 3.4e rat.vit]. in acut.t.33immÓ 7...  Gal.$. A etb.zzed. 4. 1n meraciffimam, medio. n 4»*« we    S.  2 " " " . 1 $44 crem,& dilutam dividit. Sed quanam eft mel- 77*^*    lis ad aquam, quibus duobus folis conftát mul- jin  fa; omnino proportio ? Cenfentaliqui, mera- ell; 1) A  ciffimam efle ex una mellis, et duabus aqua, LE fic cenfiut. Avic. /ib. «. et Diofcor. Mediocrem pum idi  ex una mellis, et quatmoraquz, ex 4. de tuend. aud  vál.cap.6.Dilutam autem ex un mellis, et octo   aquz, factà ebullitione ; et defpumatis excre-   mentis ; donecfupernatent, ex Paulo £/b.1.cap.   46.Sic    vn b. ^£ ptu  ex 06 Jh.        cC    s    ^f  yr t ou *    Et   .Sic Mefue, et Rafis 9. ad "dIman[orem ; led:    ante hos omnes Oribaf.4. Synop[eos; Cap.39. Hac 1T    communior eft recentiorumopinio. Eso verós  ut veriffimam hanc effe opinionem cenfeo. in»    melicrato pro cibo fimplici . feu medicato : ita];  falfam exiftimo, fi mulfíam fumamus pro potu:    'ad diftributionem cibi parando. Quin. ceníeos    dilutam illam, de quà 3. de ratzeze vitius ; 13]    mentionem facit; eam effe poffe, de quà Gal. 3.  de vat. vicl.12 acut. 15. ubi dicit, mulfam dilu-  tam fieri;ubi pauxi illum mellis multz aquz ad-  miícetur, ut aqua permeare queatad diftribu-  tionem, ne diutius in hypochondriis commo-  retur; hoc enim munus eft potüs;utpotus, non  üt cibus ; ; quam fortaffe di iveríam à dilutà, de  quà 8. Metl-meminit;credere poterimus;quód  diluta illa tamquam cibus effe poterit ; ex unà  mellis,& octo aqua: at quz diluta eft pro potu  ad diftributionem cibi,diluta magis effe debet,  quàmutuna fit mellis ad octo aque, neque»  enim pauxillum mellis una eft uncia ad octo.  Eritieitur mulfa pro potu, fi pro uncià unamel    lis viginti uncieaquæ fümant ur,pauló plus;aut.    minus ; neque enim determinataaque quanti-  tas certó przícribi potett, ut etiam Galenum.  videmus feciffe 3 .acut. 13. 3. de alim. facul. 29.8.  AMetb.cap.a.qui nullibi quantitatis mellis ad a-  quam meminit ; quód mellis videmus effe ma-  enam differentiam,càm fciamus, aliud effe bo-  numsaliud m: idum. 3-40nt. 2.3. C7 4. de tuend.val.  6. Bonum celerrimé coquitur, et celerrimé definit fi pumam facere, inde minus aque abfimi-  Contrà evenit in malo; et prc-  I fum effet;plusaqua a  'Inus;fimedium,medio modo.  vandum eft,fi aqua forte crafficr fucrit;ut apud    lturin coctione.  '[prereà in eo coquendo major indenda erit aque  ']| copia, qua ab fümi poffit; quà in bonc;quód ex  'l|Philagrio colligitur,qui referete Oribzf. s. Co/-  letf.cap.17.in cofectione 2 poivelitis.fi mel craf-  ddi voluit; fi tenuius, mi-  tiam obferVbie    nos Infübres putealis efle folet;quz in melicra-  ti confectione fumitur, et optimum melindatUur,cüm ea aqua, ut attepuetu r,lc nglori egeat elixatione, m el vero illud pau m antequàm illi  aliquantifper effe clixa ida um  ttenuabitur,&in Sf mellis ft Gitan-  im recipiet, facil iüsqu e hy|    mel indarur,    'leniméa  tiam  meabit.    gr    Sed cüm f:    ; fic    cchondría peramfaccharum, ant iqu Is inCo1. dre    CM fd    enitu m, faltem perfectum, noftrum in i ufüitn od Aj$*  medicü, et inter delicias ouftüs fittradvcium,  ancx co mu] Iía parari poterit ? Vuq;,& Opti- ed part-  1na, ci m non tantà poll  ! immo in biliofisu ulior erit et fuavior.C extépc    eat acrimonia, ut m el,    ilf aliqui;non nifi crudam mulfam ex facch laro pazari poffe colliquatione, quod jam faccharv m..    attenuata aqu: i  permeab i hiinisarobo bus attenuatis. rur  ea adhibeatur cautio, ut prius aqua clixeti Ó,   coctum fit. Ego veró et crudam colliqua  i^f parari pofle crediderin., fed p rzftantiorem éffe fue cocfa .  V €octam ; quia Am cocüonem aqua permifcetnr atione,&melius per dXpcenond rm    quàm    obtim.; 1    (UY 9    Cu cda ; quàm illiindatur faccharum,& i in minori quam junii  py .  pitate; ita ut fepé prouncià facchari libra aquai  T fufficiat, potiffimum fi affectus non admodumaliii  a ftvans fuerit; 1n quo cafu fucci limonum non--joit  nihilin coctione addi poterit.    ^^) )];  A2 5  $2. Oxymel, et Syrupus acetofus ad pen-Jn.:  paraci ra. m veniant;qui et pro pori ad fedádam fitimsdau  310 »    et pro cib: cibo in peracutis febribus, et pro medi-1u  catà potione in ufüm medicum fe penumero ve-4r«i  piunt. Hiintriplici funt differentià pro varic]y)  q^ de ufu:vel enim funt valde acidi, vel mediocriter;?  vel minimüm.De primo Hipp.3.4041.26. dc fe-4 m  cundo 3 .4cut.30. de tertio 3.4€4.57. locutus eta  De tribus iis omnibus Gal.4.de tuzd.val.6.d O38.  cens illorum mixtionem ex aceto, melle, et a quà ;aut faccharo loco mellis in fyr. aceto f|  emm ec Minimé acidum fieri afferens ex unà parte ace?  EN ti, duabus mellis, aut facchari, et octo aqua  eDænl, De Mecium ex un ià aceti, duabus mellis,.& qua:  tuoraqua : Valde acidum ex duabus aceti.  d ecu mellis, et quatuoraque. Galenum fecutus etj,  Oribaf. ;.Coll. 24. Paulus folius acris meminiifl.....  lib.7. c. 11. Mefue folius mediocris meminitij..  compofitic némq; tradidit. Sed animadverterg,, ..  dum,multüm i in cocturà à Grecis differre . Gad.  ]enus enim ad quartam, aut tertiam exccqtp..  debere dict. Plerig; i ita intellieendum cenfen]...  donec remaneat tertia, aut quarta pars, qv ibub.  fübfcribere videtur Mefue, qui feré hoc modi  excoquit, ut pertotum forté annum confervtd  tur, quod etiam omnes Seplafiarii faciun cV  rüm  A rüm illud veriffimum eft ; cenfüiffe Grzcos, fo-  ""tilamtertiam, aut quartam partem effe abfiimen  "dam:docuit enim Galenus; o xymcel efle tempc-  jrandum,ut vi inumibidem ; cüm autem vinum,  inumquam meracum biberetur, fed tempera-  tum ; ut colligitur ex Plinio 14. AVaruralis Hiff.  Wicap. ult. Ib.2.3.cap.1.& hocipfum vario modo  "temperaretur, aut pari aqu cum vino quanti-  "Rtate affump A t plusaqua addétibus :& hoc  itriplici modo i£ duabus vini tres aqua;aut u-  mi vini vtm ruei ;autdeniqueuni vinl tresa-  uæ addentibus; ut docuit Plutarch. 2 3- Sympof.  Meuse[?.9. Athenzus Zzb. 1o. cap.S. C" 9. Siigitur o-  Ixymel ut vinum temperari dc ibba atjnumquam  jad duas tertias,aut ad tres ex quatuor excoqui  Jporeft "- lioqüin non modo du pla, aut n Ja ad  lim cleri, fed tripl io;aut quadruplo à melle füpe-  Jirabitur : quoniam mellis R minus a-  dqua ob craffitiem, et vifciditatem abfimitur .  Exemplo fint;una aceti, due mellis, quatuor a-  quz unciz in qu: irtam redigantur, erunt una  illincia cm dimidià, sícquetota, aut penetota  "eric mel ; fi ad tertiam ;€runt reliqvz duzun-  "rim,quarumuna cum dimidià erit mel, media  &ijincia erit a acetum; ncn gum ges duri imilec erit vino; quód fi unica ex qvatuor,  aut una ex tribusabfümatuor ; optimétempera-  Jfmento vini correfpondebit ; quód fi ! War decoctio cumaquá,vis aceti et in fa  flu odore cum melle " hnqvetur  didiu coqueretur, mu    po re,    lía fieret mexæifima .    te   .K » b  e VM^ Aon! UA -  MK,    ; quód fi tam- mee    "v, yy in cra    ^ .  46 evita m    AAA ]- 9 quét note  pode pod.    Ps V.    v evæe"",  e in extrinfecis erat in uft,non per interna. |!    Ac    Ox nei  wen m tg Animadvertendum pratereà, Pharma--|  rbi 4; Copolas,ut diutiüs oxymel ; aut fyr. « cetofüm-.| Is    rela 4 confervare poffint;ex decreto Mefüz, pris a--  Galizico, quam et mel ufque adeo ex coquere;donec totajj  quomod, aqua,aut pene univerfa abfümpta fuerit ; mox i  perttr,| acetum addere; et iterü coquere, omnino quoc:   aquz reliquum efta abfümentes; sícqueoxyme:  non fieri ex aceto mulsá. Vbiobfervandum. |1ii  oxymel hoc ita paratum pro potu nutrien te Lin ub  ufim duci non poffe : eft enim potiüs forbitio,t: quàm potis.  oxysel $4. Cavendum prztereà,ne Medica coma] xi  rix muni noftro oxymelite u tantur ad humectani]  Z0 btt dum ; cim exficcanti potiüs facultate conftet: a  dd cümaquáà carcat;in ufum tameneetiam hoc nof x    p fs leote is ducitur, quod di uluatur;liquidümque, et    «a.  PF    i    fluxile reddatur quadruplà fere parte aqua:  E. aut ftillatitia,aut decocti al licujus addità.  Quar! $$. Obfervàndum praterei,in plevritide» T  "fot bi cra(fifcnt, et vifcidi humores, oxymel noo]  zanbectlle " : ri ;   fn m imbecilltus effe;quàm fit illud mediocreqi  inaididad cut m in €o cafu valde acri utendvr m docuerij   ht »p.3 2.4C€HT.2.   á $6. Obfervaridum pretereà,fi per totum)  nofirum morbi decurfum utédum fit oxvmelite; aut fyri]  3) acutis. acetofo,neqs acricrineque mediocri effe utem]  zit ac-, dum in acutis febribus, quód non humectet  comfnoda potiffimum noftrum ita paratum ; fed doce    ad era[ia    "- Hipp. 3. 4CUt. 37.0tendum effc eo; in quo minii  T y de Y - :  J4À V^ vt vi 6 mum    CLI'A9M .    cA  MER  w^    € h 3 zx -  &*  mum aceti fitadmixtum, ucmultüm poffit hunectare.nec inteftinis noxam inferre.    57. Cavendum pratereà, ne in oxymcelitis 5.    autfyr.acetofi compofitione acetum illud acer-  rimum fümatur.;aut ex vino Cretico; vel alio   potenti confectum : nam in acutis febribus jin  quibus, preter facultatem obftruc&iiones tollen  di;abftergendi,& incidendi;requirimus et lhu-  mectationem,& refrigerationem, po tiüs ficca-  refolet;& excalefacere;quàm humectare: aut fi  taleacetum in ufvm ducatur,aquz cuantitas    erit augenda ;tunc fortaffe sentebaslenia des "    'erbis Galeni tolli pcffet;cóüm a.ze val.tuend.6.  voluerit; ex unà aceti, et duabus mellis fieri oxy  mel mediocre ; acerrimi m vcró ex zqualibus  aceti, et mellis partibus:cüm in cófilio pro pue-  ro epilepticoacidiffimvm oxvmel ex una ace-  )& quatuor mellis velit co nfici ; miniméaci-  di m ex unaceti,& octo mellis. Nificum doaceti pro  oxysmnelie  nó ftt acer  YImi,n6»  que ex vis  n0 pottne  tffiano,    echa ifa    CM.    &iffimo C iealino dixerimus, libellum illuzi (pen t    effe quidem Galeni ; fed multis in locis depra-  vatum : potiffimum cümoxymel ex favis confi-  ci ibi tradiderit d. 9 oppofitum docuit (2 4.de  val.tuend.6. € 2.de Fratt. 29. Qvod fi ex favis    QUIS dixerit doc ffe conficiendi m Gal. lib. dt med    T her. ad Pa mbil. oxymel,1s fciat,librum illum  Galeni non effe, quod vel inde collieitur,quód  diverfo modo compofverit ibi Theriacam, ac  lib.de T her. ad Pi[onemyac lib. de Aztid. Deinde  conf tat, confilium 11lud pro puero epileptico  efle depravatum,quoód dies Canicilarcs confti-, quat    c E    jo. tuat quadraginta, viginti ante exortum Cani-  cule, et viginti poft; quod Galeno repugnat, et  Grzcis fimul,ac Latinis omnibus fcriptoribus,  Caniculares dies ab exortu hujus fideris in-  choantibus, ut longi oratione ; &" 72 Cons. lib.  Hipp. de æve, aquis, (f locis, in Com.in Probl.  "Ariftorelis, docrimus . Colligitur ternó,men-  dofibm effe libellum illum ex eo, quód pueris  epilepticis apium cócedendum, petrofelinutms  -abdicandum cenfet, quód petroíelinum lzdat  epilepfià correptos ; cüm oppofitum reperia-  - mus apud omnes fcriptores ; apium epilepnicis  obeffe,nullà fa&à petrofelini métione : fic Plin.  lib. 10.cap.r1.fic Alex. Trall.Izb.1.cap.1 $.(ic Avic.  lib. 3. T raft. 2. cap. $$. fic Serapio /ib.Sigupl. cap.  190.& Mefvezn fua Praxi,cap.16.de Dolore capi-  tis. Nifidixerimus, corrigendum effe locums  illum in confilio epileptico; ut loco, seii: par-  res o£fo, lecamus, aqua partes oclo;fic enim ccn-  veniec cum loco 4.4e tuezd. val-cap.6.  $8. Cümin vino concedendo in febribus, et  Vin f? sotiffimüm acutis,tottantzg; controverfiz ex-  &ricitant! entur,ob varios Hippocratis et Galeni locos    ^    bus acut? ; v ips  zoterd. intet fe contrarios, de quorum conciliatione s;    emdi per 755 : :  fe libi à nobis conftitutum eft, nempe, numquam    "V ipuw in ratione morbi effe concedendum, aliquando  arqtiscur vero ratione caufz, et fymptomatum, tum eta  aliquando ceorum,que fecundum natutam dicuntur,& vi-  concedz-. rium . Quoniam autem alicubi concedi paffim  Lar. intelligo; ut in agro Neapolitano, et fortafle;  frequen^ s,  cádémque controverfià quid fentiendumffit, a   s   frequentiüs,quàm debeat, atque non apparens Æneis parue  tibus fignis cocticnis  eftuantéq; zgrotantes 5. 9udA-vvemes ve quàm felici facceffusi pfi viderint; nos Infübres. 42447,/& »d  laborantibus febre acutà, € malignà cmnino   vinum interdicimus ; quod adeo felici fucceffü  fit; ut ex viginti laboratibus maligná febre cum  maculis vix unus intereat, nifi forté, quod rarif-   fimé evenit; ratione virium aliquando conce-  datur.   $9. Cavendum tamen,quantum maximé pof vis »-   |! fumus, nein noftris his regionibus vinum con-. 4az ; ne  cedamus;etiamfi coctionis figna appareant ; vi-. 9Pparéti-  demus enim plerofque ex quávis vini conceflio- 9! 4wi42  ne,quantumvis minimà, in deterius labi, atque en eH   ^ . Y et éh9n15, a-  denuó materiam recrudefcere : quod cüm fx pé ni Teis-  acfepiüs confideráffem,viderémq; antiquos ad- dian  eó frequenter vinum in febribus conceffiffe,, dido,   |! non folüm ratione virium vitalium,aut ÍymptO-. e; cur.  matum, fed enamad adjuvandam cocionem, vabcaomee Vi fud;  materie morbifice ; atque ad promovendamil- -  lius per lotium evacvuationem, ut videre eft 11. 7  Meth. med. 9.5 1.2d Glauc. 1m curanda tertiamay 73 C quartana febre;tumad fputum facilitandum,  Ut I. AC4/. 22. 3.Aut. 1.C7 4. 4CHf. 37. non aliam  horumaptud nos infelicium eventuum ex vini  exhibitione canfam effeconjcectavi; quàm vino-. «vsum,   rum noftratium conditionem, Rubra;& nigra vufAr«w foy -  optima multa fint,quamvis primis menfibus et q .  auftera,& craffa,fed mfnüsaptaad febres,quód    nec urinas promoveant, necíputum facilitent.   Qua alba funt; aut fiava, aut fünt potentia, aut    * e i imbeLN    Vas    ^ ^  ó1 €^    eot ue exéiu  pa? n quet    ^ D  qua dijuatur;    pel ne  itmbecilla: Potentia, quoniam maxime alba. ex-  petuntur à noftris in aperto vafe, ubi compreffis  uvis reponuntursut fimul ebulliant,non permit-  rüntür tamdiu fitmari ; quamdiu oporteret ; uE  debitam coctionem in fe conciperent ; et id, ut    álbo colore oculis ; auftero fapore, quem pican-  tem vocant, palato gratficentur hinc et aufte-  titate coctioniofficiunt, obftructiones excitant,  neque urinas promovent, neque fputum adju-  vant; pratereà veró caput petunt quàm maxiime ; ieneis partibus validéin ipfo contentis, ob    terreftres partes admixtas : Vnde etiam primis»j    menfibus eratiffima palato effefolent;,fi dulce-:  dinis aliquid cetinuerint,fübaufteris partibus cit:  guftui abblandientibus..    dulcibus duplicifapore  Imbecilla veró et tenuia alba hujufmodi funt»  ut numquam máturefcant, nifi maximo zftatis    calore füperveriente, et ne tunc quidem aufterz:    partes omnino co&tione evincuntur ; sicque m1nüsapta erunt et viresinftaurare ; et lotia. pro-  movere:quod etiam incommodum alterum ex-  cipit, quód, ubi quafi. maturuerint ; aufterita-  témque depofuetint, aut ftatim ferà acefcát, aut  evanida redda  . hant,vnde ad ufüm inepta redduntur .  "dusigitur quàm maxime   pueridis,maxime in acutis, potiffimum   enis, et etiam mæis in internis inflammationi-  bus,utin pl  "debet, potentius potius eligaui,    n malia  ET.  Cau60.    ntür;.aut corruptionem contrær  Evitan-- B^  pud nos in febribus:    evritide;viniufus; et fiin ufum ducti  1 "ENS  quod multa a-Cautio prztereà in bibendo adhibenda. Bibende-  eft, in febribus potiffimüm aftvantibus, quam. fap, en  docuit Ariftcteles 1; Problezz. $6. ut fzpe,& pau- paulatim  latim aquam, et alios potus frigidos ; ad fedan- "bdl. T  dam fitim illam ex calore febrili excitatam eon- M iria  ceffos;affumant: potio enim mvlta;& conferum 5, e,  affumpta, nec exficcatas partes humedtat ; qui-. 5, c ca  buseftus, et ficcitas ineft,cü ftatim praterfluat; fori.  nec fitim fedatzat fi (epis data fuerit; et paula-  tim pitiffando hauriatvr; os ventriculi; cefopha-  eum, lineuam; et palatuni, dum fenfim per eas  tranfit,refrigerat, et humectatialiquà ex párte»  parictibus ; et turicisadhzrens: quin et paula-  um fefe infinuansin carne confcendit,'& venu-  las exficcatas imadéfaciendo,& trrorando hume 7  &at;.. Quodaptiffimo exemplo docet :fi enim» c ri A.  multa aqua.& confertim aut decidat;maximé ft »/fe^ .  ficca fit,in terram; aut aliunde per cavum eorri-  vetur., fuperficiem terra non permeat, fed prz-  terfluit,nullam noxam ducés ; at fi paulatimaut  decidat, aut deducatvr, füuperficiem paulatimo  madefaciens,& ócclufos poros aperiens ; viatfiz  fubfequenti ad penetratiorem parat.]Id veró zepiba   intellieendum eft deaquá in potim affumptà gt  ad fitim fedandam;non veró de eà,quz in multà  quantitate affumpta ad exauneuendam febremo  ardentemaffutnitur,quz et multa,& affatim eft  affumenda;fed de hac rezz Cozz. noflris im Probl.    4 wel illud, quidauid dicatadverfus Ariftctelem Hie- Mie S ua remias Triverius zz lrb. Hipp. de vitu idtotarum.. ved.  61. Quamvis fomnus in acceífionum febriü  ES v1 omnium    E utens p 7  E Suc P AI á  S»m»»us Omnium principiis, confenfii omnium Medico--|  aliquando tüm, et mulus rationibus id perfuadentibus, fic] ^"  in prizci-- fueiendus, animadvertendum tamen, aliquosi| ^  pio 4t'«[i? teperiri,quiadeó fenfu exquifito in mufculis, &] /!  nf "C esrpofis partibus fünt, ur faperveniente effifio-|  Pind ne materierum acrium ad illas partes, unde ri-| i  Tm" --gofem illüm concuffivum fieri Medici omnes:  profitentur, tantis, támque magnis doloribusi| 4!  conficiantur, ut vitales vires profternantur, &&| |!  mots fepenumeró fubfequatur; iniis non folümz] UU  in principio fomnus, eft avertendus, fed potiàss  omniingenio procurandus, ut fenfus ille exqui--  fitus retundatur,aut fopiatur,rigorque;& doloij 5i  mitior reddatur.  Somnus 62. Somnus in febribus potiffimum acutis, ff;  immodt- -yyodum cxcefferít,licet majori ex parte malo &«)  74/1? ^ erotantibus cedat, et proptereà fit evincendus ;)    i "aq : quoniam tamen,ut omnes alias à naturà factat!  € " 2 :  ida €vacuationes cohibet, ita eam;quz perfüdorem] i    fit, omnino promovet, fi in fine ftatüs univerfa.]. i  lis febris,ant in declinatione fapervenerit, eciafí  temporc modur excefferit, ita ut decem, aut e)  tiam plures horas perduret, non eft impedien«] ju  . dus, potiffimüm fi indicatorià die imminere crisd i  fim perfudores commonftrarum fit:fit enim fæ] or  penumeró, ut promotis per longum illom fo;]  mnum füdoribus ex univerfo corpore, et ex illeéd! ti  /ode)e ves lomno inftanratà naturà,& morbus fo]vatur, 8&  nes eger convalefcat : coenofcemus autem ex fienisdi i) * prafentibus bono ceffurum hujufmodi fomnum]  vornvwté $4. :, 4n T  /^ -. longum.fifine tertore fit, fi lenis, fi denique il]: t  lum    /  Ó oil .   y    jum non imitetur, qui in lethargo, comatosisve  affedibus paffim confpicitur : Videmus enim,  aliquando excitatos zerotantes hujufmodi,e-  tiam Medicorum confilio, impeditos in hujuf- -4r  modi evacuatione recidivam feciffe . Proptereà  cauti maximé in hac re Medici effe debent.   63. Inaére frigido admittendo in acutis, et 4er frigi-  zftuantibus febribus,hec adhibeatur cautio: Vt 4us acu?  pro viribus frigidus quidem ær ambiens in cu- febricitan  biculum admittatur, et procuretur, utomnino tibus quo  et infpirari poffit, et interna vifcera xftuantia, "ede ce»  refrigerare, et faciei oblectamentum boc affer- eedendus  re ; reliquo autem corpori ne nudo obveniat,  omnino cavendum ; quin ne etiam nimis tenui  ftragulà;ac pervià operto: circumverfante enim  acre ambiente frigido aut flatu, et calidus va-  por, exhalatiove,quz foras perfenfumeffugien . N  tem evacuationem promovebatur, ad interiora ^4? "  repelletur, et pori cutis pervii fcrtaffeadftrin-  gentur, et internus fervor adangebitur : immi- nuenda quidem in augmento, et mæis inftatu zn v^  erunt cooperimenta, ut zftus ille imminuaturz ewe  per univerfim, et natura inftavreturàtantola- ^  bore; at fenfim id fiat,neque eó ufque, ut illa in-  commoda feqvi poffint.   64. Non placet tamen eorum confüetudo, Nà zii:  qui quafi eeris vim inferentes, plàüs nimio coo- cooperien-  pertos,& ftragalis obvolutos tenentfic et tran- 4; fregu-  fpirabile mæis corpus reddere cenfentes poffe, ^ 4c?  et füdores prómovere : cüm alioqüi illud ni- f'^rieiran  mium effluxum fpirituum efficiat, et fübinde, '^*,,  D 4 V)IeS  eH)  Viresimbecilles reddat ; hoc autem violentiam  naturz inferat, et aut ctuidum humorem extra-  hat; aut qui per alias partes exitum fibi quate-  bat ad cutim vi quádam ; naturá re pugnante s  attrahatur,    xc ELA  LVDOVICI  4 PPTATITII.-. Baimaduerfi ionum, et Cautionum Me-  dicarum,   diui  Eas comprehendens ; vorige A2    Qua ad Pbarmaceviscum negotium pertinent .  e    Ep Vamvistáquam veriffima fit Hip- Medica pocratis fentéuia, 2.24pbor. $2.O7- materia  "ia [fecundum rationem facienti. [i nom mutáda s  [nccedat fecundum vatioriem,non e[f  ^ tranfeundum ad aliud fiante eo, quod  e principi o vifum ef? . Cavendum tamen, ne diu-  tius in eàdem materià medicá infiftamis, potif-  fimum fi in alterantibus verfemuür ; fit enim fz-  penumeró,ut, dum longo temp« re eodem remé : gue Pm  dio utimur,natura illi affueta ita illud in alimen/Æxsa Área.  tum vertat,ut morbificam caufam evincerenon  7  valeat;potiffimum fi alexipharmacum fit; pecu-  harique qualitateagat. Immwutanda ieitur crit  materia prafidii, et quantitas etiam ; quz adeó  Certa przfcribi non poteft : hac enim ratione et '| vii  cxiftimationi noftrz confülemus,& eegros obfe-qj   quentes magis habebimus;ne tamen id frequen || ii   tds fiat,ne ignorantiz notam per inconftantiam || i  fubeamus.  Puean-  2. In purgandis humoribus per medicamen- |.  dunagrg tum five [entens, fivefolvens ;ut multa funt à  irte. Medico et animadvertenda;& przcavenda ; ita exptd't," huic noftro Cautionum libro minimé inferen« q«o»do da,quód regule, et canonesilli non nifi cautio-  *45f?  nesomnesfünt, quibus Medicum jam bene in-  £derit«  fitutumfü pponimus : hé igítur in immeníum  (ec e A erctef. cat liber, folüm cum Hippocrate ;z fræmen  " eile 4. t0 Ib.de medic-pareantibus,ilud admonebo,;4ebe-  TT re AM edicum pre[cripturum phaymacum quod far-  frm» vel deorfira purgat, prits £m '€YTOGAY€ y HHTA   alias phavmacum pureans bau[erit ; Cj num alvus   ex pur eatoris deor[im f actle fe fol'vat, ac cst oberug Parsvelporius dura fits hæc enim erit cautio pur- € l "T : 4  AFEA CIAM 1 gatorla 1n metu hvpercatha 1COS, ut naturam /!|  WU eoo, e. on epa 1 tí    peculiarem cognofcat eerotantis,cümnullisno-  tis idiofyncrafia cognofd poffit; quam fi cogno-7.  Ícere potuiffet Galenus, fe zqualem ZEfculapio cenfüiffer : adeó enim aliqni faciles ad folutio-  nem funt;ut vel primo pharmacorum odore tre- .oa,, Pident, atque in fluxum folvantur ; aliiita duri: alvo fünt, ut vix ullisremediis alvus refpódeat;^  fic enim ant mollioribus, et levioribus ;autvæ lentioribus uti poterit.  Purtame 3. Atfinüquám pharmacorum alvtm fübs |.  dum inter ducentium ufumfe inüffe affirmet, rum demum exquiANIM.ADVERS. LIB. III. f9exquirendum, num, dum fanus effet,officii me- 7?s4re o  mor alvus füerit, pro conditione rerum affum- ertet; 2»  ptarum, et numà pleniore cibofe in fluxum ef- !riea fit  fundere alvus foleat ; fic enim tutius zgrotanti pr  confüleré poterit Medicus.   4. In lenientium medicamentorum ufü, cüm LexientiZ  videam Medicos adeó diffentientes,& in quan- «f ati-  titate; et in hora exhibitionis,& inintervalloab !5s:?ri»  exhibitione ad cibum,concedentibusaliquibus, 4?7mer-  puta, fucci caffiz ad minus unciam, tum et fe(- *91^?^  quiunciam, vel electuarii lenitivi, vel dia pruni,  per horamante cibum, et hunc potiüs matuti-  num, quàm vefpertünum, ut fomnum fugiant,  quem poft medicinas imbecillas fngiendum;au-  &oritate magnorum virorum omnino probant, Je esce  vc] eà ratione, quód perfomnum et evaciatio-e Certo .|  nes perfeceffum impediantur, et medicamen- -  tum naturz adeó familiare alimenti naturam.  fübeat;quod in Italis Medicis Francifcus Valle-  riola;2.Ezarrat. c.$. maximé reprehendit: Nc-  cantibus aliis; aut hzc in principio morborum.  effe concedenda;aut fané admodum raró;in quo ;  numero Mercurialem noftrum effe video JEgo ww ^^  de hacreita cenfeo: Infebriumemnium, &a-  liorum quoque morborum curatione,majori eX ;», (5,45  parte ab initio lenientium ufüm convenire; et UA wav  excrementa;in ventriculo contenta, et in vicinis |.,. A 7...  partibus, evacuentur, et ut commodiüs, fecu-.   riüsque incidentia, tenuantia ; et abflergentia,,  auxilia in ufum duci poffint, fine periculo ; nez  crudi fucci ad intimiores partes ducantur.    5. Quà    NOS oe)    : "  gras * mo lHh    e urhe Kata VeTO quantitate ; diftantià à cibo; et  dt tempore ?. Sané nifi cautio adhibeatur et   diftindo, in errore verfabimur : Aut erífmin»  T bs. princpio morbi ad. prefcriptum ufum exhiben-  dz,diffg. tU; ut progreffu morbi;ut alvus aliqua dejiciat  éio. Andies,cum enemata, » quód aut renuuntur, aut   . leduntautnihil fübducunt;a aut alia causa; in u-  füni venire negueupr d 1$1 ob primm occafio-  nem, et ad unciam, et ad id fefquiunciam concedi    zx. ; debent, et a aliquanto tempore ante cibum ; et   / potiüsmatutinum, quàm vefpertinum tempus   eligi debet, nifi aliter acceffio febrilis perfua-   deat. Colligiturid ex Gal.2. Ze em facul. cap.   31. de moris, mox etiam de prunis agente, ubi   alt : dl vups pruna movent,, Sinai f f prandium   gon ftatim. fed aliquamto poft in* ervallo inchoetur,   capo t[ola comedantur ; hæc enim communia,   omnium laxantiumm przcepta meminiffe opor-  Lax Iet ; ut enim perfeinexiftentia excrementa fub-   vunt edi qucant »fine cibo per fe concedi debent;ne veró,  tmc)en    E ' cum naturz ea famil liari ia fint, 1n aPRSCHÉ Ver-  E d «t tantur, non multo poft cibus eft 4llis concedén-  d Dx 4t - dus;ne veró fomnuminterrumpant,dum alvum  (s das p ád excretjionem movent.;c rd poft quatuor;aut  fex horas fieri folet - po tis ante prarídium erit  Deb; . exhibendum. 1Q: [Quod fiad ex xcrementa,que in.  rsen  jnteftinisa lagregaptur ex quotidiano cibo,füb-  ducenda ex thibe atur, cüm ld fepius fit oriítatt-  we dum, multó min or copia Mloru m erit conceden-  da, puta, f (cmtu [uncias antea deachnges dein  facile folubili, &e2 quidem. jim-  mediate    (WW dd 4    121]  /Á, )1l eAVO (6:  mediate ante cibum;vel cum ciboipfo;& porius;  cum cana,. quàm cum prandio: ficenim cibüs :  emolliens;& lubricansredditur,& ferculum one Jtvculn  lud hquidum;aut ju fculum medicánmientofa m. UPC OBPINT  induit qualitatem lubricantem ; et felectaà nüs-   turà parte nutriente, reliquum, quod adanteftis:  na transfunditur, et fxces contentas emollit; et ^  tunicasinteftinorum lu bricat neque .cruduma:  fübducit; quoniam ; cüm naturz ea familianas  fint; illa non averfatur, aut cum crudis expellit;  fec d co ncoctione faétà, quod familiar '€ ma91s at  aahit,reliquum.cum ex 'crementitià parte ádin-  teftina pellit; quod cum non fiat ; nifi celebratà :  coctione ; poft fo mnum folet fiéri : et vut millies p Jy OMA  e2o ex pertus fum, et nof ftrates Mc dici meoe exg« "2 Ja  1o cognoverunt ; hoc modo au t famiuncià ; aut    ctia un duabus dr achmis fierenumeró 1pajor ex- dg tetas  crementorum copia educitur, quàm cüm uncias '  &e etiam fcfquiuncia per horam;ut moris eft5ane  te prandium exhibetur : fomnus potius adjuvat:  coctionem illam ; et lubricitatem ; quàm impe»  diat. Neqtie interrumpitur, quia quantitate» à  tardius agit,& non nifi poft cocticnem . Auctos -  A    ritas illius fententiz-& VaHeriolà adducz ; aut. 2^*  de primo modo exhibendi ea intellivitur ; vel v m  potius deveré purgantibus debilibus; de PME  alis. G. :Ab affumpto autem medicamento: veré 1 viec d    *    purgante;an fomnus co ncedendusamrerandüf- ZU AN z  91272 '4  vefit ala eft ratio ; neque unà refponfic né po«^  4072 b] e?    eftíausfien ; aliterepim eft agenduniin medime quands.  CoIento ;   utenchitt «améto lévi;aliter in valido:alia eft ratio, fi me«  dicamentum fimplex fitmedicamentum, alia ft  venenofi infe quippiam contineat, ut hellebo-  rus, Colocynthis videntur : neq; idem imperan-  dum.fi liquida exhibeantur;autin boli formam  mollioris, àutfclida concedantur, quales funt  : pilulesfiex ex blandioribus fuerint, et 1n formá li-  quidà, vix eft füperdormiendum, nifi ventricu-  lusadmodum imbecillis fuerit;fi bolt molliores  fuerint, et medicina fatis potens ; aliquádiu fu-  - él mela perdormire licet, potiffimum fi naufeabundus  emi 9 fit eær,aut debili ftomacho;fic enim faciliüs ad  potnded actum ducuntur, et non evomuntur. |A pilulis  " £^ * optimum eft dormire, et longiori tempore, ut  PIS etus colliquatz, ad adtámque deduciz, facilé  sol i - D PUS fuum exferere poffint . A valentiffimis au-  E tem medicamentis affumptisjin « quibus virulen-  ti: nonnihil ineft nullo modo dormiendum.  ceníeo, nevirusad principes partes, et potiffi-  mümad cor per fomnum means, qut ad cerebrü  vapores transfufi nóxas pariant in&mendabiles .  yin m Malé iis confülitur, quibus ab affumpto  -aMfumpto, pharmaco,;ne vomitus fuperveniat,calidi panni    2e / 07A 7v   M   reet n -  p    34A / 7"    zeli cs hoc autem et calorem naturalem à loco avocat,    lida sop G fa penumeró flatus excitando ex materià inis    fentappli ventriculo contentá naufeam promover. Gulz    canda.  igitur, et ecfophago potiüs frigida fatim sdmovcri debent;ventriculo autem non r.ifi cüm dif-  ficulterad actum deduci peteft, aut dolor à fia-  ^ £u congula y ant àut gule,aut regioni ventriculi applicantur ; il-.  y.gioni yg 10d enim potius vomitum trahendo conciliat. Concitatur, calida applicenuir. Cavendum    autem femper;ne calor excedat,revocatur enim    -.| potiàs fic natura ab opere.    8$. Cüm Hippocratem viderint aliqui ab ex! J| hibito helleboro, aliove medicamento validio- rl,cremorem horde! exhibuiffe, E reliquie,fi   ul quc adh xererent medicamenti eefophago, fupe- ricribusq; ventriculi partibus,fü bh erentur,aftüsq; ex medicamenti vi in ventre productus    'reprimerentur ; poft quodcumque medicamen-  !tumaffumptum poft tres horas, fiveevaciare,    jam ceeperit;five nullus adhuc motus fiat;jufcu-   lum pulli propinant; adjuvari fic cenfentes opus        medicamenti. Quod omnino cavendum ceníeo:   ficenim medicamenti vis hebetatur, aut preter  rationem actio medicamenti confunditur. Ino ^2e44- aod un    fine fané evacuaticnis fiquis id pr rxftiterit, opa-  me illi confulttim cenfeo;nam et fiti ccnfülitut, 5, -.  et reliquie medicamenti, aut humorum fübdu-  cuntur, ehuitur ventriculus ; atque vires aliquo  modo inftaurantur.   9. Purgante medicaméto dato, fi fpatio qua-  tuor,aut quinque horarum non dejecerint egri,  nec bene;nec tutó clyfima 1njici poteft; quod paf-  fim à Practicis fieri video; nam diftentis intefti-  nis pharmaco, ac ruentibus füccis ;aditu prohi-  betur remedium; ;fepéque deorfum pellente na  turà, et furfum propellente clyfinate, pugnà ex-  ortà,dolores concitantur maximi, et aliquando  volvulus.promovetur. Glandem ieitur prafü-  terit ex melle impofüiffe cum fcmidrachmá fà-  lis,    Pbhartna-  €0 nj  pto . son  femper in-  fco p  tres Loret  exbsbéda.    HH eth .    Mu    8U.A. oí "        tædia.    PLarz;--  co no €?  CHante s,    chos 20  " dé sm,  Jw Qo df.  Cun m o    $2 C^fA64 lis, fellis bubuli ; et fucci cyclaminis ; aut cum  pülvere trochif&orunvalhandal, fed cum filo . Quód fi clyfma indatur;fit acre quidem; fed fex«. |...  folüm unciarum. Praftattemen id promovere. |;  cum hauftu octo;aut decem unciarum juris pul-: |..,  Ii;addito faccharorubro ad:dvas uncias; aut un^ |i.  ciàaddità mannz; aut fefquiuncià . :  Vomitus ^. 10. EO ufque mollicies noftra pervenit; ut: quet-NOmitivorum ufus feré exoleverit,ut vel eam ef^ 1  plex, q'ii- fe caufam etiam credam ; ut raro rebelles morbi j..  £4; » C A nobis evincantur;ne tamen id fineanimadver- . |.  4775? fione relinquam ; animadvertendum ; cümdu-  j. V^  uley fit vomitus, arte procuratus, Vniverfalis u-, sese Dus; quototius corporis conipages, fi quid malt"  concepetit;evacuatur pervomitum : Particula-  ex eactrisalter;quo ventriculus autà collectis per fe»  . excrémentis infe,autab affufis aliunde ;inani-  tur... In primoillo exercendo;cavendám ómni-  no effc hyemem dicebat Hipp. 4. Z4pbor.6.quod. «c cim czaffi humcres tunc exuberent ; et viz non.  fintaperte ; corporisque compages denfior fit ;  juàm ut locum humoribus attractis concedat,  difficillimanireddunteam actionem;fecüs eft,fa. J.  vacuare humores per fein ventriculo ratos ten--. taveris : frequentius enim id przftare debemus |. ^  . hyeme; auctore Hipp. /ib. de [alubr? Dietas quo- p).  " mani inquitjboc tempus ad pituitam f ecundins eft; V7  et quamviseo tempore ventres ftatuantur cali. |.  dicres;r.2fpbor. 15. quoniam taroen pituite me-.|  tropolis ecerebrem, ob aéris frigiditatem 1naXi- ||  iné pituita abundat; unde defluxus illius ad pe- ||  ER Kus»     bs    7    - 11  étuss et ventriculum ; ideó vomitus hyeme ma-  21s conveniunt blandis iis avxiliisqua naufeam  promovendo partem illam folam poffunt eva-  cuare;ut docet Ga ld. $. denfupart. cap.a.Atfi he-  pate fe exonerante, bilis recipi turin ventricu-  loquod ex amarore lineuz, et aliis confpicitur,   quovisid anni tempore ex eniat, evomi poteft;  licet frequentius id eveniat xftate .   11. Numquam tabidi;,aut in tabem propenfi Vemitz:  cvomant,fi fieri p offit, fed per infer DONC cag tabidis i-  tur, ob graviorum fvmptomatum metum. nimtcus.   12. Cavendus itidem eft« vomitus,quibus ca- ;  11 E re eren m  put c tolet; nifi ex recrementis in ventre collectis quibus no  id fiat;a ut quos interna ph leo: 'neobfi idet;aut COWUeIT .  qui laborant moleftà aliqu à ham )ptoii 1, aut O-  culorum morbis ; lipothy miz,aututerinz affeCüoni expofitis etam 1ncommoda eft vomitio,;  ut et 1is,qui fracto;nau ife tiri ndoque funt ftoma  cho, et denique cob ptis, et morboexhau-  füus.    Q   13. Eoufque progreffa eft hominum tnolli- P2area-  ties,rt etiam in medicir is pureantibus affumen : ca vefrige  disvoluptatem qu£&rant, dum illas frigidas a- '4t4» vet  ctu; quin etiam.fi Deo p ;lacet;glacie refrigeratas tlaciata n  expetant,.X fzpé ab adulantibus Medicis con- "Je c?  cedantur, non animadvertentibus, et multum NS L  de naturá proprià per: glaciem corrumpi i,igne: as  partes, in quibus maximé purcandi vis ine   extingui, difficillime ad actum deduci, dolos res   fa epe excitari, tum ex frieiditate; cum diminu   actione medicamenti;& fe penumceró adl j:    L h uinc- humores in ventre cexiftentes,.dum adhuc denfat  magis,contumaces etiam nimium reddit,unde.»  repugnamus actioni medicamenti ; indéq; tor-:  mina,& inteftinorum dolores . Phawnz- 14: Cüm noftris his temporibus,quibus Chy  eor vali. micis, et Hermeticez Medicine locus fepé datus  dorum p eftillud inoleverit, ut extracta virtutum medi-  vinum, camentorum perinfufionem in vino;aut in aqua  aut. AqHÀ. Nitze fere fiant nifi diligens cautio adhibeatur,  U/'4 eX" errores fequentur inemendabiles: ut enim con-  MK cedi hocutique poteft in medicamentis blandis,  lofa- et placidis;ut Senà,Ágarico,& fimilibus;ut etià  in fimpliciter alterantibus ad calidum:ita 1n venenofis,& fortibus non femper eft tutum,;ut it  Colocvnthide, Turpetho; Cataputià, et fimili--]  »" L L] . M   bus;vis enim virulenta altius permeat,;& cordis]    palpitationes producit;aut fi virulentia non in-  fit; fed mediantibusieneis partibus vehementiam habeat, adeó medio harum mæpnus vi-]    gor illisadditur, ut füperpurgationcs, aut fané dyfenterias efficiant ; fitísque tanta exci-4  tetur ; ut difficillimum fit huic fymptomati oc-4 currére.  nLabarha 2000s Quinimó, vel ob hancipfam caufam aliá info qua funt etiam blanda medicamenrta,qua quód    * .    » vino ex igneis maximé partibus conftent;ut R habarba-  Eris k Y^ 2 llc i -   bibita fe-. Yum, fiinfufione facta 1n vino concedantur, fe.   ; : »WE-  "  bres exci- bres fepenumeró inducunt non parüm a ftuán    t4t tes: irrorari udque antequàm Infundatur R hat... barbarum debet,ut ignez partes terreftribu]    multis admixtz quodammodo ad füperticien  trahana ie Re i    P QA í trahantur ; atinfufioin vino facta nullo modo  laudari à me poreft .   16. In. componendis formulis medicamen- Pjarma-  torum diligenter animadvertat Medicus, ne ea «4 d mi«  miíceat,quz multüm tempore differant in ope- frétur, fint   ratione ede *ndà, i ta ut unum ex iis fit, quz non, (* 75 2"4  nifi longo pófttempore et humores peculiares 42^" fé  OCC WIOSS: Pp re agite  et attrahunt,& fübducu nt; ahud ex uis; quie ve-  locifiimé eadem praftant,ut fi quis electuarium   ex ficco rofarum cü pilulis maftichinis mifceat:  quoc d enim citó vires fuas exferit,i jinteerum füb--  ducet medicamenti im tardius ad æendum, aut  dum vix 1d humo res peculiares ag 'creffum erit  at bali iere,sicqi ic imperfecte rem idrieb Unt actic-  nes medicamentorum, et tormina in inteftinis 5  ac dolores exorientur.,   17. In pilulis concedendis, et fecundum ma- Pilula  Inem,aut parvitatem efforn andis, ma- quando  " da eft cautio : fi enim à capite, aut »magza,et  longinq s partibus attrahere deb ent,craffiores qwando  mao páttyd ine formari debent, ut diutiüs in ven- ^orve con  triculo firmatz;& valentiüs $, et mæis à lo nein- ortén  Otis attrahere poffint : atfi ad excrementa fo- /!!If« pre  lüm, qua füntin ventriculo, e XC utienda voten. CAPMems   7 7s din Lorej, pro  tur,ur folemus de pil.alt ph anginis,«& aloe face- sdiadeula  rc, minutulz femper effe debent ; utnon diuibi.  hare ant, fed qui àm primüm abftereant ; fic ad  iium cicermm magnitud Inem eas pilulas exh    ?221720Y € $a    bemus; quamvis ex aloe lotà cenfeéke pilla a-  liquanto craffiuftule concedi poflint, qu3m    1c ex non iota:cim erumrcbvr vosti2    Ra ;  i p. lil    Pilula va  ld:fima  f 7/774 WO  fmit. ma£4    Ciyfieves  p £7 29 211  Js no f '£  [24  HY»    HH Í    indaut    5 yfeeres  ? pragna    ^ 2207  excedant «  Clyfteres,  por .  laborant  bus ventb.    [;2t parva   8  ille foleant;aliqua mdiu etiá plàs reuneri debét. In validis veró pilulis concedendis,nimis    magnz fünt vità ande: cüm enim non nifi longo    tempore evincit à calore noftro poffint, atque»    colli iquari; diutiüsibifirma tur; unde nimis macna fzpé fitat tractio humorum, unde et fuper-  purgatio.   19. Dealoes frequ entiori afu, deillius affu-  inendi cenfuetu dineà con 3»de ejufdem quan-  titate maximé varià, ac de ejufdem i in (cbtibus  ufu,cautiones pluresaut hic,autin aptiorem lo-  cum erunt ad dendz,defcribende eodem ordine  quo fu perius (criptz funt.    :o. Declyfteribus hz fint cautione s Ima,  in eravidis non mu Itàm frequens fit clyfterum    ufüs: fi Veana ge e e fint, progref fi teitifo:  ris per communicationem partes uteri, et adja-   entes nimiüm la bande hinezid'in ferna reple-  tus uterus prol abitur; fi acriores veró fuerint. et  fetu noXxas afferant magni momenti,& ex pref-  (ii, quem in ducunt, prolapfum excitabt partis,  et fxpenumeró 1 cmorrhoidas maximé mole-  ftas producunt "   21. Ingravidis ?randiori feetu clyfterisnon  multa fit quantitas, preterquàm enim quód có-  primit foetum, flatim quafi etiam comprimente  feetu repellitur.  Renibus calculo ; vel infífammatio nela$55    PD LI, borantib us, parve itidem fint quantitatis,ne repletis nimiàmiinteft inis compt imendo dolorem    adausgeant,   In prepingvibus non multüm calentes r, pay  pesada folent enim inteftina habere fenfi ma- guibns, e  ximé prædita ;ita ut ab injectione quafi fübitó ;zzefhinis  expellantur fine utilitate : hoc veró 1n omnibus subi fea  obfervetur, qui exquifiti fensüs habét inteftina. fusselyite-   24. In quibus flatibus maximé inteftinatur- 7*5 7enim  ent,qui enema injicit, blandé admodumidfa- ^4"'w  m neque cum impetu propellat ; inangvfta e- quens    ' calentes e  nim loca pro pulfi venti niln n mdiftendunt par Initcflinis  2   eS, atque einde dolores Ízpenu meró v ehem Cn- turgetib?  tiflimi et excitantur. flatib. cly    25$. lantumdem damni iis evenit; qui et plus 62; LZ  n1mio duratas feces in inteftinis habent,quíaue 42 inácié  inteftipna iis nimium repleta habent; pavlatisns di.  enim em ollise illas dcbent;atque mibdsacti qua- Clyfferes  titatc indita, et blandé admodum. violenter.   216 Ch 3 res,quos ex malvà, alrhzà,mercue 79? s:  riali, violarià, betà, et fimilibus decoctis parant ciédi que  Dhn: I TN DS OUS ffinis fece  patiim Ll'harmacopcla quos Ccmmunes appel$ al. ai. vcpletis «  lant, vel- hac telis ne femper fü n ectos habui, "prs,    Bey iz.  quod decoctum 1llud p: v- tum diu tius Confer- (25,55  ven i Gc quamvis cleo diutiüis fervare incorru- incommq- hujufmodi decocta rrofiteantur,fi tameno da.  affim« cl ervaveris,putridas& malé olentia ef-  fc coencfces : quo nidore fxpenumeró uterus in  mu heribus commoveri flet, in aliis dolor capi-  tis excitatur. Qvare pra ftarct mulsà bene mel-  lita; et cleoid pra ftare ; aut ex urinà cum melle  defpvmato.& o leo e dem praparare, aut fané  recens fcmper decoctum 1l lud parare.  27.. Magis veró iidem cavendi erunt, fi addle 4Jisd go  Ea tà un    70 LVD. SEPT ALII MEDIOL.    eumdem, tà uncià caffiz fiftulz, quam vocant, aut diacaí-  incomto- (iz; pro clyfteribus parentur : eam enim paffim»  dum. |." parari fcio ex recrementis caffiz abiutis face a-  liorum medicamentorum exoóletorum, et fyru-  pis jam corruptis loco mellis, aut facchari;ut fe-  é et magnos dolores inteftinorum inducant;  inalvo folvendà nihil proficiant .  Clyferes. 28. Quantitas enematum major fit in mulie-  pro mlit- yibus. Oribaf.8.Colle&f.cap.24.funt enim ventri-  ti^45 44À. cof v meis,& ventre capaciori;ut cüm uterum.  Htate T^ ferrentminüs premerentur .  af 19. Salemrecentiores femperadjungunt, et  $al clyffe- a a [ .O v  ribu: 45; f quis 11lum omiferit, tamquam fi piaculum»  indédum . Conuififfet; derident,fed prater ufum antiquo-  yum,& rationem: quoniam illo addito non d1u-  tiüs detinetur; cüm etiam per noctem integram.  aliquando probé detineri fcribat Ætius 7 er. 2. fer-1.cap. 129...,  Clyfferi-30 In puerorum clyfinatibus olei ufüs intet-  bus puérá- dicatur, et ejus loco butyrum füccedat ; ne ver-  "i ole nó mes;fi qui funt;(urfum ferantur:sícque Sebeften  indatur. juri,autferoincocti maximé erunt ex ufü ; ex  Paulo //b. 4. cap. 53-  Clyftere ;1. Vt ante vene fe&ionem optimum aliqua-  in indéd^ do eftalvum clyftere evacuare, neinanitz vene  jid  /*- crudamillam, et feculentam materiam ad fe»  P072 V 7 vci bant : ita non placet ftatim fere ab injecto iln4) QU& 6b  f: er VAMA .    lo venam fecare: praterquàm enim quod et fri-  gore tentantur aliqui ex furrectione; et aliis de-  liquia animi füperveniunt ; fit etiam fzepiüs, ut  naturá adminiculante, noa femel tantum, fed bis, ter,& quater,& fiepiüs dejicerefoleant: un-  de aut in ipfo: fedtionis actu alvus perturbatur ;  aut edam artifex in ipfo dejectionis actu, ne»  tempus conterat, ob lucrum vena fecticnem.  exercet.   32. Cüm morbus caufe implicetur ; cave; ne Morbs  morbo evincendo infiftas causá poftpofità ; fi e- caw/e com  nim illud primó tentaveris,quamvis interdum. ?!tato,  mitior reddatur morbus;manente tainen caus, ^^^ vm  aut non evincetur integre, aut fané renafcetur fe T  proximé majori cum periculo. biens   33. Incaufisremovendis, externa priüstol- Cawfi;  latur, fecundó antecedens; tertió continens : fi- "mitis bra  quidem cüm alia ex alià nafcatur.nifi in iis evin- tibus,  cendisis ordo fervetur, fruftra quod primó ex- € ie  petitur, fed poftremó intendimus, nempe mor- ^ ' itd  bum füperare;obtinere tentabimvs . aL dai- eon    14. In comnliran diete endis ;4/ ferv&dnis  34. in compiiceus morbis removendis,fiita ^,    difiideant, ut variæfedes occupent, nec unius,,,;. 5.  curatio alterius curarioni officiat, fimul curari, plicatis  et eodem tempore poterunt, atit etiam diverfo, morbis y  neque multum refert,ab utro curationem exor- quomodo  diaris. procedens  3$. Siveró unius curatio alteri incommodü 4v.  afleratrmaximé erit cavendum, ne dum vni ftu   demus affecti, alterum exacerbemus ; SOUUNU. "rt merece  att e15qui mæis ureet,miaximé infiftemus;alte- ?"!r25  - CDM AF $i " quomodo  ro nén neglecto; autfàné (quod potiffimum ob- ELE  fervabitur,ubi zqué vrecant) otique mediocri-,,,  tate quàdam, et contratiorum permixtione erit  fuccurrendum.    A    E 4 36. In    rra    2&.  : ; 31^ Rd Y "osi  3» multis. 36. In decernendá remediorum copià he fint ji  remediis animadverfiones .. Prima 1n levictribusmmorbis jiu  gio proct- par fit remedium, ac (emel, universimque mor- :| é^  dendum - lumfübmovens; cüm enini leve üt ; nullam na 115  ture viminferet. 2 nu  Extrebis |. 37, Atincxtremis,& periculofis morbis lineal  morbis [^ eunte morbo przftat valentiffimum aádhiberea 55i  2 7, remedium ; quia cim mortis immineat pericu-i:  yep lum;nifi univerfim remedio evincatur, præt pesi?  rendum. CC in mortem agemus . Hinc extremis morbis: ni  extrema remedia adhibenda ; confülebat Ferdi  Mobi Ppocrates.  auediotri- 39 Quod fi tnediocres fuerint.fenfim,& blà-4ic  bus las» dé melius depellentur; niillam enim fic contxa- ga  d? occuy- rie qualitas noxam corporiinurent. INec ta-4  rendum.  ynenádeó lentz eorum remediorum vires effe nte  debent; ut illas morbus non fentiat; exafperatulfo ixi  enim fiepé morbus ; et acerbior fit; cüm morbüs  €4lid; fo- talia remedia facile füperet . ius nólon 0:39. Tn fovendis externé partibus, üt incaleej n  go tépore lcant; prudenter fe cerat Medicus, ne diucius 1r  i» ufum utatur;fcripfit enim Hippocrates: Calidüsfi quii  ducendi. diu,multimq; eo utatur,zgris damnum auget  carnis effoeminationem invehit,laxatis. carnium]  fibris, diffipatoque proprio carnium pabulo; 54  indu&to humore excrementitio;unde etiam nerun  voróm fequitur infirmitas ; nà eorum robur in.Ji  mediocri confiftit ficcitate . Cerebri quoque affi,  fert ftuporem,nam fensás,motüs,cmpiümque- Jio;  cerebri a&Hionum quafi refolutioné pari et hæ  morrhagias concitat,laxatis venis;& fanguine Jh. | fufos wj  ma    itf fufo; et lipothymias; diffipatis Ro paient) &reil folutis membranis, qua mots 1pfa excipit.   40. At veró nec multim f rigidis diu utatur ;  i| nam frigidum;ide manquit E Hippocrates, fi quis  incófideraté €o utitur, fpaífmos et r19i res affert;  nam exitu omnia corporis inquinamenta prohi-  1l ven et ofhibus;ac cerebro bellum indicit.   Ad prohibendum faneuinis flixum ubi-   i] que osos frigida; nifiin pectore fue-  sl zit malum: fümmé enim frigida pectori fünt  inimica; etenim fanguinis, et fpirituum vias in-  tercipiuntjlp fiüfque thoracis naturan n,que carulaginea eft, labefad ant ; quod multo calore    ^ atad v Ita m fo )venca    lam ^    42 In yehem 1enti sok ^: vel ex multà copià    t C aig CCurrat;cavet dotspnerni ident O-  ij rusutamvur;fed noni mihl. eorum,que diícutiünt,  eritadmifcendum : quz enim adf'rinsendo re-  4 pellunt, cum tunicas ficcando exafperent,majo-  d rem inferunt dolorem, hinc potius influxum.  j| augentsquz v« TO ÍO là refrigeratio ine id przeftat,  4d. ut: aqua f r1i?1da,nix,2lacies,narcotica,cüm ma-  ] teriam nimis craffefacia nt ; Mb conden-  M. fent;etfi dolorem minuant, curati. tamen diffi-  ] ciema fec i Im reddunt   43« INarcouica qua í  J| ne temere in ufum ducantur s fed non s in ve-  I hementiffimis doloribus,vbivires concidunt;ut  4i cetfantibus doloribus robur recollieant. Adi la  Eori$ vero Medici erit auc auram momo    1 ^ 7815/15  tu poret    Coma En CERT T) cn diia MN NEQUE T m    Exterois  f igid; $   di nom   utendum.    AÀ (angus  eb ios  ns fiuxf  frigidi.  0b1124    praterqua    i2 thorace.    Solis rgpel  leztibus  in printr-  pio quado    A a, 7  0n fii£fie€    Je  £144]73 9    Narcoti-  ca nntm-  quam sp-  plicanda  fiétuvis ca  ptis -  IN arcot:  cea mnum-  quam in-  1Ya Are.  Narcott-  ea num-  quam in  pueris  Natura  quo ver-  git, 0 du- cere opor-  i5 quo-  apado :inzellicedzt.      ;4 . captántis ; ca in levibus doloribus in ufum du-  cere.   44 Numquam commiffurz cot 'onali, utin  cxteris fit; ap plicentur in vehementibus capitis  affectibus.fed temporibus; et fronu.   45* Numquam in aurium doloribus intra  auris meatum;furditatem enim fepe concitant ;  quidquid R hafis contrà fentiat.   46. In pueris narcoticorum ufus omnis füfpe  étus:fi enim intüs fümantur, cüm aneuftis venis    Bi    4    adhuc conftent; quafi ftrangulantur; extrinfecüs: lits    .autemad fomnum conciliandum fi admovean--lj    een reliquam vitam me morie multam Jactu--bo:    im faciunt.  747. In quácumque evacuatione moliendà à    Medicojfive non Operante naturafiv e imperfe--p«  &e agente, qu :amvis et quó maximé natura tüil s»  partis,tum humoris verei it, có ducere oporteat,    per loca c »nvenientia, id eft  poffunt;& à naturà etiamyf  tentione fünt inftituta, q    aut inflammatione;aut alio morbo. Vnde Gal.  1. 4d Glauc. cap. 11. dicit  teftina laborent vel vulnere,vel infiamma  non effe evacuandum per illa Joca. Tum etiam;  fi vicinus locus ille perfe conveniens parti ali-  cui laboranti fuerit ; per :    fi ventriculus, velin-p  tione;    »per quz evacuartiflor  tem fecundarià inc-e  oni eft ventriculus ;,d0/  vefica, inteftina : Cautio tamen adhibenda eft dii  quia fepe evenit; qua per fe fnnt convententia 5,  ex accidenti talia non effe; ut fi hecloca laborét:    eciJe.    accidens non erit con--P    veniens;ut quamvis thorax, et pulmones ad ex-4i    cipie cnP €    c    " ww 3 EE "  WA. M reu im. iC s Pv lll       /  Kipiendam materiamà cerebro transfufam apti!  Ifimi fint, aborante cerebro non eft per eam viam  "JEvacuandum;quia tracheg arteria, quz pulmo-  '^ Ini juncta ef; cerebro maxímo eft proxima; et fic  Ipericulum effet, ne ad pulmones irruéret, ut te-  "^ Mtatur Gal. 2.27 6. Epid. 52. (  49. Quamvis, que ab Hippocrate Medicin? cj»;  jparente r.24phor. 22.propofita eftfentétia:Coz- -edicari  "I:rotfa medicarz oportet, C" cruda non savere, nifi. opatercs,  Ipsateria rurgeat.qua alioqui raro turget;hujufmo- c eruda  iii fit, ut maxima curandorum morborum fatio 79» move  "i lieà nitatur,ut felicitatem, quà in curandis eeris Vogt?  '"Jper quadraginta feré annos fruot;in obfervatio- siu A  inem hujüfce canonis maximé referre foleam.; dnd.  [quoniam tamen unicam hanc exceptionem ad- (æe  "I Mgecit, mft materia turgeat. tunc enim cruda funt eorlatieii-  i ipurganda;cum alioqui et in plevritide HIpp.2. troverft  "acu. 11. 6c in anginasa. acut. 30. et cüm lotiutmo conciliati  "Wicraflum eft, et nebulofüm, 4. zcwr. 43. quod im- perfectæ coCtionis fignum conftituit Galen. t.de  » [iC rif. 17.& in quintá die, fi venter murmuraveJitit; Hipp. 4- 4€Hf. 64. et in quartà in plevritide,  (quz eft principium, 4. 2c. 76. medicamento  yiflufus fit pureante: ut et Gal. 1. Ze differenti: feb.  "i ja-in febribus peftilentibus ; ($* 1. de compof. td.  lier loca cap. 2. S.curans alopeciam; c 2. eju[-  wilden, cap. de curatione doloris capitzs, (9 4. Metb.  omlemed. c. 4.1n ulcere;fuperveniente eryfipelate; c  qh1. Meth. 9. quod ita puttidum eft, ut Corriei  «Ainequeat;ab initio evacuandum;(£ c. 22. in óph-  Wkhalmiàa; et linguz inflammatione, ftatimi nitio    41 c  firm t4  ÀA1ULA lo    6  LFKD. SEPT ALII MEDIOL.    fluxüs medicamentis purgantibus ab 1niti0 s.    quod eft; ac dicere; crudà exiftente materia, ufn  funt;in quibus certum eft,non turgere materia 3;    E  bo    ;  ]  33    et forté eà ratione, quód praftet aliquid. cum.  periculo experiri ; quàm a grum defütutum re-4    mediis fineremori. Vndetamquam in falo ha-4.,  rent Medici,cüm confirmari fententiam 111a mo «4...    232. 1. Sel. videant, 1. Zdpbor. 24. 4- zpbor.Con;    1o. 4. ACutt. 22. 2. Prorrbet. $8. 3. de diebus decret    o. Iib. Quos, C quando purgare oportet stum fine, pen),    longum proceffumm. quomodo in hoc negouo om:  nium, quazad faciendam medianam faciunt  maximi momenti, fe gerere debeant ; dubii hæ:  rent ;.& quid pro conciliandis contrariis iis fen  tentiis dicendum fit,dubitant. Ánigitur cum.  antiquis Patribus evacuatione diftinctà1n era    epe        dicativam, quam in crudà materia numquamy  convenire;& minorativam,quam convenire afí&  ferunt, fatisfaciendum erit? minime; quód unn    ecríalis fit reaula cum unà f0là exceptione; e 4  ACHE. 22. dicit univerfaliter,non convenire, qui  cruda non cedunt ; at minüs cedent minoratiyl  debilioribus. Nec raró in acutis in principl  uteremur medicamentis purgantibus.Et ratio  Gal.in Com. 22. tradita ; quód. non fit in crudi  tate feparatum bonum à malo, in minorantibu  locum hàbet.. An potiüs canonem intelligemt    lo ewvacnatione 13145 fat C112 41 ert'à ET x "ep «c 28  de evacuatione,qua fit curandi eratià? et præf    vationis eratià cruda ab 1nitlo evacuare poter  mus? AtHipp. 4. acut. 22. reprehendenti Meq  dicos cruda ab initio. evacuare tentantes ob u  fiamba    f   ! Euh    77    lamma itione;refponderemus;excufàti p Te eos,  Iiceremufq l1e;1d ili )s ME  IP d pra cautionis erati    preftitiffe non €    à. At nec placétiiqui cüm  ivacuationem aliam conftituant evacuativam    3 1^  tationis,    Iblum;aliam revulfivam:1 PEE IV ànumquam  Iruda in 1! » rincipio etit evacuanda ;in evacuati-   à fimplic ialiqi ando pofk dif erunt ;cumin  Mevritide;in anegirà, et aliis inflammaticnibu    [$5  Llamus eo tempore revvlfionis eratiàfieri eas    4    IVacuat iones. Pratereà,incommoda, quz fe-  qu fcribit Galenusad crudorum evacuationem,  "I^ Ts iRAdlfi æm In evacuation ;VvCta fünt;  lotiffimuüm cumabfolute, et fimpliciter reeula     'to, nifi t urgeat,    BI LL ciim dus A bobo £02 3  bDiubppocrare ponatur. Minus r« ecipi endi,qui  ki À A   Vacuatione cruaa materla   ]    Ippecratemire]cere centent ». 2Z2pbor. 23. alibi  IT M camdem concedere,frà parte folum áliquà    ia TT . " 213^ *  f5 /5(« I T o: f C PN ' d'a  Mat: Quoniam rationes Galeni non folüm 1n to-, ; TET UT j^w* I PP LEN. X. X mer  Ik IT conv eniunt,;fed et in partiali1. LUA.2CHT. 2.2,    .  leat m5  u'atione ioquit L5 KCuUa c AITCG fit,    i t11, ? f 4 Lf 1 Cieccw n * 1 CIICCLLI CIutcoo1 Cal 5  I. non ad totum evacvuandüum; fed ad n27teva ef  non ad ictl1 L- uandtiun;iéeaa«d partem ei-  1LP DS  ] iuin eit.( jDCCctandaarm    cvoraumm. vec dicenc  Y;    DCctlonem ordinata C Lal üuratione ; coacta veT OW WM a  7      )primatur zeer,cruda poffe evacuari,ut    E. - "* PTWORTAWN P7 2888 C5 on nid  I1quibus vifum eft . Nam coactam effe tureen  Scruda matel Lr paries pd ivo  ; d    s] A" là 4Hh^  lam in 22. Zdpbor. excepit, ni mini on  d A    Pm c E  Jeperaddic. Minus etiam dic potefi    n  liis numquam licere cruda evacuare, ififerte tureeat materia ; 1n morbis autem fine febre ss f  cruda poffe evacuari;quod aliis vifum eft . Con--fni  vincit enim eos Hippocratis auctoritas, 2. zcst« pi  11.qui in plevritide morbo cum febre, five cur-- putt  centiàà principio purgat. Vt igitur jam tandemnafam.  in difficillimà hac controverfià;quid aciendunmfan  fit,eruamus,non pigebit longiori uti oratione nsn  &k preter inftitutum cautionum píacticarumnpui t  tradendarum;cüm res hzc bafis feré fit curatio-4oni  num omnium, in quà tamen omnes feré aberrà-4ul  runt. In primis igitur memoria repetendum efti  cruda, et co&a in duplici effe differenti ; aliat  enim cruda dicuntur; qua coctione mutatà in.  4liti fubftantiam verti poffunt;alia veró non ves  ré cruda, aut veré coqui dicimus, fed per fimilupi  idinem;nam licet nutrire cocta nequeant ; tod  melicrem tamen conditionem ducuntur . De. Bd  duplici hac co&ione, et cruditate etiam prime  locutus eft Ariftoteles 4. /eteor. ubi non folürig  cibum, chylum, et fanguinem, cruda,& cocta;  aprellavit fed et lotium, et excrementa ; vt T  Hipp. 2. 4cut. 44. ubi bilem crudam appellat hio  et Gal. lib. Quos  ' quando rc. C lib.de conjMy  art. med. 16. Diftinguuntur autem hzc, quefhi,  qua concoquuntur propric ut nutrianteamde-fi,  qualitatem, et fübftantiam nutritze partis fufcdfug.,  piunt;quaz veró improprie, et per fimilitudinenps.  cruda. cencoqui dicuntur, non. fufcipiunt ais  qualitatem, aut fubftantiam, fed fufci piunt tail  cüm quádam fimilitudinem caloris concoqueqe,  tis:znam chvlus albus fit in bepate ruber, et faclo.  culs  feuis ruber albas partes nutriens fit albus. Tn.  iM brudo veró cocto, cüm putridum effet, non fit  4muratio fecundum fibftandiam, fed in qualità-  "Jte; ut faneuis putridus cru dus dicitur, pér co-  j ctio nem albefcit in prs. Hinc Galenus varié  illvariis modis coclionem d efinivit. 2. enim de 5  aparurel. facul. cep. 4. Concotlio; inquit ; eff alre-  patio, C mutatio epus; quod putvit 2 [rli  dier egus quod zutriir : Quom ctiam recepit  Hs. de fTrzpt. caufis y Cap. 3. Aiverfam tamen ab  Ihac p fiiit aliam 2.77 1. £ pid. cap. 46. cüm di-  jJlcit ; C ocf10 eff viltoria inbsds leden: 25$. Et 2225  uuedrte zzed. 89. inquit,Cozcoé lio eft -qua finit purre-  edulzzesz, manente [. «bf antia.Ter primam enim il-  dam ver a coctio definitur ; du: n Us 11 isalia ; qua  uper fim:t; tudiné dicicur,quec; putridi htimoris ir S. de coz zpo[. sed. 72 uridup 1 loc.ca 4p.7 dicit:  li C oz coc? 70 eft, Al! era 40 fec: AH0Gb57277. kr 741 Fattoncem »  iud /rriztudrmezz.ut vtramcue cc n.prchenderer,  Jiquód in utráq; fiat mutatio ad fimilitudinem;  afed 1n p rimà fecundum fimilitudirem aualita-  itis. et fubftantiz; in fecundà veró tantüm fecun:  pidum qualitates. Secundó füppcnendim eft;  aAMiquód inflammationes ex Gal.2. Ætb.zed. c. 3.  diiduobus modis fiunt: vclà tranfiviffo fà neuine»  (ikb aliis partibus ad partem 1nflammandam: vel  dnb attracto (a ing: ine: à part eipflammatà. $1 in:  ilflammationes primo modo fiant, ut faneuis ab  anliis parti busa vo - artcm In if: immandam tranf-  qlimattatur,dupliciter etiam fieri poffUnt;vel quia  qpartes afficianturà multo fanguine : ve] quias    T)!)]!10 n.  r eIAAZUCAÀA"  puncantur ab acr rifanguine. Cüm enim multus    KG partes infurgunt ad illum expellendum, atjue ita expellunt ad partem inflammandam ;  n iuten a fangu 1$; SOM taræn dici nó    déteste aptus eft, di iguotiiteto x xced citt  neque improprià cruditate, we P utre dini  eft.qu ia fiin toto abundaret, Íync hum ger nerarét; cüm tamen nulla præcedat f zepe febris. 51  vcróin parte mittente 'compnutru ifi ;jat min eà  parte inflammationem produxi iffet; fanguis igi-  cur ille transfüfiis crudus non exat . Idem dicen-  dum eft de fanguine ex pulfoà parte 9m punctio  nem;ex acrimonià bilis fanguini adimixtze;cru da  enim nullo modo dici p oteft bi lis 11la: neque»  enim cruditate alimétali cruda dici poteft quia    et ;  f21    bili « nó nutrit:neq; putredinaliquia antequàmi    k    fluat,facerct fcbrem ardentem, vel eryfipelata 5;]    non igitur crudus fanguis ille dici poteft. Vbi  vero fangi iis ifte'influxerit in partem inflam-  mandam, cüm extra venas eft tcranfiniffus; incipit caleficri, et putrefcere, tüncquecri udus ffi    citur cruditate putredinali fenfim veró à calore:    natu rali cum €o,qui prater naturam eft, pugnate incipit Conco qui,& ex rubro fit albus; u nde dl...    oritur pus. Hancautem d li(tinéctionem elicimus  cx fonte Medicinz Gal.1. Proezoff. Cor. ult. ub  reddensr ationem,quomoc do fiantin flammatio  nes,dicit,fansuinem,vel humorem non nutr 1e1    tem fanguim mixtum, priufquàm influ xerit 1    cridumappellar non pofle :nam tum p rimün  tántum incipit alterat1, et à fia natvrà in al    leni  peumut AT1,c üminfluxer It; nam fa nouis excidés   propriis vafis, in priftinam naturam revertere  non poteft. fed putrefcit;& mox in pus vertitur,  et proprer obftructionem ili calor prarernatu-  ram accedit; et immutat;càdem de cansa a. de   pat " part.c. Fexvfipelata !    LS preter nituram ex    1   turam fieri dicebar,quód ad retentionem obftrn  |éto fequatur;híncque cal rfequatur przter na- turam, qui ulibsieni orfutmp It ; ex quibus hi-  jyuftmodi affectiones producuntür ; ut I calidà ^  )| propte er dictas caufas, M" vtr lereddità 1 cryfi-   pelata generantur; et qui priis male ol nsnon  jberat; factida tandem redditur : de ACHT. 44. Quà    p    (npp fitione etn CItur,t itin quib icumque infià-  i: 1 A    i    mationibus à biliofo ve hiceatàbinitio pur  ] 1 é » ^ 1* ^ yedi2  sgare,quia humor non eft crudüs ; et proptereà    non comprehenditur fib Ar Sh rifmo 1llo 25. t.    DIOIIl  " Section: b 077C( oCcta "eaicarz ó)CYUda verà nan i 9/70    vere oporter, quia bilis in prin cipit ipflan nmatio«nis non eft Mone Ab initio ver« ) pure    $. - .  "cj  E.    Telle in ervfinelare «| hovenos " nto 1  winteiii9go 1n Ccrynrpceiate, nerpete', et ca teris InI flammationibus,& fimilibus;ubi minimum eft,   f E - xit; plurimum veró;auod influxutum   apett; ut influxuri humoris pars mat r repcllendo  Biitic titt fi multura inttuxiffet; p lus peri-, pue ex "à bhai armaco pbtean  eretur;ob influ-   nateriam, quàm commodi propter fluxt-  td    *-^ 133    r  Lili    dgrams;utdocuirl [tp] ). 4. AUCH. 2:2  i 1.€111   convenit materiam defluxam detrahere ; quód  pro materià noxià bona evacuetur,;vires debili-  tentur,& in morbumadducatur. Quibus pofi-  tis,facillimum erit intelligere, cur in plevriride  abinitio purget, 2. 2C. 11. et cur in angina 4.  ac4t. 30. quia bilisin principio fluxionis non eft  cruda. Át44.4- 4cut.in lotio craffo, et nebulo-  fo puzgat,quia jam«rat cocta materia. 1, vero de  Crif. 17.càm craffum louum cruditaus fignum  dicir;intelligit de craffo,& turbido . Qnód ve-  IO 4. 4CHf. 64. quintà die purgarit, crudo mor-  bo.optimé fecit, quod ex hiftorià conftat, fuiffe  turgentem. Galeni etiam loci illi reeulz non.  refragantur: nam quod de peftilenuali dicit 1.  de differentiis feb.4-nihil eft; preterquàm enim;  quód in peftemajori ex parte materia turget  undequaque mota,;nullum przfigens fibi locum  determinatum;dico etiam,vere crudam non cf-  fe,ut aliàs docebimus: cruditas enim coctionem  (üpponit ; atin pefte majoriex parte eó corru-  ptionis materia devenit, ut corrigi, concoqu ive    ^ : 1 ^  nequeat;de quà putredine locutus eft 2. Z4pbor..].i  17. lib. adver[us Iulia. cap.6.Galenus,quamesy.  nonnifi evacuauone tolli pofle docuit. Aucto-]..    à . X " IR - »  ritatesali: feré omnes funraut de biliofo fan-  euine, in principlo inflammaticnum, aut ervíipelatis affluente,quem ab initio purgari poffe»,    jam docuimus, quód adhuc crudus non fit aut  à * ^A A l4 '   de materià alià, que nullo modo cruda dici po-  reft,quód non computruerit .    in    w/o 49. Cave ctiam, ne inter lenientia, potiffimtj    rs  inbiliofis naturis, et febribus, tum veró maxi-  mein acutis veris mc js IS,fV FI im rcf. folitivi- zer Je2i6n    recenfcas, qnodà rlcrifque Medicis factum viz:ria n3 ca-  dec; cum enun obfervasx    IutivMus $vcrim fe penumeró, aut. z,"era-  fimplicem, aut ex fer idis ]: he mi tumtantam. 45/4 :m    - » y fo 1 z  bumcrüm copiam evacu: 'abtam vix inte- "t" f ves i    ! ( 5 1 j."  ftina;m CIaralCz vene «X ventrici luscap ere £i-. 4o! [f    L N ow  2419212 d   mul pofic nt.femper fum arbitratus ; ab nniver-  CHO    fo corpore ; et venis majoribus humores attra- . 4  hcre.   59894 evi et  $0. INc 'n negaverm tamen,in aliis febribus, $4 AN  * [T1 ul »inteítinls, é p rimis VC- ?A€ 287 niscrud. fun hi mcrum cop1a fubfit, quód al- quando ia    t1.:5 vires fuas exícrere nequeat.ta mquàm abfter PA liS..  í«11..m za f Léntum,anel rcf.foclutivum in. Lai  lí CULICIH 1 (fc. da . NS .*    $1. In fcri lacüs ufu: i uz eP rM plis  modo feparetur aquofa hzc lactis fubftantia à bunt es    reliquis. Modus enim, quo paff: m no firi utun-^ Jndkan QM Oo  ET,Ut CC cl I3 f Da l'éntur,.ut facili icr eft, ita mi. Bo. weit  nus falibrr :; rzftat enimfeparare ut Diofc.do-. "7 *   CCt; Ib.    2. Cp. 276. quod fit ducbns modis : Pri-  mo, fi dec qu: tur lac donec effervefcat, dimo  vcatürq; ramis ficuli    iium  S,& Ubi bis,aut ter defer e  bcerit;confpereati r oxymelite, pro fingulà he  mina,quz eftoctovuncarum;cyathum illius im- « aH^u/ esL  mifcend: id eft, fefquiuir ciam . Secundo modo, r4  a1t; ferum feparari, fi ei cffervefcentiimm erga-  tur vas argenteum aqua frigidà »lenum. Idem.  docet Gal.4.zcut. 7.& Orlbaf.1. E ypor:[toz, cap.  9. Sed multó diligéuus Accius 4b. 1. Quat.Serg. -  e     ^    m    S4. 2: €. 96. qui tef it efférvefcat, et ter defervefcat  vafculo aquz frieidz pleno voluit;mox oxyme  lite, vel mulsà afpereendum,& percolandum  effe,quod etiam docuit Paulus lib. I.CAp. 99.   52. In ejufdem feri affumendi quantitate»    B seriladis  cautio maxima efto,aut enim fv mitur ad univer    Wni^;; ritas  Perbiriasquo fum corpus exp ru E et tunc maxima il-  me lius quantitas hauriend: xeft,fic fecit Hipp. 48y.770de con  EL act. 29. dbi cotylas isad minus duodecim propinandas voluit, que tunt centum 2: cé&o uncim ;  "* quód fi valide fif on 'es,etiam ad fexdecim pet  - venire pofle;id eft, cétum quadraginta quatuot  iasyfcribit;fic enim interpretabatur Gal. lib.    iovorvas ex. dlc [adubri Díata, » Ap 28. ubi Copeium. poticnis  e Tiles am) fimilis propináffi t fcribit ; id eft, centum et octo  a pec uncias M ÆEEA 1 ad ventr pue «m,& inteftinao  44 velim abftereenda ; evacuanda bibatvr fe erum, ea»   £Mroevex Viii is fue quz tradita eft A Diotc.z5. I.  ct eh CA]. 276. nempe qu inque heming. Heminam  Pvgon enim prius hauriendam fcribit, iens deam-  bulandum,rvrsus aliam bibendam ; iterum de-  N eLambulandum;ufque ad quinque. -Hánt (equi-  Mace ace gnaviow tur Oribaf. r. Evpori[foz ; cap. 9. addens, hanc  ef o jen quantitatem T pos deratam. tam Ætius 1r. Quat. Ser. 2. cap. 96. Paulus lib. 1. Cap. 43* tradit  (xa quantitatem dide em tenden remad Ihuc parcio-  4C Tem, tresaut quatuor henunas trà .dens; ps Ic ex-  -- plicans cap. 89.etate vieentibus,triginta fex un-  cias;junioribus folum decem et c&to, id cf,Ca-  v/evam pyo  tylas quat ER: t duasconcedens. Aliquando  nafta ww :atite m fero lactis utimur, tamquam materia i in£e ^  fufio ini5  $;  fufionis, aut maceraàtionis, tunc multó minot jl.  lius « pla f fufhiciet: et fic Mefüe lib. 2 : Cap. 9.à fex  unciis ad duodecim concedit. Neque objiciat else fn à  quifpiam Gal. a. act. 7. aflerentrem,ferum inte- 777   ftina a folum fübire, illàque evacvare;qvod repu-   enare 1]! videtur, quo ;d primo dicebamus, ad   unck is Cent!m et octo dariab Hip P. 4- 4€ut. 29. "T  ad univerfum corpus expureandum. Cum ew -  menipfe tantam quantitatem non pr obaret ; 1,  conftat ex locis propofitis,cüm folüm inteftinao  evacuare fcribit, de moderatà alià intelligenLedicus, n declinatione febrium Purgap-  puturidarnm femper medicamento purgante» 45 55  natcria2,qua me se m facie bat,Cvacuationcin femper 17.  acere ; quamvis enim fzpe hocneceffarium fit, febris  nequerelin quuntur irs Mi ir 2. "Apbor. declinatio  12.Ía pc tamen in * udiciis naturz nihil relinqui-: 7e:   tur: iun À dotar indo, eciamfi nulla crifis fa-   : 5 iir: (A12. .  cta fit,aut recta victüs ratione; et debità abftinen /|  tà aut infenfibili per habitum corporis factà  evacuatione, aut paulatim er c]yfteres cadem.  martcrià evacuata, ^ evacuare1n fine medicamen per (]  to tentaremus, colliquatis humoribus bonis; et /  carnibus, et fpiritibus cxagitatis, ac excálefa-   CLis; nribuqu c deftruciüs ; agrum præcipitem.  aceremusin mortem.  fai JA 2. ndoigit r cognofcem lus, pureandü pz,  (fe corpus in ü e 1 fcb ris? Docuitid Pip poc. 2. quado i  ad pbor.8.ci cit u8z quis a morbo cibum « Jj" Wes declinatio  non corrobor, ng ^ ium g [locorpus pleaoriuti ili: ge feria    : "L2 / 24 EP  putridge mento. Quod fi nec capienti id cóptingat,vacuá-  sm.   tionetumopuseffe procerto habendvm. Vbi  ^ sdàome Gal.dicitintelliecre;fi i:bum multum afiumat,   é&cumappetenta;que fiadfit;non poteft abun-  dare pravis humoribus relictis:sicque non indigebit evacuatione;fi mültum cibum,& cumap- ; petentià affumpfcrit; et corrobcretur: fi veró nó n ge- multum cibutn fumens non córroboretur, indi-  raarua i eec evacuatione. Animádvérténdum tamen.  ! 2tela . corporis hanc confirmationem non ftátim coenofci, fed trium, aut quatuof dicrem fpatio   poft quos dies, nifi fequatur et apperentia, et   Co£toboratio,evacuationé per medicamentum.   . purgari utendum eft.   Purgate $$. Animadvertendum tamen,pureaticnem   diinibfa iam et ftatum morbi intermedio illo tempore»   delin*  (ypponere,& apparcre fiena cocticnis perfecte   t9 ^ Yn ufina:fit enim quandoq; ur ceffante febre pér   2 diemwunum,autalterum, febris ante quartz m»   . fedeat; nion quód non défierit ex ratione conco-   &à materià, quod quandoque fit étiam per ccto   fe cde, . 165 ; neqve tamencrmunatus m. rbus dici po-   4. eb . teft; quia adhuc cruda eft materia : et 1n eo caftü   FI ficn eft in éofpatio pureandum, qnia nec cocta   eft materia;néc feparata mala ab uüili;tenc enim   et totmmina,& vertieinés produceret evacuatios   colliquatis carnibus, et fpiriiibus evacuatis. 2.   "Apbor. 3 $.«& 36. Vnde n intermiffione hac fal-   (flo fn. - sà putantes aliqui Medicieffe verám declinatio   T bem, poftcoctionem materi factam evacuan-  tes, corum interimunt.    $6. In      In iis, qui durà admodum fint alvo, aut  crafsifque multüm füccispotiffimüm in  Ventricu ulo, et inteftinis ies ne medicamentum  veré purgans concedatur, quin priüs clyfma ve-  Ípere injectum fit;ut facil liüs fübducat ; et dclo-  res non pariaG;,exitumque per inferna ncn inve:  nientes humores, et medicamentum, ad ventris  cclum regrrgitent ; quod docuit Ruffus apud  Oribaf. 6.Colle£t. 26.  Criucis diebus;qvarto, feptimo, vndeci-  mo, decimoquarto, vieefimo, fi nihil anté judi-  catum fuerit ; re di bitet Medicvsavt purgare,    f6.  viícid lis    avtíonevinem mittere:critici enim tunc ii dicen  dl ncn fi nt   Tj LM : ind1Caterio die menftratum fit,  naturam cl |facturamsnectair en faciat.levi-  bus remedii, QqUæctian In mant noí ftrà eft f :b-  trahere, manusadqutrices porrigere eàdem die  euam poterimus.   $9. Cavetamen, nein deficiénte natvrl in,  materie motu per alvum id facias, ne major    qvam fitfiatevac uatio;fi auxilium medicamen-  ti tencadjoneas, cüm femel hauftum pharma-  cum revocari nequeat;nec illud amovere liceat:  natur& enim 1$ eft mos, ut aliquando cunctetur  aggredi evacuationem,& aliquando cunétanter  moveat,mox ren validéalvum excludat. Quare poftridie potiüs erit pbarmaco utendu m,quo  manv sqnaf adjutrices fatifcenti naturz porri-  garus    ut quod reftibile eft à crifi imperfectà  exclu iens  k    4 60. Quid    3-;  [ T  4;    y    Clyeseps  indédum   fp? in al-  "Uo daro»  ante pnr-  gationem.    de    Crincás  d b. qua  do purgan  nU .    Crifi defe   Ciente S   240m edo  proceden-  dum.  Cif die  Critica di-  ficiéteyea-  dé die zii-  [il fnovesn  dum .    $8 LED. SEPT ALII MEDIOL.  8ymptema |. 60 Quid fi natura ate codionem fy mpto-  sic zatu- MOS LIGE evacuauonem molitur? Die ud k intut  ya obtran. hic Medici docáffimi. Ego fic fenuc:fi fiat pet  quid loca naturz diffentientia; omnino co hib endams  Medo cum Gal. 1. "Aphor. 21. At fi per co nfentanea. fe-  Pref adé* eatur, cohiberi non debere:nam.fallit interauni  e *« : quz mala videri poterat» bene : iiquando ce-  ge dit.4. zdpbor.47. utin Metone cótigit, r. Epraczz-  Sect. 3 X unde fi cohiberetur, pravi humores co-  pi, vcl qualitate ftimulantes, qui evacuantUr »  ad partem aliquam. princip em calamitcsé rapi  poffent. Et licet et cruditatis,& multitudinis ;  et pravitatis hec e vacuatio fit argumentum., et  fienum malum;rauocne tamen cavufe bonum eft,  vel minus malum: nam minüs malim cft,humo  res educi.quàm p principem partem ferri, S1in  otio quicfcerenti 1i fu cci, przfta ret eos ncn ex-  cerni,fed cum pra viadeó fint, ut partes irritents  praftat eos exclud i.  Symptoma &1. Cautio tamen adhibenda, quód licet ta-  lici natu- Æm evacuationem non convenia t cohi ibere, mi-  va operan- nimé tamenà Medico eft valde juvanda, cin,  16, cant? fiatà naturà non omnino bene agente, etiamfi  agetdum. fucrit diminuta. Imó ubi diutius perfeverave-  rirtalis evacvatio, et vires profternat, omnino  erit cohibendas.    ^    - "  giu    AM. wf Ll  p    C 4  Animadverfionum, et Cautionum Me-  dicarum,  S,  Continens eas,  Ova in [angunis miffione obventunt :    faneuinis evacuatione per fe. can quinis  tam venam, licet illi d fit obfer- miffioni  andum, ut ventriculo, et venis ao» séber  mefcnteri] crrdis humoribus, premitten  excrementis IC| letis ; DOhnL 4a alvi le  pni I hr t; quàm ea abftereentealiquo,aut le- 7t? niente fLbducantur: cavendum tamei ne.fimor  Ibusita ureeat, ut mortis periculum immineat,    Mid faciamus : ehe enim miffione fanguinis 1]li  Joccurrendum eft;ut in anginà,& vehementi ali-  quà inflammatione, et febre : meliüs enim eft,  5 mmunenrem mortem pravertere cum aliquo   i damno, quàm czerotantem à morbo op pprimi fi-   nere; pouftimum cum Jevioribus iis noxis non,  ditfioo difficili negotio occurrere poffinus,  Sovguime  2. In faneuine detrahendo cavendum maxi-  ilo mi- mé,ne quanto putrior em,& deterioris condi-  er ditas tionis fanguinem é vena p rofluere viderimus,  "uanti'4s tanto majorem quanttatein effluere finamus ;  e»4c422- quod plurimos facere obíetvanuis : tali enim.    jo$ exiftente fà inguine, et pauci tores 1 fubetfe fpiritus  VM i£, et vires facilltme folent collabafcere.  Coloris $n .. Coloris in fanguine, qui evacuatur, mutaf ^. gnune dios qua in evacuatione revult fivà; potiffimum in  muttio ? internis Inflammationibus fp ectatur,,non fit ter-  " [1^ minus,& menfura quantitatis. detrahendz;nam  [22027755 in febribus fepe primus fanguis;qui detrahitur,  ruber eft,mox niger;atit [acidus;cujus mutauo-  nem fi quis exfpectare voluerit, pracipitemr-  Cols, &grumagetin mortem. TY Puworb Quin nec in 1inflammationibus internis  fanmuine iuidén perpetuo ilfa col oris mutatio exfpectan  ia inflam da eft vaut enim vix à parte, et circumfufis ob  pittionib. craffitiem quandoque extrahitur ; aut fané tan-  on etiam tà. illius eft copia, ut, fi cole ris mütationemo  exfpectan exfpectare voluerimus, vires o mnino fimus de-  da. jecturi.  Colois i^^ «, Mfutatio hieccoloris ab Hipp. 2. aca. to.  ioi tradita intellieatur; fi prinium albidicrilleflu-  aii ite xerit, mox purpurafcat ; vel cuim primüm pur-  lirenda, PUfeus exierit poft livefcens fundatur ; tunc  Colori; ji; €nim fupprimendus eft, modo dicto.  fanguine  6. Hocautém fervandum erit; vbi vena pro-  aziutatioi xima eft affecto loco ; alioqui fi in alns cafibvs  reviilfrone Aaflamminationum 1dem quisæcre vellet, ni-  inia    809 séper  f, AP  ex[becian    da 4    *    ac Bed Lyc tios æt RN. .....  gr Ræ eros    J| mia foret evacuatio,antequàm fanguisà phlee- /gizqua,   I moneabduceretur. - "am cxfpe  7. Inanginà tamen, et hepatis inflammatio- 474a.  ne, copiof fiü: s fanguinem extrahere potetimus, I» agma  quàm 1n plevri tide, et pulmonià ; Guód 1n 11li  maxime et evacuate, et revellereopus fit; in hi le   I vcro preterc A od reliquum eft,vbi füppuratü "bos   Mfuerit,excreti^ne UTI ERIE E ones olt   Jetfi onvs fit anim dlis pie UT   lbeallà exiftenre, cenftareillanon p teft ; quàm im  S. ni pueris fecto venaz, qua evacvandi offi- alis, c   cium folum adimplet,utrariüs In ufi fumes de- eur.   Ibect;ob eas,quas Galenus,& fequaces c    is C bepatis  /j lamta-  ATIS    P    Quis CUAien 1m- Ccuart! fàt,    usaddu- P»er's et  xerunt caufas;non tamen adeo perpetua hzcre- !*væuauo    Mv J : T J " ora   eula ette debet; quin alicus rdi ante decimum- 7^ r4   "t1T11153 313244 E LI ^ (n ome e ^ At^ an--  quarium annum hoc remedium prafcribi pof-   q dosis D. 2 2um atuar  fit ; et debeat: tum quód pu bertas fepé tern Inü j  ; 4 s (2223: C12  all: m pra veniat;potiffimüm in mulieribi s;tum    P dd : à : : 2472 fca  quod multos folidicris habitüs, et VIgOFISantÉ,, porofi   : e dM deci  blu. 1 t "m pus c« nfpiciamus ; tum quód a aliquos  tanta fai nguinls COpJà rcfertos    np  "T L]    cbfervemus in.  acutiffimos morbos incid Cre, quorum plenitu-  bdinem, n1fi fectà venà ftatim (olvanmius certum  Jimortis impendere peria Tt cimus. Vnde»  lI tPpenumeró natura 1 przveniens (quam omnino  Jibene operantem imitari debet M    edicus) copio-  ("    ia pcr nares Mon Rao pun (ubitó m Wbos-Ruz  jufm odif5lvit. Et euai nvis huic fententiz re-  fracari vic ide atur Galenus,cum tamen Cornelius  ICclf fus, Mauritani féré omnes, Hifpani.& Galli  "Melerique, et ex Italis quàm ; lürimi in hanc.,    de1*9 o  VvAlilils    ei Lvenerint fententiam;his affentiri potius plævia  atque experi entis pftopemodum in finitis; fpa-  no quadraginta annorum,quo in nuign àhac vr-  be,& in magno hoc UG. Va igi 'udinario medi-  Fund excrcui, firmare p lum.   9. Quód fi de fanguinis mitlione per fectam.;  Patris P? «cnam loquamur,qua revulforia. eft,qualis ett  ure qua adminiftr: atur pro internis UE umatoni-  femi om bus curandis ab initio,quales fü nt2 incina,phre-   nitis,plevrits, peripnevmo )nlà; hepatis inflam-  matio,omnino in pueris ante quart Hunac cimum  evacuari angnis pacctam venam j rit,.cüm   X ftatim, nifi xetr i atur f:  antes ju  verde cümimp dry dee eire in tT: dixe  vcríq; nequeat; neq; ex tra ifpiratione per mol-  lem, tranfpirabilémq; habitum fperari pofbig  materiam retrahi pofle e,etiamfi concedatur, per  meabilem illum habitum evacuatonis vices  füpplere pofle ; revulfivum n tamen numquam.  confütui ; otcrit veré reme di uim.   ro. Preftattamen in pueris a d fextum annu  festen- hirudinibus vena: perta fu guinem extrahere;    à o    3    à x E 2 " 1 f sdi aan VAL  zum pre cuin enin uíc q; ad ieptimmnim annum ob excei-  &at bira- fun humiditaus,vena;arteri |DCrvus ferc fimul  dizib4sconglobata png »ericulum fübeft;neloco vena,    fanguine aut fi: nul cum € À nervus aut arteria pertunda-  goacaitar e, " 1 "o 2 Rudd s rud  PUcPT tuf. Qu Ó d fi eagam manie Íte 1€ exfera sl 1inCccoe9 CAY AU d. Ee ud : :  "i là pertundatur quidet nfed amplum potius,qua    profundum vulnus fiat.    i Dm næ vore oer eve  Tempore Ir. feb ribu S, fi tc tipo mittendi langute-4  anittezdi l jOI    puce cnni,    IFhoides fluant, quamvis doctiffimi aliqui viri  IFenfeant.non priüs quippiam à M edico effe mo-  E ddun: quàm evacuationcs illz defierint, etiam  I fint im erfeéi 4 qi "Y nefciamus quantum.    o    IWelit natura evacuare, et cüm imperfeáé ali-  Inuando 1n principio: igat, verfus finem autem.  [uüppleat ; unde fi evacuaremus; periculum im-  minerét, neex exceffu vires deficerent : cenfen-  Irium tamen,melhis effe; cum verfus rid vide-   mus naturam deficere ; manus adjutrices porri-  Ibere,ut ex conjunctis natura, « Mcdici. actioni|bus, facilius evacnemus quantum opus eft ; fic    Nf ] AY. 31351 14 363 9913343533,  Enim Méetoni aimiftivte fanevinem narium eva-  I. 1t] l tX v"3 H1 Loel-4 4 ( e« Ct 3. CAD. 24.  F5 ( ] €C4K  ] er11111 EX acu1 2 0, i ( O. 1)77 Sect. 2 vC.  : ^  3 3 " 1 n "  exeuntem humorem unà,dicebat.debere Me-  r I l £21   ptt n ei CIC3quod etiam « .In Coma,  x pitCcabat, Id eft, dum imperfecte natura ope   ] i   "v^ d / "t 1 "  l'atur:;non autem dicit.pefft. Sc quod omnetmo  Fall l4 ("n.f ! L  FOI11C difiiculit: tcn, Asa . js. ! Ci LZ D € Ubi nac   - ! 2 1 A   IDIOD ecu e Ct, quod 1n eo ca  BE Lo ecorncids4 f: todminic fecta Bit mus  ilu imt! CLLIS 11 uen 1S aneulinl Ípect Dnoaus cit.Qqtm?    I fatis fore v rideb ütur,totum neectium permit-  llrendum erit natura;fin minüs,tantum Medicus  IHetrahe tquantum fatis videbitur, ut ex c njun  ttis ambo bis tanta flat evacu atio, quanta pro  Tbvincendo " it neceft ria. Vbi duo funt,  bx quibus facili : coll Ieitui rnc life esf ectare.»  incm motüs n2 ture,edamfi nperféctus fit.Pri-  Inum.quoniam dict /; rir Fal vide "Dh quod  hon ceflatum motum oftendit, fed dum in motu  eít;   DE    (  o  I! aunnf,  f! men,  fnere  r  " gtrit;j  pt I    C€UACitiaat    an i a  adeft A£  001H$ o    Grecibt.    f Zdo Í  ed ie cce Id    E £hr 4A ( át  ZT« TT    €t c RUP ÆRE    mulium yum (lac    e iu,    1f, 2901/8  d M P^ £    9)4 LFD. SEPT ALII -MEDIOL.    eft, conjectándum effe ex impetu, an fv fficiens  futura fitilla evacuatio: Secundum, qucpnic m»  fruftra "x impetu 1d con jectari doceret, fufhice-  rct nien ceffato motu videre, an adhuc et mcr-  s magnus effet, f. ngrin isfubeffecabundan   tia; MÁDS n: valétes: cüm autem imp eium fiuen  tis fanguinis sfpcétandum Jufl trit; id non alià de  causa à faciédum volvit, qu àmut ex impetu con-  jectari poffimus;an fi ffeQ ura fit hujuf modi na  turalis evacuatio;ut, fi fuffectura fit; pi yen pater  ono cemimpetu effluat, totum negotium nàtu-  ra relinquam us;fi veró lenté& guttatim, ante-  quàm-c 'cfinat manus ad jutrices porrigete va-  leamus; ü rutrifque con) junctis»ofhi mus tantum  evacvare, aranrtumopus fit; ai à diligentià ad-  hibità,ea e" cjemus p rericulayqu eadcó vercban  IUur;q" ] contfa fent dunt.    r2. In finevinis metiendà quantitate ex babitu corporis eracili, cartio mæna adhibencai    eft,atque diligenter confideran dvn |,ànànatt-  à eracilitztem nac ttus fit,an à confi Danis: l-  u. me rbove.2.de Temper Tibe im avt obo.  vichüs parfimoniam, ap iml curas, au it fimiliass4l    quia verifimile eft parum fanguinis ip venis CCn-»    tineri, minor extrah1 d teb jet euantitas. In 11s ve-4    rÓ Qui ales ft ntnaturà, quia fieri pcteft, vt et    liberaliori victu ufi fuerint; et pf ptercà fa neut  ne abundent, plus detrahi poterit. 1.42 6 luc    eft à do^ i    fincHbs    . Idemin craffis animadvertendum:Difan]  Oi ridi culi erunt carnofi à pinguibus ; in car:  nofis;    «à G lau    14. cu iix inftituto video multos Medicos rra:  exrare, plus fanguinis in iis detrahentes, qui la- Msi s:  boriofas artes exercenr, utin fcfloribus,& fimi- i  libus,quàm in iis; qui in artibus fedentariis tcti bes da  fun ntque iin illis plusinfit fanguinis; viribüfc jue ^^  'aleant;n  llispi iritus, et fanguinem exhauriri:róbur ve-  in folidiori fu prà repofitum effe, et ex  quoudianoalimento fuppeditari, cim alioqui  VCDa n n multo faneu Inc rei erta fi    lO px Ot1u«    CAM  períectan    1  I  aiiquan l    CUla C1   Cuerit (x;  M X6.fi terti  i nCccei (li    3 int L    ftabit bis facere duo bus diebu:    1  Áni    /*    «u€;,inrev    1 NJ IM Al    an repetitam fanguinis ternos cgi M f f    lV cna In Oeadem d    11^? T5 th:  A&IkLIOLLhD    tasm ittci P^    madvertendum, pra MEMRUSol P. ue -  de curaa. vat. per [aug. sail] .cap-21.fi repetitio fiat    ulfk OnlsS, ]    «ütterendam.    fe 1  d Quód f  acta fit,interpoínto d1ein    DNEERS. XAB.JXr. of  nofis,quia plüs fanguineabu: ndantp lus fangui7  nis deu ihi pe 'terit;contrà in pinguibus. Gal    ' 13  "i    nt    Lt1lO «ile, noir    Lh Iib. .dátc £14 YaHnád VaL. i £1 T» iq. nmt]. Cap. io  mplex fuerit, Urgeat veró  ían«    termiffionis fieri poterit feprem horarnm. fpati  )( Peine,    in terrium differri pc teft.In quart   I6.  [^ evac aticnis gratidorer etenda n potiüs cadcm. ;  B    » h.n n ER Is DA d    3/2 2221  )    : ^  I*t* bins [27,    CH» (d    Qf41  1    te$ Lac  ^ ani ) làdv ertrentes, etiam in    itridis febribus Curadis » £471  Saliqu indo Icquenzi, ahüs pet  terpofito, faciendam do- "à    o Ulnls, biscadem die inpatio    uentecm à hem etla Im    'CIcr-  i 1 du-  joris invafionis,  Iürtana veró pra-  intermiflionis, ^47"    7 MED Po)    rl auralterum efle,    2a.    :  ^ E  I7. Cave    Miffwnis  fangumss  vevulfrua  sepetttio  quádo £a-  denm die    Pace uud  jácienaa .    In cruris  dextri in-  ; f. amma   pone qua  pena fece  da pro »&-  sulfione    qai y    ETNUNA  A "HET jan  9€AUTIS t  ks É  2A04 tt[que dei: Cave tamen;ne in pracipiti morbo revul  fionem ex pofcente id ferves; cüm enim affiuxus  fiat vehemens, utin effufione fanguinis per na-  res,aut uterom;,aut hemorrhoides;autin inflam.  matione gutturis, hepatis ; pilmonum, nifi eà-  dem die fiat; fruftra fequenti die id tentabimus ;  quód cum fanguine anima fit effufa;aut füffoca-  tio có pervenerit;ut nulla amplius fübfit fpes fa  lutis.   13. Cümin revul(ione perfectam venam fa-  Gà, et rectitudo obfervetur,& venarum confen-  fus,unde laborante inflammatione crvre dextro  nunc fecandam jecorariam dextri brachii ; nune  faphenam internam cruris finiftr1 pracipiebat   Galenus . Hac diftinctione in harü alterutrà feE ^ ; L  lisendà ego utendum cenfeo ; fi ex interna catt»    o6    à, calido fanguine affluente, fiatinflammatio 5    feccanda omnino erit vena jecoraria dextri bra  chii; ficenim verfus originem, et fontem retra  hemus fanguinem.fervatà rectitudine, et à cor-  pore extrahemus. At fi externa aliqua caufas  puta;vulnus;contufio,aut quid fmule inflamma  tionem pepcrerit, przftabitex crure fanguin  mittere, ut fanguis, qui ex vicinis ad partem laLi    borantem affivit,faciliüs per venarum commue- p,    nicationem et revellatur, et evacuettur.   19. Cüm fanguinis miffionem ad anim ufq;  deliquium concedat Gal.2 5. 1. Z4pbor. in arden-  riflimis febribus,;maximis inflammationibus;&  Inorbi    a    sadimittédum efle hoc zenusau nifefte    vehementiffimis doólotibus, nonnifi in extremiss|  xilii,ma-4    em. pi    JNTM. ADVERS. . LIB. IP.   nifefté oftendit. Verüm cümad illud exfequen- ro ja sa dum tot requirantur etiam conditiones,nem- ducendz,  pe ut adfit.atas juvenilis ; temperamentum. «$4 qtsi- calidum et humidum; regio temperata, cor- às» et pus faniguinis miffiom affuetum, anni tempus. &^r*  temperatum; quas vix in unoxX eodem corpore reperiri poffe conftat;cavebit juvenis Medicus ; fanguinis miffionem ad animi ufque deliquium aceredi, fed eam perias Medicis; et plurimüns inarte verfatis relinquat;quia, cüm vix tot con- ditiones in uno concurránt;& fiin. uno repérian-  tur ; vix cognofci poflint, potiffimum à juniori ;  necdum multüm inarte exercitato, przftabit il-  ]am omittere, et maturiori judicio relinquere .    20. Non femperante fectionem venz lenien- $474  Vena om   da eft alvus; vel leniente medicamento, vélcly- 5 «Sn  ftere; fed ubi crudorum humorum colluviem in i aput    |! ventriculo, et venis mefenterij adeffe coznove-  rimüs;aut ex praterità victüs ratione, velex co- lore linguz, vel ex &ravitate partium illarum.  jp juxta ea; qua tradita funt à Gal. 4. de ?wzd.fa-  aut. c. $.ócanté ab Hipp.4.zenr. r16.ubi dicit; $i  Wfecanda eff venas C al'vus fluat, prius effe adferin-  E oim. At ft ad [tr il/esihiol serere gal a fol-  || vendam ;,nefczlicet inanitz venz crudos humo-  Morzo £y 165, aut etiam corruptos ab illis locis fugant; ac præcipiti  attrahant. fanguis 2r. Infebribus putridis,in quibus diturindu mici de  tcn, ptzmitti, ubiadfi int crudi illi humores; aut bep ante  p putridi in primis veni s, clvfteres debét;aut lenié 4!vi e*t  daalvum:atin przcipitimorbosà fluxionefan- !//79?*    G culnis    beat facit  inAnitto e    "mas    J*enis bua  €bit in fe-  viendis,  qua cau-  iones ad-  Libenda.    Catutiones  £2 mitten  do faugut  2e alia,à  quibus pe  tenda euinis facto,vená prius fecato;nó alvü emollíase  22. Caterüm; omnibusin pertundendisina  brachio venis hzc adfit cautio, utbafilica feria-  tur,poftquàmfe;junxerit cephalicz infrà eundo  per digiti latitudinem ; cephalica: contrà fuprà  per diciti latitudinem ;'nam corporum fectio id    doce: nam maximis nervus qui ex cervice in-  ter primam coftam;& claviculam permeans;toto brachio fertur, bafilicz? fübeft eo loco,'quo  ferit digiti latitudo furtim eundo ; fi confocia-  tioni bafilicz ;& cephalice imponatur :? tunc fi  digitkálterà latitudtinead axillas abieris,eo loco  fuperd áreditur bafilica eum nervum, dumnem-  pe curfu fim ad cephalicá fl etit; ibi pericu-  ium. Quod/fi infrà pergas;in altum fe abditnervus. INecetia tutó in ipfa cójunctione vtriufque |.    vene fit (ectioscui plerumg; validiffimi tendines  fabfunt; cephalica auté fuperius, ut dictum eft;    erit ferienda; nam ibiab. arterià, qus ei vicitia   eft; longus abeft ; nec quidquá periculi habet.    QE» Plures fi quis in fanguinis miffione,& ve-^1    nà fecandà expofcat cantiones, et animadverfio-  nes; Avic.legat 1.4. cap. 20. fed potiffimum .Nicolum Florentini » Sermone 2.T vati. v. Summa ^    2.Capi 1.17.0 tn    ' 18. et recentiores, qui defangui-à  nis miffione per íectam venam ex: profetfo fcri- [e    píerunr. Dum enimregulas quafdam ad hane:[^    materiam pertinétes tradunt, cautiones pleras--|*&  que attingunt, quas,neactumagamus;in prz. nm    fentià pratermittendas cenfemus, potiffimum, p    cüminanimadverfionibus circa febres, et raor-- pa bos particulares. quàm. plurimasad-hoe. nego-  tum fpectantes infrà fimus propofituksi.   24. Incucurbitularum ufu, frlocus fcarifican Cucurbi-  dus fit, nop adeó multo igneopuseft; nam prz- r4; pA 77  terquam quód fepenumeró vefice. in cuuculà fzarifca-  elevantur aqnà plenasqua fcatificationem cutis tiene,sffi-  intcgrz impediüt;attractum ét fanguinem adeó gaztnr ez  condenfant, ut mirum non fit, fi incisà cute fàn- £44ce d  guis non effluat, potiffimü fi diutiis adhxreant. £7*» et   25. Infcarificandà füb-cucurbitulis cute ad Scarifica-  evacuandum fanguinem,.non eodem modo fem- " quado  per incidenda eft cutis: nam in cute fuübtili et al- profunda,  bà,intenul fanguine et bilicfo non profundis ;; quan de  incifuris eft utédum, fed fiper&cie tenus eft fca- 17v; f-   rificandum : vbi veró in craffitm corium incide- ciezda.  rimus et nierum;crafstisque fanguis, et feculen-  tus erit evacuádus,profundiüs crit cütis,& fülz  jacens caro incidenda, ne evacuationis fine fru-  ftremur;cümalicqui artifices quá plures videa-  mus,qui in quovis corpore vix cuticulá tráfetit,  folümque ichorofum,tenuem, et in extrem fu-  perfice confiftentem fanevinem. extrahunt, ut  Inanus 391115, et vix ferientis.nomé adipifcantur.   26. Caveant quàm maximé,ne diutiüs cucur Cuenré;-  bitulam;carnofe potiffimum: et molli part, ad- f4/a moa  hære fipant : càm enim. vehemens fiat attra- diutitis vf  ctio, et multa carnofa fübftantia cucurbitulam., /*4 Pare  ingreffa fit, adeó coarctatur, ut fpiritbibus ncn, ^mi  permeantibus pars emcriatur, et eanorzna m, "^  quin etiam fphacclum fibeat; unde maxima vi-  tx pericula fequuntur.   e z L VLl arm  d" je?ri-  bus interznittentiZ a  DAS f^ d üTHU) provo    Y2yHiai$.  Qontinais  febribus  top 2dior    evAaCttalto    La  Lam  per lot: et à  P,  ,    Animadverfionum, et Cautionum Me.  dicarum, Eas complectens ;  Que in F ebribus curandis ob[evvari debent .    f. T vcrumeltin febribus putridis fiu-  doris,& urinz provocationem uti-  lem effe ; ita in intermittentibus ;  maximé autem tertiànis, fudoris   $99 ctülioremcenfemus quàm urine. [uu  Nam cüm fineulis harum acceffionibus videa-  mus feréad ambitum corporis portionem ma-  terim transfundi à naturà per fudorem, motum| 4i  illius imitari debemus.    ». Oppofitumin continuis fiat: quód in inti-0    miioribus venisineis humor putrefcat, ex qui-- Jui    ., N . -  bus perlotium aptiffime ex pureatur;nifi forfani«f    ferofi nimium, et tenues humores praváleant »» Bs:  et zftas cum madórefit ; tünc enim etiam fudo--E ur    fibus evacuatur .    I  c  Alec REED  F. IOr    3. Intertianà febre verà,& ardente, hecins Teriasis   J| clyfteribus adhibeatur cautio;ut ficut molles,& €$rden^1!    refrigerantes potentià effe debent ; ita actu vix. tib»s. elj-  teporem habeant. feres ioc  4. Vtintertianà refpe&tu fui; aut materieil- J"*e"tes  lam facienus, numquam aab initio ante coctio- ^as  nem eft medicamento purgante evacuandum.;   ita cüm quandoque ad ventriculum bilis acris jh. icit  transfundatur et mordens; eraviffima invehens    ionem  pericula,& fzpe mor tem; po otiffimüm fi eger ad quádoque,vomendum i Ineptus natura fuerit:ut illa preve- sargadz ;    niamus,licebit purgatione uti refpectu fympto-- e quado.  matis, ut fyr.rof.folutivo ex fero vai odit "  vel cui incocti fint thamarindi ; aut et valentio-  ribus, ut electuario rofato Meu, aut de fucco  rofarum ; quin inacceffione ipsà fymptorate»  urgente, ant liydkelz osten; velut vomitum  adjuvemus;vel ut decrfi im ducamus;aut fané ut  acerrimam illam qualitatem à .ttemperemus . $- Vfusrh abarbari ut omnino Inter principia V fus rba-  harum febrium eft interdicendus, quód e eleétivé ^ar? (Stt  purget ; quod non licet crudà materià ; et quód cun calidum fit, «& ficcum, qualia omnia evitaridaz, mod E  ante concoctionem docebat Gal. 1. 2d Glauc. ita  ad deturbandos biliofos illos hum ores, et fyn-  copen cx morfu cris ventricult;& vehement n  ma alia accidentia;in p rimis tribus, aut quatu«c  acceffionibus ante cocticnem cmnino fug len-  dus : humores enim illos ferventes ma?is exa-  cuit; partem phlogofi quádam afficit; cbftrucio  nes in venulis mefaraicis poti&sadaucet, fit?cuE  (GG ? (C^ et f TN "    l.l 2 s^ uci ix   losofque denique eeros redditi  Inh 6. In purgatione 18 biliofis febribus molien-  febrions dà,caveat Medicuss;ne deciptatut.fiypoftafim ih  pro pire». urinà albam,;levem, et az: qualem exfpectis: cürn  tione [aff epim im biliofis affectibusfola nubes illas habes  eit a". conditiones ad concoctionem oftendendam füf-  tubem es ficiat»fi exquifi aora illa figna exfpectaverit, re-  pea E e facilé occafionem prebebit,  quitem^. . Inbilein eftuofiffimis iis febribus evacos-  Ya deeli- "Y licet rhabarbarum primasapud omnes Mc-  4atops;  CYcosteneat;animadvertendutn tamen omnino  küuA»HE CIIt, fl caloradhuc vehemens in declinatione  fibriz rba - v elin ventriculo, ve] in hepate, vel in univerfo  barbarum, Corpore, et folidis partibus relictus fit, et fitis  ez pro j3neens,quodin vehemenriffimis terrianis ali-  bile. pur-- quandosfiepius in continuis, et cavfbnecontin-  ganda fu eit, preftareillonon uti ; undein illius locom.  fpium (übfirere poterimus decoctuim thamatindorü  CH, .  cum fyr.ref.folütivo,& portione mannz,& fimi  dibus. Rhabarbarum enim caliditate fnà, et  ficcitate;ac ieneis partibus, ut calorem peracci-  deris minuit, evacuatà calida materià ; 1ta per fe  in hujufmodi corpetum condidone "calorem,  exacuit;ficcitacem adauget;ac fitim inducit:un-  deaccenfis denuó fpirinbus, denuó febies exci-  tantur ; aut folidioribus magis ficcatis, hecticte  introducuntnt£, quod multi non animadverten-  tes,non levem 1enominie notam fübeunt, quod  go vel declina ata; vel ceffata febris nova corüm  Lione excitetut';  GV uonedo Nujvandoautem etiam inis cafibus rhà  bulbs. P wi    EIS y    Würer iride case MEET c AS    a0;    barbaro uti placuerit, autintertianisipfisadeÓ ;j454724  || non ardentibus, ant in corporis temperie,aut e stipof-,J| conftitutione fic catidà, et ficcà, quód praftan- //mus pro  J| tiffimum cholagoeum fit, ac maximé in biliofis purganda  ;affectibusab omnibus, et à me commendatum, ^» etis  pe ts uA 1 torto ve xA $n «ff uofis potius dilutum, factà in aquis refrigerantibus, bribus aut fero infufione,commendo,ut caliditas illius, fei, et ficcitas retundatur. et ignez partes repriman tur ; aut ex facchoro in fyrupum paratum cum cichoraceis,ut eft fvru pus de cichoreà cum rha- barb.defcript. Gulielmi. Qvódfi potiones quit-  piam averfetur, in. ufüm in pulverem quic cm ducetur, fed ad mixtà caffià, ejüsve fuccoad un- ciam, facilé enim fic ficcitas ejus retundetur,&  lenez partes compefcentur.  9. Scammonil ufüm ut in biliofis omnibus Scammo- febribus fifpe&tum habere convenit, et non nifi ? &/vs à  refracàillius caliditate mixtione aliorum me- 4 fe  Idicamentorum refrieerantium;, ut in electuario ion jr  .Frofato Mefüz,& de ficco rofaxum,& admodum po » raro ; ita in ardente febre omhino fugiendum MM ieriet  tcenfeo:hazc enim febris magls, quà quævis alia,  hrefrigeranua expofcit. Quapropter per caffiam,  imannam,.fyr.rof.folutivum ex fero, violas, tha-  imarindos,fubducere hv mores peccantes conve-  Imiet, vel etiam Actio Z'errab. 2. Ser.1. cap. 78.  lid perfuadente. 10. Poft blanda hac medicamenta ;Optimé. s/74; "T,  Ifaadet Avic. dormirealiquantulum ; cm enlm. furis.  lletiam alimentofam habeant facultatem;etiamfi medica-  iportio aliqua in alimentum vertatur, refrigcra- mentis, pa  G 4 bit,    «    t    f -  v/ B AA.    Caufone  laborante    T Psrgato »    J&€         :  (asi ardentierum la-  ePi opti-  222473 «    Sacchart  vofati ti-  f5 » post  pegato-  zem in    Qogadl 915 » ion    qrebádus.    Ju fbre 9»  gerttana   eti mter  e» [onis   eie,vtilus  à Gal. c^  alüs infi  11445, «-  bud noftra  zes pericu-  lofuts "    xo4 bit; neque tamen evacuatio impedietur ; natura ;| 1^    per fomnum refocillatà...   11. À purgato in caufone humore ; fi.quis la--| 0^  ctis ferum ad frigidum alteratü per duosstrésve:| i  dies fümpferit;vel lacafinz;illi maxime confül--| iu    tum cenferem:humedctat enim, et refrigerat corr] d   pus; fitim extinguit, atque fi forté hectica ince10  perit;omnino eam reprimit. NI   12. Vndeetiam non adeó probanda eft pra] ui  &icantium confuetudo, altero à purgatione diez]  fem per faccharum rof. ex aliquà aqua refrige uiti  rante concedentium, ut calor, ficcitásque v1 ex-- tu  purgantis medicamenti facta, et ex febre reli-4 it  &a  et fitiscompefcatur ; càm experientiffimuss ux  Rhafis, 3. T rat. contin. 27. eos, qui calorem, &q qu  ardorem in ventriculo patiuntur;illud comede-4 it  renullo modo debere teftetur,& maximé fi eftass, ii  fuerit;calefacit enim;inquit, et fitim inducit;idls jc  quod-etiam in multis experientia docet . Quareq a.  praftabitautfero ; ut dixi, uti, aut aquà horde] iu  cum füccoaurantiorum, aut julepo rofato ; autij gui  violato.   13. Lauté etiam nimis, etiam intermiffionis] un  .tempore;cibari mihi videntur tertianà laborans]. .tesab omnibus feré;& à Galeno ipfo:qui cibarg ni;  .di modus fi apud. nos 1n ufum duceretur ; omne: qi   ex tertianà fimplici in duplicem, aut etam com] iy;   tinuam duceremus. Atque hoc fépé; ac fepiu: un;   juniores Medici;&üm ex fcriptorum inftitutà vid oj   Ctüs ratione victum prafcriberent egrotantibus:|   ex perti funt; cium egrotantium periculo, unde ld uj;  mutare WE. 3  A s  P». "e *. E  n TO ix A  S  (1À5. mutare fententiam coacti funt .   I4. Quinimo, fi vinum pro potu incipiente»  co&tione curh Galeno,& antiquis cócefferimus,  onines in deteriorem condit0nem ducemus ; ut ^  vixin ipsà declinatione concedere illud poffi-  mus ; five hoc corporum noftrorum conftitutio-  nitribuatur;five vinorum noftranum conditio-  ni; five utrique; hoc unum fcimus ; fecurius per  totum morbi decurfüumabdicari vinum.   15. In quotidianis curandis febribus anim-  advertendum eft; quód, licet in febribus aliis in  principio uberius fic nutriendum, paulatim ver-  fiis ftatum progredientibus imminuendo; ;inilhs  camen primo feptenario tenuiüs funt alendi z-  ori, ut et crudz in ventriculo contentz materiz  attenuatz;excalefactz,& exficcatz;aut in bonü  fuccum vertantur, aut faltem abfumantur, aut  per fe,aut ope Media, le 'nientibus,& abítereen-  bus fübducantur;in quà re Rhafis, Avic.& re-  liqui omnes Mauritani conveniunt, ut nempe»  primis feptem diebus tenuiori viu utamur;  quàm etiam in ftatu5qui omnes à Tralliano mu-  tuari videntur.   16, Siramenà falsà pituità fiat; potiàs vomi-  tu in principio expulfa, aut dejectorio abíter-  gente per inferna educta, cum nutricatui inepta  fitevacuabitur ; neque dixta adeó ab initio erit  attenuanda, ne incalefcat magis, ficcetürque  minüfque eductioni apta reddatur.   17. Quamvis vomitum in hac febre Galenus  Jaudátfe vifus fit;apparentibus fignis ccétionis,  quod    Vino i€r-   tianarti  apad nes   per totum   morbum   interdicé-  lw quoti-  diamis i5  principia   fnniAus A-  lesdum e-  tamqua  in ffatu.    Pituita   falfa ab  danteyvte  u$ ab ife  2it0 nom  adeb attee  nunndas »  fid evæ  cuanda «   Iz fcre  enuctidis«  2A "vem    [^    X e    tus utilis  ab tnittio,  eo quomo  do«  Siwotilia  na in  bre, prater  qUmiupn  ab initio,  valenttor  evenit i  Satu,e€x  Gal. .  Mel.vof.fo  dutivii,l-  - «et £n bi-  liofo ab i-  3211:0 non  €OQventat,  22 pituito  Js optima  eff veme-  dium, c  eur.  "Aloe 15  quotidia-  $5, C a-  liis febri-  £ns locis,  optimum  remediis.    e/  P d  ZI) Í    ^  y^vs  /9    €.    :06 quod in ftatu evenit ; id tamen decà per vomi  tum evacuatione intelligit, quà univetfüm cor-  puscvacuatur radiculà, cui veratrum album 1n-.  fixum fit: cümenim majori cx parte primis die-  bus ventriculus pituità fit refertus; fi ad vomen-  dumneptus non fit; aut natora, aut. ftructurà  corporis;optimium erit,blando facili vomito-  xio tentare illius evacuationemsaut fi fit naufea-  bundus;à cibo . 18: Quamvis mel, et fyrupum rof.foluuvum  in biliofis febribus,abinitio,cradà exiftente ma-  terià,in ufüm duci non poffe ad fubducenda ex-  crementa communia,jam docuerimus;in quoti-  dianà tamen, ad abftereendos vifcidos à ventri-  culo humores. przcipué mel preftantiffimum  remedium cenfendum eft: attrahens enim facul  tas.frigiditate,& vifciditate humoris primo oc-  currentis evancfcit;& quafi emoritur; valés au-  tem maxime facultas abftergentibus relinqui-  tur. jars  19. Ne quis inamphimerinis füfpectum ha-  beataloes ufum,ad.deturbanda communia ex-  crementa, et pituitam in ventriculo, et primis  venis exiftentem fübducendam, vel ob eam ra-  tionem,quód bilem potiffimüm illam fubduce-  re fcribat Gal. 7. Æt b. med. a4-& S.de compof.  med. [ecundum loca, cap.2.. C lib.de T ber. ad Pz-  Jonem,4. et Paul. £b. 7. cap. 4.vel fané,quia eam-  dem calidam in primo;& fecundum eradum at-  tngentem,& in tertioficcam;idem Galenus.có-  füituerit;quod quàm fit febribus inimicum,qui-  libet;    aloe efle facultatem: alter    NIMADFERS. LIE.   libet, qui febris naturam examinaverit, facile poterit intelligere: Animadvertat,dup    P. 107    licem ih . 41e, dy  4  am à totà fübftantià jx faci   ductam;quá bilem potiffimüm,tum etiatn pitui ;as.   tam,fi non à toto corpore, faltem à venis etaim  " ^, Circa hepar attrahere, et é corpore pellere con-   fievit ; de quà locis propofitis etiam Galenus z    alteram deterforiam,& attenuantem,quá et exe  crementa, qua funt in ventre, et inteftinis, cue jufcumque fint generis, per inferna fi bducit ;    cümqe potiffimum inter feces evacuantià»,    ÉxxbebeTiXxo d    dicta,principem feré locum.occu-  pet facilé propofitas omnes difficultates fü peras    re poterit. Cum enim tamquam bilis pureatós  rium medicamentü affimitur aloé ad drachmas  i'edüam duas, et non nifi raró, utalia medicamefta longé à cibo fummo mané,quin  4n febribus biliofis concedi poteft : fi    etiam raró  veró aloén    Hu letjectori medicam 1 üÜte  Humamus, ut dejectorium medicamentum, üt  "" ^ . -  ique deterfione quádam ac attenuatione, quid  quid per viam invenit, fibducit, et frequentiüs    llafiumi, cum cibo permifccri, 1n mini    ri quantiateaffumi, et febribus loneis; tertianis hothis,  »& quotidiánis, quàm maxime auxilio effe pote-  Iit; pouffimüm fi lota fuerit; nam quamvis jy. e£    IG. de ruend. val.Galenus 31    Oocf neque ficcam, ne' l|Ique melleexceptam fenibus concedendam fta-   ftuerit, nifi maona aliqua neceffitas ureeat, c^ 8.    Ie compof. med. fecundu loc. cap. 2. bili    fis,& ficIE15 corporibus alo€s ufüm non mediocriter infe-  Ium docucerit;In aliis (anc corporibus,five moctbo tenLorgis fe»  byibHs a  loes ufus  cópmodus .    i^ MERIT æn gant ei    (ix    iQ1o8bo tentátis,five fanis, ub! vitlofis füuccls utcumqs bent  infeítentur, aloé non fine magno commodoin. ufim ducitur, potiffimum ubi ventriculi villisii adhzreant:fic enim Oribaf.7.Col/e£l.cap. 27.abfinthio alo£n cóferens,ftomacho placidiffimam  juu    effe contendit et fumi quotidie poffe à ceenà ;    depu. aT ME aie quod. Ewporiffon cap.9.übi de evacuanübus;  eju in fanis corporibus conveniunt, agit; quan-  titatem enimiis przfcribit,qui quotidie eam afAAloes va-  Pia quanti  345 [umen  8A s [7 pro  $urgato-  o, C f  $ro dei-  éforiosat-  dicatméete.     fébducit euim.» Yaquit c ciborum vis nou bebetat, Mi  erattvea fitim uon inducit, C" bominem ad cibos fu-. à   anendos facit promptiorem ... Ex quoniam proximé f  ante hzc verba dixerat;aloén ad duas drachmas. furi  fümptaio, pituitam,.& bilem fubducere: cüma jen  addit; [omi e riam quotidie poteff cama.non intel- i:  licit de càdem quáütate;fed alium ufum fumits Ki    fümunt;trium cicerum mænitudine.Idem eti3; et longiori oratione explicuit Aét. 7'etrab. 1.    Serm. 3-c4p.24.cüm enim ad trium drachmarumiJi;,  etiam quantitatem ad multos demoliendos mot;    ' bosoptimam effe ftatuiffet, commodam etia malos.    effe (cribit fanitati confervandaz;fi quotidie antep...  coenam fümatur,utante prandium mane: id au--]i...    tem effe non poteft in càdem quantitate, fed adi    fcrupulum, aut femidrachmam. Sic ex Mauri-1,.    eàdem, ut medicamento purgante; agit, ut et   apud Mefuen viderelicet. 511g1tur tamquam...  deterforium medicamentum, € ventriculum. i  expurtanis Avic./ib. 2. cap. 45.de iis.qui fecundà vale-4t.  tudine conftituti alvum movere poffunt ; de de-4..  terforià hac facultate loquitur; C Jib. 7. cap. a. ded.    n h    i    ad    LI " » E-   AA LM,  Ixpurgans fümatur,& in minori 1llà quantitate,  li ftatim à cibo, vel etiam ante cibum ftatim fu-.  fimatur, febricitantibus iis fepé concedi poterit,  "lin quibusaut crudi multi humores febres: pro-  fluxerint;aut certe ex diuzurnà febre debili red-  flito calore ventriculi;multa pituita congeratur,  Int in longis febribus veni ire docet Gal. 1. ad  IBlauc- Sic 8. de compof. med.fecundum loca, bens  'JlBc Oribaf.Joco czt. in febribus hujufmodi, potit-  dMimuüm fi lota fucrit; aloén quàm maxime com-  'Ilmendàrunt, non lotam tamen in iifdem, fi edu-  'Jcendi indicatio pravaleat; etiam concedunt.  '«KCócedacur igitur intrepide in iis febribus; cüm;  Iguz ex febrili calore defümitur ; indicatio nona  'Iprevalet ; fed qua ex craffis humoribus in ven-  lrriculo coneeftis o b diminutum partis calorem,  Irum ubi roborandi ventriculi viget indicatio,  [quod in longis febribus;& ex pituità cenitis, et  lWtertianis fpuriis fepiffimé evenire dicebat Ga--  b en.1. 4d Glawc. Vnde v ^, cmus; Maurit; anos, à  Weam fcholam fectantes; et pilulas ex hierà Gale- ni comendare,& alephanginas bis in hebdoma-  ddàin paucà quanutatc à 'canà fümptas .  20. Ínufü attenuantium, et diureticorum.., hzc efto cautio, ne tiene eorum ufi nimium  jl fint calida attenuantia, fcd moderate aperiant;  4 neaut materia nimis liquata;& fufa majori.mo  3 le tureeícat, et dolorem per univerfum pariat ;  :raut exhauftis tenuibus partibus,quz relinquun-  ur fontiiob esremancant;& quodammodo lapi-  Wi defcant;& ininvictum fere malü gri decidant,    Als ill ud :    (4€ I bÓA.    Atenas  tia m p 2m    ter calefa-  Citntia s,    Purgátia    valeterra non multüm in febribus ufum medicameétorum. Illud certiffimum eft, 1n Galeni doécteinà 14.4    *5i» Àri pareantium commendari;cüium $.44erb. 1. abío»  bus in 45 lutam putridarum febrium curationem trades,    VON .    Purgatia  Iivia repe  nta sque  ti dianis    Covent .    ne verbum quidem de purgatione habuerit. Et    Il. AMeth. inrefolutorià illà :methodo curativà.    earum, cüm putridum humorem evacuationeo  effe propulfandum doceat;ftatim fübdat, eligeix    dà cffe medicamenta, qua fine calore educant   ut funt mulía ; ptiffana;clvfter.| Et 1. 22. G/ane.  etiam in continuarum curatione purgantium.,  medicamentorum non meminerit. In tertianà    vero praftare ait medicamenta alterantia,quàm. ||    quomodolibet evacuare: id veró, quód fe penu-  meró per urinarum copiam;aut per füdores, in-  fenfibilémque tranfpirationem morbifica caufa  fit evacuata ; ; quód, fi qua füperfünt, craffiores  potiüs alique portiones erunt, non multz, 111a  medicamenus noftris blandioribus non. calidis  tolli poffunt;cüm in eà quantitate effe conjecta-  bimurquzad alios in putredinis communionem attrahendos apta fit; cüm veró non fepe id   in tertianis, continuis, et acutis contingat, raró  etiamin fine earum purgationem exercendam.  cenfüit Hipp. 1. Zdphor. 23. 2.2dpbor. 29. € lili.  dé diua pura.    . In febribusautemà pituità venitis, qua : |."  intermittunt, levia quafi medicamenta purgan-  tia tantum, eáque per iptervalla admittit Gale-.    nus, quem fecutus eft Alex. Trallianus; magna:^    vii aüctoritatis,/» I2«£ap. 7. d€ hacre differ €n$5,  cüm dicitzVerz oportet auteso ipfos tmiverfrm pur-  ) [reete vices, C ftmplicioribus medicament is.  1! €'c. Vnde fortaffe recentioresfuorum mmoran-  9 tiumufüm defumpferunt. quod 1n aliquo cafü,  et aliquibus febribus; et poft coctionem conce-  dituf ex arte, ad omnes febres, et quocumque,  "f tempore, et in principio malé traducentes  J^ z3. Levius etiam;cautiüfque in febribüs om-  '| fibus purgandum efle conftat, quàm in alns    vifcerum,cordis nempe, et hepatis fervor, calor  ex hiimorum motu contractus, et deleteria., vel  faltem fatis calens medicamentorum qualitas in causa fünt, ut cü timore in febribus pureemus,  in: morbo autem non febrilr audacter evacue-  mus;id quod Hipp. Jib. de rticuliss in fige, cla-  rifhimis verbis o ftendit.   24. Verüm purgare corpcra in febribus cüm  opus eft, inclinante morbo, vel poft illum, quo  "| tempore vires majcr1 ex parte fü ntimbecillz, et   E fpiritus multiüm exhaufti ; cavendum maximc  il Medico eft;ne ex affureendi frequenti; aut ex  humorum evacuationein fyncopen incidant fui  M ueri quod vel in pureandis iis, qui à tertianà  |fünt évacuandi; niaximé timuit Averrocs. Qua-  ] propter jubeat excrementa 1n lecto exonerare »,  vafe aliquo huic ufti 1 accommodato füppofito,  aut findone plicatà, quod innuiffe vifus eft Gal,  : 3.de Cri. cap.9.    r  s: et (  ÀÀ     - E-   HÁ ÓMà        Pureadg  Mone 2    morbis à febre fejunctis : calidiffimorum enim. fZre 444    2:3 alus  "orbis e?  471    Debiles  dum pur-  gantur, e  leto 207  furgant.    25. In quartanc febris rectà victüs ratiorie », Quartana  d&in quantitate;1lla fit animadvcrfio; utin prin- rin prin    CX plo    £iplo va-  yu; Ui-  es, ch  quemodo  sariadus.    &alfatné-  42a quartz    ^    Jod: 2  944 LADOr a    znuàbuscon-  zcdenda,  "n parece ;  emer.  Quaia(cipio non in omnibus fit eadem;neque enim fefe  per à craffiori eft incipiédum, quod ex commu  ni regulà 1. Z4pbor. colligunt aliqui, in ftatu at-  tenuantes. INeque etiam femper per primas tres  hebdomadas abftinendum erit à carnibus, et  pullis gallinaceis, ut ctudi humores poflintat-  tenuari;& abfümi,quod magni alioqui nominis  viris placuit; fed diftin&ione opus eft. Saneui-  nci,& carnofi, quique lautiàs vitam per multos  dies traduxerunt, et qui crudis multis fcatent  fuccis, et qui ex fanguinein melancholiam ver-  fo febricitant, primis quatuordecim, aut viginti  diebus,tenuiüs alendi erunt,atque ctiam.fi fierl  poffit ; ab ufu carnium funt 1interdicendi,ut et  crudi humores in vétriculo,& primis venis exi-  ftentes concoquanturattenuati, et in fanguinem  mutari queant, névealtius permeantes obfttu-  €tionesadáugeant. Qui veró in primà regione  cruda non acervàrunt;& biliofi funt;macri.faci-  ]é refolubiles;tum et pueri; aliter funt in princi-  pioalendi,atque concedendze erunt carnes, ut  diuturno morboobfiftere poffint ; atque ad fta-  tumufque cum viribus valentibus pervenire.   26. Quód falfamenta iin quartanis laudentir   à Galerio,cavédum eft,ne multo eorum ufu mes  Jancholicus ficcus in corpore adaugeatur ; con-  cedendá igitur erunt parcà manu,ut medicamen  tofa alimenta attenuante vi predita, et utappe- tentiam, quz primis menfibus omnino folet effe   dejecta.excitemiüs .   27. Sànguinem quidem in quartaná miffufia  pa  per fectam venam, fi opportuné hoc auxilium xis vez  adminiftretur, Galenus cenfuit optimum reme- /eclio 2u&  dium ; opportuné autem fiet, fi multus in venis 4ecozve«  fanguis fuerit; et craffus, et fceculentus,niger et "^  craffus.   29. Vnde jure merito Medic prafentia ne- Quarta-  ccflaria eft,dum talis actio à venifecà exercetur, »3labora  qui qualitatem fanguinis confideret,ut eo infpe- bus di  Cto, fi niger, et craffus fit, liberaliorem permit- /?guis  tat evacuationem,habità femper virium,atatis, *"4^44-  plenitudinis, temporis ratione . Quód fi potius //^» Mess  tenuis,& clarus fit, et potis ad flavum vergat, gere  fupprimendus erit. shi.   29. .Adhibenda tamen hzc eft cautio, ne fta- Sanguis 2  tm ac perrubentem faneuinem,& bonum exire "miffione  viderimus ; illum füpprimamus fieillatà ven; fenguini  fepius enim vidi primas illas duas uncias effluc- z: quarta  tes bonz conditionis, quód non ex penitioribus »i» zé fta  educantur,fed ex venis brachicrum, quorum //7 fuf-  fanguis ob affiduum eorum motum,quandoque PW,  purior redditur ; progrediente veró evacuatio- ^"»*'-  ne,nigrum, et craffum cffluxiffe. Quapropter ó Pes,  faltem due, aut tres unciz vt effluant, finendz  funt ; antequàm certum de hac re feratur judi- Sauguts 7       guis optimus é venà fluat, permitti debeat effc /^ 24?    ;1    1  "v 3    - . /* A i - * ^ 22 54071 xe;neque fif oporteat.fi forté ex antéactà vità, ^^^ et fignis plenitudinis ad vafa cognoverirous, ^ - d    tantam fanguinis copiam conoeftam in venis cf- dm    Íe;ut nifi folvatur, periculumaimmineat, ne avt. 7/    Á HOovVvuS    114  LFD. SEPT ALII MEDIOL.    novus aliquis morbus magni momenti adjun-  gatur,aut Certe ex multà illà fanguinis congeftà  copià obftructione genità aduratur fanguis, et  inatrum fanguinem mutetur, addatürque in,   caufam quartana .  Ságuitin ..31. Etlicet Galenus deloco, unde in quarta-  quartana p fanguis eft evacuandus, agens, cenfüerit ex  quád? ex Axillari,five internà brachii finiftri venà effe edu  4t? cendum, illud fumés, quod majori ex parte eveFM. nit,originem quartanarum ex fplene pendere;   du,  praftattamen hacin re Actium fequi, cenfen-  tem, confiderandum effe priüs,an potius vitio  hepatis,multum melancholicum fuccum eignen  ris,vel affato fanguine;vel aliquà alià occafione»  fiat:tunc enim potiüs ex dextro bracbio,; quàm é  finiftro;fanguis effet mittendus.   dnpefefa .32- In peftilentibus febribus,fic didis; quód   j» mini pefüferas emulentur;ut verum eft,ma]ori ex par    potest fan te mittendum effe fanguinem fectà venà,confen[ élam vt- dictis,rariüs id auxilium in ufum duci debet:nequa ex acris putredine, nifi magna fabfit pleniperpenfis    i gqnisper fe tientibus viribus:ita in pefte;peftiferífq; fic vere fr.    747), C queenim umquam, fi à pravis cibis in annonz '|  : e " Md ^  quando, penurià fiat, fanguinem mittemus ; neque in cà    tudo,& humorumzftus; miffo enim fanguine »» |.  et füperfluum fanguinem evacuabimus, et eftüij.  frenantes ; ceris occafionem fübtrahemus multi, 7  æris trahendi ; neque periculum imminet tanti). "  collapsüs virium, Át cum peftis contagioaliun--j.    ^    »    de delato alicubi ferpit ; qualecumque fit primüij ^  nrincipiem, miu intrepide poteft ; 11s omnibus   "tM perpenfis et obfervatis, quz in reliquis febribus  5 8 putridis confiderari folentquód ezdem vieeant  "Rindicationes. Confentit Gal. 3.7 1. Epid. 26. in Critone.& 3g 3.cap.76.in Calvo Lariffe, in qui-  I bus voluit miffionem fanguinis convenire ; cüm  * E pefte laborarent, 2.77 3. Eprd. iz proezz. Quin et  ERuffus;referente Oribaf. 6.5yzopf. 2 5.in pefte»,  Abi fanguis abundaverit ; vel ubi alii humores  ']Rdmixu fintfanguini.fiátque genus aliquod ple-  Inicudinis,jubet effefecandam venam.Idem Æt.  der. f. cap. 95. et Paulus, b. 2. cap. 36. ex Ruffi  )ffententià. Ex Arabibus Aver. Jib. 3.7 bezf- T rad.  dB- cap. 7. Rhafis 3.cont. T ratf. 13. cap. 2. c? libro  / Me Pefle;cap.6.8c Avic.lib.a.Fen.1.1 rat. 4«CAp«A.  jit ii fatiseffe poffint adverfus Fracaftorium, et  Inovitios aliquos,etfi magni nominis. Neque ve-  Jró faceffit negotium, quód haufto veneno fàn-  1IIBuis ex venà non detrahatur,ne bono faneuine ;  "Ur IPX venis evacuato, in venas trahatur, et perfan-  "fBuinem difpergatur, non fecüs, quàm de feclá  "lrenà crudis in venis exiftétibus humoribus: Dif-  ü)ffPar enim omnino eft ratio ; nam hauftum vene-  i'ifiuum quamprimum eft vacuandum,;dum in ven-  eliriculo;& primis venis continetur, quod vel vo-  it /llnitu, vel pureatione fit, venz fectione fieri non  Uifboteft, quia fanguis bonus In venis exiftens, de-  ullra heretur,venz veró inanitz fugerent, et attra-  ""ilrerent ad fe venenum in ventriculo, et mcefcnte-  i! RÓo confiftens, quo nihil perniciofius cffe poteft.  silDuare Diofc. b. 7.de curationeab haufto ver.e-  jillloæens, non meminit venz fectionis; quem fe-  5 H £ cutus    Mri. -ec    ln Pt le s 33  J : ; :  gnisad a- nem, et aliorum Mauritanorum fententiam ea-4t.    nimi deli ynus,qui in aliquà pefte ad animi ufq; deliquiunogiui  quid no». fanguinem detrahunt;cüm in pefte potius quanagui  enittédus: tas minor effe debeat fanguinis detracu, quàmgu  : &utus eft Act. Ser.13.cap. 45.X Paul.//b. cap. 28. Ai  Atin febre peftiferà venenum, five materia pe-/7  - ftilens,non confiftit in ventriculo;aut primis ve-4t  nis,fed jam ineft in venis cum fanguine commix-Jur  ta ; proptereáque detracto fanguine, pars illiussiui  materie peftilentis fimul cum fan guine inanitureduii  Hinc Paul. Jb. $.capit. 2. dixit, veneno in venissfii  exiftente,(angmnem effe detrahendum . Difpattjnu,  jcitur eft ratio curandi haufti veneni, et febrissp)  peftiferz evincendz .: fu  ;:. Cavendum tamen,nein Rhafis opinio«jtt:    inaliis febribus putridis,quód vitales vires in edm:  magis. faciliüs concidant . i|    In poffe fo. ..2 4, QuinimO,ne detrahendus.eft fanguis pest  in 9? H7 fe tam venamdn brachio,fi morbus jam invaluufi;  MM rit ; quód vires qua f in princi pio miffus e(fedin,  2 jeg x fanguis,vegetiores factz effent;,exonerata ab ona,    re natur, jam ex virulentià fradte fint, et propteyri;  reà refiftentibusmagne putredini;& alexiphar TM  macis potilis eritagendum. !  3$. Quid veró,erumpentibus,aut eru ptis maur,  culisillis;aut puftulis? an mittédus erit fan guisslius.  'an potius ex fpe&tandus exitus nature? an jamais,  eruptis ? Egofane, dumoperatur natura,à primfs..  -cipio fum fpectator ; mox ; fi feeniter id agit ; 6.  plenitudo magna adfit; et fervor humorum;eve.,  cuo fanguinem fe&tà venà; et fe pe miteftit mor,    bus    ANIMADVERS. LIB.F.: try    jus, æftus imminuitur, validiüfq; reliquum ad  gutim expelli fepé animadverto . Neque enim  Wiericulum illud impendet, qucd vulgus etiatn»  nigj-iedicorum umet, et adeó exhorrefcit,neífcili-  get humores ad cutim impetentes; aut delati re-  ulrahantur à circümferentiá ad centrum ; quod  Wnifflione fanguinis fieri tamquam certiffimum.  Juffumunt;& tamquam affertü à Galeno 4. zuezd;  Ital. 1o. Miffio enim fanevinis per fe potis fane  fjuznem à centro ad circumferentiam revocat,ut  "ixperientia docet, et Galenus apertis verbis tta  dudit a. de ruezda val.4.quód fi oppofitum c. 10.  aMuu[æm libri atferit ; id de multà fanguinis eva-  quauone per accidens intelligendum eft. Cüm  Jinim per fanguinis mediocrem evacuationem.;  ginguis;qui in venis internis reperitur,ad exter-  J| » € extra corpus revocetur, utin intetpisin-  qiammetionibus manifeftum eft ; fi ulteriüs pro-  Jirediatur evacuatio;cüm interne ille magnæ ves  («hz exinaniantur.natura provida; ne partes majo  Jis momenti deftitutz remaneant fanguine, ex  gccidend, et fecüdarió à carnibus et venulis am-  ditüs fanguinem iterum contrà ad interna retra-  liit. At i mediocris fiat evacuatio,tantum abeft;  Nit mifhio fanguinis per fectam venam kedat ; aut  levocetut doceerit Gal.6.Fpid. Sec. 2. Com. 30.  in latis illis puftulis Simonis cujufdam;fanguinis  dniffionem maximé futuram proficuam.Neque  : Niicant; Oribaf:7. Synopíeos 7. €) 3.ad Evnap. 21.  jum hac verba ad verbum recenfet, omififfe feAMtionem vene; ut proinde ceníeant additum effe "M .3 in    Antbra  eibus, t^  bubenib.  apparent:  &us f«can  da vena,  € 4o  do.    LFD. SEPT-ALII MEDIOL.    r1  in textu Galeni, cüm in omnibus Galeni codici- || ci  bus illa pe reperiatur, ut potius ab Oriba4 dti    fii colle&ore omiffam per oblivioné dicere poffi- «| 11)  mus ; aut aliunde defümpta verba illa effe, càümug m!  cadé difficultasin purgatione etiá fubfit . Quam] tuii  opinionem confirmavit Æt. z. Quar.Serm.1 .cap-- Vit  126. puftulas, five vibicesin principio peftiferæimo  febris apparentes, fanguinis miffione curans . 7  36. Inanthrace;furunculo, et bubone; potif- rs  fimüm fi in emunctoriis cordis;aut cerebri fiants, lunt  nullum effe præftantius cognovi remedium ; fiilüni  vires conftent, &cin principio verfemur,maximé3 ji  fi plenitudo; et fanguinis copia adfit ; fanguiniss[ yn:  evacuatione, tum ratione febris peftifera, tum)  ratione morbi particularis:càm enim fiant à fan- we;  guine craffo adufto, bili flava admixto; quidli  equé fanguinem evacuabit peccantem 1n totaxXir  corpore, tum et dolorem illum intenfiffimuma d  mitigabit, qui fiepé vires dejicit, maximé cümzdliny  partem nobilem obunuerit ; tum et materiam;  evacuativà revulfione à parte retrahet? Scio;hædin  inre, ut et in füperioribus experimentis certari sj;  et contrariis quidem. Ego veró in pefteillà in-4n.  figni 1475. et 1576. noftrz hujus magnz civita-4fti,  tis, profiteri poffum;ex octo illis Medicis;quibuss,  pefteinfectorum cura erat demádata; inter quossii,  et eco unus erá, càm unus;aut alter vene fectio-Juj.  nemin fuis zeris aver (aretur,Fracaftorii, et alio-4..  rum doematibus infiftens, nec ex fententià cura-J».  tiones füccederent, mutatà fententià ; aliorumz p,  exemplis, et felicioribus fücceífibus utique ex-J  citati    ^w    Dd   citati,quàm przftaret fineuinem evacuare, tan-  demcognovére. Vndeetiam comimuni confen.-  fü in pefte hujufmodi nobile remedium nullo   4 modo pretermittendum effe,decreverunt,modó  ftaumadminiftraretur, et parciori manu, cíáque    adeffent, quz in co remedioadminiftrando pet-  i$ pendendaíünt. Eratautemnon ex acris COrfil-  ' 4 ptioneuniverfáli peftis ea.fed contæione,& có-  d municata ; et ferpens,falubrialioqui et cælo, &e  anni conftitutione faluberrimà ; et rerum om-  nium, quz ad vicum faciunt, maxima adetat  abundantia ; corpora autem noftratia veré fucci  4 plena conftitui poffunt.   37. Caveant tamen, nefemper ex ehdem aut. 4,5,  ven, aut parte fanguinem hauriant;fi enim poft cius, eh  d aures parotides exoriantur,aut füb axillis buboe. 2u£ez;-  nes, aut anthraces, furunculíve in trunco füpes bus aptæ  riori eruperint,ex brachio ejufdem partisftatim *enióus  tundetur vena. Quódfiininguinibus bubones ^ £4fe;  gU erumpant, et inflammatorium dolorem proei- p^» Pd  d gnant,;intalo ejufdem pedis fe&à vená faneuis -  Wevacuabitur. Si veró anthrax, aut forunculus 5^  (fapparuerit, ex oppofito evacuabitur ; illà enim  Mectione venz et naturam onere levabimus, et  qananus adjutrices natnrz porri&emus,ut ad emü  détorium illnd humores detrudat ; cüóm enim à  dcorde plurimüm recedat, vidimus plurimos ex  jf f bubone in inguinibus curatos ; pauciffimos au-  gJKem.fi poft aures per parotides; ut fere nullos, fi  JMfüb axillis materia detrudebatur. Atfi anthrax  dnaícebatur in dextro; puta ; crure, evacnandua    H 4 erat    - i Xe    X  rj    - 1  E E  PLN    4 ULEIXBE    2e ZLPD.    erat fanguis ex finiftto, ne majorem molem ma-  teriead locum affectum traheremus,unde et in« :  flammatio major fieret; et dolor inrenfiffimus ;  unde vires collabafcerent ; praftatigitur in con-  trarium revellere, evacuando,fimülq;à princie  fi  pibus partibus virulentiam retrahendo. Do&rn- :  nam hanc licet colligere ex 6. Epid. e£. 7. tex.  tun  ubi dicit;in anginà peftilenti fe venam fecuiffe in 1  cubito.  Scarifez- 38. Sed cm in pefteomnia fint inprecipiti. fut  tis cur occafione pofita, et aliquando Medicus ftatim . (ite  in pefle [^ non accerfetur ; aliquando etiam vene fedio ab  [ui  Iuberri-. 4]iquibus non admittatur, cuperem ad manus j|:  T4* artificem habete qui fcarificationem malleolo-  rumfciret adminiftrare : commodum enim effe  remedium cenfüit Apollonius apud Oribaf.7« |:  Colle&l. c. 19. C 20. quo etiam, cüm aliquando  jur  pefte effet correptus, afferuit effefanatum; quod.  |ui  remedium pro plenitudine curandà, quafi venz. . pnr»  fe&tioni zquiparaturà Gal.4. val. tuend.4«O 20«. fii  Qua actio omnino diverfa eftà noftrifcarifica- tione inloco cucurbitularum, ut conftatex Oris pat  baf:7. Collet?. 18.ex Anvylli fententià;fiquis ca- fun  put illud, et modum exercendz illius operatio- Bu;  nis confideraverit, et quz à doctiffimo Profpero Ju  Alpino de hac re fcripta funt ; ib. de Medicina  Wu.  "Ægyptiorum, quidquid contrà f enferint Avic.I.    lib. Fen 4. cap. 22. et ceteri Arabes Media. 1  Cueubi-39. Verümfi jam aliquátó progreffusfit mor-. fan  tula feri büsis peftilens aut nefciamus, an vitales vires fav.  ficata ali- fixing fatis fint; quod aut vereamur,ne pertenta- - P  K1S alSfi: apr!    ANIMADVERS. LIB. FL. 124    tis arteriis peftemin nobis contrahamus aut le- quiido vi-  pe cautum fit ; ne primis quatuor diebus Medic zs fe-  Ipulfüsarteriarum tangant,ut apud nos confütu- Zioz;s ve  tum eft : certé folebam egoin noftrà pefte .aquà. z«.  -icalidà ablutis füris;in internà parte cu curbitulas  linjungere cum profu ndlori fcarificatione ; iom  Ikca evacuare fangvinem ad fex, aut octo uncias  ; pro fienisaut plen tudinis, aut robore Yinubis  Iquamvis enim immediaté f; nguinem ex v cnis  i fIhon detrahant, fed ex carnibns, neceffe tamen,  Ie ft;ut carnibus inanitis, ex venis fübeat alimenA4    ; fum, et confecuenter eiiam totum 1nanlatut .   40. Quinimó et frequétius,& tutiuseft prz-. c,;,,5;.  Ifid: ium hoi 'Cc,cum et evacuet fanguinem. Citra» re cum  imultam fpirituum exfolutionem, ab he pateau- f'arifica-   ftem, et corde, ad longinquam partem vi irulen- tione in fia  j;ftiam avertat ; nec verum cft, quód non fint pro- 75 ? peffe    Futurz,quianimis diftent à corde ubie: na mina- f/equen-  AN ft-  Inità plenitudine totius corporis ; ipfas quoque» p "i  A72  €-  [cordi vicinas partes necefle eft inaniti.,  1:21 0  4I. Quid fi inanito cor pore urgeant fy DABIO: ou eniin  [mata,& exanthemata lenté prori IDpant;COr V€-,,j, $ doy    ro aneuftiis prematur in pe efte, et animi eps fo qua ida  Itieliquia, autin fie nis do lor capis UIgeat, QUC zpJicam-  Inmil lefvmp tO ma» quod fa penumeroó in " efte» da, d  jronungere videmus; erità nobis przftandum ? quádo ni.  An « cucurbitule dorfo erunt admovendz Quod  ].deó con troverfum inter M edicos video, aliisil-  las omnino exhorrefcen übus;aliis paffim, et in,  ljuocu mque cafu illas in ufum ducentibus? Cen-  jico;fi nihil aliud urgeat;non effe temere, et fine.  diíftnVeficitia  i5 pesteo  aliquado  gn ufum  duci pof-  funt, fed  ?AaYD.5  quande*  Veficátin  $m fobrie  bus peiti-  lentibus  fone. tefle  $n ufum  duci non  debent .    p f/" wt  F.heitta    pavtibus    f'spevnts y  comatofrs  eff cliens    - ia $2 LES 5   diftinctione admovendas, fed negotium natur:  effe permittendum. In illisautem cafibus, turri  (carificatis, tum fine fcarificatione uti nos poffe,  et debere judico; neq; periculum (übeft, ne ver-  fus corattrahantur humores; propter totius cor-  oris premiffam jam evacuationem, potius enim  é corde in füperficiem hümores evocarent,cutm»  manifeftà internarum partium utilitate .   42. Veficantia, utin huncufum antiquis ino  pefte non funt ufitata, ita, fi extremis partibus ;  potiffimum füris,poft univerfalem corporis eva-  cuationé applicentur,non fpernerem,modó eftus  illein corpore non adfit, peccétque potius fero-  fus humor, et pituitofüs;fic enimad inferna Viftle  lenti humores principibus partibus retrahétur.   43- In peftilentibus veró febribus, quz cum»   efte non fünt, fed fic dicuntur, quód infignem  quidem habeant putredinem in humoribus, fed  non hujufimodi,ut veneni naturam jam fübietit;  cüm putredo corriei poffit, et per codtionem  emendari, veficantia non in ufum ducerem ; fed  non fécüs, quàm aliz febres putride curande  erunt;excellentis tamen putredinis habitá ratio-  ne,ex exficcantibus aliquo addito, et corde non  mediocriter roborato.   44. Animadvertendum tamen tam iniis fe-  bribus improprié peftilétibus, quàm in veré pe-  ftiferis, ratione fymptomatum, potiffi muüm ]le-   tharei,& comatoforum affectuum,nullum effe»  przítantius remedium veficantibus ipfis ; aut  parti brachiorum verfus humerum, aut etiam  íca pu-  fcapulis applicitis: ferofos enim humores » et usse le-  frieidos cerebrum opprimentes citó, et facil- thargo cà  limé et attrahunt;& extra corpus evacuant:Con veziuzt.  ftat hoc ex Antyllo,referente Oribaf.zb. ro. cap.  1 3.1n peftilentibus affectibus maximam fzpenu-  meró effein fomnum propenfionem,in quà fina-  pifmos convenire (cribitymaximé in lethargo;&  magná fané ratione : nam in lethargo confiuxus  fit materiz ad caput, unde opus eft revulfione »;  cümque perpetuo dormiant,expereefacere fimi  li ?ravamine medicamentorum eos oportet. Ide  defendit Æt.-4rchbicene Ser.15.cap.181.& Paul;  ain, /[7b.7.c.18. Hinc Aretzus Medicus, his et  GalenoantiquiorJibro 1. de curandis morbis acu-  115, c. 2. curatutus lethareum, dixit, tibias urticis  effe verberandas, aut etiam valentioribus medi-  camentis effe utendum, denique etiam finapi.  Cum veró ii omnia priüs tétari voluerint, quàm  ad veficantia veniretur,oftendunt, quanto 1n er-  rore recentiores verfentur, qui protinus in mor-  biinitio veéficantia effe admini(tranda cenfüuerüt.  4f. Aliuseft cafüs, in quo tutóin peftilenti- Veffcdtia  bus veficantibus uti poffumus : cüm univerfum ue  corpus exterius aleet ; et egre calefieri poteft, ^ bases  non quidem fi refrigeratio fiatob virium extin- Pura venies  ctionem; tunc enim inftaurantibus Opis eft: fed: ^70 rore    . Kain - ^ . (02/2 27 p; PP  fi ob alias caufas, tunc adminiftrari poffe docuit V efic attin  Antyllus apud Oribaf. b. 10. Colleé£]. CAp.13. et in beffilen    Archigenes, Aétio tefte, Sy»zma a.c. IS$1. tüncq:  ^ -) 13    tibus, abi  et tibiis, et brachiis funt adntovenda » Oribafio    corbus alV referente;Zoco addut£o, et Paulo 4E cin. lib.7.cap. getuiliaSce nT : ;  ESO NST ME, Le ;.9 PNE  ni EE bor be diii Me    n4 Quibus locis con fat duobus folis iis cafibus s  in acutis, et pefte, veficanubus nos uti poffe ; et  hoc eft, quod Oribaf.ex Ruffo //b.6.5 ynopf.- 2$»  ocebat ; in pefte calorificis quandoq; effe uten-  dum,ad evocandum calorem ex profundioribus  corporis partibus ad fuperficiem; ut et Æt. 5er.  $.c.95.& Paul. lib.2. cap.36. Vndeneque inom-  nibus peftilentibus ; neque femperin pefte vet  cantibus utendum cenfüerunt magni ii Medid;  fed aut in foporofis affectibus; vel cüm externa  Veficztia a|oent,& interna zítuant;cüm novatores ii fem-  in peflilen Ser, Gcin omni pefte; peftilentíque febre, quin  dipsihar et fi Deo placet, in principio veficantia adhi-  Lui 3d beant. Sed non eft mihi in bacre tempus con-  m pajfm terendum, cüm à doctiffimis viris res hac abfo-  ufurpata . lute, et ex profeffo fit pertractata » et à nobis 1n»  libro 4e Peffe; annis juvenilibus, dum totusin cà  curandá in patrie mez calamitate verfarer,com-  pofito difputata;quem librum Amanuefis meus,  ; homo exterus, cüm emendatum meo juffu tran-  fcripfiffetad editionem;fuffuratus eft; nefcio quo  confilio,cüm ftiret;apud mein fchedis ca omnia T  remanere,licet multis in locis defcedata .  parenhe- «|. 46* Evacuatio pravorum humorum, caco-  me utendi Ch ymises per medicamentum purgans affumptü  in pefle, t On minüs,quàm fanguinis evacuatio,in pefteo  [wj  cur convenit, et fortaffe frpiüsinufrm ducitur:ut  [tn  enim venz fectionumquamin pefte;que ex pra»  qu  vi fücci cibis fit. convenit ; et non ita fepéineàs [|i  qua ex corrupto ære, fepiffiméineà,quecon- tagio ferpit: ita in lisomnibus purgatioinufüm [i  vcnire  . 2j  venire poteft, licet multó rariüs in eà, quz per  contagium vagatur;quód f penumeró virulen-  ta communicetur hominibus fnis,& optimis  humoribus præditis ; quibus fi medicamenta,  purgantia exhibuerimus, et carnes colliquabi-  mus, et bonos humores evacuabimus, fpiritus  exhauriemus, et denique vires vitales deftruc-  inus. Quod firefertum pravis humoribus effe  corpus conjectabimur, purgatione omnino opus  effe dicemus. In cà veró, que cx ingeftis malis  cibis fit; purgatione omnino opus eft; licet etiam  ratione virium maxima adhibenda fit cautio. In  hancopinionem Medici omnes Graci, Arabes,  et Laüuni venerunt ; locis adductis ; ad demon-  ftrandum venz fectionem convenire; inter quos  Gal.1.de diff. feb. 4. Vnus ex antiqvis Celfus I;b.  3- c4p.7.& ex recentioribus pauculi medicamen-   t15 uti purgantibus in pefte judicárunt inutile,   quód non putredinem, fed venencfam qualita-  tem fimplicem in pefte fübeffe putàrint ; quód  veneni naturam medicameta propemodum om-  nia, et igneam naturam participare cenfeant ;  quód alvi fluor iis concilietur, quo plerofque in  pefte illàinteriffe teftatus fit Gal. 3.27 3. Epid.    J   59. cüim nequeCelfi auctoritas przponderareo poffit tot magnorum virorum auctoritatibus,  neque recentiorum illorum rationes convincat ;  quód atate noftrà tot medicamenta inventa» fint; que nequevenena fint, avt venenatam na- turam participant,neque exceffi caloris ieneum febris x(tum adaugere ; neque etiam alvi fluo-  rem    effe im    z10 i    4)    DinvOniüit  f Hnveca D    ue rem concitare folent; cm non in otrini pefte»  fymptoma hoc füpervenire fcribat Galenus; fed  in cà,quz fuo tempore vagabatur. In quam pe-  ftis conftitutionem fi quis inciderit ; cauté fe ge-  ret, et iis uti poterit; in quibus vis aliqua ineft  et adftringendi,& roborandi.   47. Invento auxilio in morbis, illius exhi-  bendioccafio eft inquirenda, quod maximé in  pefte eft obfervandum : cüm enim 2. Z4phbor.do-  cuerint Hippocrates et Galenus ; vel ftatim ab  initio, vel poftquàm matu rpnerint humores;co-  fint; in declinatione humores effe purgi-  dos ; difficultas in hoc cafu maxima efle folet  etiam inter dociiffimos. Ego, quid prz-  fiterim in hac noftrà peftilentià, liberé dicam,  et quibus ductus fu ndamentis; cui etiam even-  cuim felicem fücceffiffe, fàn&? poffum profi teri,  quantum peftis effrenis rabies cócedere poteft.  Evacuandum igiturin principio ftaum aut (e-  &5 veni cenfto, faltem fecundaà die ; fi putrido-  rum, autimalorum humorum copiam füb effe  coenoverimus . Neqve "Apbor. 22. 1. Sect. quo  afferitur, Concotiæ ffe ved: canda, €t cruda non  movenda, nifi materia turgeatsraro autem tuveet ;  nobis repugnare cenfendum eft. Quod ut in-  tellieatur, confiderandum folüm erit, an fub  evida, contineri poffint humores ilh    1  i    )  "mE ES:  Ciique    b  ^41 0  CLAÀM    1(    VV    YT/^111 2  Cil il Tii t    tia Nol d    dcó putrefadii in principio febrium peftifera-  rim. Egofané non video; quomodo materia,  qva nullam patitur concoctionem, neque 4li-  mentilem; neque impropriam quee pttride    materix  gmateriz convenit; cruda dici poffit. Crudum.,  enim, et coctum correlativa fünt ;itautcrudum  Ifit, quod coqui poteft, fed nondum hanc perfe-  I ctionem per coctionem eft affecutum . Atqui fi  gBradum eum putredinis affecutus eft humor is,  jut peftem gignat, quo major vix dari poteft, ut  jam veneninaturam inducerit, et ad benignum   fgmplius reduci non poffit, certé eum numquam  Iveré crudum dicere poterimus; aut coctionem  [ejus pro purgatione effeexfpectandam. Eóque  [iagis, quód majori ex parte materiam hanc, [turgentem effe obíervatum fit: quare càm tur-  gentem materiam excipit ; utique peftiferam.,  E materiam exceptam effe cenfendum eft,  Iquód fepenumeró primá dietureeat, aut pro-  Ikimà die, aut alterà turgés fit fütura;hancenim  IFuam perturgentem intellexiffe Hippocratem  Iconftat 4. Z4pZor. 1o. ft turgeat in acutis, eadem  fue effe purgandum, atierentem . At acutiffimum  Imorbum efle peftem, in quà materia plerumq;  Iturgeat, quód acris fepé fit, ardens, virulenta,  IQueque undequaque mota principes partes im-  Ipetat, quilibet, qui morbos peftiferos viderit,  jac diligenter obfervaverit, facilé cócedet. Nos  lin noftrà hac peftilentià fepenumeró vidimus in  jtodem grotte, eodem tempore à naturá mul-  Jas.ac varias tentatas effe excretiones, per alvü, per vomitum,per füdores, per urinas, per cutis  Wefflore(centias, et per carbunculos quoque, et  »ubones. Docuit hoc Ruffus apud Oribaf. €.  ]Wynop[eoscap-2.5. et Æt. Ser. $- cap. 95. SON    Q9    Peftis tnn  feria turgens fapeDnuta2eràó. Jib.2. cap.36. qui adeó varia, et vehemétiafyms- ptomata in pefte dum referunt ; nihil aliud re-.5  vrafentare videntur,quàm tureétem materiam hinc inde latam; nec certam (edeníhabenteimn: j  Quz fi, dum venenata eft, purganda ftatim eft.(iu  abinitio, ne repat ad princepsaliquod mem- [0  brum; multó magis tunc evacuandærit,cuümo |t  veneni natriram habet;cujus proprietas eft prin ful  cipes partes petere. Oftendunt 1d 1pfum pefti-| ti  lentes cafüs, quorum libris de orbis vulgar. 10  meminit Hippocrates ; colligimus enim mate- jm  zias in eis fuiffe virulentas,& veneni participes; [itm  væasitem, et certam fedem nó habentes : cám] aun  enim varias fedes peterent, varia etiam fymco-| var  promata induxiffe fcribit; in multis papule ap--j t;  parebant, qua mox retrocedente materià adl t;  internas partes delitefcebant, quz pofteà alias» iti  inducebant feva fvmptomata. Neque quif-4 ui  ! piam Hippocratem obiiciat dicentem.zz9 zz4-4 tui;  Turg?5 -geyjag rursere,nos autem afferere,in pefte fzepe-4 ui  mæt, DUDmero tUTgere; fi namq; confideraverimus; p e«t  quomoto - A n raro evenire,utiq; materiam raró turgerezdt  peftz [epos &n peftefiepe türgere, non effe contraria, autif ois.  JE Contradictoria juidicabimus: tureget enim mate,  ria,cüm natura à multà, aut pravà qualitate afíjti  c&ta.materià concitatà, tentatJnter initia eamuaJi: v.  xpellere ; qua mvis importu né: fcimusautemujlu,  peftém femper àpravà,& veneni naturam faxis,    'piente materià fieri: Non tamen credat aliquissphuii.  nos putare, ubi nonturgeat materia evacuanedly,  à 7* * . . h   dum non.effe : nam cum virulenta fit materiai    morbum    y4r0,0ov 1n    ra  i  c    *  :    d d. ^"  C-  morbum faciens, et timendum fit, ne ultetiüé  procedat, reliquos omnes humorésin fidendo;  venenique participes eofdem reddendo éx cori-  tactu portionis illius prim: ex contæltone ac-  quifitz, pureandum ftatim erit;ne ad terminum  eum ducantur humores omnes, de quo locutus  eft Galen. /ibró adver [us Iulianum,cap. » Quod  ubi totus fanevis putrefcit,vel alioqui vitiatur;  morbi; quiinde oriuntur, curari nequaquam;  poffunt. Inquit enim: ZVoz pollictztur M edici 3  Je omues morbos ex vitiato bumore, 0Hmmeizque pu-  tredinem curaturos, [ed eos tantum, quibus corpus  t"dhbuc validum eft . C2 vires robu[le ; non aute,  quamdo [aneuis penitus corruptus, G" fachus arugi-  nofnssut affumptum alimentum in corruptelam tya-  bat ; et quz feq. Cüm prétereà morbus is acn-  atffimus fit; fi declinationem exfpectare volueri-  imus, inanis omnis noftra opera erit, non folüm.  quód fruftra exfpectetur coctio, quam nullate-  nus humor poteft admittere ; fed quoniam cüm  J| declinatio tunc fübfequatur ; càm aut à natur  j| extra corpus pulfus fuerit humor,quácumque.; tandem v1à 1d fecerit, aut ope Medici, aut mit-  1! fione faneuinis,aut alexipharmacis,& fudorife-  I ris,fruftra tunc Medicus tentabit in fine propel- lere. Non negeaverim quidem,;aliquando ex pui-  a eandum eftfe1n fine corpusà reduviis, ut renu.  di1riri poffit, atque à recidivis fefe vindicare qu  4 przfervatio hzc potiüs erit,quàm vera curatio .  Ij Purgandi igitur potius erunt ab initio humore:  J qnod cüm emendari nequeant; quamprimum.  : ! exrclli    Wes ctr tuta raa nns rs crie RCM    EE ette Matteo    129    NE    $5 ATDAIAC: S  expelli debent : namapuffimo vini exemplo ex*  plicuit Gal. 2. d pbor. 17. quod ubi acefcere cce-  peri5adhuc vinum eft acidum;& tunc emenda-  r1 poteít,& ad priftinam natnram reduci:fi verà  corrumpatur, et naturam propriam amittat, nó  amplius vinum eft, fed acetum; tuncinon am-  pliusad prittinu m ftatum reduci poteft: Ita fan-  guis,caterique. humores,cüm pautrefcunt;ad be-  nignum ircrum,autíaltem ad conditionem,quz  non multüm noceat.coctione.deduci poffunt; at  cüm. compurrucrunt, jam naturam mutarunt s  ncque corrigi amplius den dy fed tamqua om-  nino deletetia ftatim.expelli à corpoze debent .  Eít infuper prater morbi cauíam conninentem ;  quzeftaut in venis prope COE, aut 1D partibus  cordi communicantibus, alia quædam vitiofa.,  in ventriculo,inteftinis;&.circa præcordia adhe-  rens,dolore,colore,aftu;naufcà;amarore, aliísv e  fignis manifefta, quz. neceffarió quamprimum.  purgationem. SREPI cH aMiquie declinationem po-  teft exfpectare. Qua fane.eriam efficit, ut alià  rationein principio euam expurgari debeat: nà  fiin hoc morbo per totum ejus. decutfi fum alexi-  »harmacis., .& medicamentg à totà fubftantià  utendumeft, ut etiam i1,.qui fecus fentiunt de  hac purgatione, concedunt nonne nccéffarió  MES qe concedent,in impuro corpore pracedere debere  ps, gud purgationem ? Hxc namq; vel 1pío Gal. tefte ;  fit expui-. lib. $.de Janit. tucnd.cap.6.ante non fnt affumen-  qa? cr. da,quàm totum corpus inanitum fuerit : cüm    po    impuro  torpore nó    Ju enim.€a vel itaanuüpharmaca;vel antidora dican    [uL .,    ANTAIADFERS. - LIB. V. 131    tur, quód totius(ut ajunt) fübítantiz diffidio  1mmutent yenenatam illam naturam, frangant,  obtundàntque, atque prorfüs cxftineuát;&. €Vàec  cuenrtà corpore per fudores, atque cutaneas ex-  creüones ; nemini dubium effe poteft; in corpus  noftrum hzc minime praftari pofle, nifi prius  Inanitum.fuerit corpus ;: non enim ad cor vires  fuas emittere poterunt, nifi meatus fint SEPhn  eati; neque à corpore per- cutaneas excretio  venenum expellere poterunt, nifi pariter be  fit evacuatum .. Quin neq; e atcuationem per  cuum ullam effe diu in eg i totum corpus  inanitum fucrit,ex Gal, 8. IM eth. 4. CQ" 11. M4 e-  th.1o,at nec rarefaciendum prius, quàm fit eva-  cuatum, 11. 74eth. 9. colligitur. Atinquiunbid  fieri fanguinis miffione . Verüm quomodo vim  argumenu effugiunt;qui illam refpuunt? at om-  nes faltem fatentur,in multis non convenire, ut  in pefte ex pravis cibis, et in cacochymis cor-  poribus; in quibus ex fpecta r1non poteft conco-  €io ; faciendum igitur quod jubet Gal. 4. dé 2  tuerrd. val. 4. Quod alienum à natura efl.nt ad pri- flinam bonitatem vediei non poffit protmus evacue-  |fwr. Huiusfententiz fuifle Galenum, colligere, poffumus ex Ib. 1. de differentiis feb.4. ubi dicit,  impura corpora in principio ftatim effe purgan-  da; et ad fanitatem deducenda . quod manifeftis  verbis confirmavit 2.77 $i de morb. vulg.in Si-  monc;in quo late puftulz efflorefcebant;idq; in  libris Methodi medendi  TInonftratum efle a f-  firmat;quod vel $.Ætb. sed. c.12. conftat, vbi  * habet : habetzCarerum,iiinpe[le facile [omari funt, pro-  pterea quod præx[iccatn vis» prepuratumdq; corpus  otum fuerit;quizppe quod evomuerint ex Tis tonmul-  li; onmibus venter profiuxeritsatüs cum ita eva-  euati effent qui evafuri evant siis pu[Inle quas exan-  phbemata vocant, mpra foto.corpore confertim mul-  te apparuerunt, ulcerofe à quidega plurimis, ommibus  certe ficca. Cuibus ver bis vel cecis mamfeftum  eft ; pureanda etfe corpora ab initio in pefte».  Quid.énim per pureanda effe corpora fignificat,  nift in principio effe-evacuanda füedicainenm  purgante? Nonne pratercà conftat ; excretio-  nes has peftilentes nuHas fere effe criticas, fed  fymiptoníaticas; qua in principio;vel augmento  3ccidunt? Atnihilominus prepurgatum effe »  déberefcribitcorpus, antequàm apparerent; nó  icitur exfpectavit coctionem. Secutus eft hanc  fententiam Avic./ib. 4 4. Fen 1-Tr.4.capit.4.cum  inquit: Summa curatioms hurus febris eff exficca-  tio, C 1llaftat cum purgatione, à qua tocipere de-  bens -& Kver. 3T bet1fit. T ratl. 3. cap.1.qui in,  principio pilulas ex fimocolumbino, aloe, et  agarico commendatin pefte. Et R hafis tum 5.  Continentis, cum lib. de Pefle ; quos pofteàfecu-  tus eft Aver.2.Collett. 56. Éx recentioribus etiam  plerique feré meliorisnotz, inter quos Manar-  dus Ferrarienfis, 5. Epi. 3. et 13. Eprff. 1. et Vi-  &or Trincavellius zz l/bro de febre pe[ilentialin  hane venerunt fententiam. Quod experientia  etiam confirmar e poffum: Mihi enim. &fociis in  1nænà hac peftilentià magne hujus urbis fehet-  CCY ; dag    ter ceffiffe, (ciunt et præfecti fanitatis, et cives  noftri, publicéque etiam nos laudárunt pro bo-  nà,& fedulà preftità operá,cüm purgante medi-  camento ab iniuo feré curationis ufi fuerimus.  Quod et Gentilis ille Fuleinas fibi experimento  conugifle teftatur 1.4. ubiinquit: Ego vidi focios  zoftrossviros expertosqui 1n prava pefhilentiaspri-  pa » vel [ecunda die,"velin quarta ad [nummum s »  quam citius poterant, dabant pharmaca evacuan-  L4, exfolueudo materias, ficuti Rbabarbarum, vel  "A garicum, aliquando dabant auedicinas Y1g0-  ratas cum pauca Scammonea ... Et vidimus plures  evafilje per manus 1ftorum, quàm per manus illo-  VU, qui gon purgabaut, mfi cum levibus cly[fe-  v115, C quandoque [ola caffia.Neq; rationes, quas  contrà adducunt, multüm urgent; quód enim  A phorifmü 22.objiciunt;jam docuimus;aut füb  turgente comprehendi, aut fané veré materiam  1llam crudam dic non poffe, quód nullam co-  Cüonem admittat. Neq; caliditas medicamen-  torum vcrenda eft quz non avocavit Galenum  ab corum ufu;ob majorem utilitatem in turgen-  te materia ; minus autem nos Impediet in pefti-  lenti;in quà fx pé minor eftus fübeft; potiffimum  cum mitiora quàm plurima medicamenta, mi-  nus calida ; vel vix caliditatem attingentia, et  fimplicia, et compofita ncftris his temporibus  fintinventa. Neque vercnda funt mala, et in-  commoda, quz fequi docet Gal. 1.24pbor. 2 24.  € 2. pber.9.ubi quis crudam materiam in prin  €iplo,& non przparatis viis edu3 crit;cb majora  E. :3 enin    "$a  enim mala fugienda in tiizgente materià ; noti»  veritus eft ftatim evacuate, ;Ob eandem etiamo  caufam nos in pefteidem preftabimus. Néque   alvi profluvia;quaz in pefte Hippocratis tempo-   re ubi fipervenirent, mortem inferre folebant,   debentnosab cxhibitione niedicamen torum in  principio deterrere: namietfiin ea conftitutione  |^   id.eveniebat; in aliis non femper eft cum pefte»  cotijunctum . Sed veró etiam nulfa vis eftargu-  menti; nam fluxu illo siulti interierunt, quod  nimis oppt effa; acirritata natura fluxüsZ exone-   taré tentabat ; fed et füccumbebat; et materias   quafieffrenis facta plis jufto fluens vires deji-  ciebat,undem ors fubfequebatur; at ftatim pur-   gatis himoribus. periculum hoc evitabimiis .  Sedatgumentantur preteteà auctoritate Gale-   n19. de fimpl. medic. facult. cap. de terra Letmnias  tibiinquit, illos; qui tetre Lemniz;ant Bohli Ar-   inehi affumptione cnrari non potuefunt;plerof-  queinternffe . Ovafi Veróy five manifeftis agant  qualitatibus, five cccultis;in ufum hac tutó  du-   ci poffint, non praimifsà purgatione ; cüm jam. ji  Galeniauctcfitate c onftitutum fitjanupharma-   €á ; et antidotos tutó exhiber! non pofle impuro  corpore.. Peftiferz avtém, ac virulentze mate-   rie cum venero coim parátio,quà probare nitun- [  wir;in principio non effe purgandum, nclla eft ; 1  neque convincit: Affumpto enim vencno, cim.» matcria.ea in ventriculo contineatur,vomitorils  quamprimüm ex xpelleretentamus; aut fi id ob-  üncrinon poffit;emollientibus, lenientibus, vel    lubri* T *    Ex DRM LS  od  UBL. mts tte S sni eii e s in otn c  lu bricantibus per inferna ( fr bducere conamur.  Ita 1n peftecüm primüm corafficiatur,omni in-  genio Gmnino tentandvm eft, 3 nobiliffimà parte 1llam revocare, ac quamprimüm ex corpore»  pellere.    13j    49. Caveat autem Medicus.ne; quod iri pefte Peffilétes  conftitutum eft, in iis feb ribus; qu et,quódinfi- z/,, 5.  gniorém habeant putredinem, ;quàm vulgares ze peffe »  febres putridz, quóodqvein aliqu ibus fyrnpto- cockienens  matibus peftiferas veras aiu léritig Peftlentes expe fttt s  dicuntür; quales font;qua maculas, qua les puli-. vecz prin-  cum morfis »aliáfq; etiam cutis efflorefcentias cdd  junctas habét;idem obfervandum cenféat : cm £244 -  en1m eó nfque non fit in eis progreffa putredo,  ut ad priftinam bo "nitatem revocari non poffint  humores,;ait fané cü m per co&tionenrad quam-  dam temperiem et mediocritatem reduci pof-  fint, ut mitéfcente eorum ferocia, autà naturá,  autarte a Iv Medic pelli poflint, exfpectanda om-  nino crit eorum ccncocto, sícque non in princi-  pio » fed in declinatione érunt vacuandi .    49. Qi 'dunvi Is autem eorum Opinlonern recee    Purvatia  perimus, quiin peftein princ pio humores effe v4//2a ;»  purgandos cenfüerunt veré cathartico medicà- peffe sem   mento, inter quos diximus fuiffe Ar abes; et in- c?veziit. ter hos Zoarem,;& Avertocm: ; 'ecipi tamen ho- rum duc rum op nio non debet, qui validiffiinis utendum, et calidiffimis medicamentis cenfie-  runt. Nam Avenzoar 3. 7 be; "JIr.cap.4. commen- dat medicamentum ex ev phorbio, et aliud ex  fimo colunibino,::Aver.veró 2.Colleél. Cochias  ]4 exhibet . Mediocria enim,necimpense calida,  potius in ufum duci debent, tum fimplicia; tum  compofita ; in quibus etiamfi ícammonn nonni-  hil excipiatur ;adeó tamen aiiis ingredientibus  orrigitur,ut ad mediocritatem reducatur.  Stibii vi- $0. Vitrum ftüibii ; quod tà »ntopere : probatur  mm in aliquibus, nullo modo admitti debet ; quód ve-  p«fte P*[f nenatà fuà qualitate majorem in humoribus in-  0471 . ducat malignit atem,& ferociam; tum quod ex-  perientià compertum fit ; infcliciffimo eventu  omnes in bac noftrà idi e: qui confilio Em-  a ne um eo ufi funt; ad unum interiüiffe.   . Neq; tamens ego fum, qui multotutr.  goeerroe crrorem fequar ;utrumque hoc  vui magnum auxiliumin pefte, ut &i in reliquis fe-  purgatio, bribus putridis,cxe 'rcenüum; cüm Hippocrates  e fangui altero folüm- utendum fuadeat aliquando ; ali-  nii mif. quando autem utroque; aliquandoauté neutro .  Suderum $2; Sudorümjn verá pefte, peftilentibüfque  provota- etiam aliis feb ribus promo tio, frnaturà duce fu  tio i» j*- (cepta fuerit ut tuta eft, et perplacet; ita difpli-  fte: M cecomnino cüm natvra prorfus defes, inérfq ue»  ^/P2P4/7 wullatenus munere (uo fungitur, videtürque»  ii malo prope fu iccu mbere. Intempeftiva enim»   et audax nimiüm efteorum curatio, qui miferos  zorotantes fruítra fatigant, alias excitatis toto  corpore fudo ribus; aliasadhibitis cucurbitulis ;  aliove quovis ezeeza e :x9y auxiliorum genere;  quód aliud nihil facia int, quam inaniter egrotan  tium corpora vexare;incertámq; pro certà cura-  tionem füfcipere:; que omnia ocioforum funt  homiPefe jte  vantib.  femper co   tem i]lum gradum putredinis;ac ad exftineuen1 ! E  ma m     "Y. . *   hominum,atque vires, valetudinem,vitámque  alienam pro nihilo habentium. Quantumvis  191turro buftz fuerinta erotantium vires, num-   quam admittenda füdorifera hacab initio cre-   diderim, nec Medicus Galenicus sumquamJma- Smudores $   turabit exp xilfionem per cutimtentare,exfpecta 7efzequa   bit potius,dum aliquid ipfa perfe natura molia- 4o promo-   tür,animadvertétque curiosé;quorfüm ipfa ver- vendi  gat, quàve parte infenfz mareriz quarat exitü,   alioqu 1 naturz motus antevertere, incerta pro   certis ageredi;contraria moliri, et ab incepto re-   vocare,non fine vite difcrimine poffet: quinimó,   ne ftatim quidem per eas partes cevacuare debet,   féd folum ubi imperfecté operetur natura.   ] heriaca, et Mithridatica ma ignacom- TLeriaca  pofitio, ut femper, nifiautaftusineens autin i» peffe.  cem pore;aut in corpore fuerit;ad p refe rvandas quado uté  corpora à pel íteà me commendantur; ita procà- 47 et quo  den Pn dà nonita frequens earum ufus effe modo, ien  poteft: quamvis enim ad cohibendum excellen- reis  Triend&.    dam^4 virulentiam convenirent ; fi tamen ardens    éebris (iib fit;a ftüfq; maxim "E humoribus, et    Ccorpore,non ita tutó concedi poffunt, ne, dum.   venenoobfiftimus, ita febrilem calorem aucea-  mus, ut vel ex eo folo mors ipfa AQOISAGRIP S    À    Iquacumque vcró de causà mors fübfequatur;idé    cít. Obfervandui n Igitur erit, "PN valeat bilis  kin COI orgia eique putre do illi virulenta fit    Iiconcitata, przftare femper, poftpofità Thcria-  lica. et Mesià ficcifa; antidotis iUis, C&fclls ut),    used DRE c Ft ah ma P str rre i iy i om aue T Mace    Lapillorz  jrecioforz  uus 6d s  0mmmino ve  gtciendas,  nrc paf-  Mim yu* fit,   Yecipiendus.    Pulvtfen  loru» CAaY  d acoyz117»)    ^ f. aJ p  8$[us ocu    eibis y fed    2014210 YLo    224€ bo re    * e  CipleAus .  quz refrigerandi ; et fiecandi facultate, preter  alexiphar macam, prædita f unt, ut acido citri, la-  pide Bezahar,margaritissX fimilibus. $1ve cro,  quod in plurimis obfervaviscalor £ebrilis fit nu-  tis.nulloq; mmodoaftuans peccétque aut pitui-  tajaut melancholia,in iífq; cóceptà potiffimum  fit putredo,vir üfque inde en aftatur;tutó et The  riacà, et Mithridatica compofitione, et fimili-  bus antidotis uti licebit ; quibus etfi calor febri-  Iis nonnihil adaugeatur, major tamen erit ex i]-  lorum ufü utilitas, tum in evincendà vi veneni   illius, tum in attenuandaà materià;, &cad cuum,  temi ;   $4. Vt lapillis preciofis,& gemimis non om-  nino fidem detraho, Sapphiro,Smaragdo,Hya-  cintho, &c. quód multis, et magni quidem no-  minis viris eorum ufus receptus fit, &in multis;  et magnis antidotis receptas.ilfas íciam,ut in.  electuario de zemmis dicto, et alioà Concilia-  tore nomen fortito;ita nec eifdem mudltü tribuo;  ob eas rationes, quz à doctiffimo lo. Bapt iftà  Svluatico, primo Medicine Profeffore in Aca-  demià Tícine enfi,amico fingulari ; inlibro huic  rei dicato propofitz funt .  fos Si quandotatnen in ufüm Medicum dv-   cendi funt, communis error erit fugiendus ne  ante cibum immediaté ejufmodi pulvifculi ex-  hibeantur, ut nec marearitarum: ex illis enum»  cibo commixtis cementum quoddam obftructio  nibus e1enendis aptiffimu m 1n ftemacho eene-   ratur. Preftabit igitur ; fi modo iis uti volue ri-  mus,        et - m mMENEEEE TALL 2    P GÀ  mnÜáPmÜP pe    mus, 1mmediaté ante dulcoratas potiones ; aut  fullatitios liquores, fummo manéfolitos propi-  hari;illos concedere.   56. Auri ufus et ad ADIHERTOCROTOM et adatra- Aaturi ufus  pllarios affectus antiquis et recentioribus com- Pres lai  mendatur,quoód, citm fpiritus recteet;cot, nobi- 447dns.  uffimum vifcus,robora ire poteft: neq; enim Det-   [enil opinionem recipio, qui non nifi in aureà  IM lexandrinà rec: ntiorum Græcorum ant!do to,  D. n fecipi, aut pro »poni afferit ; cum alioqui   I Nicandet;an tiquiffin nus et Poet a,& Medi-  rus, auro peros affum pto in alexiphartnacis vta  tur; et Diofc. [;b. $.c. 69. de ateento vivo;auri li-   atam fcobem mirabili effe aüxilio fcribat. Mo- T  lis Veró, quo uti oportet, eft, vel eo i tenuiffi- 4^" E  fii - "d es affumé  niim pollinem redacto) et comminuüto; hoc p4- j ni  tto: Defæcatifffmum,& puriffimum autum eli- mal :  featur, et coptufüm tn foliorum form3, aquà ro-  jaccà afpersa, fub Porphyrire, aut matmore, ad  pinimenti inftar redieatur. Sunt etiam,qui Pan-  Phonicos ducatos;u itpote ex purior e anro; fub la-  Pide piclorum [xvieatos quàm tenuiffimé acci-  pant. Alnafperolinteo condnué affricant, et  E s ;in quà defcéndat. Quód fi  I. hymicà indufttià in liquorem fólvatur, modó  Wimis 1eneas in (d non habeat partes, fortaffe  ts 3 commehdari poffet : $7. Stultum veró, meà fententia, eft, aureas T UE  -Bionera s,annulos JAUT ca .tenas Intra capones, ju-  Wrula;aut ftillatiti s liquores;aliofve quofvis co- eà teræ;  J[uere ; cum in his nihil aliud abfumatvr,; quàm. món: multa$, ^  net aí $,    Ex avfent  co placéta  pro corde  in pefle de  tefland«.  incequere, multarum manuum fudor adharens;nihil enim  abfardi. ponderi penitüs detrahitur poft illorum elixa-  tionem : necetiam quidquam aurum aqua im-  primat, nec etiam faporem, odorem, aliüdveo  adjiciat.TE   58. Placentas Iacobi Carpenfis ex arfenici    cryftallini partibus duabus; unà autem parte»  rubri, ex albumine ovi,& tragacanthz mucagi-  ne exceptis, quas facculo fericeo, aut ex aliqua  tenuiffimz texturz materia obvolutas,& cordis  rceioni appofitas, anosà contagii labe immu-  nes, omninogq; illzfíos fervare ; «eris vcro ad fa-  ]utem magnum momentum attuliffe;creditu m.  eft; neq; recipio, et longa experientià in noftra,  hac peftilentià doctus omnino rejiciendas con-  fulo: neq; enim experientia ; cuiii tantopere in-  nitebantur, pollicitis refpondit ; quinimo gra-  viffima aliquibus fymptomata induxerunt,ut in  aliquibus etiam mortem preci piti quodam im-  petu concicarint. Vidimus fervos ; quiin magno  illo D. Gregorii Valetudinario ægris; et infectis  hoc morbo operam navabant, et Chirurgos hac    placentáalioqui munitos;brevi fatis conceffifíes,    quinimó multos vi hujus remedii 1n graviaad-  có fymptomata, animi deliquia, fyncopales fe-  bres, tremores cordis incidiffe obfervatum eft »    utfe per illud vim peftis effugiffe fomniarent    in vehementiora fortaffe accidentia, et mortem  ex remedio incidiffe certó cognoverint. Multáq; exempla in hac noftrà peftilentià afferrezs]  poffem,nifi et ratio ipfa 1d perfuaderet:nó enimesp ^    qucd      M    ! S  Ami  Joiha CJ PP, 1 $t. Huod aliqui afferunt, conferre poterunt ; quód  arfenicum occultiore vi venenis tamquam vene-  num obfiftat, cüm arfenicum non occultiore vi,  fed corrofione conftet effe lethiferum. Ex quo  etiam colligitur ; nullam eorum efferationem,  Qui cà ratione afferunt conferre, quód cor in pe-  ite primo affici folitum, veneno fenfim affuefa-  rlat, undenec tam repente, nec fine negotio po-  teft ceca, violentáq; pernicie corripi; cüm ratio  nzcnulla fit; quód et experientiam habeatad-  yerfantem, nec arfenicum hocmodo inter venc-  14 connu merari poffit.  $9. In variolis,. et morbiilis curandis, cüm  Jecoctum lentium, paffimapud Medicos AraLentiz de  €ockur t2    »esmaximé commendatum, etiam apud mul- see, ge    os in ufum veniat; cum abuftm potiüs illum    €^ ia vaenfeam, hocloco nonab re effe credidi, etiam *ielis, ip;-  iujus erroris inrer medicas 1ftas Cautiones me- prebad .    Ipiniffe. Arabesiegitut omnes fcriptores, inter  [uos precipui R hafis 18. Coztinentis, € 10. ad  IMlman[orem  cap.18. et Avic.4. Cant. cap. de cu-  Wizndis variolis. ad materiam ad ctim ex pellen-  'Mam,& ad evocandas variolas;ex lentibus folis, I ex rifdem, lacchà, caricis, tragacátho,& hu-  qiifimodi, decoctum parabát.ídque cetera omnia  -.  ]    irefidia ad hoc munus obeundü parata füpera-  PÍcripferunt; quo etiam multi ex recentioribus  à peftiferis, et pefülentibus febribus ad mate-  iam ad cutim propulfandam;acad fuüdores per-  novendos paffim uti folent : Verüm non fatis    et    Wpo conjicere poffum ; quà ratione lenres aut    I    fudcres    Lentium  qu ilita-  Ie5. fudores promovere poffint;aut invariolis; pefte,  peftilentibüfye febribus concedi ; nam fi earum  naturam recté confideremus;eas mali effe fucci ;  atque melancholicum fanguinem generare dice  mus;inactivis qualitatibus mediam, in paffivis  ficcam temperiem in fecundo. gradu foruri ; 1n»  fecundis veró qualitatibus varias ; imo contra-  rias habere facultates: nam primà earum adhuc  integrarum, et non deglubitarum elixatione cie  ri alvus folet;quód in extimá füperficie virtus fit:  irritandi;& deturbandialvum;cüm é contrà ite-  rata decoctio, aut tota comefta alyum adftrin-  gat;unáq; opera collectos in ventriculo, et inte ftinisfuccos ficcet,ur que vires corticis internass  et integram lentium fubftantiam reciptat ; que    vim habent adftringentem;vehemenuus tamen  lensin cibo fumpta fimul cum cortice adftrin-  citminus veró decorticata, Hzc funt, quz de»  lentium naturà ex Galeno, Gracis, et Maurita-  nis fcriptoribus colligere potui . Galenus quide  3 frmpl. cap-1 5,9. eju]dæm cap.de..Lente.1.de com-  pof omedic-local.cap.8.1.de alim.cap-1.C7 1 8.2.e]u[-  dem cap. X8. 44. $. 1n 6. Epid. 33» 1. de vitu tit  acut. Com. 19. 4. eju[dem y cap. 4: C lib. de [alub.  Diata.cap.de Leute... Oribaf, 2. Synopf.cap. 1-7  1. Collell. cap.17. et A€t.lib. 1.cap.de Lente.Pau-  Yus; /ib. 2.cap.7 942" lib. 7.cap.de Lente, et Actuat,    lib. de [pivit. animal. nutrit. cap.5.Hos fecuti funt: f.  in omnibus. Arabes, praterquàm in tempera»:  mento, quod frigidum, et ficcum ftatuunt » for».    taíffe Hippocratis fententiam fecuti,6..Epid. Sets. f    j: LX    TTA    [- tex. 33. ubiléntem frieidiffimum cibum fta-  iuit; quà inte étiám à -Galeno eo loco arguitur  Hippocrates; quód in àctivis qualitatibus mce-  lium tenereindé collisendum fir, quód et et ad-  tringenre,& (olvente facuftatefit pr&dita;cüm  llioqui duplici ratione frigidum cibum confti-  'uere potuerit Hippocrates: Primó, quód cim.  tdftringens fit facultas in pluribus partibus, et   n majori mole fiibftanue,mæis frie1du m ci-  pum poteft conftituere : quód fi poucnes é.con-  rà ex lente factàs confideremus, quz folvunt,  primam nempe jill: im càctionem validiüs cale-  acere dicemus,quà àm fecunda refrigeret; quód  Qualirates calidæ facilius in aquá exciplantur,  juàám que terrenefürit;& frieide:Sect e for-  C frigk dit ffimam ftatuit lenteim Hipp. non ratio-  e qualitatum primarum fed quód, cum hu imo-  em, et fanguinem proeignant relancholicum,  dam.qt latenuscibi funt, frieidiffimzx dici po-   I. erunt,squod fuccum produc: ant 1n noftro cor-  pore friaidii (umum. Qus .cümita fint de puru-  imis, e fecundis lentium qua htatibus ftatuta,,  lon video.quomodo Mauriranorum fententia,  lhacin re admitti poffit. Nam fi primumeorum  Wilecoctum, non delibratis iis; pra beamus;.cüm.  iklvum moveat, potiüs à peripherià ad centrum.  numores trahemus.,. Quód fi decorticatas, ut   JA vic.jubet.imponamus;cüm tale decoctum va-  jenter alvum füpprimat, atque fanouinem me-  lancholicum reddat valentérque adftringat, at-  Ijue obftruat;maximé tragacantho X caricis admixtis, quando ad cutim perfudores, vel aliquo.| alio modo humotes virulentos expellere queat4  non fatis intelligo, cüm auftera qualitas, quæ im. lente perfentitur, etiam Galeno tefte 1.4/77. 18. interreà maximé parte Confiftat,ex Gal. $.de |.,  fimapl.medic.facul.cap.26.V nde adftringen tüiqua- |."  litate et obítructiones augebit; et craffitiem hu-  morum, qui ex eà generantur, magisimpinget. jj  Pratereà, fi crafsum, et melancholicum fuccum cenerat, fi flatulenta eft, et eà ratione fzpenu-  meró morbos comitiales excitat ; ad quid 1n pe-  fte convenire ullus umquam affirmare audebit ?  Quá ratione etiam ex tragacantho,& lacchà de-  coctum, aut fvrupus ab Avic. paratus ad  materias ad cutim propellendas, 1n.,  variolisrejici debet, quód hu-  mores noxios potiüs intüs  obfepiat, quàm foras  expellat, et cor-  poris po-  ros obftruat, non.  laxet .    gud,    3E d  ,    «ll Animadverfionum, et Cautionum Me.  dicarum,    9S 1 X d. V.    C ontinerts eas,    Qua; 4d 200r bos part: culares E capite ad membra.  naturalia pertinent . e    A UG PR LG   vOSQT E: ld  lt Ne d    De dolore Capitis.    actu frivida efle de bent L    Oxyrbods  natn capi    N capitis dolore, ab zftu,.Sole, tis dolere   iene, et fimilibus, curando, cüm prosit ima   oxyrhodina in ufüm veniant, et £'»J^ **   frontalia;illa femper magis laudan ^  ' tur,quz ex alto dela pfa füper fütu-  ram corona lem decidunt, maximé fi ad intern  cerebrum intem peries pervenerit; quz zft    alto deci-   Ant»  Oxyrbedt  4» pis appli-  AlC cata ze frc    Ce Iu 47 ec    2. In u(dem ftupis;vel duplicatis linteolis ap- «x cif    K    463    ynaterta  mpplicen-  $4r»    Oxyrbod:  sis narco  fica vix   admi[cen  dla »    NartoticA   8 Capitis   dolore vo-  ?   2;€ doloris    20 adbibe    dla. fed ali  quado vo-  ne vigilia  THU.  INarcoricA  3m dolere  capitisper  fe per os  zon a[fa-  geuda.  Infigaiter  vefrigerau  da44C4  puta non  fear. plicandis,caveant.ne craffiores applicentur, aut  exficcarz parri-nimis adhareants conttariuimL  enimeffectum pariunt excalefaciendo;& infen-  fibilemevaporationem prohibendo.   3. Oxyrhodinis narcotica non mifceantur ;  vel leviora : frontalibus autem etiam valentiora  miíceri poffunt;ad cerebrum enim vix,& refra-  &à vi per hanc. partem perveniunt ; per illam  veró, futurà viam prabente ; integrisviribusad  cerebrum pervadunt .   4. Quinimó in oxyrhodinis,& fimilibus,num-  quam narcotica admifcenda effe cenfeo ratione»  dolorum.fed cim vigiliz inde fuccedant;undes  maxime vires collabafcunt ;in ufum aliquando  venire poffunt ; íed tamen futuris autznulla, aut  debilia applicari debent, fed fronti potius, et  temporibus.   $. Multoque minüs fomnifera hzc per os  erunt fümenda,in intemperie calidà fine mate-  rià,ratione doloris,càm inde nullum vite impen  deat periculum. nec ullus fibi ob capitis dolore  manus intulerit, téfte Galeno, ut ex aurium, et  oculorum dolore ;'ob diuturnas tamen vigilias  fumi poterunt.   6. Animadvertendum autem;aliqua effe cor-  pora ;'quorum cerebrum ferre non poteft ufum  infieniter refrigeratium;Pueri, ob exceffum huet    miditatis,ne congeletur;autincraffetur;indéque  in morbos comitiales;& fimiles incidant, tum et  ob fübtile nimium craniü: fenes, ob imminutum    calorem, et excrementorum copiam: mu liczes    molles;    ANIM ADVERS.    molles; et candidze:& qui cararrhis fzpé tentan-  tur,& qui laxas nimiü habétfuturas,ex us funt.   7. Aceti pars in doloribus mitigandis cx in-  temperie calidà fine materià.non major fit quar    acerrimum    continebit .   9, Oleumitidem rofatum in eo dolore cali-  do;ex olivis maturis fitne fi ex acerbis fit, cutim  et,ac difflatnionem impediat, potiffimum  cüm revulfione non egeamus, nullà affiuente»  materià; in tali enim cafu omphacino uti licet .  Sitoleumrofatum eoanno paratum  oleum fit ejufdem anni :illud. quidem, ne rofa-  rum vis refrigerans exfolvatur;hocautem,ne ex  vetuftate calorem contrahat .   r1. In dolore capitis à frigidà materià, qua  ad mitiorem reddendum dolorem applicantur ;  non fint foetentia;2ravíve odore przdita; reple-  re enim craffis vaporibus cerebrum folent, et  dolores augere .   2. Indoloribus capiüs ex morbo Gallico,  errhinorum ufus nullus fit: five enim ex bile fit ;  five ex pituità putri,ulcerain penitioribus nafi  partibus ex iis excitantur, et fubinde offium nafi    COIrru pt lOoncs.  . Inacutis febribus;    LIB. FT.    n    tà;cüm nullus hic fit ufus. repulfionis ;fed ad re-  frigerandum addatur, et ad penetrauonem,  jus levis portio fufficiet, cum «& calida in eo  partes reperiantur.   $. Obidacetum ne  potentiffimo vino,igneas enim multas partes fic    Anh ah, op SERES LO,  ando vehementiítK a fimi    fit, neg; ex    Dolete £x  fite ex t5  téberie ca  lida, acete  porto im  exyrhbodi-  2i$ fat par  va.  AAcetd 19  oxyrbodi-  no quale  CO veni.  Dolore ta-  pits ex in  téberte Ca^  ltda, olesi  ofatum  ft £X 0lí-  Vl 5 VIAL  Yi$.  Ole us vo  fatum fnt  Yeceo 5 »  NO foeten  ua fint,  quá capit  applican-  Iu.  Errbina  perniciofa  17; dolorib.  capins ex  "iorbo  Gsllica.    I )i ii . A44    gapitis; et  xebemetif  fimis,im-  9ninente  erif, fu-  sieda ve-  pellentia .    Grifi im-  tnpinente,  quando à  capite re-  peliendá e    pilsle ca-   " ^  puta: es 4  i 4:24 200    r4 ]  GBA e    M aflzeato  yia q4AD-  dono con  codenda.  Errbina,  € feauia8torta    snala lakun Soo rx  por A. 10113    FILAS  L2 ;  fimi dolores capitis füperyenetint pulfaüles, cü   rubore faciei, non ftatim oxyrhodinis repellen-   tibus utédum, potiffimüm fi fie his coctionis prz-   fentibus: fepe enim füperveniunt inftante crifi»   et faneuinis é naribus profluvio proficuo ; quo  in cafifi infrigidátibusrepellatur,optimo ope-   re naturzinm € aut augefcit morbus, aut 1n  cerebro firmatur materia, et cerebri mofbos 1n-  vincibiles Spe   14. Quód fi enam crifis i eat dolore»  magno füperveniente, fed non ges fanguinem  nariun fed per vomitum, ems quomodo di Íícer  natur, ex lib. de Cf. colliei p tei ; tancrepel-  lentibus,quin et adt Lringent abus uti licebic ne»  per vomitum cerebro repleto; dolor per idiopa-  thiam reddatur.   15. Non recipienda eft communis multorum  confüetudo, piluJas ad humores à capite t: rahen-  dos inftitutas exhibentium ftatim à coenà : aut  enim cibos corrumpunt, aut illorum vis retun-  ditur,aut fimul cum cibo é ventriculo eft  fuo fruftrantur. Praftat igitur aut incen  cedere, aut fummo ma iné exhibere, fo  autalterà horá concetfo.   16. Si dolor capitis fit à bile, vel àferofo hu-  more calido, et falfo; tenuíque, mafticatoria fu-  ROT erunt ; pcr 1culum enim umminet ;ina  pulmones v ica influxa;aut phthifes p Adel  cat, aut pu Imonum alia vitia.   17. Siitem oculi imbecilles fint,'& fluxióotüi-  bus obnoxii. errhina ; et fternutatoria fugienda   in    ie ? j11 fine  latis C con-  mno una    e** h  AAA    ym  TO    11  bmi    vv et    : DEÆ NUM.    ANLM.ADVERS. LIB. VI. 149    18. Incontumacibus,& diuturnis doloribus; y«frcztie  tbi non cederent aliis& potentibus quidem re- optima; e£  mediis,antiqul et Greci& Arabesad puftulan- capit ap  tia,rubificantia,& dropaces,fi inapifmofve attra- p'icatasm   : 1 367  hentes confugicbant, ut ab internis evocarent vthemer  dir. "vt tiffimis do  ta(íam materiam, atq; attenuatam perinfenfiloribus £5»  bilem ev aporationcm evacuarent:fed cim cutis ubt  capitis craffior fit,c quàm ut liberum humori adi- am    tum concedat, ncque ulla fenfü patens fiat eva-  cuatio himorum,.eco fzepiffimé expertus fr m.,  pra ft: ure derafis cap illis vefican itiamponereaut  pa rü« lolenti,auttcti etiam Capiti ; fic enimat-  Lracta ad exterpa materia evacu res f maxime  ea,quz tenuior eft, et calida, et acris; vix enims,  etiamfi ciuturnus dclor à craísà materià fiat, fie-  i potefl DUEV chementa dolorisadfit;nifi portio  aliqua illius humoris fitadmixta .    De Phrenitide.    I; Dhbreneti-  I9 Ixin pbrerindelenienti perosaffumen ^. i  à MCL$ flattors  TOP T ! * cL » p " V RE L  y. do;ad detu rban« 2 €3 (crementa, in. en imr   tr1Culo, et primis venis exiftentia, primà die lo- dæ  cus datur, fed mclli clvfinate injecto, fi ejus eniá  commoditas deti r,m ittendus eft (anevis, fedà  in brachio venà : cüm enim influxus jam defie-  Faut majori ex E factus fit, fruítra hocau-  Vosa lum tentamiüs    Dbrenett^  20. Caveautem,ne in Trollani et alicrvm. cis fribra errorem Incida iS, Qui cüm ob maniacos motus «ebio sez    fàncuin iem e brachio detrabere pDequeunt,ve- feri 54  I        I 24 na    itte em qam RENE IDSU,.  dotdncap  M    ei    20 poteit,  noh fecam  8a eft ea,  quainfio  18.    Pbhrenett-  €i5 SAgHIS  non mitte  dus ad a-  ntmi ufa5    gdoliquil    In frontis  vena fec  da blandé  gula aá-  f Y27 41v s  Aut brevt  z82p0Y€ .    Pbrenetiz  €is, CHCHY  bitulis ap  4 E -  politis,  qud fa&iendum .    In bbrep huy T1  si run    Ho  LVD. SEPT ALII MEDIOL.    ram frontis fecánt; fi enim copia adfit fanguinis  in láborante ; ut in hujufmodi morbo majoriex  parte cóntitigit;tantumabeft,ut laboranti opem  feras, ut potius ; atttacto ad partem laborantem  fanguinesmorbum ádaugeas: revellendus jeitur  potiüis, atr fcarificatis cucurbitulis ;aüt ; quód  melius effet,venis fedis apertis.   ii. Néqué etiam iri Hioc cafü ad animi ufque  deliquium mittendus eft fanguis, quod pleriíq;  placuiffe video; quód; cüm repellentibus friei-  dis ab initio etiam  ufi fimus, refrieerato toto; ac  à capite rettactoadeó multofanguine calido;fe-  penuimeró aut phrenitis hectica inducatur cura-  tu impoffibilis, aut lerhareus fübfequatur .   23; In venà frontis fecanda adftrictio illa gu-  [z?*, quz fit, ut vena intumefcat, aut non multum  fit violenta, aut quim breviffimo tempore per-  fidiatur ; ne quodammodo ad füperna repulfo  fanguine, ubiad' cerebrum et meninges perve-  nerit, morbum adauceat, aut fané, eodem in-  cratffato,eunderm mætis contumacem efficiat .   25. Cucurbitula, qti breemati,fronti,& re-  liquis capitis partibus ; poft evacuatum corpus  afficuntiir,ad extrà trahendam matetiam, aren-  tes non fint et cum flammà, fed ex aquá calida;  nec loneiori tempore hereant ; et fi fübjacens  parsin rüborem abierit, leviter eamfcarificabi-  mus ; fin minüs, fpongiis exaquà tepente fub-  ftratum, et elevatum locum fovebrmus.   24. Cavendumin hoc morbo, ne in eorum.  errorem incidamus; quiab initio non effe purgandum cenfent, fed ex (pectand am effe coctio-  nem,maturatio enim putredinem jam factam.  fupponit,quam corrigat; quo in tempore ; facto    dum ab  £2ttio, C    q440t23080»    jam apoftemate, morbus evinci vix poteft: eo-  dem igitur,vela idtero die pu irgandá, vel ex Hip-  pocratis przcepto; 4. Z4pbor.10. imminet enimu    periculum,ne tota 1lla effrenis materia fein par-  tem laborantem effundat t,apoftema perficiat    t; et  vires profternat. Neque tamen crudam evacua-  bii fade cei us preceptum Hippocratis. 1. 4-  22. ve] enim turgens erit, vel nondum putefadta; fic nec cruda fanguini admixta bibsin-  tra propria conceptacula adhuc confiftens, ut  fecidle Hippocratem videmus 2. acur. 16. cm  fluentem humorem ad plevram ftatim ab initio  medicameto purée fubduxit;tamquam non-  aut crudum, fed coctum.   In iis, du 1alv o duzioti funt; R habarbaro  non ita facilé utendum: fi enim fimul cum biles  effervefcentem m: 1e1s bilem red-  eredi ay rnis partibus;ob igneas pat-  t:& ob hanc unam caufam    dum ) putridun    non edu CItUr,    tes,communicari  Avic. ?ranaà cato aut fex fcammonii medi-  1ndidifle in ph:  quidauid dicant Grz-  culi quidam, acriores Mauritanorum Íctipto-  rum reprehenf. res.    camentis ex R habarbar:  carandaà cenféndum eft,    26. Quamwvis in hoc omnes feré conveniànt,  fimpliciter refrio erantil    bus primá tantüm dic  Eur ipifaébeiiepus a fime et par    bus,f. PIRE repellenti-  1n utrepella-  ris, et influétium    Rbabarbs  rii tn phre  auide ia  ii54H dis  riorz funt  ALUO 422003  maltum   im ufum  ducendd o    Solis repeb  lentibus  Aliqua do    Sotds 775    eSI pt iit "NE -U  humorum temperetur; dolor fedetur;& affiictee   arti robur addatur, fequentibus veró diebus  mifcenda effe aliqua refolventia ; fepiffimée ta-  men aliter faciendum effe,quód urgeant in aug-  mentoadceó fymptomata, etus, dolor;vigilia-  et mania, ut frieidiffima etiam progreffu tem-  poris in ufum duci debean t, Aretzus admonuit .  In phrene ... 27. Cavendum tamen, ne nimis affidue iis  fiis nón. utamur frigidiffimis;aut narcoticis:tiam dicebat  dintis fri Aver.3. Colle£l.3. caput tutó calefit ; at non citra  gi [imis pericula refrigeratur ; periculum enim impen-  utendum. det,ne quem dormire volumus, poftea excitare  non poflimus, ut ait Celfus:fepé enimain lethar-  eum calamitofimabire folet;ex folà mala cura-  tione phrenitidis.    ultraprin  epum $    Q PE 3 . » Á Eu *  28. Intop  icis, etfi acetum 1n aliqua perucne    get admifcere expediat,ut et refrigeret repellat, et  md penetrationcm adjuvet ; neque tamen multum  plicaydi « admifcendum eft,ne ficcauone vigilias ccncitcts  neque acrius, quod calide partes,& ficca ni-  mium pravaleant .   Acetiloco ;:.29: Nequetamen placet, quod à plerifque»  in oxyrbo ICCi pitur,ut aceti loco, acido citri; aut limonum  dinis aci- Atamursnimiüm enim adftringit; et ob acerbas,  d& citri, terreftréfq; partes neq; pervadio neq; admifto-  vel l.mo- rum penetrationem adjuvat : quinimó externos  nem uo» wiestüs conftringendo,refolutionem humoris 1n  indendli ^ Jis temporibus omnino impediet.    F 22i  DNI", E ibd »  4 TN "c De. Lethargo.    v  M    MA  .    lfiinlethargo.fi perfe, et cum febrefu- ropa gi-  pervenerit, fanguinis evacuatio per fe-. eis quado  PEétam 1n brachio venam, viribus cenfenuenti- fecanda  f bus cmnino conveniat ; fi tamen, quod fxpius vez2 e:  l'evenit ; vel ad conunuamn febrem fübfequatur ; qu ádo n  llvel ad phrenitim firpé etiam male curatam,  lomittendam ceníco, neq; fclum dejcétarum vi-  Irium ratione, fed ob materiam potiflimum à  put. e fejunétam .  . S1 hecexerceri nequ cato bal ]UamcCaU- (uen   Ma: n ". apn it tamen repletu mfi t et nonnihilfían- ;4là in le-  lleuinis a« Im ixtum cognoveris, cucurb iru ]leino ££ me  ufum venire poterurt,nontamen dcrío, et hu- quado »  Irmeris, aut fie bis, ut Md ain vifum eft,fed licanda,  li lateribus potiüs pone aures; prope venas  applicitz: illa enim fübtilem, m: iie ; fluxilem  lian: guinem trahentes, rebellem maois, et frioi-  bdam, difficiliüfq; diffolubilem red lent in cere-  bro contentam materiam . Quód f € proximic  ribus eo auxilio eamdeim talos ARCEM  Jumpactz etiam frigide materie aliquam à cerc-  -Biorevelferni IS portionem.  Eir32 C avendum maximé, ne ab initio h iujus  ilimorbi ad excitandum à fomno  fternutatoriis  Iiramur;ex intempeftivo enim hujufmodi remc-  d1o mæis funditu Ir materia, m. igifque fubinde ;, 5ri»c;-  limpingitur ; unde et ccntv max mcrbus fit ma- pio    10 »    [Ei nn .pople xlv fequuntur. Errbine- fs    . Errhina in veternooptima funt; in iis ta- pw» Afni»  men    Stermuta-  fortis 20:  utendum    A IM ee os oir M  : gum Tm  m Er E i    LetLavgi-  cis vepelle  3i barc  applican-  d&; et [ane  «d[trin-  gentibus.  Vefrcatia  25 letbar-  g^ opti-  722,0 qui  bus parti-  bus appli€22da»s    Memoria  deperdita  vemedia    3200» seper  calida, fed  varianda,  P YOvart -  tate Catifa  Y 4777. 6    r$4. men, qui longocollofünt, et angufto pectore ;  uno verbo dicamsqui proni funt ad phrhifim, et  qui fepé morbis oculorum tentantur, in ufum traduci non debent .   34 Inrepellentibus applicandis ; quz non  nifi ab initio, et etiam non fumme frigida admi-  niftranda fünt, adftringentium ufas omnino 1n-  terdicatur, ne et craffior pars huraoris 1nfluxa-»  reddatur, et ejufdem evacuatio,quz per infenfi-  biles meatus fit; impediatur.   3$. Dropaces,X finapifini, utin ufüm venire  debentad attenuandam materiam,eámq; à cen-  tto ad circumferentiam attrahendam : ita vefi-  cantia mæis coràmendari debent,tum fcapulis,  et humeris appofita, ad extrahendamà cerebro  pituitam,& aqueum humorem irrigantern;tum    derafo capite vertici,& fuper füturanrcoronale.    De Cautionibus in la[a, aut deperdztasmemoria curanda.   "T. Icet abolita;aut imminuta memoria 111   A, folamfrigidam intemperiem referri vie B  deatur à Gal. 2. de fyzapt. caufis, cap. 7. (e 3.dc.2  loc. affeél. 4. $* s.cüm tamen frigiditas hec non- jum  numquá vera fit cerebri intemperies frigida fim-. I  plex fine materià;aliquando veró cum materià [1  potiffimüm pituita ; aliquando veró ex defectu ||.  caloris parti infixi,aut fpirituum à corde immif. . f  forum,& hoc caufas quàm plurimas omnino in- Bii  ter fe diftinctas,quin et fpe contrarias habeat :  utà fümmo externo frigore ambientis, fric iditatem pofitivaminducente;autab externo calo-  re,innatüm caloreém,& fpiritus;unde pars vivés  calefcit;abfumente: in hoc morbo curando pro-  catarticas, et mediatas caufas Medici animad  vertere debebunt ; nec femper medicamentis.    niant, càmoblivionem producit frigida mate-  ra fimilem in cerebro inte emperiem introduces  Vbi veró fimplex fuerit intempeties frieidà, et  internis, et externis validé calefacientibus j et  ficcantibus erit agendum. Quod fi non pofiti-  và frieiditatetentantur, fed défectu caloris in-  nati, aut fpirituum parte frieidà redditi oblivio  fequatnr Loses: intibus fpi iritus uti oportebit :  In remedii ; vero habenda erit ratio caufze ante-  cedentis;cüm enim hac aliquando calida fuerit,  bt 15 1][o, cujus meminit Galenis, qui cüm ve  colendis vitibus diutiüs füb Sole conttitiffet,  inedia ufus effet, in hunc affectum incidet: at;  in conflatore vaforum vitreorum, qüi ex fi ith 1- cis immenfo caloré memoriá amife 'fat;qui, cüm  !in eo Medici calidisutereritur, et imo rbus in de-  Ecerius rueret,embrochis fr igidis ; Capiti à mme ap    phatis, ed Irt1o 3t!ol )e ex dec IS ju o frigido fadi à.   D. cibis optimé fanevinem,& fpiritus inftauran-   s,ad fanitatem eft reftitutus. In aiidBiéer n,   I 1 O pA) Jeruinin mé? norie deperdi tione m nC] -  Iderat.folüm cenfirmatoantmo, 3€ fpiritibus vi-  o « ais Optimi fici inftaur 4tl$ ; CUFAC1O perfecte    Ia memo"1A deper-  purgantib us curationem uitio, aut caput- dita curd  purgis, fternutatc riis, errhinis, mafticatoriis 4a rar?  utentur,cüm hiec folüm in ufum commodé ve-. *vænat;o    2:26    - eff.    Opus    in COTHA:0  fis, primis  diebus ma  lé oleum  cbamame  linum cx  aceto Ab-  plicatur.    Comato[is  fométa cx  oleis nen    £sto adbtQe      f a6 eftadimpleta. Non igitur íemper purgan-   tibus, non femper cáput purgantibus, non iem-   per excalefacienubus utendum erit in curanda  . Hors : : ^.   memorià aut abolità;aut diminutà .    In Comates C fopovo[ts affcétibus «    m N. iisaffectibus,ubi aliunde ad cerebrum  delatisaut craffis vaporibus, aut ferofis  humoribus affectiones ez excitentur;non veren-  dus eftufus oxyrhodini ; neq; ftatim ad calefa-  cientia et interna, et externa crit deveniendum;  quinimó aceti quantitas eft augenda, vel dupli-  candaadoleumrofatum completum,vel ex Avi-  cenne et R bafis fententià,ad diem ufq; tertiam:  quin et acriori in iis 2Ceto utendum eft,ut citra  tefrigerationem validius repellere poffit. Neq;  placet Poffidonii fententia ab Actio relata, qui  primisillis diebus chamemelino ex aceto uteba-  tur;cüm ab initio repelléda fola fint adhibenda,  non autem diaphorcticis fit utendum, fed poft-  quàm affluxerit materia ; quo etiam tempore  4 la addi debent valentiora,difcutienti,& ficcan    LECCE e    M    u facultate prædita, ut caftoreum, abrotanu mos;    lavendula;ferpillum;verbenaca;& fimilia .    [8] LI . . " » .  39. In.topicis 1n hoc morbo applicandis, non    Med.  ^an  [Tu    $5 «    1Cacodlis,quia humectatio fiepé actualis ex ole  mbrochis quandoque vincit virtutem med    n    eó tutus eft ufus fomentorum ex oleis; aut de-...    E    Eu    imentorum incoctorum, nifi validà facultate £:c24  cante predita fint;qualibus etiamfi utamur, peu- qe    ló poft 4 D57  I[ó poft lineo;aut cannabino panno caput erit ab-  (tereendum.  dn Pervigilio y[tve vieiliayuz ex 'ce[fa .  29. Y N narcoticorum exhibendorum hcrá eli    cenda    E- S0nminui fa  cüm diflideant inter fe ferip tOres, "a qua bo    aliis poft cbum é ventriculolapfum, &anteex- ra exhiIhibiuonem alterius per  "bus; alus cum cær ; aliis veró poft coenam per  'lhoram. Egofic cenfeo ; fi ex fomniferis fucrit  'Iwehementioribus, quale eft Philonium utrum-  Ique;& recens T heriaca, pizftabit priorem fen-   Ireciam fequi;ne coctio turbetur, et cibis admix-  dra pom Apes at ' Cüm omnino medica-   menti da fi in iss nullam nütriendi facultatem.   habeant. Sitamen maxime necceflitas üreeat.,   Etiam à coena per horam concedi po (unt, v ipo-  Aribu: s cibi fa cilius ded ucentibus vi m íomniferam   üd cerebrum: fic horà fomni P ilulàs ex.cynoglof-   Ilo aliquando propinamus. Si veró fomnifera.   Kuerint leviora, aut etiam alimenti aliquid con-  Mineant;aut cum:cibo:exbiberi potfu unt, ut emul-  IMBiones feminum papaveris albi ex aquà lactuca,   Iiolarum,nenufaris, et fimili m,.thvrfi latucze  ffaccharo conditi; autfanc à ceená per horam,ut  |lyru pus de papavere,.de nymp Pha ex aqua la-  jd tucz:fic enim blanda illa cf fftumatio ex cibo Foi   Wata  nidiori illi, et aliquo modo fr ig1dz ad-   à fiepenumet 'ó fomnum con o  «mm: ^deratas 1llas vigilias ex fumidà, et t    CX h d    tres horas concedenti- 2ez4a.   exhalatione productas; aut ex calidà et ficcà ce  rebri intemperie factas demulcet, et íomnuma  convenientem introducit .   40. Quotidianus tamen, et frequentior illo-  rü nfüs,nifi nimius partis Caior id perfuadeat;fuSomifz-  rortt Af45  frequéenor. eendus eft ; ne, dum cerebro fuccurrere tenta-  efft i02 4€ ius; et illius fymptomati;aut contrarium. introedis ducamus affectum;aut ventriculi coctionem im-  PR minuamus.   507322116- . b f^ f   T n 41. Pueris parce admodum formnifera hec    per os funt concedenda; rariüs fortaffe valentio-  a;folent enim quam»    ra extrinfecus applicand  maximé memoriam labefactare.  42. Non priüs inanito corpore;aut repleto ni-  mium capite;nó funtinufimm ducéda: contuma-  vationem Ineptos »    ya parcins  $n pueris  2n ufu "m   ducenda.  Somnuife-  ya repeeto  corporeo, cesenim humores; et ad evac    aut copi" peros fiexhibeantur, omnino reddunt ; fi veró:    10,00» ^^ capitiapponantur. in comatofos affectus &gros    minjir9 deducunt.   somnife- VA d et - - f  Mee) blanda evaporatione cibi meliüs officium iuum  *,    la * : ^ »  E 43. Átenul admodum cænà exhobeantur; ut!    complere quean    parcat  mole obtruatur.    Narcotica    o  non Hàáda    jn princi- turalis;atq; impeditur, ne calor fecbrilis quam-  pio pire- primümex pandatur.  xy[mi í    "ode t:ita tamen ne aut coctio ci-j  poff c0 A. que Pepe : Y  bi impediatur à frigiditate, aut vis remedii ài    44. Cave; nein principio paroxyfmi narcoti-JsT!  oss " «^v . A 0^ E ;  ca exhibeas;ex iis enim fæpe fuffocatur calor na-4   In Coneelatione .    145. T IN catalepfi; five congelatione, cüm vi- r» carale-  AA. deam Praécticos omnes ftatim abinitio ca- ;// coz- lefacientibus et ficcantibus uti;in errore«eos cmc- zs. cal;-  :[ nes verfari exiftimo : cm enim in iis peccetma- Za ipea teria melancholica, ab eàque morbus is produ- 5?furen-  '| catur;fi in principio; et auemento morbi calidis ^*  |iis impense,« ficcis utemur,craffior reddetur  ;'| materia, ficcior, et ad diffolutionem InCptior ;  'J pre ftabit igitur calidis temperate uti ; ac hume- Cctantibus, ut materia attenuetur, fluxilis redda- tur, ad evacuationem magis apta, quin ut per  -J fenfum effugientem evaporationem difcuti ; et  TJ evacuari queat; progrefTu quidem tempcris cali- diora adhiberi poterunt ; ad rcliquias materiz  abfumendas,& intemperiem à parte auferendá.    [99    quet 4: In catale.  46. In topicisitidem remediisinchoclocoace 5,7 7^  i; eÍ ns. : bft aceti  tumnullibi 1n ufum veniat; tumne pauciquifü- 2  : cet : j ]4g1e7»da.,  'J| perfunt ; fpiritusexfunguantur ; tum .ctiam, ne  ifatri humoris ficcitas, et acoradaugeatur.    In Vertigiæ .    i47. T Llud folum in hoc morbo curando obfer- Veytigino  A vandum, cavendum cenfeo;cüm ex hu- 55,7,  immoribus in cerebro contentis elevati va pores,& tatorias cin  jexhalationes inotdinato motu, et in eyrum cied- capurpur  ftur;fternutatoria non effe in ufim ducenda, ne- gia fagiz-  que valenda illa per nares attracta caputpurgiaz da.  quamvis enim aliqua materig pars educatur,    xr1*3^  iIVII  YÀÀ    )   Qr  (91S NA  OlS, Cv    icrfiam m    j y "LA  2n pavoxyf  2320 0 CO    catiendt.    I bilepr:-  / 1   £:$ caf ut   Cot80"  2 4 uS  nz Fi6€3Ais.    ilept iEt  €1$. "'UO62213M5 "72vEpi'epti-  €15t pa"T    v0X y[7720    liosu oot  gon nden    T».  ea    0,    ^ Ww  fymptoma tamen fepe    jJ E   aceto;aut finapi;aut fucco ruta perfric:  augetur, concitatur ma-  .x motu fübito materie morbus isine piutatur.    In Epilepfia .    acet,quod [,    "Ntempore paroxyfmi non pl  tif    Pu paffim à plurimis fieri video, qui fta    4  VU.    corpus concutiunt,quin etiam ipfum caput : fe- u ad    numreróenim magis recurrit ex eo mot    pe  lus perdurat 1nobftruendum materia, et di  vafio.   49. Fugiant etiam, et omnino caveant, ne ;  dum.turpitudinem faciei, et diftorfionem, ac  fpumaumjoccultare tentant, capite, et facie pan- no cooperta, refpiratione liberà impedità, zeros  füffocent.   $o. Cave nein paroxyfmo vomitum provo-  ces ; vidienim aliquos in invafione hocrentan-  tes,ftriptorum quorumdam auctoritate ductos;  przcipitem in mortem :egros duxiffe:ex violen- |,  to enim illo motu, magis repleto capite, ac con--|  citatà materià in cerebro exiftéte, ad perfectam  cbftructionem faciendam deducunt, unde apo--,.i  plexia fequi folet .  «1. Vt mirificé placet in principlo patoxy--],  finiori aliquid, et mediis dentibus indere ; ttj:  hiansos effe poffit, ne lingua intercidatur; fpu--].  ma educi poffit, et palatum realiquà attenuan-],  te, puta, Mithridaticá compofitione, caftoreo exu, "  iti poffit;   ita    1f  ut    Fw    "RT    iE E us Je VÍA       ita lignum folidius 1mmittere nonita tutum eft,  Í» penumeró enim inde excifos dentes vidi. Pte-  ftatigitur facculum ex corio,vel ex craffioti telá,  repletum. atrenuantibus multis, et validioribus  quidem, finapi, evphorbio, caftoreo, rutà, aut  ejus femine, et fimilibus, ita parare, ut illius vi-  ces.poffit fupplere : fic enim et voti noftri com-  potes reddemur fine illo periculo, et morbo ad-  verfabimur. In brafei-  $2. In prefervatione ab hoc morbo;hzc fitin- vatieze.  fecandà venà cauti j»fiinftentacceffiones,nifiex 4^ epile-  fu pprefíis menftruis ;aut hzmorrhoidibusori- P qu  o)nem morbus fumat m uttendus erit faneuis ex gum bra-  venis brachii (fs veró femel aut iterum, vere, vel. ^^"? » e  iutumfo fipervenire foleant ; aut. hax motrhoides,aut menfes fint fuppretfi, fecanda erit veria ;    in talo.    aud s  lud.    quádo cx  talo f^x-  gai ?21Íf-  tendus.  $i ex aurà virulentà aliunde elevatà-ad. rpilepti-  mel morbus fiat; nifi infignis plethoraid «iex an-  perfuadeat,mittifanguisnon d debebir. ra tieva-  $4. Cüm plerofq; videam; Aretzo,& Ttvieen fa » o0  nà duce,in-przcavend æpilepfià validiffimisuri "7742s  medicamentis purgantibus, tum per vomitum, / "£5  tum per feceffüm ; ; egó longa experientà doctus Lys  profiteorme numquam morbum hunc, in quo-  quam per proprium cerebri affectum producti HAPE  validiorib jus vomitoriis curáàtum vidiffe fed ex... :o  11s omnes ad deteriórem ftatum deductos:valc:  üora autem per feceffi e cducentia aliqua:  proi "u flec bfíerv AVl, nod ónon lta B EE  uium ducta fuerint; à frequentiori epim eorum    A CLLA    L ufu,    »    101. L/D. SEPT ALII MEDIOL.  ufiexhauftis fpiritibus animalibus,a poplexiz  facpé concirantur . n yeéicia $5. 1n confirmata epilepfià per proprium ce-  in capire rebriaffectum, fi quis derafis capillis, veficanti-  eptimum. bus peruniverfumcaput utatuf, atque ad peri-  epilepfie  pheriam humores virulentos trahat, diutius ul-  setsedié - cufculis cuam capitis infeftantibus relictis, ut  perlongum tempus ferofiilli humores per ulcu-  Ícula emanent, optime curationem irftituet ;  contumaciffimos enim capitis morbos hujuífmo-  diratione ctiam curatos vidimus.    In poplexia.    Ataplecii 56- Vamvis excrementis alvorefertà, non  eis flatim fit evacuandus fanguis. perfectam ve-  voittédus nam, ne ad venas crudi humores trafanguis. hantur;in apoplexià tamen, cum ex niorà confir-  metüur morbus, quamprimüm fecare venam ex-  pedit, fi abundetfanguis, aut rnixtus fit fan cuini  humormorbum faciens.  Apopleti  $7. Quin fiindicatiofecandz venzadfit;pre-  cis repeti- (abit repetitóid agere: fic enim neque refrige-  £o [279415 cA bitur corpus;aut vires imbecilles reddentur,&  mitius. id obtinebimus» quod maximé exoptat Actius;  nempe,materiam morbificam commovebimus.  ;8. Concudiatur/ blandé corpus, perfricetur  ^osdun Calidis, et potiffimumbrachium, unde educen-  25 pof; dus eft fanguis, ut et revellatur, et áttenuetur,  emdum  quicraffior perfe eft,& factusex refrigeratnione  zu.  adhuccraffior, facilius effluere poflit .  |. $9. Neq;    Ap oplecii  £s COnCL- Neq; vulnus anguítum fiat quod aliqui-  bus placet, uit motus diuriüs perduret, fed latum  fieri dcbet; nam craffior cüm fit (anguis, ftatim,  quafi reftagnat.   60. Venamifrontis aut pone aures ftatim ab  Initio fecare quod aliquibus placet, ut quampri-  mum prafto fimus, non eft conveniens, nifi pra-  cetTerio univerfalis evàcuatiosfaltem per quatuor  horas;admitti ramen aliquando poteritfi pletho  rà non adfit, et aliqua fübfit fanguinis copia in,  capire. que tamen duas non admittat fanguinis  cyacuationes;.   61. In cucurbitulis in hoc morbo affigendis  cauto fit, ne parti pofteriori thoracis applicen-  tur, ne rcfpiratio umpediatur fed lumbis, bra-  chiis,& fcapulis,quin et occipitio,& jugularibus  quandoque venis. fed poíftalias ;& tuncomnino  Ícarificare cutem fübjectam expedit.   62. Inligaturis-dolorificis non diutiüs perfi-   endum,ne pars gangrznam incurrat; fed partes  modo ftringantur, modo laxentur,;precepto Ávi-  cene,ut et major fiat revulfio, et motus humoris.   63. Cauterium in commitfurà coronali, quod  laudat Actus, et alii, nó anvltüm probatur,quód  przfentaneum pon fit remedium, multáque alia    - ^ E, Á € iam invehat incommoda, de quibus aliàs .    64. Praítat, evacuatione factàsneque nimiüm  in exrimis rübefcente parte,cucurbitulam in ver-  tice ponere, et repetere, abrafo capite, vel validum medicamentum veficas excitans capiti ap-,  poncre,    L    "A bopledts  ct$ dn fec  da. vena  vuln? fat  ataplum .  "A popleckt  Cci$ "vena  frotis qua  do fecanda .    Apoplectz  €t CHCHY-  éitula  quande,et  quomodo  Abplican-  da.   Apot lecis  Cis lgattt-  r& QUALESo    Apopleciz  C$ CO MIC  Ya? 1 Có  mif[ura  coromals  nate.  Cucurlt-  'ula rs/0    '"titeyvel    mie    adpoplect;  €i qua  quantitas    €byfteriz.    In apople-  fitis vo-  enitus fu-  giendus.   Antiimi-  "minuta fa-  £UODHHID.  Purgátia  frat ex va  lentiorib.  Gterzauta-  toria qua  do adinim  Sranda.  Ilo inuduo  oibus ab  ipabecillio  v btts m    "EE    i4 Inclyfmateinjiciendo hzc fit animadver-  fio; fiinjiciatur primó ut revellamis, et peralvü  fübducamus, ea quantitas erit infundenda, quie  id praftare poffit; et hociis obfervatis, quz aliás  docuimus : fi veróutinteftina mordicanübus, et  valenter excalefacientibus vellicemus, et dolorem incutiamus in dimidiatà quantitate 1nfundendum erit, ut diutiüs retineatur : quod fi diu-  tius retentum tormina, et inflatimationes in in-«  teftinisexcitet;balano elicietur.   66. Vonitus fugiendus;tum quód egerin hoc  motu feipfum adjuv are nefciat ; tum quód, cüm  fe erigere nequeat; potius fuffocar etür;tum quód  in repleto corpore vomitus caput replere folea t.   67. Sribii igitur ufus 1n hoc morbo, potiíTi-  mümin paroxyftx 10, eft fugiendus.   69. Sed valentiora tamen deje dtoriá d: xhiben-  da erunt, ut paucà quantitate affümipta etiam à  longinquis attrahere, et educere poffint.   69. Sternutamenta ut maximé ex ufü füntin.,  hoc morbo, et quidem valenuffima ; ira-non fta-   timadhibenda;nifi priàs corpus fitinanitum .   70. $i caput. derafum oleis calidis inungen-  dum fit; cautio fit ut à levi oribus priüs 1ncipia-  mus, ad valentiora progrec lentes .   71. Vt veró diutius hæreant;ceré aliquid fem-  per indendum crit.   72. In merin Chymicà arte in üfam: duücendis    hec fit animadverfio: non iis folis t tendum efle »,  fed ipis me edicatis effe admifcenda : cim enim.  ieneà fubftanua conftent ; 1n fuperficie pofita ftatini    ^    "9c on.    dc RE d RU    ANIMADEERS: LIB.    tim diffipantur,& in halitusabeunt;nifi aéreis,&& 5/7; fj;  oleaginofis quafi lieentur; ac coérceantur .    In Paralyft .    Pf.    fed. oleis  zneédicatis  VAIXTA e    ]  73 ]Ifi monet Avicennas, quem omnes fe- 7^fare^quuntur recentiores, in paralyfi in prin-  ^  efle purgandi um, n ifi tranfactà quartà.;    aut feptima. et netunc qu cos. validioribus me-  dicamentis, quod etiam    cipionon c    habet verit    cítn )ateria  rs (lefacta,  Iancas;cgt.  4- M    VE TENUIT  L]    dicis in ads 4  promoventibu d  fudcres movent, de    e $9.85 -  ha P X l 111   uberiorem    bum bhuncvrinis rerentén  11  »^, ki 7 ;  rt ptrs- exío)  naptibusin deterius rvei é  ficra-qucouc edi    tím. mon vePe* A PEE  tCnll lléXiolUutaà    à Pa    iltis, fudoribus autem    : Queda m  * 7 * 3 ! *noc  et i €1l í Q4 d res  ;craíffior mæis    2    C1  "Iles. 5 cum    UID    lo obfervatum vi1-  demus; jdtai nen,mée A (ententià; perpetuam non,  : fv enim primà ipsà die accerfi-  tus Medicus fv ici m nondum nervis impacta  adhucin motu eft;dum nondum    ;] otf Litmateriam quamprimum.  e medicamento fatis va ve ai    IC. Atu b )LJà m firmata f    alvum fubduce-  It; perfectéque obítru-  ctionem 1 (€CETA; priüsattenuanda erit, et prapa-  àm evacbetur.  us comm ittiti r error paffimà Me-  urandà,c um cmuffis urinam.  lea rromptiüs accedüno; quz  coctum Guatiati  'etia1n    .Sarza pari-  p nea artificia»  alioqui  eS 27 Nace wer doit InOr-,& ebundé pro-  cónfcrtim. ma-  A »  a crat-  autem parte  callefcat, cxaf  fiot    f quando  ab initio    purga o    Paralyti-  €i$ fndors  fera inu-  ülta.    roe  LAYGUfI-  jv,    C5 dl ren    i Paralyti-  eis oleav$ fyeri ex oleis nimiümrcalidisj& ficcis,faltem folis;    ?i$ Cali-  dn mala.  Olea ff:i-  sata fola  éputilia.    Paralti-  g1$ vera  115 utilia.  Paralyti- :  €i vubif-   €atia qu  do conve-  PIAB? .    Rubifican  Ha guo  ufque cuis  adbarere  debeant .    Paralyti-  eis cuctur-  àiule u:r56 D. fior reddatur;magisobftruat;atq; difficilior red-  datur ad motum;& ad'evacuatióoriem .  7$. Quà etiam ratione inunctioncs non debent    periculum enim impendet;ne materia nervis ad-  hietens nimis exficcetur,& la pidéfcat: quarellis  femper pinguia mifceri debent; unde edat vis  ignea illorum coercebitur;re exhalet, et diutius  adhzrefcent, neque titium exficcando contu-  maciorem morbum reddent .   76. Vtin paralyfi curandà aliquando vefican-  tia; poftuniverfum corpüs' evacuatum, fca apuhs,  aut brachusapplicat? debent, ut materia à cere-  bro,& principio fpinalis ad extetna attracta eva-  cuetur;ita rubificantia folüm poft illa& t progxef-  fü temporis ( Avicennas trieinta poft dies iis uti-  tür ) fpinz dorfi applicare convenit, tim ut reli-  quias materia extrà vocemus  fpiritus 1terum in partem revocerütus, ut ea revifaneuinémque dod    7. Cavendum tamen tenc, re rvbificantia e  e adhareant, vt veficas, aut puftulas 1n cure  indc cant;fic enim fpirittisa d partém non revoca-  rentur;fed diffolverentur: có vfque foitur finapi-  fint, dropacéfvectti adhærere  quamdiu rubida pars prefía d1eito not  fcd robida perfeverát.   78. Cucurbitularutmufaüm quàm maximé com  mendat Avicennas' poft ex purgatum corpus, ca-  pitibus mufculorum partis labcrantisápplicitaé permittendi fint,  n albefat,    &,qui,- rum finefcarificatione;nen quidem ad extrahendam    . "E 4    LOT oe Jnireda,  o eas aa SER: intus eos f nnm    ANIMADFERS.- LIB. V]. :3€7    ; dam materiam morbificam, ut cénfuit Geritilis, dot: qus  fcd ad evocandos fpiritusad pártem fere demor- texas ap-  tuam:quod ut obtinere poffimus, animadverten-P/ieanda -  dum, cucurbitulas angufti oris effe debere, cima  multo igne effe applicandas, ac divtiüs non effe,,  permittendum ut adhzreant;ne diffolvatur quod  ab iis eft attractum.    De C onvulftone ..    79. Y N fpaífmo; motu irruentis materize ceffan- Wie  : v . es CHC  tc, ut cucurbitulze mediis mufculis affixze, ^4 rhitie  p ome "- la quado,  et fcarificatz extra ufi m funt ; ita cavendum eft, ubi af  3e f£nibhns mufz Wr "n ! --  5 bnious muículorum ubi tendines funt, affi plicabdá.  gantur.  $c. Addit Aretzus, in illarum applicatione.» e  15], Cucurbi  parce ttammam excitari debere;nam que à lab  cucurbitz fit compreffio.dcloris,conv  auctcr efTe folet:molliüsi  adhareant.    FIS (ule i  ulfionifque jj; fms  gitur trahant; et diutiüs qZo zppl;-  canda.  81. Cavendumetiam, ne pars fübjecta; detra- Ceci  Cus cucurbitulissfrigore tentetur; pars enim rare- '/!!s faé-  facta facile frigido a£re admiffo riecret. latiss p^  $2. Cuftodiendzautem quàm maximé ab am- ^um  biente frigido partes, que calidis balneis pro- visis  xime 1mmcrfe fucrint ; qug perfricatz, quaii  gatz,que deniq; dropacibus,fina pifmis;aliífve »  ingeniis ad ruborem deductz, au    nes calr-  t quovis modo 4j, foe  rarefacta; quód nervis frioidit    aS fit 1nimica, ma- zz.  £eriamq; convulfionem facientem craflefaciat.  $3. Quapropter etiam fupervenierte füdore» ossis    L. 4 cb dofe fador.fu  pervene-   rit, quid  agendum.    1698    LVD. SEPT.ALII 7MEDIOL.    ob doloris vehementiam ; maxime obfervandum  erit ; ne mador ille adhæreat ; néve frigefcat, fed  omnino abftergendus erit ; fed ne rneatus 2 aperü    frigiditatem admittat ; Béve effluens fudor virtutem exfolvat ; calente aliquooleo partes erunt    MelZcho-  licis :pur-  gantia li-  quida ma  gis conve  9UADE S    Cuando  "altéAus  fangnis  5, et qua  do fappri-  auendmus,    f(E9A JE54,  ttnhá .    delinienda blandé.  In AM elanchelia .    Vamvisnon negandum fit,in hoc mor-  bomedicamenta, qux exhiberi debent  ad evacuandum humorem, füb quà-  cumque forma concedi pofle ; veriffimum tamen    94.    -eft;fi liquida gunntegekuss multó magis utilia effe;necin omhibus ufum pilularum admitti poffe,  Ob ficcitatem melancholie; quamvis contumacia  materiz ad eas nos revocet : nam robuftius agunt  combinatà vi,diutiüfque in ventriculo hzrent; et  vehementiüsà capite prolectant .   8:. In miffione fanguinis per fcétam venam,  quamvis fciam, plerofque Galeni au&toritate in-  nixos hac uti diftinctione, üt viribus confentien-  tibus, et morbo masno facto, fecetur vena, « fi  ater fanguis effiüat;educatiür ad debitam quanti-  tatem ; fin fübtilis, et rubens ; ubiad tres uncias  effuxerit; fu pprimatur: petpetuo tamen ho cfer-  vandum non eft; aliquando enim aliquà datà oc-  cafione, cüm ca perit morbus 1: sin cerebro ; opti-  mo fanguine exficcato, fiin univerfo ab undave-  rit fanguis, et torofz fuerint venz, (aneuífque in  iis nüllam conceperit labem,;fed copi fc làm pec-  cet    MÓ M    -ANIM.ADFERS. LIB. FT. T   cet, fecanda quidem ierit vena, et fanguis,ctiamfi    fübtilis, et rubens effluat,omnino in debità quai   titate erit evacuándus, ut revellat à ca Dite, 1m-  pediatur, quó minüsin nleram bilem vertatur,   aut melancholefcat. Galeniieiturfentengia ve- « "P €  ra erit ; ubi non adfint fiena verz plethorz ;tunc D Y,  enim pro revulfione expedit fecare venam, et f1*   n iorum cundi videris nus,Cümin venis mænis    í    abundare nierum fanguinen n viderimus,cfflu cre    finemus; fir veró fübulem, et rubrum, fiflemus :  quod p« otiüs: i ptus fit imclancholicum fanguinem  in fupernis exiftentem attemperare, et ad benionain naturam revocare,    QCoffa 7 r  D Ss $474 U y Leute ru ED D e 2 Y eR ET iunt  56. Foramen tàmen femper amn»lurm fit, ut, fi, i i CIS nA210»T2c*  In craffum faneuiném incidamu: s,prompte efflue L3rbabess  mw». cH i Ab.    re pofht;neque tumor circa fciffuram excitetur. Jit ampla.  M e OW *K»TS P T714 ^ y ad. 3 m  957. Admonendus etiam eft venifeca, ut difle- Fzz4547  A5 ven: TP 1113313 7? 3 ^ * lc la f 1^1 T  Veto v wap Y incutu 111 mi iquai [a im ud AVL ;Lh€ Crai- vintuli $  fioris fanguinis effufio impediatur. incifa ve-  24,0 me  hne f ÆS 2L antLeli-  In Epipboi A "IZ C6 p10J0 ad oculos bur u22101- lancholi    "hn .  * 4/4 ATtflt1 4 C$  e Li ^ 3    Au LJ  PUER MMPEAMCTOCNGI TEMOR b epibbo-  $8. Vamvis, cumocculi fluxibus humorum. p? f  fle : " cenfherir Cial D 2 4 fA0Culort    -4, tententur, cenfherit Galenus nmm 6.2d- qni,  "we Db0or. 21. Efi 13« AM eb. tilt. ob ad- t  "mn " X ) X FIDUS tete)    bd d^ 2d dd d í AAA VA-LL4t wr LER, NEIDRU-  ftrinzenuum ufo effe abfipendum ; 1n epiphoráa gz  As uet y ". : I E ED  tamen multoófecus faciendum docet; poufimu    "1 -- ^ TR we ^A^31 E " Mood 441 EU  in Lema Oo:cumenimailiuxus nuimorls iit €exC» uy).    P Re    014115, Ct"   In fluxio et materia in Intimioribus recipiatur,& ab exter--|  sibus alii; nà tunica quodammodo repellatur.aut faltem abi]  ad oculos cà nonadmittatur, cui aqua ex rubi fümmitati-  abitinen- bus, ex foliis teneris quercüs, ex fragis, et (imili--|  dum 45 ' bus, vel compofitis, aut ferrata convenit :at ad--|    «dri»? ftringens ficcitas numquam admitti debet, ubi].  QÓAS. C    conmimaciorem et folutu difficiliorem efficiunt  affectum, et fiepé etiam actioni visüs non leve af-  ferunt detrimentum.   99. Notant recentiores viri doctiffimi, et poft  multiplici experientiàà me comprobatum eft, in  i Via 9laucis ocu l1s,ubi etiam vene ampla confpiciun-  agbla i, ; 'ü f mitioribus remediis agendum effe, quod forG'anmcis 1    "Herila, affe magis fint pervii.    agendum.90. Mafticatotiis,&a pophleegmatifmis uten-  In epiplo dum.eft potius, quàm errhinis ; quæ tamen pro-  va errbi- grediente morbo, et frieidà affluente materià,  ?5 ra^ modo validiora non fuerint, in ufim aliquando  venire poterunt: fic enim averfio materie fietà  æatibus canthorim oculi ad nafüm.   91. À fternutatoriis cujufcumque eeneris o-  mninoabftinédum: impetu enim propulfa mate-  cul»us LTiàà Cerebro per nares, et pereofdem meatusa  poii; f, 9010s promovetur,& ab internis, et meatus ma-  gis aperiuntur,    *,  247 t2au»    SK FA dita-  dPor:a $9 v    gten ida»    - humiditas ad internas tunicas, et intra corpus; p^"    T  A    In Opbtbalmia.    17   92. Y N. muliebris lactis ex uberibus recenter  emuléti;aut ftillaa ufüad demvlcendum.  vehementiffimum oculi dolorem, ut principem,   ;    locum inter hujufinodi prefidia femper obtinuit;  ita cautio adhibenda;ne eadem lactis portio diu-  tius parti àdlizreat: fepé enimab zftucc rromp-  tur, et à vehementi calore oculi acrimoniam ccn-  Cipit;abítercenda Icitur blandé eric, aut novo la-  Cte afperfo fn bluenda.   93. Opiinfusin inflammatis ocvlis neque fre-  quens fiGneque multus:quamvis enim ip eo prz-  valeat refrieerand! vis,cüm tamen amarotis non-  nihil habeat, fepé mordet, et dolorem adauget.  Qiód fi ex longiori morà prevalente frieiditate fenfus torpefcit ; et fübinde dolor imnünaüitur, tum et per frigiditatem temperatur zítus,craffe-   facto tamen affluxo humore contumacior reddi-  tir morbus, curatüque difficilior ; tim et visüs  actio hebetior fit, vt etiam Galenus cbfervavit,  3- Meth. med. c. 2. GO" 2. de compo[. med. fecundum  Mocz; c.1. 94. Obquasetiam caufss rejicieb  IAM etb.med. ult. ea,quæ vehementer  Jeuamfirefrigerent, et re    Imibus oculorum,utaca    t'Gat. 175    J  rineunt,    ellantin inflammatioad    [0    ^  )    I  ciam, et hvpocyf    ^    tin; n6.»  fiuxit,exituü p    EN  "T (31*5  ITOnlmateria morbifica ; qux eó in  lbeatur.   9$. Et quemadmodum remedia in hoc morbo  ILeni:    Ha effe debent;ita ullum lentcrem ha-  bere    Laéle ent  liebri qua  cauttone  utenda us  obhtbal-  UMA e     (N n  TWIA 06H tbalmia  Obt! nfus  2e9u fi  4 Lj  guens, 25€    Qt mult»    $    Is,    Adífrtn-  gentia va    lid 1 op L thalmia  IL. gie da.    Leztortn    LabentiA  bereoportet, ne pertinaciüsadhzreant, néve, fiij    epbtbal-  2 xulvifculum aliquem ex pompholyge ; Cadmià, 3C IH-  esindda plumbo;adjungamus,arefcant, acrimoniammye.»]     vel ex admixtione acris humoris, et calidi adíci- pun   Allami- fcant: Quare licet albumii naovorum diutiüs cone--jati  Poi. quaffata cum aquà rofarum, vel my illnm Mis   fondi va- velfimiliunr, .acípuma yes atq; iterum detra--] i4   :io, € cZ. Ca, maxime omnibus pro "bentur, acin ufum du-Joniic  qu2 c4- Cantur, cum tamen tenacins, adhereant ;ut huic  "pene * . incommodo occurramus, foleo ego ovum recenssit:   ad duritiem quamdam c3 «coquere, et detractáil  Andes - flavà parte, per expr effionemex albo aquam ex-4» 1    - 4 À trahere et i illà uti cumaliis; aut fané in loco cavonlile  mA UE EV Ta cc iari albi, tutiz, et aqua rofarum por rtione  P impofità, in modum cementi ; per duplicem pe-tam expref tione fact, aquam, fuccümve extra-y  DESEE o BB li TRE tisocults fine moleftià, &9  maximo cum. fructu utLfolco . ! pios Cod æreis cum Gal. 1j: ELS  ) Emplafi jb onmbd.22. emplaftica um vimchabentia, et refri- fut  eis in eph cerantia in lHippit udine conyc 'nire., ut diu itzusad- d.)  tbalmia Y ereant, loi |gtoríque te porc refrieerando re-Jio  pellant;ubi potifimim: iit ophthalmia fit ficca «Jio.  aut humor effiuens tenuis;necadharens; ubi vedi  rÓ vi dior fit, et mordens, füpcriorem cautio-  nem adl übe bin BIEN  FH: a9 Obf: Van zu pratercà, Galenum e MEM  eb nti»dü - AMeib. xit Ad de coni of. med. lecundum loc... 2  em itpitu interlenientia do lorem in oculorum infian ^E 3n  dine, nog tione, cumalbumineovi,& lacte collocaffe deco  feine. Cur. de xnu iugraci;id veró plerique Medici paranij  ex fek i1  1T  S    1  Gianao    utendum.    2  x femine; cüm dn mm id mæis fit ca idv mi,  nuam conveniat in oculo rum inflammatione »;  [um calidum in fecundo gradu, et ficcum in pri-  jJmo pofüerit Galenus femen 8. de fmpl. »td. fa- ^ s.d    ind. affumi ieitur pro parando hoc decocto ad fc7147 YA  Jrendos oculos debebit herba pía, et ejus folia, AS Mond  A  ilioqui augebitiir inflammatio.      v    98. Quinimo in illius ufu hecfit cautio ex Ga- Fzzugrz-  enoibiderü, nein ufüm ducatur, nifi priüs ab- cz a&/sen  uatur diligenter-; ne pulverem admixtum ha- dum ante   |beat; femináque etiam erunt excutienda : sícque 244 Zeco-   Iromimunem errcrem  - E^; to   99. Infinita propemodum remedià, aquas;  |ptilveres ;&alia; cum videa im& paflim pro )jpe-  1l 5 et fcrib! ) placet iili ud h MC pro CaUutloneadnc- i    31    4ÀAC ; quod 1 Goctrliitno Mercato lib. Iu    Jepii: Aii  orb. curasi. c. 30. fcribitur . In oculorem curat M vilia ad-  ie animadvertendum, quamvis pluri rima pra dpieiited   lcripra fint remedia nono  '5, àut plurimis j  aut femper effe utendum 'Serim boni promut-   Jtunt; quàm praftenr, ut a1 G ;alenus . Scio profe-   I5, pl ures inom 'dam cocecit atem ded    " Ctos piles "vo Í^  p(le copia mdalium um potiüs, quàm defect tu 3 ex Attn  Jnequeunt enim ocoli ; quz. proficua fant, citra:   Jdamnum perferre; ide Le quz inordinate; et ci-  Jtra rationem adhibentur   rco. Iníüuffufione perfectà; quam Cataractam I» eatara  barbariappellant; curandà;4 aci removendà, 4a  oculi  drautio hzc adfit, ut niinauam tali cutationl ma- 464 rere    inum admoveamus,fi tuffi xoer laboret. Si e- ve742 &o.    Ph  l1: Planen sleid SZICLA dina stes deed TE PTP RENS. FEET  inim acu introducia Íiupervenerit ; perf rationis /   $ LESE    DCIlCll-  jexicu ide E    Go CE "P A E, x  T" ZU cdet ubl CENT       - . AN e E -m w4Ot-periculum impendet: fi veró tunicula depreffas ju:    Bre Ciesa, ex.concuffione veheméa dimota recurrit »ut WA.    - Sternuta-  gneuto 1m  pediente ;  90 1705?-  dirtpoji.    Catara-   éfa, ante-  quam aca  cp 1-  "TP quid  cavenda.    Auribus.  fS x   si fim -   2106 labo   vYaOAIlibus    'Ui Cone  nin! .    ror. Si veró jam deprefsà fternutamentuma,u(  immincre zger perfenferit; unde aut recursüs pe--$io  riculum immineat, aut inflammatonis in oculo s; «ri  fummitate dieit dextré majore oculi angulo có-- oui  preffo, et perfricato, periculum hoc evitabit im- do  pedito fternutamento.   102. Quoniamante curationem hanc per acüs fuii  Medici fe pius ut periculum faciant, an fatis in--] i0  craffata fit, ut actioni per acum factz cedere pa- jeu  rata fit fine ruptura ; digito pupillam compri- Jii  munt;cauté id facere debentne fi valentiüus id fa-. fis:  ciant, nimis tuniculam attenuent, facilémq; red b;  dant ad difruptionem.    Cautiones ip " MAurium morbis curandis .    N. aurium internà curandàinflammatio- |».  ne, à repellentibus,& oxyrhodino abfti--.,,..  nendum omnino cenfeo ; cüm eniminternarumb. |...  cerebri parcum repletarum foboles effe foleattk c.  materia eó detrufa, fi repellatur ; ad prinapemos.c  partem remeabit,& debrium quandoque pariet, kr...  aliquando veró alios cerebri affectus... Quód fij...  Galenus, 3. de compo[. med.[ecundum loc.xepellene-.....  tia, et oxyrliodinum in doloribus aurium ; et 1n». |.  inflammationibus earbimdem cócedere vifus eft j,5..  id intellizendum potiüs eft de phlogofi,quàm de:j  verà inflammatione. Si tamen non magna fuenit;;|  atque non multam in particulà,& cerebro fübeffe:| materiam cognoverimus, repelient ia aliqua in  ifum venire poterunt .  104. Qualiacumque tamen hac fuerint; qu. 5,5475  "lid leniendum dolcrem, et refrigeranduminfun- 44,245  "entur,edamfi xíftus maximus in parte fue nt, applicita  iumquam frigida appli licari d lebebunt ; nam cuüm a4 æm  'Janguiais fint expertes aures;facile ad fibi co 'gna- fsat frigi-. "  am intemperiem frigidam flecti poffunt : tepen- 44  3a 1gitur fenpercum Galeno adhibebusm. "y  tof. Quód fi dolores contigerint à frigidà ma- /?, «urs  'erià partem extendente, qua actu calida funt, et 4^'»r/óws  "potentia omnino inftillabuntur : fic enim et fri- pu ridam intemp »eriem evincemus, craffam mate- ume  iam magis difcudemus, « penetrationem adju-  lvabimus. Loth ind  106. Intinnituaurium à lue Venere, alioqui 4ucezds.  paturá fuà rebelli, et vix fanabili, cauti fint Me- Tionieui  lici; neque vehementioribus remediis utantur : asm  one& enim experientià obfervavi 1ma]jori ex par- f« morbo  re;dum tinnitum hujufmodi nimis cbftinaté evin. G?^"t?  rere tentàffent, omnimodam fürditatem induxif- "^'^"  ie. Siquod autem remedium illi auxilio eft;uri-  1a afini,jn quà per noctem maducrit lienum.  porem X pont] caftorci, et mentaftri fafci-,,,;,,  Ifrulus, diftillata; et auribus inftil lata,aut per eva- ex »ior£o  "dboratorium excepta ; maxime 1d praftat ; aut Gallico e  Apleum Gvajacinum eoffy pio exceptum ;4X auri- modium.  pus bon nó .  !    calefaci éra nó ap-  plicanda.    It221t43    Canter    £2. CO0YORA    li fatuva 1    catarrlEo  Pun. ., j  De Catarrhbo.    107 Vamwvis optime fciam ;.ab aliquibus  etiam praftantiffimis in arte 1 medicá  viris in catarrho curando cantera    proponi inurc ndaad fituram coronalem,quo lo»  co illi committitur faoi Ftajits ut et caput expur-  ectur ab excrementis,& ab infernis ad fupernas,  et extra corpus cadem revellantur : quoniam ta-  men vix greg poteft, craffiora illa excrementa»  aícendere poffe, afcenfa vero per futuras permea-  rc; vcrifimilius autem eft, externe producta per  cas deícendere pof dn omnino re ejicienda,& 7 ab ufu  inedico repellenda effe videntur ; quod enim ali-  qui (ibi fingunt tfufpendiyintercipique materiam,  ne ad pectus fiuat, tidia ufum eftzquo modo enim  fufpendi queat ; quod graveeft, nullo retinente ;  ne mente quidem concipi poteft: cüm veró hic  neque occlufio adfit vafis sali icujus $, neque delica-  tio, aut CO Vii lle nc iba mor intercipi  dici poteft. At veró nequetxev d eft,cüm nul-  1a fere fit diftantia  latera í   zuleiteg    E enim denudato cranto periculum nof    : neque derivatio, cum hac adl].  i&t- qiaminniius t cjuseritufus. Atabufuss].    cognofcat ? ? quis adufto pericranio fecuritatem.s]    pollicebitur? quis 1nflamm:  interna periculum non vereb!  ibi men ibas T externa cum inter "nis per nervos,    "2  D 1 T^ "£/51^*vrnmt c 1^5 (^17  dba venas, perat    "V Ci    pericula viíà 2^ doc    ntanum.Coz[ilio 36.  pro    atio nls et externa,  Itür;aduíta parteis.    eria: sjunguntur ? Atl  :2end: met. io; ob multa»   pro Nobili Veronen[e 143. C" 170. Hieronymum  Mércütia lem zz T omo 3. Con[iliorum; [aptus, 8c  poft omnes Fabium Pacium,z eruait:Jf[imis Com  mentaris in lib. Adetb. med. lib. $. cap. 13. 9   "Appendice ad lib-7.omnino genus hoc auxilii de-   teftatos fuiffe. Ego veró libere affirmare poí-  fum, me quadraginta horum annorum fpacio s  quo in magnà hac vrbe medicinam facio, nul-   lum ex iis quibus cauterium hoc inuftum eft,vi-  diffe à tali remedio adjutum, fe d aliquos etiam  inflammatione in parte excitatà effe periclita-  tos : potiffimüm primis annisjuventutis mez»  quo tempore aliqui adhuc ex iis vivebant ; qui    barbaram fectantes Medicinam, frequentiüs Catarvbo  senus hocauxilii in ufum ducebant ; fed fübfe- ad pulmo  quenti tempore, Medicis fpe fuà feaitlitia fa. "t5 et tho  piüs,exoleícere tandem illud, et pofthaberi me- 74/0 1r  I1to CC pit. Vente s  108. Vbiad pulmones, et thoracem, quin.Mam  et ad fauces irruit materia, five tenuis fit, five lofr,  craffa, eargarifmi numquam 1n ufum veniant ; Gargari-  ex motti enim attracta materia fepe fuffocatio- fmata fa»    nis infert periculum,   109. Quin et ubi partes fpiritales jam reple-  tx funt materià crafsà, à uad abftinen-  dum ; cüm non leve inde fuffocationis (ubfit pe-  riculum.   IIO. Quód f fi homo tabi; aut afthmati obno-  xius fuerit ; idem genus auxilii fugiet.   Iri. Solümtuncconvenient;cüm fluens ma-  teria acris fuerit ; et autexulcerationisin parti-  bus    M    gienda, ve  pleto bo-  YaCe .   Aft bmati  aut tabi  chbnoxis    gargorifmmaf fa    451 .  Gar, ear    ft ^5    ; eatarrlo. bus gule,aut aneinz periculum impenderit 5  quádo con t&ncque et blandé id erit preftandum ; et addi-  veniunt - tisrefrigerationi adftringentibus,  Catari  Y12. Quoniamaliquos effe fcio, qui, ut con-  non [ft^ timacem, et moleftum morbum brevi tempore  di narcc!i (e curate poffeoftendant, ftatim nullà urgente»  055» ?7^. geceffitate, ad fiftentia. catarrhum accedunt ;  $OAgDA HT nA a 31.5 : TET. d CV.  Juste ue Theriacam novam, Philonium, pilulas ce cy  ecffitate. nogloffo, et fimilia exhibentes; animadverten-  dum erit, iis uti eosnon debere ante humorum  expurgationem, et revulfionem;tunc neque fa-  ciléad hzc veniendum, neincratfata materia, óc  refricerata, fi diutiüsin cerebro contineatur;ce-  rebrales aliquos magni momenti morbos pa-  tiat. Ad earamen erit veniendum, fi eravia ur-  ceantfymptomata, ut fiita effündatur humor  in pulmones, ut graviffimam tuffim, metum.  fuffocationis, exulcerationis, vel rupturz vena,  acerrimà viafferat; tunc enim miffo fanguine, fi  opis fit, vel enamillico, et ante purgationem  fiftere licet hünceffrenem motum.    De Zdngina.  PM Voniam in hocmmorbo miffionem quii,  loboranti dem fanguinis per fectam venam o--]  bus que mnes neceffarium auxiliumeefle fa--],    vna [it tentur, fed in loco deligendo variàffe video.aliiss],  ficanda. ex brachiis femper emittendum cenfenübus;.f  aüctoritate Hipp. 4. de vif. acut. 30. et quodi]  fecti$ in brachiis non folum univerfum corpus:|  prom-  proniptiüs evacuatur, fed fimul.eiiam non pa-  rum fanguinis à faucibus revellitur:alus ex par-  tibus infernis, faph hanà, vcl e.- venàtali, quód  fluentem fanguinem in fluxio nis initio non ÍC-  lum ad contraria k ci laborantis, fed et fontis  transfundentus, «x ad OM i regula à Galeno  tradita revellen dum eíle OQ (tendant : cum.eitHr  laborans pars fit collum, fons'autem transíun-  dens fit jecur, pracipua íanguinis officina ; fi  fanguinem miíerimus (célis venis 1n brachio,  tantum abefi ut ad contraria fanguinem retra-  hamus, ut po ;tiüs ad partem laborantem av Oce-  mus: vena fiquidem cava indelata in duos ra-  mos fcinditur, levium, &.dexuum, qui in jugu-  lares, et axillares dividuntur: at à jugi axbus  externis lary n91s v afa ortum. ducunt . Sanguine  joiturex vei nis brachii tracto, certum eft, ad v e-  ias juguli edam trahi ; sicque potius morbum.  augeri, attract o fanguine ad laboratem partem,  vicinià., et inflammatione fanguinem trahente  In hac controverfià ceníco ego,on nnino animad-  vertendum efle, an Corpus mk iximé affiuat fan-  cuine,five natur " mies ibanteactam vita mfive  €x folità ali iquà evacti tione (up p reísà ; tunc  enim ce níeo; f inguinem velex vena pop nus; vel  malleoli effe detrahendum, eàdem autem die,  urgente morbo, vel fequenti, Jecoraria, vel ce-  phalica erit fecanda ; et fi non cefferit morbus,  rübor autemadfit faciei, amp »liüs etiam venicn-  dum erit ad fectionem venarum fub lingua Á  Quód fitanta non premat fanguinis cop la, In-  M a Ltaci1s    Mani om M  tactis venis inferiorum partium, przftare credi-   derim, ftatim cubiti venas fecare; moxq; ad fu-   pernas incidendas accedere.  Inamgina Repetendaautem et ex brachiis fangvi  laboranti 31s miffio eft ; non folüm quód mæis revellat;  &us iteri- minüfq; vires debilitet ; fed quód obfervatuum,  da fa? $*i 3t Ce pius ad partem laborantem affluxus novos  zismf?- Geri. aut parte aliquà ; ut onere; quo premitur,  levetur, transfundente ; autob dolorem, et ca-  lorem laborante parte attrahente.   115. Cümautem aliqui ex moleftià medica-  Wrlires mentorum, aut quód naturà medicamenta ab-  potias dà horreant, facile medicamen ta evomunt; preftat  da, quà lemper potione uti, quàm bolis ; aut pilulis : fi  in folida €nim- contigerit pilulas, aut'bolos evomi, cm.  foma.  conferüm, et magno impetu ad anguftias op-   preffi ab inflammatione tranfitüs propelantur,  fuffocationis, et ftrangulationis periculum non  leveafferunt.  "ngincfis116. Quiad difcutiendum ininflammationi-  fæculi ex bus. aliarum partium ex arentibus pulvifculis  difcut:éi parantur facculi ; inanginà numquam in ufim.,  &ns mali- ducantur, quód denfando externam cutim po-  tiüs curationem impediant ; humentibus igitur  porius eft agendum.    190    r L)  A notpof[rs    De Plevritide.   qa slewi- T13. Vamyvis in plevritide curandà fectà  [ ^ . . "   vide, dolo- venáà,majoriex parte exfpectanda   ve deften- fit coloris in fanguine mutatio, €x Hippocratis et Galeni precepto; 2.404f.10.mO- dente, $5  .dó eger ferze poflit ; ficenim et antecedentemo  fa»guizis  inflammationis c: .ufam avertemus, et conjun- miffone  ctam amovebimus; id tamen p erpetuó,autin, 79 e5 exe  qu l'àcumque plevritide obfervandum non eft: fiie  aliàs enim docuimus, fervandumid effe;ubive- "975   pa; quz fecatur, proxima eft loco affecto : pro- "P!  prereà dolore defcendente, et infimam thoracis  partem cccupante, talis non exfpectatur muta-  t10: nam tales partes, ait Galenus,nutrimentum  fuum bauriuntà venà füb corde ; et cordis par-  tes nimiüm Inaniremus, antequàm fanguinem.  infiammauorem facientem evacuaremus . !  11$. Quin necfemper quidem in plevritide Neg. viri«  partes fu€rnas occu pante 1v itti eó ufquefan- bus debsli  guis debet, quó coloris in co fiat mutatio : fepe ws  enim dum coloris exfpecta mus mutationem, Vle  tales vires concidunt ; nec zger valebit ea € pe-  ctore vacuare, quæ aut refüd: int, aut diftupta  Vomicà in pu Imones defluxa collecta funt . ;  119. Etevenit etiam, ut, etiamfi vitales vires Ne; ime  confiftant, non exfpedtari poffit ulla colorisin, P^per-  fanguine mutatio, fi infederit loco firmiter fan- "!/^"$4-  guis, et in denfiorem membranam infederit . dn  120. Licet plevritidis curationem primo ten-  tandam docuerit H1pp.2. zest. fomentis, ut; an  iis curari morbus poffit, tentemus, et dolor miI» blevri- tide foti- |bus quan tefat;idtamen neque femper, neq; in qui US doueer- plevriuüde, aut in quàlibet corporis conftitutio- 44, ne,autquovis fctu praftai poteft ; fi enim Jam qwinus  morbus auctus cft; aut v ehemens cft inflamma-   M 3 to,    (5o    CZ    tio. &dolor; zftüfve magnus, aut corpusimul-  to fanguine repletum, non alio hujufmodi re-  medio uti licet; quàm aquà repente ; ne 1na-  jor eftus ; dolor ;.aut affluxus materie ad lo-  cum fiat.  2r. Át magni etiam in iis fotibus; qui ad  nzo1 4emulcen dum dolorem in ufum veniunt ;adhi-  x a. bendis cautione opus eft: fi epim ad fupernas  t^, fons DATUES pertingat ; et verfus claviculam ) dol lor,  ftntbug; €um et materia acrior, et maxime calida effe ;  di. foleat; calidis; et humidis actu potius res crit  uanfigenda : fin ad inferna. vereat dolor,qui  Dolore 4; €tiara nonadeó pungeriseffe folet; quiquencn,  Jeendetey ]eveus flatuum copiam adjunétam habet; ficca,  f«ti- . ediaminufüm duci poterunt, et fané commo-  dius ; attenuant enim máagis, exficcant, et di2e-  runtzex humidis autém attentiatur quiden )ma-  teria, fed crafliores flatus ex fimili materià exci-  tad non 1ta commodé difcüti folent.  Sarculi fo ^ 122. Sicciii fotus, üt ex i ii lici materia  vétes [jg parari folent; ita ea mæis prefertur, quz levis  lv,  lit5 ficmilium ceteris prafert Hippocrates, pa- nicum, furfures, femina, et flores diftutientes ; :  falis autem etiam portio aliqua ob exficcatio-  nem hcet admifceri aliquando poffit, minus ta-  menilhus addendum. quàm folet, tum ob gra-  vitatem, tum ob àcrimoniam.  Mirfeeg  123. Quod fi ex fotu etiam dolor mitefcat ;  zé dolore, DO proinde tamé ftatim evictum effe morbum  ni flatipg, Cerifendum erit, aut à eenerofis remediis ceffan-  &[iia- dum,puta.miffione finguinis;fepé enimad pri-  mum    Ix plevrt    !     M À  I 9    bum, paululum etiam tuffis fuperfit, et corpo- ^7 mee  | risadfitaliqua caliditas quz aliquando magis jr  infcítet ; quamprimum dandam effe operati;  ut.que reliqua eft; materia difcutiatur;aut enim  quz relinquuntur recidivas faciunt, aut ad füup-  pes ohem convertuntur. EU  26. Non fünt hoc loco pretereunda preftam.,,, [9  iff ma duo remedia, qux doloribus iis laterali- bs SM UL  busadco uulia effe cognovi, ut multos, qui j jam p, "aflanti PN  jam fuffocari videba ntur, ab hujufmodi pericu- 5»; e  lis exemerim, Primum eft;fi poft miffü i hdariz gi hui  A :   mum fotüs blandimentum mitefcit in phlegmo- 4^» 4  ne dolor, quód pars tenía laxetur, fed revivifcit veris re-  mox ardentiüs, novà affluxà materià : quare.» mediis.  fi et febris, et fpirandi difficultas enam perfe-   verent, non erit cunCtandum, fed: affluens ma-   teria quamprimum crtit revellenda.   I24. In hoc morbo maxime pleriq; qui Me- Exrerzis  dicinam P rofitentur, arcana remedia promu nt 7o indifiz  externa, interna : in externis nullum committi &e æde.  poffe errorem omnes fibi perfiiadent, unguenta  cx dialthaa fubuli;/butyro veteri,& cumini pul-  vcre patant; alii ex calce, et alus cerata, &cata-  plafmata ; alii ex pice, et rebusaliis quàm plu-  rimis calefacienübus, cum zgrotanuum detri-  mento: cavenda hec maximé erunt, potiffim üm  In prin C1p10 ; calore enim fluxiones concitant  atq; humores trahunt; alia veró prætereà etiam  Iaxant.   25. Obférvandum prztereà, quód optimé !»/Ievrisi  annotavit Aretzus, fi poft devictum hunc mor- ^5 relige    M» 4 guinem  ouinem exhibuerimus tres uncias mellis ro f. fo2  lutivi, et tantumdem butyri recentis ; quód fi  etiam progreffus fuerit moibus ; .diffcile autem  füppuretur ; aut difiuptá vomica «gris pericu-  ]umimmineat fuffocaticnis,maximé etiam cone    2. feret .|In eumdemufi:m feliciter utor quinque 1!  unciis olei aínvedalaru m recentis, cum uncià . Hil    unaàmannz. |In: eumdem ufüm duco infrà fcri-   eu ptum : Recipeoleiolivarum optimi, et maturi  unc. viii. aqua fo ntis lib. 11. excoquantur fimul  fine cooperculo.in vafe terreo vitreato, ad con-  fümptionem totius aque, et póft olei illius unc.  vii. dentur, dolorem mitigat ; fuppuradonems  adjuvat, alvum blande mollit ;acnon ignetcit ;  autin bilem vertitur.    e Suppuratione .    127. Vn fuppurati ex difruptà vomicà vix  alià vià recté expurgentur, quàm per   gar matis tuffim fcreatu, non multum fpei in evacua indà  siad Mo. €8 materià peralvum reponere debet Medicus;  dice p al- quód ope Medici hoc vix fieri poffit ;. praftat  vnm ex-- 1d quandoque natura, quz nobis incompertas  furgari, vlàsinvenit ; et ad falutem zgri ftruit ; audacis  tamen potius eft officium,cüm non per alias vias   excerni péralvum poffit, quàm per cor, et jecur   fibi tranfitum materia parante, quod periculi  plenumnezotiü femper cenfi; ; fyncopen enim,   dum per cor tranfit, inducere poterit: cüm veró   euam heparattinget, et inteftina, et dyfente-   riam    1» emt"  252416 n0n    n M  tiam mordaci vi concitabit ; et fanguificatrice»  hepatis facultate lzsà hyvdropem faciet. Salu-  briter id quandoque à naturà tentatum fcimus ;  id Arctaus teftatur: et nos in purulento ex plev-  ritide jamjam cx füffocatione moribundo vidi-  mus in Mane hoc Valetudinario, qui cüm  phlegmone laboraret ; et propemc dum ftrane  eularetur, (isdores: jam frieldi adeffent, 1ivefce-  rent omnia extrema, po tiffimüm fa cies, fubito  alvi flucre fu perveniente, maximà fanici copià  effusa, brevi rem ipore conval luit:raró jieitur cum  id faciat natura, cüm eadem nobis incoenitas  vias fibi ftruat cum p rxtereà non fit pet loca  convenientia, omnino ncn erit imitanda à Me-  dico ; poti iffimóum quia, fi leviori pureante ute-  mur, noxii nihil evacuabimus; fin validiori, vi-  res imbecilles reddemus in qu ibus fclis falutis  fpes pofita eft,ut et ferendo merbo fintidonez;  et materia per tuffim fcreatu cxpelli fatis poffit.  128. Perurinam licet; quz 1n th hnic; pul-  monibus continetur materia,difficillimé,& mi-  nis tutó educi poffit; promoventibus tamen lo-  tium tutó uti poffumus, ut Í alrem materia, quz  in vomicà adhuccontinetur, et quz denuó col- z  ligitur, per veficam exccrni poffit :quód fciamus;  vená azygos interdum inferi ramulis arterie aor  tz, interdum ca |vzt vena -bi furcatz ad renes, 1n-  terdum vena adipali, vcl em ileentibus,& prc-  ptercà frequentior etiam éft per v eficam ejuf-  modi materic evacuatio, et proinde etlam 1mi-  tanda, cum etiam fit per vias conv - ntes.  1    Subburæ   tis dinreti   cA COvens  re foffunt,  e^ CH T»  Inuftione; et fectione faciendiin ems |  pyticis hec fit cautio;ne à ruptione vomice ftatim 1  fiat, fed cum Hipp. zz Coacis pradictionibhs, dif-  ferenda erit in decimumquintum diem, ut et  materia coctione ulteriori mitefcat magis, quin  ab effaüfione extra locum, ubi: maturuerat, ite- |].,  rum alteretur ; et ulteriorrcoétione meliorred- |  datur; poft quem diem, fi inuftio facienda, om-  nino maturandum. Placet enrm Oribaf. 9. Sy-  nop[eos, cap.3.celeriter evacuandam effe;neque »  multüm cunctandum, ne virescollabafcant;in.  quo caf omnino à tali actione abftinendum eft,  ne in ilTud incommodum incidamus, in quod  cam certo mortis periculo incurrunt, qui in afci  te ad feéchionem numquam veniunt, nifi ceteris  remediis omnibus primüm inüfüm ductis, et  ja s exhauftis,& morte pre foribus ftante.  Supture- jo. In fuppuratis vomitus plenus eft peri-   "is vomi- E ;fi enim eodem tempore vehemens tuffis,  i As pericu et exfcre: andi neceffitas fü perveniat, fimülque 5 |  le[15.. - evomantur impetti multo ex ventriculo cr affio« NT  ra, vIX evitari poteft fuffocatio, cc onfpir. ante ad  fuffocationem et efophago, et arterià af perii  tum prztereà, quód conftrictis mufculis abdo-  minis in vomitu, puris copia multa in pectore »  repleto  ;magisinteeione venofr ar-  teri compulfa, fie pé cor ita füffocat ; ut ftatim, I,  Supfrya. MOYOES fubf fequ: tuf.  ns vsi- «131. Proderiteamen inanem vomitum etiam.  t5 9o 5, d1gito provocare, non tamen promovere: fic. B  vac £l; . €nim à recs abdominis mufculis ab infernis  parEmpnyc  attando  nsrédiaut  f'eandi. partibus compreffo diaphragmate, matéria pa-  ratior facilius propelletur.    In A flimate .    C. Vim majorr ex parte.difficultates ez re-   fpirationis à craf:à, et vifcidà materià  in fpirit A s partibus contentà producantur,  f pce 'tlam non leves errores à Medicis commit-  ti fol eant; dum illam pr reparantes ad evacuatio-  nem attenuantibus valentioribus utontur, et  impense calidis;exhaufta enim fi penu imero pat  te tenulori, craflefcunt nimium rel 1Qt ule; Imcr-  bum reddunt incurabilem.        I5    33. Cum ; quod qu: Magi iid arefa-  ! €tione pulmonum fit, coarctatis,8 frin elc-  ! bum ductis pulmonum alis, maona d dilisnria    adhibenda erit, ne; dun rattenuare, abftereere, '    8 et incidere materiam ; quevt plerimüm ànhe-  lationem producere f flet, tentamus ; ficcitatein  parte adducti, 5s rum1in mortem przcipitem.   ldcamus.   | 134. Vrinam promoventia tutó in hoc  Ibi senere! in ufum ducin on]  li valida | fucrint ; fiepé enim   |[pa rübus, quz füperfünt Bent  Dliorem redd CUratioi    dunt  " p UNT TR 2E.  I3j Qu: mvis qua in    C Imor-  otfunt, po aftimüm  acuatis tenuibus    di  S    thorace continetur    ante evacuari  * XN $ o»  arte aliunde,  Catonem atud  a €    [materia, vix medicamento Nie  EH ASIERE U aU t |    "^  [UTC    poffit;    botiffimà m à capite aftu    AN    r  - I    »    !aoH  7^    1n ff ]ima  te attt--  214A7111A y  e snbe-  se calidas    Ala.    Aft Lmna-  ticit ficca    fa gtt zda,  *    A P La.    Hct$ diuve  HCA724-  'ores reddite.difB. !  ecu pus  Aftbmati  [44    is 'iraan  1n  J    fum dar4 náA ^   cet, optimum eritmedicamentis anteceden tem] tti  illam materiamstibi przeparata füerit;evacvare,.t  At id in magno paroxyfimo preftare, periculi:  plenum eft negotium ;neautfupervenjente vO-4  mitu eger fuffocetur, aut dejectis viribus vitali-J te:    bus, animalis, quz per tuffim excernit, fuc--iiur    cumbat.    Aflbmatü 136. À vomitoriis, potiffimüm in vehementia  eis vomi- fuffocatione, abftinendum erit, quidquid dicattpu:  tus ma. Rhafis ;3mminet enim periculum füffocationissgoi   abfolutz : mirum enim in modum nifus ille pe- Non    é&us affligit, metüfq; adeft, ne materia in cefo-- fimi    phagum adducta afperam arteriam opprimat.. !  137. Ius galli veteris ex agarico, fenà, cnicos, ux;    A B bmati  eis ius gal adiantho, marrubio, hyffopo, paffulis, femini-li veri; Uus difcutientibus, duod paffim paratur, et ài  malus,r Mauritanis primó inhoc morbo, et colicis do--|    Cur. loribus adeó commendatur, quodque ab anti-.|.  quis, et recentibus Pragmaticis paffim ufürpa--[i;  tur, quod experientie non correfpondcat, et rain    tioni adver fetur, tamquam noxium re ici edumi eft : cüóm enim fepiüs in magna hac vrbe à doe...    Cu íflimis Medicis in ufum du ctum cernereimmos, ji    244.5». potiffimum ex defcriptione Benec licti Faventi--fi,  Wo niz7 Emptrica ; cüm et ego aliquotiessirrito fuce-fi.    ceffu,in Tgiiroogs morbis cxhibuiffem.cur fru)    ftraremur noftro £be, indagare cepi ; atque obf    multas raticnes cbeffe fzepiüs, prodeffe vix vm-- p...    quam, mihi perfuafi. Ex lonoá enim ebullitio--b..    ne nitroft illa partes, quibus maxime prodeffe.  jus illud. 2alli vetens crediderunt ; tamquama terreftres fübfident, atque in percolatione reji-  "14 cuntur; vifcidz autem, elutinofz, craffz, tum.  et perpingues, excute, pedibus, alarum extre-  rhis mufculofis denique; -& nervofis partibus  promanantes, maxime remanent. Vnde non.  folum non adjuvabit materiz ex pectore excre-  tionem, fed craffiore, et vifcidiore materià,&  antecedente, et conjunctà reddità,contumacio-  rem, mæífq; rebellem ad exfcreandum reddet.  Quód fi non juris fübftantiam, fed qua illi in-  | Coquuntur confideremus,ne fic quidem in hu-  jufmodi morbo cum mult pituitz copià conveÁ /f  ", A 4- q  n Amiet: qua enim pro folvendà alvoindu ntur,aga- ES -  t'A€71F124 f^  /bxicus, fena, femina carthami, omnino,cüm pat- "reca    iflrmam adnuttante bullitio nem, vim omnem.  ifolvendi amittunt, ex longà ebullitione ienéis  ix partibus diffolutis ; d ge vero attenuantia etiam  qadduntur, ut capillus Veneris,.& alia, cüm in.  gfoperficie vi ires fuas fortita fint, ex eàdem illas  amittunt; alia veró, ut origanum,.b trys, far-  | longà ebullitione putrilaginofa reddun-  (rur, atque omnino exfolvuntur  | 138. Sudorifera in hocmorbi e enere,qualia ,  AMfunt deco&ta Guajaci, Chinz, Sarza parilie,Sat- S/derezs    ?20ventis   Ma fras, ut concedi poffunt in adthzidid ad iine : 2  2 ajE 59a   amendam materiam antecedentem, quin et con- Wi pas  junctam; ita maximé cavendum eft;ne1 IDSTUCD- 4,422).  Cn dg44240    rc magna fuffocationeinu fum veniant: fu iffocan EA  Eur enim magis ceri, et auctà neceffitate fpir adi, ec quide  quandoq; magna fequuntur jas ula,& venarü ze;.   lio pulmonibus difruptiones; quin et morsapfa.;    p  | 139. Cum    ro    TER ;:9. Cümtamen exficcanti facultate infigni  4Tbmitt S lleant hec,numquam in ufum venire debent,  2 je nifiadmixtis iis quz dulcore et afpera arteriz  fera 1n u- a :  ij poffint abblandir, et humores in pectore  nit [me pulmonibus .contentos ad excreuonem qmagis  dulcibus. paratosreddere. |  Inparoxyf | 140. In pazoxyfmo ne medicamento purean-  viopurgas te utantur Medici, ne irruens materia attracta.»  zà eff pro vi medicamenti non ad ventriculum, fed ad lo-  pinand - cum 1mbecilliorem; et folitum, fubitó egruma  Inaf bi? iterimat fuffocando .    su nó ve-, ) lay : 1  to bam I41. Sic quoque eodem tempore non eft fic- |    dion dum á à : ;  candum; ne füffocetur zeer; blandiendum enim    4groimpa S asco remporestefte Galeno,quàm curandü  M /me. potiüseo tempore,tefte Galeno,quam curandu..    Inparoxyf |. 142 Quin neclyftetibus quidem tunc locus   m afib-. eft: neque enim proftratis injici poteft citra fuf-   stis ne focationis periculum « |   elyfterib. 143. Vomitus etiam;ut diximus, eo tempore3  quid u- evitandus ; neque enim materia 1n fpiritalibus   zndam. contenta evacuabitur,fed quz in ventriculo;quq    Nec v?! cm per cefophagum vi expellitur, ita arteriamg a    £u uéd- o (eram comprimit, ut füffocet .   Non[upi- 144. Eodemtempore füpinus vitetur decu.  2us ia- bitus; nam;utait Aretzus;ftraneulatonis peri«  €tat culum affert .   Nonfricà o X45 Fricatio etiam pectoris codem tempore  dé pecias, Omnino fugien da.    N««c fove- r46. Quinne fovendum quidem pectus fponjtt,  4 P    di pilas. elis cum laxantibus; calor enim 1lle fxpe flatij    bus excitatis; fymptoma auget, et quandoqu SR    fuffocat .    147. Quam- |    [    To    Bil    ?   191i  « Quamvisin omnibus feré morbis illud  Ó "y » cratis veriffimum fit, non effe mutanda  libene infüituta remedia, ftante.eo, quod ab 1 initio,  I vifumeft;in hoc tamen, commüni omnium fcri-  | bentium opinione, cate a ad eumdem fco-  [funipesta intibus eadem fervanda fit intentio ;  A varianda tamen erunt remedia .    In afibrma  te fap? mn   tanda me  dicamen-  tá.    De Sputo fanguinis.    | EE Vm infanguinis per tuffim rejectauo- 7, farto    ne foleant Medici ftatim optimo con- 55; c;uis  Iilioad d lio nem fanguinis per fectam vena1 gue vena    in brachio poufti müm dextro ex jecora rià recur /ecanda-  rere, animadvertendum, fepenumero idin mu- 3anguinis  | licribus evenire ex fup preffis menftruis purga- ^ /putoex    | mentis, autaliaceffante evacuatione, quz. per^ dentis  JJ hæmorrhoidas ; et in eo cafu, fi fanguinem ex ^^ ifibns  | brachii venis extrahemus; peffimé noftro egro- 7,,  J tanti erit confultum; po tius enim flinio ni adde- ^^  | mus occafionem,ad f iu periQi arationevacu rt  | euinemattrahentes E it1gltu r,fectà vena  lin talo ; ad inferna retr ahere fanguinem, mcx  |repeuus vicibus ex brachio etiam conveniet *  ll'eumdem corrivare .  149. Sed ut in reliquis occafionibus 1n hoc, "  I morbo, dum ex venis brachii fanguinem eva- 5 ;,;  icuantes re petitis vicibus, et 10 non mu |tà quan- affatun ef  fi ritate 1d à aft: umus ;ita dum ex talo fane ineqa/7; gu:-  Blob eas cauf: as detrahimus, copiosé, et affatim idaz derra-  'd praítabiaaus ; ut sera fiat revulfio . b::dum    Coqua ven&    r2  'sanguin?  150. Conanturaliquiin fanguinis peros re-  veieclant jectatione cucurbitulis aut illumad loca,unde 4|!  bus cue-. effluit, revocare,aut in lifdem retinere, feliiin- |^  eurbitula terdum füccetfu; aliquando cum zegrorum cala-  patti «ff- mitate ; proptercà diftinctione opus eft: namfi |^  x4 quà? ab externaaliquà causa in his partibus vas fue-  eonvetit * yic difraptum, indéque per os fanguis rejecte-  tur, fi cucurbitulà fluxum retinebimus, phleg-  monem in parte fine dubio concitabimus.Quod  fi non rofo, aut difrupto vafe; fed reclufo 1d fiat;  tutó cucurbitulz tuncadmoveti parti porerunt.  151. Cavendum maximóé, ne, quod plerique. |*^  kii Á faciunt, à rejecto fanguine per difruptam ves |  guinis fu PATI glutinantibus ftatim utamur; ut enim hoc [Us  10 quando aliquando confert, fi etfufüs à venà fanguis 1m.  coveniat. pülmones,aut thoracem per tuffim fit totus eva  cuatus : ita. fi illius poruo adhuc conclufa, et |"  fluitans remaneat circa pulmones, tantum ab- |  cft, ut elutinantia juvare poffint,ut pocius zegrü  precipitem ducant in mortem:vifcidiorem enim [e  reddunt fanguinem, et craffiorem, sícque 1ne- [i  ptum magis reddunt ad excretionem; unde fuf- .|  focationes, anhelitüs interceptiones, febres ve- p»  hementiffimz ; inflammationes partis laboran--['u  tis et fübinde mors. Grumi igitur prius erunti]/a  incidendi, et excernendi, et tunc glutinantiumi'ui  ufus eritineundus.  In fputo 152. Quod deglutinantibus dictum eft, adi] ii|  fanguinis exficcantia, et adftringentia omnino etiam erit  adfiringe deducendum . Videas enim plerofque ftam ac  tia qua5- infpuentem fanguinem incidunt,non etiam be-3u;.  "ET  nepetr  i e perfpecto vcroloco laborante ; an thorax; et 4» utilia,  4 pulmones illum per fe evomant ;anà capite ad && 422»-  Il fpiritalia loca fanguis feratur; neque 2rum1 ad- do won.  huc adhzreant, et an fanguis adhucibi fiuitet ;  adí(tringentia, X qvidem valenticra 1nj ingere  et etiam lambendo propinare, unde ne ales  Tru nesoborivntur.  | . Prafente febre vehemente, in adftrin- 4f izgé  id ous, et La Mig MD... temperati cffe de- "/2 fafre-  I bemus 5; potiffimum fiaut ab inflammatione;aut Geciniiw  l| eiaminde a s fit: non minus enim ex cà im- eite S  £5 CH foc  minet periculum, quàm ex fanguinis eruptione, j,,  154. Vb1ab ero fione vafis, vcl euam aper-,   li2onc ex acriori fanguine, ac bile referto fangui- 5; q4jp s  | nis fiat rejectatio, purgandus ab initio ftatim, ex atri tu  A erit biliofus ille humor, ne, dum att emperare» szore. ffa-  illum prius tentaverimus, coplà fua, et acerrie mm pu-  [mà qualitate perfectum producat fymptoma.; 2224s.  ineque enim putrefactus eft, ut coctione indi-   Igeat, et cum tenuis fit; medicamentorum attra-   lictiont facillime cedit.        ^ buf  In / 110    15$. Medicamenta tamen non fint valentic- In fputo  fira, quod ica calida cum fint ; acrimoniam 1 n hu- hier hes  moribus adaugeant X valida motione » nus  mctu1ic    Mfluxicnem co ncitent : hinc qua fcammmonium.  licont un ent; fueienda erunt ; non folum cb« Cam, í  caufam, fed euam quód venas aperiant.   ^» 4 Quà etiam ratione et aloé,& ex cà Bar. ue ftiv  AMrata medicamenta 1n ufum duci: ncn Adag PAUTAS  jc c quód 'enarum ora aperiants et acriora fiüt » cannbus  ji anm par fit ^ n 4la;  a N 1/7. QiiRbabar-   barum mm  fputo f[an-  guinis fufpecium .    1n fpnto  fanguiais  quado va  lenter fic-  cantibus  utendum    "ceti fo-  ufas  172 f/puto    fa»eguin:s    linis    falpeélus . Quinimó R habarbarum aliquando inz  hoc fymptomate noxium eífe folet ; cimenim  igneis fuis partibus altius fefe infinuet ;'& fan-  guini mifceatur ; quod vel ex lotioimpense fla-  vo ab ejus affumptione perípicué«colligitur; ubi  forcé non pro ratione bilis educatur, acutior, et  calidior fanguis redditus morbummasgis acuet,  et deteriorem reddet.   rj$. Inífputofanguinis ex vafis, aut pulmo-  nui crofione, illud inaximé animadvertédum,  an plus fanguinis exfpuatur ; an puris : fi enim.    plurimum fanguinis, ad ftringentibus maximé    res érit agenda: fin veró multum puris,& pa-  rum fanguinis excerpatur, potenter ficcanubus  erit utendum; citra multam adftriéctionem;alio-  qui pus perdit pulmones; fic Gal. $. AZetb.6.fo-  lis trochifcis Ándronis Polyidz, vel ex chartà  combuftà utebatur. Vnde et cüm pus merum.  cxcérnitur, folis fimilibus trochifcis utemur .   1 $9. Non placet eorum fentenua,. qui. The-  mifonis, et Thetfali fententiam fequentes ina  rupto, velapezto vafefincerum acetum ad for-  bendum, et lambendum concedunt, uz aut ad-  ftrineant, aut grumofam. fanguinem incidant ;  certiffima enim utentibus illo fincezo imniiet    pernicies; partesctenim certiffimé exafperat;ac ||;    ubi per afperamarteriam rranfit,tuffim excitat; |  nde nóvum fluoren? promover: dulcórandumi  oat erit aut melle, aut faccharo ; atque fic ina  ufum ducendum.  16c. Intopicis adhibendis placet Tralhliami]    £275 uc  Voli   confilium, ut emplaftra frequenter mutentuüf » 2565/5;    ne incalefcarit ; 1d enim, inquit, fanguinem eó  vocat, proptercàirrigationes potius placent.   t61. Frigidiffima ramen actu hzc effe non.  debent: przxrerquám enim quód talia omia pes  étoriinimica effe cenfui doctiffimvs Sener, fi  externe etiam partes rubrx et calentes foerint,  fangwnenr ad interna propellendo fluorem.  conctabunt.   162. Qwvàmvis quz valenter adftringunt, et  exficcánt, urgente morbo, maxime commen-  dentur ;cauté tamen étiam hacinre agendum  eft, et incraffanua erunt adnufcenda, ut amy-  ]um, far, et lac: quód àmmoderatvs ficcantium  ufüstuflim excitet contvmacem, fed inanem ;  undeant nova fluxio fanouinis promovetur,aur  vena mæis lacerantur.    De Ph:hif.   165. Vm inter omnia prafidia ; quz 1n.   phthifi in ufum veniunt, Iac primum.  fibi locum vendicet,ut mu ta de fpecie lactis,de  quantitate, detempore, de modo; ac mixtione,  opum? à Gal. s. € 7. 7M'erb. szed. propofita,  recentioribus plerifq; recipienda ; et commen-  danda judico ; ita illud ; qwod ab omnibus fere  recentioribusadditur, nufquam tarnen à.Galc-  no traditrm, non recipio, ut à lacte affumpto  non dormiant zeri : cüm enim per qvinque hc-  ras ante cibum velint exhibeédum effe xeris lac,  fi fomnusinhibcatur, et preftanuffimo auxilio  mA tabidi    t0piCA fa»  piis tnu-  tanda.  Acin fri-  gidiffima  effe mon de  bent, 944  tboraci 4p  pliczantur.  SiCCAVtiA  valeter 15  fgate fan-  £141n15 em  pla fits  admi[cen    da .    l^ phbtbifs  à lséle ^f    Su bto dora  nmieaum    Tr Phtb 'h    ; ÆN y   qp anunæ al  );£$ ^ ^h   "4$ 7220.    EU  £t.    litatis fomnus ille confe:   tabidi deftituentur fomno nempe matutino,  pociffimüm cüm exficcati fepé noctes infomnes  ducere foleant, autob tuffim moleíftam fomnus  impediatur; fi etiam eo tempore à fomno arcea-  mus, et ficcitatem augebimus,« vires vitales  imminuemus ; per fomnum autem.&. vires 1n-  ftaurabimus., et cor pus ficcatum humectabi-  mus, coctionem lactis in ventriculo accelera-  bimus. Neque cnim valet ratio Mercurialis,  quód fomno majores fiant eva porationes; quód  in tabe, five hecticà febre, five catarr ho;& pul-  monis ulcere, blandailla evaporatioiactis ma-  xime ad fomnum majori ex parte deperditum   onferar; in verà autem phthifi cum diftillatio-  ne acri, et falfuginosà, et ulcere pulmonis, tem-  perata hæc evaporatio utilis erit ac. acriorum  exhalationum calorem temperabit;phitfque uti-  et tuffim cohibendo :  quàm damni evaporando ; maximé cüm tuflis  concuflt ione lactis «tondodbio amediat E   164. Cüm phthifi confümptis; fialuidluor fu.  perveners lethale fit maximà cautione uten.  dum eft, fiin 115alvus non dejictatin ufu fubdu-  centium; blandé enim omnino agendum, neque  caffram, prunorum dulcium decoctum, man-  na,mel violatum aut ad fummum, mel rofa-  tum foluuvum tranfcerdesze debemus.    De Tuff. d  Vód fcriptum fit ab aliquibus, et do-  ctis quidem VAS:  E [n ^ E [uriats fitiat; vigilet, qui vbevmata curat . vigilan-  in curanda tuffi quàm piures:zgrotantes vigi- e. C  liis macerant, ut fluxiones.impediatit ; peflimo 74474»  fane confilio: ut enim fuperfluum fomnum ce-  rebrumnimis replere concedimus, ita 1mmode-  ratas vigilias muito majora incommoda afferre   experimur; potiffimum cüm per eas vitales.vi-  res corruant, quz in. hujufiriodi morbo maxime  neceffariz funt : vieilandum4ane eft cim: à ce- p a.  rebro adeó affluit materia, ut fubitz fuffocauo- fa dern  nis peticn ilum immineat; «& tamdiu vigiladum,  quamdiu tàle imminet periculum: fecus in muíh x 4  moderatà; dormiendum enim;ut concóquantur ALES Nn  humores,«& quiete pectus firmetur ;fi enimo "v7  Galenus 1. de /12m.cap:28.ut citat Rabbi Moy-  fes 213-.Se£t. Aphor.ícribit, tuffim ; fternutatio-  nem, et fingultum cutaria diquando;cüm hcmo  fuftinet ; atq; fefe abiis; quantum fieri poteft,  motibus cfficiendis abftinet, ( quoniam cum  motus ifte fiat à voluntate, fed 1rritatà ; poteft  quis interdum volés non.tu ffir) cur etiam fom-  num non commendabimus, in quo omnes fiftun  tur fluxiot nes, X tuflis quafi fufpenditur ?   166. Inufu pilulari im in tuffi,ad evacuan- Pilula d  dam materiam in capite exiftentem, non placet tu[f mal?  aliquorum fententia;inter quos fuit doctiflimus ?^/ cendi  Mercurialis, qui volüerunt; eas exhibendas effe 44" -  perquatuor,aut quinque horas poft cenam,   «quando ventriculus nondum, ut ait Mercuria- E ai  lis, ex toto vacuus eft : quoniam tunc niagis fa- 7^ r    pernatant, et facultatem mittuntin Pin Des,  4.    I d et afpe et aíperam arteriam. Cüm contr illudcer-  Giflimum fit ; ex hoc modo exhibitionis multa.  -d.. fequiincommoda;nam aur cum cibo cititis fib-  ducentur ad inteftjna ; quàm oporteat ; aut fané  femiconcocrum ciburs deducent ad inferna;aut  ommum fiet confufio | Quare pra-ftat;autince-   eM S natum illas fümere, autíane fiummo mane jeju-  peor 10; « vacuo ventriculo devorare, procurato   forno per ünam, aut a]jteram horam. |    De cordis Palpitatione .    167. T N graviffimohoc morbocurandocaven  dum maxime, ne Gal.verbis $.4e loc.  ai siiid affect. 1. ubi afferit, omnes, qui paffi funt palpi-  e 34,,,. 'aUonem cordis, à fectione venz juvamentum  »us fan. &CCeptfIes.quem fecutus Avic. 1.5.7 ratd. c. Cap.  guis mi- 7:3n omni cordis morbo, fcribens,utilem effe»  tndus, Íanguinis miffionem:quifpiam adductus in om-  ni cordis palpitatione fanguinem per fectam ve-   nam .evacuet; neq; eni: omni, neque fempet  Galenus fectione venz utendum ibi cenfuit, fed   omnes, quibus fübitó, cm fàni effent, fine ullo   alio accidente cordis palpitatio füpervenit; fan-   guinis eductionem juvifle: hos veró,quód inte:   grà,& inculpatà valetudine fruerentur, à fan-   2uinis copià, forfan. et calidioris, in eum mot-   bum incidiffe, mihi fit vetifimile;quod quilibet   etiam ex Gal.2. de caufrs pulf. cap. 2.collieere po-   terit, càm dicit : Z4ccidsr ettam pulfuum imaqualz-   (45 Interim ex fanguinis Copia, qui aut in venas aut  ertt.    In.cordis  palpitatio abteriastp[as fit vufu[us; atq; bac quidem [anguimis  aniffone fedatur facillime. Hactenus Galenus.  Caufæft, quia copia illain venis arteriasillis  vicinas premit, et coarctat ; qua fi venz fectio-  ne tollatur; tumorem, extenfionémve venarum  tollit ;Jocàmque fübinde-dat ad motum arte-  ris. Vnde veriffimum eft, cuicumque cordis  palpitationi, ex humorum copià in venis exi-  ftennum,optimum effe prefidium fanguinis pet  venam detraétionem ; quod confirmavit etiam  Gal./;b. de veua fect. ad verus Evafiflrataos, cap.  4. Quemadn odum etiam fi aut eftuatio;fervor-  ve fanguinis, fiveervfipelas aut coripfum ten-  tare agoreffus fit, aut etiam venas;arteriáfque »  vicinas invadens, et palpitationém inducens,  ad hoc auxilium ag2rediendum nos invitat.  Precepit hoc Gal. 13. eth. cap. 11. € lib. ad-  verfus Erafiflrareos, cap. 8. Atut hac veriffima,s  funt ita aflerendum ett, in veràillà cordis pal-  pitatione, qua illi cum aliis particulis commu-  nis eft, quz que morbificz folius caufz foboles  cft;non conferente facultate, quz majori ex par  te ex flatu eft, drminuto calore ; tum etiam nz  non verà, quz cordis propria eft, fi vel ex frigi-  do humore; qualem defcribit Hippocrates, vel  f1 alio, /sb. de facro zsorbo cim fcribit: 57 porro ad  cor proereffvm fecerit af fluxus » palpitatie appre-  hendst, C anbelarsones, G7 corpora corrumpuntur,  «liqui etiam cux: fiunt Cum enim dk dcenderit fi-  tiita frigida ad pulmonem aut ad cor, pevfrigerz-  tur feng:isy vena autem violentey perf icerate vd  N 4 pulmonem, C cor affiliunt, &£ cor palpitar . nullo  modo fanguinis miffionem convenire, :Quins  ne tunc.quidem fanguinis per fectam^venam  evacuatione utendum eft, cum cordis palpita-  tioà virulentà materià ccr imp etente fit; autà  vapore; fuliginéve venenosà. Quód:fi Avicen-  riasin omnibus cordis affectibus venz fectionem  utilem effe dixit; non proptercà tamen in omni-  bus caufis evincendis morborum cordis utilem  cfle pronunciavit; $1c etiam in palp ita tione»  Conveniet, at non Íempcr, nequein quàcumque  -patpitationis.causà commendanda ;  In paljita - 168. .Sedillud in evacuando fanguine per fe-  tne cor- &tam venam maximé anima  dvertendum; fi ma-  dis,«bi in Ximam in corpore laborantis hoc morbo fübetfe  fanguinis fæguinis, et humorumabundantiam cognove-  abundan Sina qu 12 non tantüm vires premat, fed et i-  tia mitt Wa quoq; vafa diftendat, tutó nosadillud auxi-  lium defcendere-non poffe nifi fanguinis mo-  qu» 95 tum.cor verfus abendé proficifcétis fimul com-  X indo: peícamus, ac abipfo corde revellamus : cüm.,  enim cubiti vena.,.qua fecanda eft, ab axillari  axillaris autem non longe ab afcendentis venze  cave ramo proficifcatur, unde 1n cor ramus in-  fienis coronarius divaricatur, abundantiorem.  faneulnis copiam ex venacavà hauriri contin-  get; ex quà quidemre fiet ; ut plurimus fanguis  Cor verfus iterar ripiat, sícque cbn dis. viícus ma-  21s fuffocabit .. Ne igitur in hoc incommodum  incidamus, co ipfotempore,qno in brachio ve-  na tundetur, utrifquehypochondriis optimum  erit    us [ut sá-  lerit cucurbitulas affieere,;dextro quidem. 5  «uod inde vena cava exoriatur ; finiftro autem,  quód illic plurime terminentur arteriz, quz  Mpirtuofum à corde fanguinem revellere pos  |rerunt : fic enim fiet ; ut qua:jamiavafura erat  licor fanguinis copia, cucurbirulis admoüs re  l'vellatur ; quz vero influxit ;venà fectà exhau-  P riatur.   169. Quód fi humoris; et fanguinis tantas  linon adfuerit copia, aut fola fufficiet fanguinis  l| per fectam venam evacuatio, aut fane poft illam  llapplicari poterunt cucurbitula .   170. Átubi infienis adfucrit fanguinis abun-  Idantia ;in utriufque brachii cubito venam ape-  | rire, udliffimum erit tfi veró non adeó magnas  | fuerit; finiftri tantüm füfficiet fecto .   171. Quod fi ne (ic quidem affectus ceffave-  | ritarteriofum,;& fpiritibus plenü fübtiliffimum    | in arteriis potius abundare judicabimus;& tunc dis affects    j| cum Gal. Ze cur. rat. per fang. mni [[.11. íectiones  arteriarum opus erit .   172. Sed in eo cafa non magnas, fed exiles  || potius elizemus fecandas ; quales funt ee, qua  | per digitos excurrunt:licet enim parva fino ma-  I ximum.tamen juvamentum afferunt j atque fa  I ciliis inductà cicatrice, fine anevrifimatis peri-   culo coaleícunt.   173. Cucurbitulas fcarificatas dorfo affixas  cordis palpitationem curare ; fcribit R hafis 7.  Continents v At Avic. 4. Fen y 1. Dotl.$. cap. de   | Cucurbitulis ; eafdem dorío applicátàs aliquas  | quidem    Cczur bi-  (Hla i pale  tttatione  cordisqu&  de appli-  £anda.   In pa:pita  tone core  di: a4 ve  n3 fecan-  da.  Arterioté-  731A 472 COF    bus guade  C07) GEX1f »  Arteria   qua fecan  d4127 cor-  dis palpi-  tationt «    Cucurbi-   ) ] ^  t'i'a dorje  ffxa& in    x. m  HII Cim rn.  P    cordisqua    9o profsat.    7? fi ! atit.  cordis £ro-  vdedut   fistibus    L^. tricals quidem bona facere fcribit ; fed et vencericulum  ledere, et cordis tremorem inducerc: fi tamen  cautio adhibeatur ; utrumque optime obfervát-  fe dicemus, quidquid dicat Mercurialis nofter  in fta Praxt,capsite proprzo ; cüm fciamus ; peri-  tum; Medicum numquam. repleta corpore cus  curbitulas ante totius ex purgationem applica-  turum .. Diftinctione igitur potiüs ali3opus eft;  nam fi ex humoribus palpitatio cordis prove-  niat » fi dorfo € regione cordis, ur plerique fa-  ciunt  cucurbitulz applicentur,id in manife-  ftam vgri pernicienrfiet; augetu r enim circa cor  faneuinis Copia ob calorem, et dolotem : doce-  bat enim Galenus rr. A4eth. 17. übi 1n iis fit  plethora, non magis ex pulmone in pectus. ali-  quam excrementi. partem transferri ; quàm.»  ex toto corpore 1n utrumque. At ubi palpita-  tionis cordis flatus fuerit in causa » evacuatà  materia, unde elevantur, cucurbitularum ap-plicatio dorío é regionecordis. praftantiffimum  erit remedium. Quinimmó applicari etiam.  commodeé. poterunt, ubi cum flatu frigidus  quifpiam humor-conjunctus fuerit: nam ven-  tofus fpiritis admotà cucurbitnlà digeretur; qui  veró reliquus eft humor; facilis evacuaaione »  detrudetur.   174. Flaubus etiam cordis palpirationem.  inducentibus ; femper humorum et in ventri-  culo, et inteftinis..& flatuum ibidem collecto-  rüm maxime habenda eft ratio, atque ii inde.»  fubducendi ; quod. iis inanitis, fepiffimé folu-  tos  ltos etiam eos obfervaverimus, qui circa cor ob^  Ivcrfabantur .  17$. Fugiendum veró quàm maxime illud, ;, jalpita  ide quo nos Galenus 12. Math. ult. admonuit, fuis mum  fi adhuc in iis partibus fücci, ex quibus flatus 4; (s fia"  Ielevantur, continebuntut,à nullàre m: ac1s eí- tibus, sz-  Ife metuendum, quàm à calore, quod eos colli- ters zz  Ijuet; atque in flatum vertat, fed digerere ncn.o lids mon  valeat: craffa et 1m, et ejutinofa dum calcfiunt, effe. men-  Iflariofum fpiritum gienetre folent, Gal. tefte» AMI Pr dv  Inbidem . ftutr m  ; tertia.  176. Vbi ad cor aut efferveícens fanguis ;  laut bilis affluat; ut phlegmones, ucl eryfipela-  itis periculum adfit ;, quibus in corde productis; 54.  Ideíperata omnino falus effe folet ; ftatim àfan- sellestia,  Ipuine miffo, vel dum mitdtur, circa cordis re- cordi Afm.  Irionem repellentia adhibete convenit : qua 9lsanda.  Iquamvis 1n morbis pectoris omnino fueiendas  e(Íc conftitucum fit ; 1n hac tamen afflictione js  irum, ad quamcumque partem materia fluens  Irepellatur, ea fitignobihor corde, necinde ad-  Iro fibitó mors immineat, nullà interpofità mo- Cere la-  raapplicanda funt. bordite en  177. Vbi ex craffo fanguine cor hujufmo- erafis hm  Hi morbis laborat, à diureticis, et füdorife- 7».    Dum mit  "72771; fa*ii diMreticA   "Is erit abftinendum ; nam hec exhauriunt fe- 57 ?   | : $» 6 à! beso yg É C fudorie  um faneuinis, et fanguinem craffiorem red- ! pela  dun! Ld "^j 7   UEntHf,   178. Verüm, fi aquofus humor, et ferofus,,,, ;,,,.    norbumillum producat, nibil eft, quód facifé sobtitaa  iius yuin hujus morbi poffit evincere .    PLI,    2Difeutien  dibus fia-  145 in Cor-  dis palpi-  faftone,   snifcenda    fnbadfiri    gentia o In flatulentà palpitatione vehementer ||  rcfolventia damnanda fünt : nam fpi-  ritus vitales nimis exhauriunt.  Quód fiin ufüm ea ducere  .. neceffitas cogat, ad-  ftringentia ali-  qua erunt  admi-  fcendaa .    | 20g   LIBETIA    Comprehendens eas,    JDe dolore l'entrictii.    eiendum erit,    lAnimadverfionum, et Cautionum Me.    dicarum,    4$ no 0908    Ousinvrelk qua. - 1/77 uUualium partium morbis  fuat obfer Yauda.    SUN inflammatorio dolore, inflam- Dolente  W| mationem partis, aut eryfipelato- veztricu-  fum affe&tum infequente, genus /^ v6 iz-  omne medicamenti pureantis fu- f^amma-  nifi fimul affluxam '/?vé» par  id ventriculum bilem cognoverimus;in quo ca-  i pureantia omnia evitabimus, ob innatam ca- 4 pienda.  Iditratem, et nenovz fluxioni ad partem Ja1.,  fo! ore laborantem detur occafio ; concedemus    SIS,    cantia fis    ramen    Sus vcuna  $3 ufune  daucend2-  Rbabarba  yum 1n do  love vexit:  eui infla  $9 X 0rto  fsgiendz.  Qiata n  dolore vé-  zriculitia-  fl^mm TI,  yio. quan-  do conc.-  dcnda.    Ventrieu-  lo dolente  có mflam  »lomé .  f icida po  (as Co ex-  irà appofi  n0,9Ha5-  do cox vten.at.  Ventricu-  li ia dolore    «o6. tamen lenieritia, abftergentia,cumrrefrigerauóe | : t m  ne aliqvà: tamarindi, fetum, fyrupus violatus, |  et fimilia concedi poterunt.    ;. R habarbarum, multis in hoe familiare»;    omnino fueiendum: nam et igneis qualitatibus  nocet, et biliofi humoris affluxum folet con-  Citare.    3« Opium, et opiata, licet in omnibus vene |    triculi affectibus fugienda fint, urgente tamen»  dolore inflammatorio, cum lenientibus ca ad-  mifceriin paucà quantitate poffunt ;fic enims  neque actionem impedient, dolori fuccurrent  et intemperiem imminuent : etenim fic Gal. Ze:   compof. med. fecundum loc. circa medium, exayni-- F7  nans medicamentum quoddam Afclepiadis adij*    ftomaticos,quod recipit plura medicamenta, &:] ^"    inter hzc aloén,& opium; reddénfque utriufq;j 7  raticnem,inquit, alocn vitiatos humores ex pur-4^    care, et infcrné peralvürn évacuare: opium ve«4 *ii  1o fenfum obftupefaciendo, mitigare moleftiamgr'i  ortam ex acrimonià humorum; erat tamen opi  ad reliqua medicamenta dofis unius ad vigint  quatuor; quam etiam non improbat .   4. Im inflammatorio dolore ventricuh, aum  incipiente eryfipelate, aqua frigide potum; au^ [)  frieidiapplicatlonem ut convenire aliquand 4;  concedimus; ita id faciendum ab initio maxim]  cenfemus; affluxà enim maseti, fi frigida exhiu'ic  beretur, morbus curàtu difficilior redderetur . |   «. In doloribus autem ventriculi, et ineft];  zorumà frigidà materi,áutà flatn ex. eà gem]i,  tO5 fi |  WIH.  io;    | to, fi contumaces fuerint, et multà fübfitmate- ex. frg:    ria, Hiera licet à Gal. commendetur, et à ple- 4a,«t crz/  ifque Medicis, quoniam tamen tardiffiméopes /2 mate| ratur, aC fepe dum ob vifcidam materiam tuni- 1/2 Hrer«    | auget,necéffarium effe cenfeo medicaméntum  jaliquód pureáns admifcere, quod et materiem    cis ventriculi adlieret, attenuata, et in halitus 4/44  ^, * » 1 " A ut   converfa. materia ventrem diftendit,& dolorem "^'^^  »n€n1147  Hryoans$    . n smifcendit.  adjuvet fübducére,átque Hierz vim intendat,    ut diaphainicum;electuarium Elefcoph,& fimi:    !lia ; nequémultàm dubitandum eft, ne ad. partem laborantem fiat multus materix affluxus,    cum enim támmulta adfitcraffa, et vifcida materia, vim ombium medicámeéntorum hebetat,    i| et impedit, ne à longinquis trahat, materiam    autem etiam 1n éo exiftentéem, et attraéctam    | quamprimüm fübducat,ita ut minima ventriculo noxa inferatur ex affluxu materiz, utilitas  '€ró maxima ex caufz morbifice evacuatione s,    j| potiffimum fedato dolore.    De: Ventyiculi irsbecillitate ex frigida  ite npevié .    6. [ N $uellibonz cornftitucionis ; ave catelli pu; 72  perpinguisapplicatióne reeióni ventris riculo.ap    . E - x £^ ; PM A  culi, prima lizc fitanimadverfio ; quód cüm in »:4; ze  J| tardà: coótione ex friaidà intemperie; nihil fit fomnum    quod niagis coctionem adjuvet ; quàm IoBieus, (errim  et riori interru ptus forinus, ánimadvertant. pá« P^" -  sicrites,Jieexanquietis fit pücr, qui ex affiduo   motu    ;9$     motu fomnum patientis. interrumpat-: majus  eniminde damnum.ex impedito fomno feque-  retur, quàm utilitasex blandoillo calore; quod  etiam ex catellis magis verendum ; potiffimum  fi patientes ex lis (int, qui et facile ex pergiícan-  tur, et difficillimé in fomnumrelabantur.  puliin 7. Secundo illud etiam animadvertendum  applicatio. ft, Cepenumero ex hoc complexu t udcrem ex-  gecaven- citari, quinifi affidué detergatur, noxam affert  dus fador. magni momenti : quare vel ab eo defiftendum  etit ; vcl- intermedio fübtüliffimo linteolo 1n eo  períeverandum.  Inm,b- $8, Suntetiamaliqui adeó in Venerem pro-  iiio? pi,utexcoamplexu in fomno polluantur aut  45174- 3d Venereos congreffus conciteptur ;1n quibus  omnino ab hujufmodi remedio eft abfüncdum,    De. INas[ca. € Fomitu.    Vomitus 9. E Tfi quàm plurima ad vomitum attinen-  fugiendus, tiafuperius propofita fint ; hoc tamen,  fieauez-. loco aliquá non fünt omittenda imagbl momcn-  tioryfed er tj, qug in vomitu exercendo pro naufez, et vo-  gente ^ *- qytüs curatione maxime funt et animadverten-  far tne da,& cavenda . Brirnàm igitut fir quód Iicet  jio; fc. ir adiquibus, qoibusautob ventriculi imbecil-  ^. litatámsatitob afflexum aliunde humorum col-.]  lieitur. materia in ventriculo »concedendus fiti]  vomimis.frequentius tamen 1d non erit praftane:]   dum fed femel; aut bisin menfe, ne et in ma--],   lam confuetudinem deducamus;naturam » patrz]   tem    ww À  rem imbecilliorem reddamus; et membrum co-  éHoni ciborüm, et nutridionirinferviens, fentina  excrementorum efficiatur.  : Cüm vomitu materia: expellitur, five» p, pis  fponte; five levivomitorio (numquam enim for | 4 4,4755  ti in hoc cafu utendum eft)  non erit longiori tem. i4fjfgedz .  pore in eo infiftendum ; cüm alioqui cupiditas  cvomendi fepe perfeveret; ne. ex nixu, feu vo-  mendi impetu, aut vena aliqua in pectore, aut  in eulà difrumpatur . aut affluxus.novus mate-  riz potiflimum biliofie concitetur, infrà igitur  potius fub fi fttendun jT  ' TRUM * x i. ?.   (Orr Repe ità ctiam potiüs evacuatione,:& petendis,  1nterrx iat | 1C fiat, quàm unica d. nua didi   12. Quinimó prior magis protrahi poteft ;. ;,, ;; ;»/;-  pofteriores autem breviores fint; licet cum ali- gadauz  r1; 11lud auidebi. ut multa Vezitus  is hoc autem,ut craffior repeti  fex in fundo ventri- qnales efVonmitus    €N  pot 45$ TE^    I4;    m  i fubfidens educ qu e po Xflitsfed nullàalie- /e4e27,  ni materie ad partem attractione;   13. Si qi is on ex naufca neceffitatem vo- situs,  mendi commonftrante ad vomendum promo- 44: fé» yu  veatur, fed quod feid effnsere non pofle expe- /» se»fe  rimento cognovetit ; ftatutum »» menfe diem., ft, non  aut terminum non prafigat ; p. nunc plures, habeant  nunc pauciores dies interponantur;ne 1n pra- diem $fa-  vam, &inevitabilem confi etude lta dedu- I  catur sut fi fl    pats, et quaframur  |    latutum terminum aliqua datà occa-  fione tranfcendat, in morbos aliquos incidat.  4, Quam 'ls autem; data hacoccafione; VO- VFontt*    OQ mitu  qui apftj- itu evacuandi fint, fi tamé ad vomendum ine-  mei,  ptfuerint, aut fi perpingues fuerint, aut angu-  fto nimiüm pectore, aut fi atiàs fputo fanguinis  tentati fuerint, aut fi cerebro admodum imbe-  cillo, aut oculis debilibus prediti fint ; potius  perinferna purgabimus.  Womendà | 4$. Vtconcedendum, vomitotia, quz vehe-  quádoie- mentia funt, quibus humores ex pelluntur à to-  $450 vt- to Corpore,aut faltem à longinquisattrahuntur;  tricalo C Tejuno ftomachoeeffe exhibéda; ita in levioribus  quando 4 concedendis, quz contentos in ventriculo hu-  «cds mores evacuant, ea diftinétio adhibenda eft:  quód fiquis ad vomendum non ita facilis eft  praftatà cibo vomitum proritare, potiffimum.  ficraffi fuerint humores : fi veróad vomendum  fuerit facilisynec humores multüm rebelles fint;  pratftabicid jejuno ventriculo tentare ; aut levi-  culo auxiliojuvare,  Cras ba. 16... Quinimo, fi non folüm craffus fuerit hu-  soribus more ventriculo evacuandus, fed in paucà quan  $n wertri- citate, licet malus ; poft cibum erit vomitu €ji-  «ul2(xi-7 ciendus ; admixtus enim cibo facilius expelle-  fence ' tur,etiam qui in fundo ventriculi confiftit,quod  m ^1, alioquinon ita facilé ventriculus in fefe contra-  UU . hensillemelevare ; et propellere poterit.   17. Cavenda tamen magna ventriculi ex ci-  borepletio e1, qui cibum ad vomendum affu-  mit ; difficilior enim redditur vomitio, quód  ventriculus (ead expellendum, quod illi mole-  ftem eft, vix tantà pofità repletione contrahere  pcteft.    Y opitriri  A09 21H $  replegtür.    IS. At     í11    18. At. ne ftatim quidem ab affrmpto cibo »,,, ;,.   aut evom;endum eft; aut vomitorium fümendüs,;, ; 7,  fed tantum tempcris intcrponendum, quantum sto, qua  fufficere pofle conjeceris, ut humor noxio ad- 4/4 vo-  mifceri poffit, agitar.i, circumvclvi, et verfusos mu» 25-  ventriculi fiblevari ; id veró-fit fpacium unius. Zendii  hcrz, aut ad fu rini m duarum : 1d autem fem-  per intelligendum eft de vomitu ad evacuadum  ciexcrementa, quz in ventriculo cconünentur ;  et de levibus vcntcrlis ; quid enim in vomitu  vniverfüm corpus evacuante, et in vehementi  bis vomitcriis obfervandum fit, et alias dictum  c(t, et ab Avicenna petendum.    De Siti izymoderatA    I9. T fitis.ex immoderatà caliditate; .& 55; ;,,,,  ficcitate ventriculi, aüt eam COGI. 75; 2547   prafen da h umorts calidi et ficci,eqva frielde 4c frigida   largo fa pé potu curatur, " aft m exfünguen- &ibezda,   do, et bilemob multam aquz copi lam inecftam C quado   fr bducendo ; ita maxime cbfervandum erit ; fi calida.   fitis hzcinexhaufta ex falfa pitvitz adhafu pa   rictibus ventriculi, vel ejufíem n fundo illius $   mo rà producat! r,frieida potum ncn fcre uti-   ]em; quód cont: macem mæ?is cavfi m reddat ;   et craffiorem ; eam vcró ctiam fa cile potus pr rg   terfluat : przfta ibit 1e1tur tu aovà calidà ; qux   maais penetrat, attenuat, divtiüfque in ventte.   commoratur, pouffimtm fi quidpiam 1lli ad-   mixtum fit ; quod attenuanti facultate. pra di-   QD a tum    31»; tüm fit; fed et in paucà quantitate, et non excedens.  De Cholera.  Cholera | 20. Vamvis in hocaffe&u, et per fuperna,  Jaborates et nim inferna humores excerri foleat,  quédo per &impetu tali;ut freno potiüs,quàm  fupe ftimulo opus fit ; quoniam tamen aliquando ir-  C^ 24542 vea tiones quidem adfünt;fed promultitudine»  pe vba máteria non complentur ; ideó adjutricem ma-  vag4,, Dum Medicus porrigere debet : at tunc ambigi-  tur, an fuprà;an infrà. Primo ieitur confidera-  bimus, an naturà ad vomendum zeri fint faci-  les, et an confueta fit aliquando talis evacuatio;  tunccenim per eam partem adjuv; ii am nt,  hac diftinétione adhibità : fi cibi corrupti talem  niorbura produxerint, ftatim vomitu excerni  pofle; uteuam fibiliofi humoresab hepate, aut  univerfo corpore fucrint transfufi, quód biliofa  per fuperiora f. aciliüs excetnantur »fin vero aut  ad vomendum naturà ineptus fuerit ; aut craf-  fior fuerit materia ; praftabit. abftereentibus  fubducerce.  Von ^ 21. Sed fi vomitoriis agendum, ea omnino    ria in cbo €evitentur, qua vel aliunde attrahendo vomitu   lera fint attractam expellunt.   ex. levib. . Sed cüm blanda illa mu! vicem fint;aqua  Fomiter te pida; hvdrelzeum, mulfa, ox vmel,quæv aria   ria in c)? vatjoneid petant; quomtódo ea in ahi   F0424T7 s? Sibiliofa fit; et mordax ut ctiam fyncopen inducat, aquam tepidam, vel jus pu Ili fim- riezate   plex, vel hydrelzum potiüs eligemus :Si craí- maierit  fior fuerit materia, et picultz admixta, pt rxeh-  genda eritaut mulía, aut oxymel cum aquá : S1   trefactus cibus, omnia hec convenient .   23: Per inferna, fiopus fit, id eft;fi moveatur  imperfecte, fi biliofa fuerit,à mannà cmnino  abftinendum, et abftereenübus ex melle; aut  faccharo ; ftatim enim 1n CO rruptelam trahun-  tur,&b jilefcun t :fedfcrum lactis omnium erit  oreftantiffimum remedium, aut caffre fucci por  tio, quz ardorem cohibet;mordicauonem com-  primit, * blandé fübducit : quód fi pituita pu-  trefacta 1d excitabit, aut bilis craffa, nihil pre-  iius rit melle rofato, aut folvente ex fero  lactis ; aut facto cum infufione rofarum rubea-  rum.   24. Vtvomitoria in aliis morbis curandisin Veste  multà qu: inütate affumi debent, ut etiam mole r:aiz cho  natura ad vo cé" m proritetur;itain hoc mor /e4 zen  bo mincr copia fufficiet, vel Aretzo tefte: quód frat, mul-  Ur icmeiovss ventriculo, et difficilior exitus /4 2/2tà  humorum acrium reddatur, et major vis,& do- '^//*  lor ftomacho inferatur.   15. In repellentium, et roborantium ufi hec  adíit cautio ; numquam ftatim ab initio ea 1n.  ufüm duci poffe : fi enim ex copià ciborum, aut ;,,, quas  humorum 1n ventriculo, et vicinis pasbine Ü- qoid quo  lis morbus provenerit, non prius ea concedi pc- 5,4» i5  terunt ; quàm materia 1]la majori ex parte fit. wap d   gvacuata : quod (i aliunde affluxerit, nifi vires cez4a .    i4 exfolManna,  (5 faccha  1? barata s  f"fecta $  cbolera*    Repellen -  tia1n cho    it4 exíolvantur, permittendum etiam erit, tit. pars  illius evacuetur, ne illius impetu xepreffo ; aut   - febris exitialis concitetur;aut ad menibrum ali-  quod princeps repat ; fed non: dierum. numero  hec movenda erunt, quód morbus acutiffimus  fit, et aliquando uno;aut altero diezgrosinter-  imat ; fed horarum dumtaxat, ut unius quan-  doque,.aut duarum horarum fpacio viderim.  tantam humorum copiam evacuatam,.ur vires  conciderint,.& corpus quafi confumptum, et  depreffum undequaque apparuerit .    De Cardialeia.    Cardial-. 36, Vamvis quz adftringunt, aliquo modo  gi lahe- etàm repellart, in hoc tamen morbo  rátibus in in principio repellentia convenient,  dri atn'dlo modoadftringentia : illa enim affluen-  esvenii;, £5ad 0s ventriculi humores mordicantes, po-  x2 41/1, ui ffimümin febrium principio affluentesrepel-  gea, lunt,adftringentiaautem, licet id praftare pof-  fint, affluxos tamen quafi retinent, atque parti  impingunt: fecüs tamen evenit, fi repellens ali-   quod per os affi matvr ; repellitenim deorfum,  precipitatadvenienté;corrngat;adftringit.& in-   durat, ut ficillimé;munità parte interná,vim af-   fluenus hum: risretüdere poffit, atq; repellere.   Cadia. | 27. In vomitu promovendo in hoc morbo,  gia labo- heec adfit cautio ; fiflu&tuet materia, et proinde  ga"tbu5 perinterval!la invadat, neqne nc va affluat, S  qnádo vo VOmitorlo, licet.blando; uti poffumus;ut a: rd  aO,  . aij    120, aquà tepida, vel folà, vel cum fyrupoace- »sitoria,ee  tofo, vel oxymelite : quód fi vel ab hepate, vel 4444ode-  alimmdeaffluat bilis, potiüsrevocanda erit à fu- *^*foria.  perioribus, et perinferna fübducenda. 6s cin   28. In biliofis, et acribus fbducendisiis hu« "4d   | ^ Cédis acr&  rioribus, licet Galenus, et Trallianus aloe; five, dis  Hieràutantur, ut fi qua tuniciscris ventriculi jjj,  matetia adhafcrit,detergi poffit; alii autem 2,44;  Rhabarbato: placet tamen magis blandioribus ;a cardial  uti, maximé cüm jam leniora commodiffimas gia,lenio-  noftrozvo inventa fint; fic decoctum tamariri- néss utes  dcorum, fyrupus rofatus fol. caffia, vel ex prunis 4&7.  paratum medicamentum, aut etiam addito fero  lactis, ræi1s convenient.   29. Placet tamen magis bolovti,quàm [liqui- S424ucess  do medicamento ; quod diutiüs in ventre mo- f'^ &ilie-  ram trahens, non folüm commodiüs fübducet /^: ^»mo-  tales humores;fed fimul contemperabit illorum "777 cer"  acrimonlam ; 1n quo genere et caffiam, et pul- iss  pam tamarindorum, fi premum [locum obtine- 77^ 747  rc cenicrem . MT IDE E niant, c   30. Qnodfft1à pitvità fiatacidà, quod rariffi-,, qua for  me accidit, euamfi ufis Hiere à me commende- 52.  tir, quód humceres ilosattenuet., et fimul füb-: Here pre  d'cat;cuoniam tamen et tardiffima eft in aCtio- eardialgia  ric,&frpéà materie vifciditate evicta etiam. 7"'/cesdiz  imiæis retordatur, unde fiepé fymptoma adau- fter al  getür, optimum effe cenfeo, illi aliquod medi- 1*4 *»c-  camen'rum admifcere, quod vim illius acuar, et *'c4"»tr7  quamprimüm medicamentum cum infeftanti- *  bus bumoribus deor(um ducat.    O 4 Ds    $15 C0?7)U€i16. .  De. INaufeas.    Innaufea 31- V1tos video in naufeà orani ftatim aut  quado bn evacuantibus per vomitum ; aut per  mores vc- leceffum uti; felici aliquando fuccetlu ; aliquan-  mt^; € doinfelii: quod ut evitemus ; obfervandum.  2:449 P** erit, an inanis omnino fit naufeay an cum aliquo  ftf" vomitu: fi inanis; conjectandum,an aut infarcti  Anu tunicis fint humores, aut admodum adhate-  a wnbs Ícant; tunc enim omntiio preftabicillos attenua-  praparas- 1€» abftergere, et incidere ; ut preparau poflint  A. educi facilius : quod fi 1n capacitate ventriculi  contineantur, et fymptoma maxime urgeat,  ftatim aut vomitu educend? ; adjuto motu, fi ad  vomitum faciles finc;aut per feceffum erunt ab-  fterzentibus evacuandi .    De Hepatis intemperaturis .    32. Y IN calidà hepatis intemperie;neque fem-  per ab initio medicamento purgante »  jupe, Univerfum corpus, et jecur expurgandum eft,  quando Quod doctiffimi quidam viri, ex Archigene, et  purcadzg, Galeno 8.de compof. med. [ecundum loc. ad finem,  €^ quádo colligunt ; neque femper ab hac abftinendum.;,  nen. rictüs folà ratione, &alterantibus ad frigidum  contentis, quod ex Tralliano; et Avicenna alii   cenfent ; fed diftinctione utendum : fi ex proca-   tarticà aliquà causa fubito talis intemperies in-  troducta fit in corpore alioqui fano,detracto fan   guine vena fedtà, et refrigerandi totius ; ache-   patis    Hep tis  £n cAlida    Il trahat, neve calor, e s patis causa, et revellendi ejufdem à parte labo-  rante,ftatim ad alterantia veniendum erit:quod  fi corpus bile prius refertum fuerit, et paulaum  intemperies fit introducta, altiu(q; radices ege-  rit, et quafi habitum contr axerit, non. folum.  fanguinis miffione erit utendum, fed medica-  mento aliquo blando calidi humores jaminde»   'niti erunt | pus exp urgandi, mox reírigeran-  bu s erit æendn m.   . Neq; vero in ho c cafu fueie nd lus eft ufus  Ain ccun i fero, aut (vrupi rofati Í olutivi; guod  docti fimo Matt; uie vifu m ef (tob eam ratione  quod cüm dulcia fint, periculum fitjne bilefcát:  valet enim argumentum in 1is, quz alte 'rando  diugcüs in corpore moram turahu nt,non autcm  magis evincunt qu: àm    ibdt icendo potiüs refri«    1n fubductoriis, qua c  evincantur, et bilem fi  gerant.   ;4. R habarbarum potius m ihi fufpectum eft  1n hOoC Cà cium enim tardius o |peretu ir,19ne€as  autem multas x artes habeat, quibus penitiores  partes í facilé adire potef s et ] jecur 1 maois excale-  facere poterit; ut ex lotio, quod ftaimab: Tum /  pto me lican entof flavitiem affumit, e ru ffum. /  confp ICItUF, quii bet cognofcere po Jte ít.   3f. In externis ap] licandis ea adf it cau tO  refrigcrantia, et adítr in |gc ntia fint modera tai    tum actu, tum potci hv m conha  fu:    'tla,ne vifcus fcirrl    1 port CS,q 1inde cx halà ES    I rerinceantur,ne etiam clau datur via fangu inl,aut    ^  LI    denique putredini detur occafio,  De    2L7    Hepatitis   i/i 2016277  perie £ali-  ^a man-  na uon [wu  fpectum .    Hepati;  12 Intem-  berie cali-  da Rbhba-  baybari£    f (fpe 7471 L4, Hepatis r1  E intéperie  calida ve-  rigeratia  ett adffris  Renta tm  peu:? fnfecil.     De frigida Hepatis intemperie .    In bepetis 36. | IN calidis et ficcis externis applicándis |;  intempe- ea fitanimadverfio; ne nimitininiisex- | |  "ie frigi- cedant: fitenim (lepenumeró,ut humidioribus 1»  da, calda pattibus abfumptis;aut e&ficcátis;fcirrhi in pàr- jen  C^ fà "té cohcitentur.   f4/pacta .    De Hepatis obflruttioge .    Hepatis 37.| N topicisinufüm ducendis, piimó hzc jk  sn obitru- adfit cautio; ne attenuántibus umquam,  éHone 4t- vitamur, nifi longo intervallo poft cibum affum-  tenuantia ptum, ut non modó in ventriéulo cibis in chy-  eie Iummutatus fit, fed in hepate'etiam jam mitita-  dgio donem in fangninem nactus fit. Quapropter |;  RA. cümà ceenáad prandium multó majustempo- |i  f rs 1ntervallum intercurrat, quàm à prandioad  coenam,commodifTimium tempus judicamus c(&  fe, fi fiat perhoramante prandium.  Linimbiis .. 29 Animadvertemus pratereà,antequamo |...  f (us cali- linymenus,aut inunctionibus niramur, femper [s  di ai fp;m V1ÍCus effe fovendum decoctis attenuantibus, et [i  gia pra- difcutientibus cum fpongià, ut et inunctiones  ittedi. altius penetrare poffint, et materia ab actuali »l»  et potentiali calore attennatà, aut per fe diffipa- . |...  xi poffit; aut medicamentis c corpore duci.    RIIANII    |.emone nó priàs applicanda erunt, quàm fectio-  | ne venz evacuatum fit corpus, et pars materiz ^.  I revulía: fi enim fecus fiat,vel fi ob abundantiam    e E uo WA  e 4  s *. cf  ^ 5s Me -  -  A0. deu SCORE M.   - o. ERE UUS     De Hepatts inflammatione .    39.Y cet repercetientia extrinfecüs appofita. Hepate iz  medicamenta in inflammationum prin //4mmmste  cipio adhiberifoleant,in hepatis tamen phle- repelletta  "m prine   p:o. ante fe  élioné ve-  n4 non có    ; "Y^ (o, EJ 3 *» F^ T* * e » ; ^ ' *p)o l 2, 1*  | repellere non poterunt, rebellis magis reddetur 1, .    K ÁO Ó N e    | timor, et contumax, craffior reddetvr materia,    et duritie coptractà fcirrham excitabit, vel re-  pulía ad cor, et fpiritalia membra impetu rues,  mortem ftatiminducet.   40. Laborante concavà hepatis parte, licet p,;;f'ag;  faciliüs fit, medicamento purgante materiamo ;arne  evacuare ;id tamen crudà exiítente materià, et bepauisip  in rrinciplo fieri non debet, fed ccncoQà, &in «ezva par-  decUinaticne. Qvamvisautem 1n phrenitide, !* megan  aliquando ab initio, ad revellendum, evacv2n- dum, [cd  d: m fit medicamento pureante ; ficut docet in, "* d.cina  plevritide, defcendente ad hypochondraa dclo- «oi  re, Hiep. 2.4cut. quia, ut aliàs docuimus, non-dum cruda eft materia, fanguis nempe bibofus ;  in hepatis tamen inflammatione nullo modo 1d,, infini  pre ftandum eft : quód, cüm pars 1!la labotec;,, sone  humores, auià venis undequaque evomunt"r 55,5; i  adjecur,etiamfi aliquà ex parte evacuentur ; p«»cipio  per partem tamen laborantem feruntur ad ven- sos. 2a»  triculum, sícaue et 1» becilliorem reddunt, et 454a.  reduviz craffiores remanent; magifque impinguntur. 2  AI. |  T e    Hefatts  gibba in-  fidsaata,  ante dta-  retica le-  - ninda al  UMS.    In be 11:$  HZ fla ?2   2 311076 4  yebellentt    Dus, itüprilcifi0    niteda .    Hepnte tn  femato,  aciü f !?i  da fic fd    7    d    4 la 9    Quz in gibbà hepatis parte fit inflam-  matio, et quz ad eam partem affluxa eft mate-  ria, licet per lotium commodiüs expurgari,com  muniomnium doctorum fententià poffe confti-  tutum fit, antequàm tamen diuretica hec in.  ufüm ducamus, optimum cenfemtus, leniente»  aliquo medicamento, aut etiam abftergente»,  materias in primis vHs contentas evacuare, ne»  ufi ducentium per urinam, quz in primà illà  corporis regione continentur,ad penitiora de-  ducta, inflammationem adaugeant.   42. Licet autem in principio inflammatio-  pum aliarum partium fimplicia repellentia in  ufum venire debeant, in hujus tamen vifceris  phlegemonealiqua etiam attenuantia calidaad-  miíceri poffunt, et debent, non eam folüm ob    220    7» caufam, quód frigida, et adíftringentia ad penitlOres partes facilis devehant;fed etiam;quód,  cüm vifcus illud undequaque angufti iffimis ve-  nis fit refertum, et illius fübftantia ex iilis: fere    folis fit comp ffitasut proinde parenchyma optimé dicatur, fi frigida fola, et adftringentia aut  exhiberentur, autapplicarentur, facillime ad-  ftrictis venulis, et craffatà materià; fcirrhus in,  parte concitaretur ; aut fane tumor per fe incu-  rabilis fieret.   43. Vt proinde etiam hzc eadem hepati  non valde frigida actu applicari debeant, ob    eafdem caufas; tum eti: ime ne naturalis facultas  noxam aliquam contrahat ; nativo calore quafi  exítincto.    44. 9i    j|    I:  aon:    44. Si tamen nulla adhuc affluxerit mate- zropatein  Iia, fed affluxus certó impendceat ; ut in cafü » fz mdi  I étu, aut externa aliqu: à Causa, pura repell entia, f1se ate  etiam cum aliquà adfirictione,concedi po terüt. riasvepellé   4 $- Quinimo, i in ervfipelate vero eadem pu- !/2/ela c9   ilta conceci poffunt ; cüm :& materia fit renuifhi- (€  15 efipe  aMnpa,  calidiffima, ut periculum non fit ; ne ni- eri  1 epa  amis craflefcat, &-obftruat venulas . tis, vegellé   » Vnde etiam frieida actu repellenua C3.» v fola ci  Aapplicari regioni hepatis poterunt j CUm cns eoninnt.  Irenfiffima fit ibi caliditas ; qua ctiam medica- /5 er yfipe-   Amenti mntenfionem refringere facilé poterit. In. /a:e zepa-  IQuo edam cafu pau» dllum aceti indendum crit, ris, frigi-  Jr frigidiffimi medicamenti penetratioadjuvas 44 2s  Ar? px flit. abplican-  47. Et quemadmodum ratione partis ab jni- B   | bebati   |, Ho dictum eft;non puis repel Hane. ieudu B. t "T"  PA E: infamma   (Ie, fed attenuantia aliqua effeadmifcenda ; 1ta |  à [102€ 5 17  lin declinauone non pu risrefolv im us utédv I sch   æcoiimatio  docuit Galenus 15.4e:5. fed nonaihil adftrin- ne puris re  Ipentium admifcendumeerit ; ne laxatà nimiümo | (juez j.  parte, tonus illius deftruatur. bus non  utedum .    De Hyárope.    149. Varmwis illud et veriffimumfit;& Gaost bydro-  leni auctoritate confirmatum, /:7b. " ferofr  H0 $5 TUR que tao pur. CAYC oportet ic- Mast  lrofos humoresab1 initio p! Iro ari pc offe, quód. nul 44 ize ;  illain eis exfpectari debeat coctio, quód nullam purgarz    cionem admittant ; cavendum tamen erit ; 5o,    validis    fed à levie  ribus tn-  ehogdum.    Poft bydra  g^:^ vale  1:a ventri  ciilus vobo  YADUÁLS .    1n Iydre-  picis «tte-  nudis  tenda s   nt butic-  yes p wies   mua du-  "T poffint .    In bydvopt  DEG m ear1té  xWAII2HÍ   dia no 1i-  ff LCLPDP  Iní y iret  ín düweti  cis nà diu    57 fallenLVDb. SEPT.ALII MEDIOF.    cOgIS ftatim ab initiojfed ]evao    222    validis uti hydræ    rialiquo med icamento erunt prima excremen- '    ta educenda ; et fic vie ad-validiores evacuatio-  nes prxparabuntur.   49. In valenticrum hydragogcrum ufü fem-  per maxima ventriculi: ábenda eft ratio : cm.,  cnim majori ex parte tonum illius I5befactent ;    fi frequentiüs, u ità multis foclet;jexhibeantvr;nisíque abillorim exhibitione ventriculi habea-  türratio, imminvtà aqvá flates    cilicrem, fi Averrci credimus, zerum noftri m»  inducemus.   jo. Vt veriffimum eft, ferofos hos et aqueos  humores nvllà coéticne effe preparandos ; )ta»  cüm pctiffimüm perl-tiumfint evacüandi; via,  per quas permeare debeznt, infar&u funt hbe-  randa: in quem ufim et decocta, &fvrupia atte-  nuantes, et abfteroentes, et incidentes maximé  converient,ut cráfficres,& limcfi humores vias  cbfttventes, et effluxumvrinz ad renes, et ve-  ficam impedientes pra parentur, ac facile educi   poffin at,   $r. Nectamenin horum ufu diutiüs infiften  dum eft, ne dum 1d tentamus, morbificam cau-  famadauecamus.    $2. Hocautem maximé in vfu vrinam proe [Hi    mmcventium eft animadvertendvm, et cavendü:  vidimus enim quàm plurimos, dvm obftinaté    nimis per lotium humores hos fercft s deducere: 1!  ec obfervarent,an co-- 1t    potionibus 11$ tentatent;    pia    augebitur, et in^  deteric remfpeciem hydrcgi is, et curatu ciffi- la urinz augeretur, mortem a grc tis fuis acce-   Ica petu [entà il!à materi in corpore reten-  IEà, et in morbificam caufam mutatà.   $3. Praftat igitur per tres, quatuorve dies, lipericulum facere, et potionibus rem hanc tam-   iquam aptioribus aggredi : quód fi pro voto hzc   inon füccedant, aridis res erit tranfigenda, fuccis  Iconcreus, pulvifculis louum  premoventibus ;  Itrochifcis, et fimilibus.   $4. Rhabarbarum, quod in hydrope labo-   Prantibus 2 à mune. commendari video ; ut for-   . [té aliis pro roborando hepate acmixtum ccnce-  lili poteft; ita fi frequentiusin ufum ducatur,aut  licommanfum, aut in pulveris formam  affü m-  | ptum, ad evacuandum numquam probarià me  pee quód talia a aprum non fit evacuare, qua-   lia opus effet,quoc ique docuerit Gal.Zb.de purg.   I ozcd. f acul.eap. 2. quz flavam, vel nigram bilem   purgant, Amportuna efTe, et inutilia hydropicis.   $5. NNon omittenda eft Galeni animadverfio  lex Afclepiade, 9. de compo[. sed. Jeeundum loc. et   ; M à Tralliano repetita ; cavendum effe à frequen-   f uoribus, et iteratis vacu: auonibus;qu iod hydra-   j.o02a hac per fenoceanrz he pati corpi üfque uni-   ver(um reddant debilius, et plus phan quam.  profint: itaque faris eft; ceftante A lex./ib.9.cap.   l| 2. paulatim, et tutó vacuare, quam fe finando,  perturbandoque,unà cum morbo agrum de»  medio tollere : praftabit gitur, ev acuatà parte  materie per feceffum, hepar per aliquot dies ro-  borare, moxque yacuationcem repetere.    16. QuamM    aum, £5    quando.    Potulenta  i» bydrope  Ex ep?    fafüecin.    Rbabarba   ri Lbydro-  picis inuts  TH    Hydropi-   cis rebett-  ta fapiss  bydrago--  gAnexia«     vefeckHa ^  $6. Quamvis duos hydtope laborantes fana-  pydlropicis à viderim ; quom in cruribus perfe excitatis,  eribus et difrupus;& multà aquà ons eam partem eva-  ephlicat^," caatà, exhibitis pofteà multis hepar roboranti-   pericula-. us; nullos tamen umquam fpacio h oc quadra--  e cinta annorum,quo in magnà hac urbe medici-  ' 'nam facio ; curatos vidi, quibusà Medico vefi-  cantia cruribus admota fuéte, fed fere femper   cangtznz fubfecutz funt cura itu impoffibiles; ;ut   paümée etiam doctiffimus Maffaria longà expe-   rientlà obfervavit. '    55.4  - e    De Lenis obftruélione s C darstie.    $7.3 N fplenisobftru&tione non ftatim refol-  Veleibis s,quin ne quidemattenuanabus  'alidis medicamentis cftasen dum :cüm enim  anenuan Vicus hoc femper fesculenus, et craffis fuccis  sibusagé- refertum fit, gi ulum impendet; ne fubtilio-  dum . ribus,& liquidioribus parabus abífumptis,craf-  fiores, quz remanent, per ea quafi lapidefcant;  et verumfcirrhum inducant.  Splene ob- (8. Prineipio tetar emollientia adhibenda»  Jffructo c (ui t; et fluxilem materiam reddentia ; poft au-  duroymil- tem difcutientia tuto adhibere poterimus.  dendi Uu. $9. Sed cautione hicopus eft, nó effe utrum-  220, post .  vefolven-  gum,    Splene ob-  Firuclo,no    validis    :ue hocofficium femel tantüm prxftandum;tedij  repetitis vicibus;,punc emolliendum;nunc quod  emolliítum eft et fufim aifcuti tiendum ; itertimi-J  que quod jam emollito fübeft;iteruin emolhen-4.    dum; mox ;élbtvendii S digas tota molers$    ditfipetur . 6o. Nec   z5j    6o. Nec placet, quod plerifque ufiratum fci- 17 l'en  nus, m initio emollientibus attenuantia admi- ticis 9  l| fcere, ut illa incommoda evitemus : cüm eim lentius.  eodem tempore ducrum illorum operationes ^" "5^7  | perfici nequeant, fed attenuantium,& difcu üen  | rium ;ob caloris efficaciam, actio multó citiüs  ll abfolvatur zinillud femper incommodum inci-  | demus, quód difcuflis fubtilioribus part ibus,  | qua fuperfunt ficciores evadent;ac difficilius fu-  perari poterunt.   6&1. Nullo modo Hier. Mercurialis fententia 5?/enicis  in obftructionis lienis curatione ; /b. 3. de cogn. '^Xàtións  | C c ramdigibuma n corporis aff eciibus, cap. 21. re- aliqua ad  | E: ienda eft, càm in lienis affectibus curandis, ^44  imu am neceffarium effe cenfuit, ut medica- "^*^:  I"menus laxantibus commifceantur adítringen-  | tia, ob eam rationem, quód, cüm viícus illud  admodum fit 12no bile ;fuà naturà debet effe la-  xum, et latum, ut facile recipere pr fiit humo-   I res melancholicos ; cüm fententia hzcé directo  | repugnet 13. Z44eth. cap. 17. fed maximé 2. ad  E ec. cap. $.& ratio id docet :cüm enim vifcus  | fit non parvi momenti,multum refert,nimiüm-  ne fit laxatum; fic enim illius tono perfracto,fa-  cultatibüfque- naturalibus i edditis 1mbecilli-  bus, minüs recte fanguinem defecare po terit,&  | hiepa r, corpüfque univer(um expuroare: minus  | tam en, quàm in hepate curando hac in re eri-  ] mus folliciti, et in minori copià emollientibus  ] Bicuingenna admifcebimus.  62. Fruftraobíftructum,;aut duritie tentatum Lies vix  p lienem    tuno O56    feenda «    fe lot:    poet PÜeyieióin €    fr ncifio    TU    gon Put- yofos  Las 6 J  quB s et 4  ob J 11]  g'4paran- 20    di r  orediuntur ; cium enim mdflns ab hoc vifcere adl    vias urina fit tranfitus, Galeno etiam tefte, 15..  Meth. 17.1d fruftra tentare cenfendum cft, in.    quo Medicum fruftran fine contingit:per fecef-.    fumieitur ea materia ducenda etu Quód fi quan:    do aliqui per lotium copiofum curati vifi funt,    ut de Bicne fcriptum eft j 2. Sec? 2. Epid. id vell;  et per vias occultas factum];  recenfet Hippocrates ;velf ane aliis adhibitis re--|,    tamquam rarum;    mediis emollie ntibüs X diffipantibus, et per   alvum fübducentibus,cüm multa feeculenta.  per venas pbi. materia, qua foveri;ant re-  novari tumor ille poterat ; per urinas ei fubdu-  ét, pra  quod imitari Medicus poterit ; ubi nigras    craffas, foeculentáíve urinas adetfe COgnOverit :    P Jienem curare conantur ii ; qui. diureticisidag-.  expurcay i    in?    rfervatio potius, quàm curatio facta eft::|  autt].    diureticis enim tutó tuncuti poterit, adantece-.|  &4cntem materiam per eam partem vacuandam..]    De lero.    Icet Galenus nofter, Jib. OQ; 40$, C2 quando  ; purgare eportet, doc uerit ; lenues, et feo j*    initio efle évact  icteritia biliofi fucci funt ftatim evacuandi ; neiw    que enim f: mper ten ucs funt «neque ferofi dicii]  poffunt: preparandi igitur ante evacuationem jl  et,fi putrefacti, omnino concoquendi ; vel exd    K  "I    d. s    ^ d -  ! fh fent  Ruffi fen    -- Ww    "2 wi    6 A. Á t    :s humores,nullà exfpectatà ccctione, abii  'andos,non proptercà tamen nah    "  |    Med imperfecto, un lequaque bile difpet: ieve-  inert.   &4. At veró cüm bilis quàm minima copi: à»  e. ida A clerici vA  int nalliad inteftina crahifmifs ; ex obítructio- ;,    d n  F II. 2257    1 [2 "P2: *   S x Leltis ned ntiori-  Ine veficz fellee;torpida remaneat expultrix fa-. ;, 4j.  cultas int eftinort um, va le ntioribus femper mnc- Cc£ADRERTS    ldicamentis erit utendum . ond.  6*. Cavenda tamen. valentrora hec medica- C) a5 dà    limenta erunt, fi aut ex hepatis inflammatione» wvalentiec1    Íymptorma hoc fuperven« rit, aut motu c ririco, fa furgan    De Colicis doloribus .    ^ i :, 3  1 anodvnorum in hoc morbo: lud 1s ecolieis    P      66 W ha   i primóanimadvc denied Bi iritio, fl dulorzbug  in ufüm ducantur,antequam evacuata lit mæ- initio  teria, non effeadimifcenda valentet difcutientia valere?  flatus; ut rutaceum oleurb, autolea quibus ru- [citieita »  ta, baccz lauri, et fimilia incoctafint,etiamex ^^:  Galeni oracepto 12. 74M erb.8:cüm enim ob co-  plam mate riz affidué flatus eenerentur;non va-  lentia illos difcutere, fap édok res augent,   G7. Erranzimultó magis ; qui 1180 leis vinum  E aut fapam (tatim ab REPRE dmifcent;   vfteribus infvpdunt: cruciatus ab n fiepe aup» colicis  clyfteves  ab initio  cum vinos    eentur, excalefactis, attenuatis nimiüm rai 3 fabA3  T Ó ot. ZEE . á vUeyí j"pyp"  fis et frieidis humoribus ; et in halitus ele- 55i.    vatis.  d. I" ^^?" 1 diss A143 529 )'  6o. t quemaa modum catlidaiozà hact oten- colicis €8  tia,frive itf 351 five extra,!n prit pi lo non la uda- /ida va4l-  mus ;itaáctu etiam nimis calida concedendas 4» 44^ s  cí C eocamiFt ; tpalá »    Pa 69. Anime Chfte 69. Ánimadvertendum euam ; ne clyfteres  colicis ge 4ndantur, repleto adhuc yentriculo: fic enim ci-  indantay, Dus attraheretur apte ten pus,magi(que impin-  repleto ve gerentur crudi humores in intefünis, augeren-  triculo. tur dolores, et cvratio redderetvr difficilior .  Stubéía- 70. Stu pefacientia quamvis in omni dolore  ttezt/27? colico convenire poffint ; frequentiüs tamen in  col'icis 9- nm duci poffunt,ubi materia morbum faciens  Prom^.po- c lidior fit,& acris : non folüm enim fic fenfim  pol O btundim us,fed etiam caufz morbum facientis  ris e,Lj. au onem habemus... |  dis. 71. S1quando tamen iis utendum eft;eó ufq;  Opiata i; ion funt differenda,donec vires vitales jam col-  eolicis, vi labafcant ; egérque non longe abfitab interitu :  rió4s va- folet enim fzeepenumeró fine dolore dormiendo  denriéus . yita terminari .  Colicis ip | 72. Incolico dolore ex pituità, fi quis recen-  dolor;5j; tàorum dogmata fecutus lenientibus folis;aut ad  furgani- fummum ftercorariis admixtis aloe, aut. Hierá  éus in ini Galeni ccntentus, à purcantibos veris abftinuc-  fio utez- rit tandem honoris jacturà factà;aut eeros mo-  dum. ricum maximis cruciatibus finet,aut alterius  Medici acceffione, qui cum Grecis omnibus, et  Mauritanis, validiori medicamento pureante,  et abftergente propinato,materiam ab inteftinis  deturbabit, ac eà ratione dolores aut imminuet,  aut tollet, exiftimationis non parvam jacturam  faciet: non valente enim leniente medicamento  vifcidam, et craffam pituitam deturbare, et  Hieràob tarditatem actionis diutiüs in intefti-  inis commorante, et fepiffimé non valente per-  cranZ ^ ^  * ES wg.  JERDL Q4 T: 2e C RE--- 0 0 M    ANIM-ADVERS. LIB. FII. 229  canfire, fed materiz illi craffe adharente, ele7  vatis flatibus, validiffimi dolores excitantur ; et  augentur. Qr'are preftaret u rgenti dolori quam-  primum r eductà materià fuüccurrere ; et 118 uti;  qua cum attenuantibus mixta citó materiam»  fubducere pcffent. Neg; impedit, utad locum  aftc 'ctum materiam deducanius: nam neque ve-  1e locus affectus ita lafos eft ; ut hunc Serien  non adizittat, cnód ad hoc à naturá fint inftitu-  ta inteítina ; et (i qua materia ad eas partes du-  citur, fimi le tiam cum præxiftente evacuaturj  fi affecta cflet pars, fi inf! ammatlorne ten Haste]  tinc maximé peecaremus, fi talem 1n eo caíu  evacuaticnem procuraremus. Neque cruda»  hac materia dicenda eft cà cruditate;que ab 1n1-  tio, pracepto Hippocratis; evacuari non debet;  de cà enim ca fententia intellieenda eft ; qua ex  pt tredine fadià, Coéctlo nem requirit; qua putri-  dis debetur hi moribus, quales fu nt humocresin  febribus putrefcentes.. Hxc extra venas eft; 1n  locisad evæuationcm inftitutis fine eenereillo  putiredinis, ita ut folis attenuantibus aliquibus ;   et abftergenübus, tam peros fumptis,quam 1n  fufis, preparariad evacuationem pofhit ; quin-  imo infu fis per clvífmata Pa U. atà vià,& attenuan  übus mediocribus difpofità materiá, fi ctia   pureantibusattenuantia admifcuerimus,; X  eft Hiera, intceré omnibus fatisfacere. poteri-  mus ; fic enim fvbdv cà materià, et diícuffis,  quin et expulfis flatibus; aut dolores folventur ;    4    alt certe maitiores fient,    Dp j 71, Olei    i;0 V/ussli,- 73. Olei velexamyedalis, velex femine lini ij:  in colicis wis, ubi multaadfuerit materia craffa ;inuulis;] i  205 €v4- C^penumceró effe folet,reünetur enimaliquan- | í  Bus ss do; et vifcidiorem materia reddit : et licet tam--|  teria, i,, quàm anodynum quandoque mitiores reddat] i:  il. olores, quoniam tamen materiam peccantem /] ii  fubducere non valet ; folent non curari dolores ; |ui  Íed fepe denu ó infurgere.  Oleum in. 74. Apertàig itur vià, et fübductà parte mæ] ui  cici;  lerie,autenematibus ; aut medicamentis pure «du  ou^»do  gantibus, fradhuc urgeant dolores ; preftandf--[n  optimum fimum effe folet prafidium.  préftdib.  ^5. Sedíi vereamursautob craffitiem mate-.|  rdg riz; aut ob ejufdem quantitatem, ne poffit prz-  ddodacs terfluere, admifieadunilli etit nonnihilabíter-  abfise, 8 gentium,ut meliis rofati folutivi;aut etiam pur- |  tibus, ay; gatum, ut diaphenici l;ve cl electuarit Elefcoph,,|  purganti- diffolutoru mcum aqua aut glandium Perfico- | y;  éus . rum;autaniforum; aut fimilium .  Ín colis |. 76. Quod fia à flatibus.dolores provenerint,  à flatuyo- fine mulià copià materiz, nihil eft quod magis  ha data exufit effe foleat eodem oleo;etiam ab ii nitioauc |  etiam. ab per fe fumpto aut ; quod: melius cííe facpius ex- Jue  sr ^- pertus fum, cum pradicus. | EI  Seem 77. In ufu vomitoriorum cauti fint maxime: [i  A a fi enim ventticulus, et fuperna parces inteftünoe |  £olica. s. Tum replete nimium fuerint, ex ufü maxime li  fvs, c» 4. €rünt, ut medicamentis ad dejiciendum ingefts: [i  éufus... locus detur pertranfeundi: quód fi totus dolor;  eiüfquecaufa infernas partes obfideat, non fo-  lum fruftra tentatur vomitus, fed aliquando fit. |  cum    ANILMADVERS. LIB.    cum zerotantium certà pernicie;vo Ivulofi enim  fipe fiunt; ac cum certo mortis periculo, etiam  ftercora per eam partem evomunt .   78. In cucurbitule magne appofitione regio-  ni umbilici ea adhibenda cft cautio, ut ea ex illis  fit; quz funt in medio perforate: fit enim fzepe-  numeró, ut cüm pars fub]ecta mollis fit ac pan-  eguis,multa illius rcoles inuró trahatur, qna fub-  tractionem-cucurbitulz impedire folet : unde»  vel diutiüs retenta 1n fp! acclum fübjectam par-  tem deducit, aut fi frangatur, ut hocincommo-  dum eviremus, aliquando ex vitrorum fra-   ementis cutis vulneratur.   79. Cüm pluribus, potiffimum mollibus, et  perpinguibus, hx: antes fere fintumbilici, et ex  vi füperpofitz cum igne cucurbitule pinguedi-  dosis a portio aliquando trahatur per eati  partem, confalo;crifici o1lliut prius fü perponàt  parvüm ceratum, puta,ex cerufsà coctà ut tale  incommodum evitent -   8o. Vrincolicis doloribus ex flatu anodyna  ftatim et interna, et externa concedenda funt;  ut cruciatus illi mitieentur ;  matcria; unde elevantur, fitevacuata; ita ea fu-  gienda effe cenfeo cum Gal. 12.7 eth. qua infi-  gniter calefaciendo difcut ere quàm maxime va-  lent: attenuata enim fnateria. majorem Jocum.  occupans inteftina magis diftendit, ac flaubus  1dauctis dolores auget.   81. Cucurbitula etiam in iis dolor'bus ex flaVII 3t    eadamfi nondutn :    Cucurbi-  tale ma-  £v4 inco  lzcis appls  cand& cati  £10 e    V mlilic?  mnunter-  dus in ap-  plicatione  cucurbi(Ux 4.    Colicis ex  f'atu Ta-  lenter di-  fcutienits  An6XlA «    Celieis ex    tibus, ubi urgeat fyroptoma, uti poffumus ; fed. f/4tu /a£o    FP cctTante vàtes 441 Ce(lante dolore, vel mitiore reddito ; materias;  eucirbituunde elevantur, fübducenda eft;alioqui redeüt,  le ufam ut optimé docuit Gal. 12. Adethb. cap.8.Si tamen  P^44:- non adcó urgeat dolor, utomnem ad. fe trahat  indicationem curativam, preíftabit evacuatio-  nem pramittere,prafertim fi multa fübíit mate-  ria; aut adhuc novaaffluat, ex 13. Z4eib. 19.  92. Contingit aliquando, ut colici dolores  adeó vehementes fint, ut omnem Medicorum  444 qu, Operam eludant, 4C quocumque auxilio adhi-  doque tet bito potitis augeantur, in quo cafu ad contraria  dum.  €tittranfeundum:Cüm enim colici dolores ma-  jori ex parte à materià frigidà fiant, aut à flati-  bus diftendentibus; fit aliquando, utaut ratione  dolorum, aut vi igiliarum, aut maroris, ob con-  tamaciam aut incalefcant nimium inteftina, ac-  cedentibus etiam calidis, et intrà,& forisappo-  fitis remediis aut phlogofi quadam tententur,  autetiam verà inflammatione incipiant affici,  aut multa præxiftens bilis ibidem transfunda-  tur; unde ad conrraria erit cranfeundum ; et in-  figniter refrigerandum. Quod mihi anno prz-  teritoc ont191t, primo in nobili Hifpano, peci-  uum duce egregio ; poft in N. à fecretis Iluftrif-  fimi, et Excellentiffimi Marchionis Caravagil,  qui cüm colicis doloribus per aliquot d lies fuif-  fent acerrime conflictati, et jamjam mors efset  pre foribus;nulli Jp /^ eget arteriarum pul-  fus; fudores adefsent refolutorii, nulla denique  ampliüs fuperefset fpes falutis, ne quidem apud  Medicos cua prettantiffimos: accerfitus et ego,  cum    Golicis im  delorióny  frigida a«x  - A  "use c EET 1.  cim fitim inexftinzuibilem,linguz fcabriciem,  nierorem, ac.duriciem, pertactis autem hypo-  chondriis, et ventre inferiori, calorem in parti-  bus illis eftuantem adetl c obfervàffem, Hifpano  aquam multam nive et: um refrigeratam biben-  dàm exhibui, cüm naturà abftemius efset, et  multz aqua potator egregius ; in íomnum pro-  lapfus eft, et quatuor horan m fpatio cüm dor-  miviíset, dolore quodam. inferioris véntris, à  primo maximé, ut ipfe referebat, diverfo exci-  tatus à fomno, miram bilis flav copiam evacua  vit, et à doloribus liber evafit. Vndejcollegi;  Me dicos, qui illius curationem f fufce, "erant $ 1n  Causa nx rbi illius longe deceptos bá e cum.  calidis remedus curationem inftituifsent, à fr1-  gidà materià factum morbum judicantes . Alte-  rumautem, cüm jam agentem animam invenif-  fem, non alià ratione ftatim curavi, quàm lineo  i|ds plicis in quadrati formam com-  to, hine immetfío ; ac mirantibus aftanti-  bus quid facerem, ventri füperpofito.cumque»  ut dormiret injunxifsem, dnt itiüíq; edam fom4    poopp refsus fine motu cum conquacte CICLU, VCrentes affines, et uxor,ne jam fatis ceffifset,cum  experge f ecif: ent, indign: inuitus s, quód tànto  bonoe eum privà sen t, quafi € lecto exiliit; à do-  Lubin cmnino ibis :    85. Si1ex Miiaienon inteftüni dolorem.  fieri conueerit, caveat Medicus, ne ullo qvan-  tumvis levi medicam nento fubdi jcente utatur,ne  attractisad parteminfiammatam ab illzefis par1    i9    ee si    I2 celíci  (x inflar  H  ?97»at105H£ [^  purgatto    )* yv  TEIZETTS  tibus; calidis;aut pravis humoribus;aut inflam-, matio augeatur;aut impedito tranfitu,in volvu-  lum de(inat.  Caffia dn | 94. Caflie tamen folius ufum aliquando non  eoiicis ex refpuerem in tali cafu;quód miti illo,blando,&  sfiam- humidocalore lie pé i inflammationem fe det, do-  745"* lorem ]eniat ; et fuppurationem tumoris ad-  1075. juvet ;  Seu d 95$. Quamvis venz fectioex brachio in coli-  Coco 9? 6o dolore x inflammatione, decreto Gal. 12.    dolore ft-  da bina AMetbh. zzed. commendetur : sf tamen eó ufque »  514],,. P'orbus pervenerit, ut urinim fü pprimat, fecta    liquagdo Vena intalo maxime conferet; aut poft priorem   coofep:, Mlamy,fimultaadfuerit plenitudo, aut etiam fi  talis non adfuerit, fi ex talo loto fanguis primo  mittatur,non erit preterrationem, d expteri-  menta.    De lvi fluere .    * [ N alvi profiuvioillud ma: ximé cavédum,  epus ne,dum virium maxime habere ratio-  gui L nem voluerimus, confi  et jurt-   bis pinguibus laxitatem ventriculi, et intefti-  norum nimiam neenon: ius ; alvique fluorem  jn Iecamus.  I» SN 97. Sunt fepenumeró noftrates Medici in.,  rf.io frigido potu concedendo reftricti, ut rralint  ^ gidaus cum manifefto detrimento tepente aqu àfluxü,  potus [epe laxitate introductà, alvi augere, eo confilio,  convent. quod frigidum nature inimicum cenfeát, quàm  Juíto jufto teri defiderio faüsfacere, quod tamen na-  tura eti. am bene operant e fit; ut et adítrictioni  Bt fni dumm (atisfiat.   $8. Inflammatione tamen verá tentatis inte-  ftu nis, frigide potus vitandus eft.   69. C Cavendum in diartheeà, quod plerifque  video confuetum, ne femp er aut in plerifque»  ftatim abft erforium aliquo d exhibeant; ut mel;  aut fyrupum rofatum aut fimplicem, aut folu-  tivum cum fero lactis, aut mannà;cüm enim ali-  quando bene Opcrante n. atura id. fiat,non erit  aut irritanda, aut promovenda, fed totum ne-  9otium natutz erit relinquendum: fin veró ma-  là qualitate icritata etiamid natura przftiterit;  non etiam erit adjuvanda, ne calcaribus natuta  current addius, pt Izecipites in mortem agros  igamus : 1peCctatores1g1tur p« nus hu jus tnotüis  nature aliquandiu erimus, et morbi morbifice-  quecaufe potiílimum rationem ha bebimus,  Quod fi naturam hifCere, aut fuccumbete vide-  rimus,neque materiam poffe pfo rauone eva-  cuare,irritari tamen pattes; fzprüfque ad excre-  üuoncm fere inaniter provocari ; tentiginem Hn  ano; et inane defiderium egetendi fubcíle ; tunc  manus adjutrices petita 'ere coni eniet, atque.»  abítereentibus uti ; quin aliquando folventibus  blandioribus; ut matind,& (yup o,aut melle f£o-   fato folutivo;ut quod pluribus egeftionibus cum  dolore, et natura labore evacuati tentatut, bre-  viori t€empore,& mincri moleftià educi poflit .    De    Frigida  f'gien: dá    .AABngB fla 375    72411058  inteftino-  Yum  OQuado ab  fe '"geati-  bus i diay  vL&a uten    dumIz dyfen-  geria qua  do purga-  dum, c^    a [£4    11020.    Jed bono viclu C facili ad alia    236 LVD. SEPT.ALII MEDIOEL.  De Dyfenteria.    90. Vmin curandà dyfenteri3 adeó diffidenr  tes fint etiam doctiffimorum virorum.  fententiz, an reterto corpore pravis, et acribus  humoribus, laborante dyfenterià verà, ulcera-  tis, aut abra fis inteftinis,conveniat medicamen-  to aliquo faltem blando, puta, Rhabarbaro,  myrobalanis ; tamarindis, manna, fyrupo rofa-  to folutis vo, et fimilibus, humores evacuare an  potiüs omnino ab iis fit femper abftinendum,;  qt ie in mediciná faciendà maximi momenti effe  conftat. Ego nonaliam hac in re fententiam in  medium proferre tentavi,quàm eam, quam no-  bis tradidit doctiffimus Vallefius 4. Epid. cap.96.  qui ab utráque fententià extremé diffidens, ali-  quando pureandum cenfüit, aliquando omnino  abfüinendum y voluit. Verba eius fünt : wt  zn d'yfentertco ef! cusa cacochbymiasmæna exulcera-  FIO nondum Wai TAG aut cum exulceratzone magna  cacocbymia EXIGHAS AUT ut raqs exiguas aut utraque  magna: $z pyimium, expureari debet: S1 fecundum,  miti o fe dad [i dores,ad urinam ; ant vomitus  »o0t "andum, e infa umaum loce alib Z7A1 777 C i ius 3 cu £X-  tertius pro ulcere curando : Si tertium,ue tunc qu.  dena localibus admoduss, "eq; purgatzone opus eff,  f €UdCcHuA 107€ 5 6 €Yi-  vatione : Si quartum, "aic abilis eft, facies aut Hi.  bil, aut omia tentandigvatia, velut 12 ve de[pera-  Tales enim etiam cui ationes aliquando pro-  mihi femper difplicet illud Celfi :  ó&pe    ] 4A.    C    iUcrant; : neqs;i    JAXNTIM.ADVERS.. LIB. VII.    Sape quos vatiozon juvit, remery i47 dia peyut à  91. Debet i1giuir quan primum hujufmodi 7» dyfen-  humor pravus ;& acris evacuari aliquo ex prz- teria, ubs  dictis medi1camentis, fi illius m: enam copiomo PA/*9Z4d,  €X CIIS amalrcre, ventris ti his tione, avt aliis qmm  fignis fübeffe ccgnoverimus, antequàm ex fre- " id  qt enti, fed paucà excreticne ulcera adaugear- Heo e:  [Ur,aut vires de ji ICIantu |  92. Animadvcrterdvm tamen, fi fübeffe co-  piam arrabilarii humcris cognoverimus;,etiamfi  exulcerauc adhuc magna 1n inteftrfüs facta non  fit, non ftatim purgeante medicamento cffe edu- ;  cendam, cancerofa enim u Icera,& peffima ex-  citaret; fe dattemperar!, ejüfqu e ferocia delini- ;e, bris  r1 prius debet.: quod ubi factum effe cognoveri- feroia il-  mus, cmnino evacuari debebit, fed blandiffimo iss tezzp  medicamento ;, deccétione tamarindorum, vel 72454:  jmyrobalarorum, cum fi rupo; vel melle violato f"'g26z.  folutivo, iifque fimilibus.  3. Rhabarbarum in dyfenterià ab Hs."qUi nLea  BAS rt: orum dogmata fectantur,qu1que pur- £227»  || gandum fepein cà cenfüerunt quamquàm vl- 4yfzate-  I deam paffi m ad hunc finem in ufum duci. potif- ria f/'sfpr-  l| fimüm ubibiliofi,«& acres humores abundave- &-  rnt;quod tamen et tpa "Enos partes habeat,  || quod in fübftantià affumptum, ut in hoc affectu  || pleremque fit tunicis intefünorum, et ulceri-  | bus adharefcens dolc res pariat implacabiles; ut  I fa pius obfervavi, omn ino fuoi ndum cenfeo c;  I quamvis fvrupusde cichoreà Gulielml cum eo. ccu. cà  | paratus ad/triélione carere fatendum ft, cimo Zadar  iamcn    y    * 57  4») 7    C-0    terta, bue   530Y€ atra  y'   bilario e,  aAa0€Y 217*toG    Gulielmt. 4-4    $2 tact»  admit   FN TS /2   19: &ji  Rbhbaba pe    bav 4 1er    refackuim  2n dente  eti at ei    £ 164 à am.    Df fentert  £15 yao 47.  s)0n1f fan    gHints    ys!jf20; (e    €Hvr » ramenà cichoreaceis igne illius partes reten-  'antur, fi cum decocto ramarindorum, aut my-  robalanorum concedatur, non ita rejictendum.,  cenferem..  94. Sed 1agis etiam recentiores communi  erróre decipi iuntur, torrefactum R habarbarum    in dyft enterià vagis,adftricüonem, et ex-  ficcationem augere volentes ; ut utràque facul-  tate, purgatork à. .& adftrictorià adauctà, melius    intentioni fatisfacere poffint quodi innoc entitis  fieri torrendo putant ; cüm experientià conftet,  medioctiter tot xefatutn vehiementiüs,:à et mi-  nori dofi purgare, quàm integrum ; 1eneas ta-  men partesadhuc magis vigere: et fi majorem.  sd eto adhibuerimus, purgatorià faculta-  te penitüs deftituitur.  95. De mittendo faneuine per fectani vena,  cüm graviffimorum virorum fententiz é diame-  troomnino inter fe fint contrarizsaliis majori ex  parte fanguinem mittentibus, aliis pumquatn..  Eco hujus fii n fententia, fi fimpliater dyfente-  riam confideremus, aut ejus caufam, aut multa  cx adjunctis, dolores, febres, 1inflammauones ;  omnino convenire miffionem fanguinis, quà& |^  fluentes hun ores ad partem laborantem poffint  retrahii,& plenitudo tolli, et jecur refrieerari ?  fed càüm fopiffimé à diarrhæà proc ducatur, illiüf-  que edam perpetuo fit focia, in quà,eti iamfi non  fit pro mu ltitudine fufficiens, num quam mitten  dum effe fanguinem cenfui i Fil »p.& Gal.4 de 2  rat. yict, t5 acut. tie. ( I.4d Glauc, CAD. 14- aubdi  aut    pl  »1(  it  11i    "no    AGE PCI y dg ima a AND aut vires vitales fint imbecille reddite, aut pe-  riculum 1mmineat, ne profternantur ; ra ró cen-  fendum eft occafionem dari fanguinis mittendi ;  potiflimum cüm majori ex parte in hujufinodi  Caíu íciamus peccare humores à fanguine diftin-  ctos, et tales gros cacochymiá laborare, facil-   liméque tum o b evacuationem, tum ob vehe-  men tiffimos dolores, vieiliáfque qu: afi perpe-   tuas,in fummam vitalium virium debilitatem  bicidenc..   96. Sitamen aliquando mittendus erit.fían- Dyferre:  euis,alvifluore non magno przefente »1r inflam- cis quan-  matà parte, urgentibus doloribus, hepate, 4»,c quo  toto iua e b febremzftuante ; aut o D Ca- fmodo[an  Icfactos 1 humores in venis, viribus prefentübus, fr   confentrientibus, imminentis virium colla » is dicioni:  penculi habitat atione; r ec multu m,neque c   fertim, et femel, fed parium per intérva illa.&  fx pius ev: 1CU: sÉ) ius, Aéti,& Alexandr etiam  fententià: Ídque non cà folàm rauicne, quód vi-  res non 1ta dif : an ntur,, fed etiam quód iteratà  evacuatonce fangu inis meliüs revulfio perficia-  tur,qua maxi re in hoc atfectu expetitur,ut Ga-  |! lenus auctor eft lib. de eur. vat.per [eciam venam,  cap. 12.fiquidc " | natura toties irritata majori cü  'J impetu et facil Itate: affuefcit materiam, ad affc-  'J «tas partes confluentem .1n « ntrarios locos de-  pellere, et quafi per alios rivos transferre .    2, $45. ARTS TERR TES Lathis 4  | Delactis ufu in dyfenterià cüm videam ; |  Y p ied : Æ . oir furin d  ddociiffimos aliquos viros adeo  iraffe, ob ^  " L1;  4c Q- mcm pr I " 4 b " j Fev?n  | AAÀIPpOCI2US, C izalcni AUCLOILIAUT $ p 70r.    X  . et Celfi, Ib. 3.cap.25.ut rariffimé in tali mor-  boipfumin ufum ducant, quód dejectiones fere  femp er in cà fint biliofæ,& fc ebres non leves ma-  jori ex parte conjungantur ; cüm alioqui fciam  maxime laudari à Gal. P de fémapl.smed.facul. c  3«de alim. facul. cap. 1$. ubi non folüm dyfente-  re,fed omnium ventris fluxionum acrium opti-  mum dixit effe remedium ; cenferem nullo mo-  do, febre prafente, et acribus fluentibus humo-  fibus; lac convenire fimplex,& fine; praparatio-  nc; at paratum, ut faciebantantiqui,& ut docet  Alex. Trallianus, lapidibus; ferto, aut chalybe  in co exftinctis frequenter ut et ferofa abíuma-  cuf fubftantia, et pinguis, butyrosáque corriga-  turlgneis abfümpts.certum eft; non nifi maxi-  mas 1n boc affectu afferre poffe utilitates ; quód  non accendi, et in bilem verti hoc modo para-  tum certó fciamus ;alyum autem fiftere poffe»  certum fit, tum ob cafeofam máteriam incraí-  fantem, et frigidam ; tum quód ex candentibus  lapillis aut chalybe adftrine entem nanciícatur  facultatem.  in dies 98. Cümin principio difficultatis inteftinc-  zerici; cjy F0 » fepenumeró. mucofitatibus quibufdam  fieri al apparentibus, p affim Medici ad, Æ Eso a  fférgentig €nemata deveniant, neadhzrefcente diutiüis tu-  "fas cugy nis inteftinorum hujufimodi humore falfo, ut  €autioge . Ypfi putant, exul Icerentur inteftina; fa 'penumeró  etiam maximo in errore verfantur : mucofitas  enim hujufmodi non adventitia eft, neque præ  ter naturam, fed naturalis, quz à ipio inse  nis indita eft; ut muniantür, ne à bile, qua cun  £icibus in dies evacuatur ; interna inteftinorun  pars abradatur ; quz cüm in diarrhocà ab acri-  bus humoribus commota, et abraía exire inci-  piat, fi clyfimatibus magis abftergatur, denuda-  tà tunica eo, quo munitur; faciliüs exulcerari  poterit : diligens igitur cura adhibenda eft ut  mucofi, et vitiofi humores ; aut à capite, aut à  ventriculo defluxi ad inteftina; à naturali muco-  fitate inteftinorum difcernantur ; quod licet dif-  fcile fit ; hzc tamen frequentius cum pinguedi-  ne junéta effe folet, et cem aliqvà rafürà internæ  tünicr, et tunc non folüm non eft abítergenda,  fcd potiüs incraffanda; pingeicribus,& vifcidio-  ribrisinjectis tentanduim erit munire Ioca illa,  et acrimoniam fluentium hemorum reprimere,  quod oleo rofato omphacino, aut unguento ro-  fato commodé praftari poterit.   99. Atin eodem errore verfanturii, qui fluo-. C/yeriz  re materiernm ceffante, dvfenterià tamen perfc- abifergem  verante, et ulcere in inteftinis,iifdemabftergen- */4 i2 fiæ  tibus clvfteriis utuntur, ex aqua hordei, vitellis dyséterie  ovorum,& faccharo,impedicntes hoc modo ag- an [Hs o  eIntinationem, quód fic penumeró natura vifci-  damin fine materiam, nutrireaptam, ut repo-  natur, quz naturalis erat jam abrafa, eomittat.,, |.   . e 1 et1a72D  rco. Tanta eft doloris 1n hoc morbo vehe- in riti  mentia, ut nullo tentato alio remedio narcoticis 5j, "ni  fit f'atim utendum, non folüm per os affumpts 5 4, cozve-  fed etiam per inferna injectis. |   i01, Iniüstamen diutiüs non eft perfeverane Nareoté    Q, gum,    Narcott  pies 9 dum, quoniam fiepé imponunt : cm enim fo-  enterta  Pon mnü conciliàrint, proinde fluxiones futerint, et    zendap, icfrigerando, et incraffando. humorum et acri-  moniam,« tluxilitatem imminuerint ;olore )  imminuto morbus curatus videbitur, nifi tamen  v lutinantibus, et ficcantibus uicus fanemus, re-  crudefcet morbus, et novo dolore fupervenien-  te; nova fluxio excitabitur, et ulcere non curato  difficultas inteftinorum denuó fiet .  Dyetei | 102. Pinguia cuam illa ; et viícidà fübftanria  eis pin- prædita ; ut in acerrimi humoris fluxione necef-  guia im- farla funt, ad Internam inteftinorum tunicam  ssittere | vefüiendam,ne magis abradatur, et ad munien-  q4and» das udceratas partes, ne morbus augeatur, et  stile, et dcloresexacerbentur ; ;itainilsnon multüm cft  277^  infiftendum, quód fordidum ulcus efficiant, et  itiniiss: progreffu temporis.curatu difficilius;abfteræn-  tia igitur funt 1nterferenda . |  103. Queadeo exficcantia funt,ut arfenicum  nimi; *X (t ochifcos recipiant corrodentes, et carnem,  fceántes in ulceribus fübcrefcentem altmem poffint, ut  in dyfia- paffim à Rhafe et .Mauritanis propcnuntur,  teria om- numquam in ufum duci debere confülo ; tum.  zino reij- quodadeo quandoque valenter carnem nein  cemdi, mant,utreliquamanteftint füubftantiam confü-  mentes perforare foleant; ;quamwvisenim paftilli  Pafionis, Andronis, ex minio, et quz ex arfeni-  Co etiam fepiüs loto parantur, externis ulceri-  bus; vrina et callofis applicentuz; fi tamen fen-  tienti mul tüm particule, aut nudz,:& non for-  dida, nonve callofe ; aut fane applicenrur, no-  Xas    Clyfferes    *    » dis    b.  am. vt. IDdpe pm o       | xas afferunt inemendabiles . Et erit; qui 1n abra-  ! fis, cruentis, nudis inteftinis, etiam fi ulcere la-  ! borent fordido, audeat clvfmare infundere»  | acria hujufimodi, et corrodentia medicamenta ;  | quibus et acerrimi dolores excirantvr,& intéfü-  ! na dilacerantur, et fepe perforaptur ?   104. Siqua tamen acria,& valentet fccantia. Arrius  infundenda font, ut mvria olivarum ; aqua na- efus in  :urales Salmacidz, lixivium cum fapone, et fi- 4y/euteria  | milia, ftatim fuperindendus erit alius clyfter ex quid ffa-  | oleo rofato aut ptiffanà,aut decocto furfuris ^7 facié-  | cum fyrupo de portulacà et ovis; ut et dolor le- MT  | niatur, et tunica veftiatur .  10$. Quoniamautem evenit, ut injectus cly- Chyfer sut  | fter ftatimaur exeat,aut propellatur, ftatim at- retzzee-  | queinjectus eft, fovendus erit anuslineo panno /^" quid  ! intin&o in decocto rerum adftringentium, atq; 74/444 :  etiam aliquo conatu manu pars erit compri-  menda.   106. Quamvis hepatitis fub morbis hepatis ratis  ! collocari deberet,qvia tamen à Practicis fib dy- /imulare  | fenterià curatur, volui pra ftantiffimum reme- remediz »  ' dium hoc loco docere, quo, fi alio uMo, hepati-   ! cos curari poffe experientià multiplici cognovi;  ! coque libétiüs,quód ev porifton eft medicamen-  tum, et rationi conveniens: Sumitur uva rubra,  | quam Pignolam noftri dicunt ; acinis eft ncn.  magnis, racemis adftriciis ; ut tardiàs mature-  | fcat, et vinum nobile, rvbellum, et quod P;caz-  ! te vocant, facit ; colligi debet dum media eft in-  ter acerbitatem, et maturitatem, quod folet    Q 2 apud    inermes    e»ecAnti-  Pss exhi-  bendis  quid pr«-  Jlandurm. apud nos effevetfus dieim feftum Nativitatis S.   Virginis Marie;menfe Septembri; Soli perqua-   tuor dies primó exponitur, mox ia fvrno femi-  calefacto exficcatur, et fervatur ad ufüm: et ve-  niente occafiope, quoniam emollefcit, in vafe.»  vitreato, aütad ienem, avtin furno iterrm ex-:  ficcatur, adeó ut n pulverem reduci poffit. Hu-   jus drach. 1j. per duodecim,aut quindecim dies,   ex vini rübri potentis unc. iiij. fineulo die ; per   quatuor horas ante prandium exhibeo, et cum.   hoc folo pra'fidio non paucos ad ptiftinam fani-   tatem deduxi . Nec mirum.fi femper non fiicce-   dat, cüm;ubi radices eeerit,difficillimé curetur.   Ex vino autem concedemus, fi zeri careant fe-.  bre ; qua fi conjuncta fit, locovini fnmet deco-   C donem rad. cichorii craffarmm, lone ebrlli-   tione cum expreffione, in quà fi chalybs ignitus   fzpiüs exftingudtur, meliorem effectum pro-   ducet.    De Vermibus.  107. Y N medicinis et per osaffumendis,& per  inferna 1nfundendis, fem per hzc adfit  cautio,ut antequàm ea ipn ufiim ducamus, dulcia  aliqua, aut pinguia concedamus, ut iis allecti  vermes faciliüs ea comederc tentent, qui pro-  pric; et veré et necare, et expellere € COrpore eos  poffunt. Melleieitur, faccharo, lacte ; avt pin-  guibus przmiffis, füccedent que enecandi vera   mes facultatem habent. em   | ! 168. Quin   . -sa4g    108. Quin ne hzc fola tunc danda erunt; ne à  dulcibus ad amara, aut acria accedentes, factà  tatione in contraria, potiffimüm à gratis ad  ingrata ; ab eis abfítineant ; cum dulcibus joitur  admifícenda funt, aut pinguibus, utaliquá fimi-  litudine ducti, ac 2rato (pore allecti, iis etiam  nutriartur, quz occidere eos folent.   rc9. Ob hancautem etiam caufam obfervan-  dum erit, ut cüm unguentis, aut emplaftris ad  cos occidendos utendum erit, pxiüs Indansur  clvfteres ex dulcibus, aut pinguibus, ut iis alle-  ét ad inteftina inferiora alliciantur, ut. ventri  inferiori illis applicitis, et enecari, et expelli  faciliàs poffint.   110. In iis autem externis applicandis,ut quz  ex farinà lupinorum,aloc, myrrhá, ex fücco ru-  tz,aurrutz caprariz five galege, vel aceto pa-  rantur, cavendum, ne rcgioni ventriculi appli-  centur, fed circa regionem umbilici, et ventris  infcrioris:i!Ia enim fepe ventriculo infefta funt;  et cavendum etiam, ne;fi ad ventriculum afcen-  diffent, in eo loco enecenturz, folent enim ex tali  occaficne qvàm plurima, et graviffima lympto-  mata prodncl: przftabit 1gitur ventriculum.  fovereadfirinsentibus, et acidis, ut roborata  parre, deorfum pulfis vermibus ;applicaus ven-  tri inferiori remediis, illos cvincere ; et enecare  poffimus .   111. Iniis,qve per osaffumütur, illud omni-  no obfervadum eft;ut fi ex iis fuerint; que et ene-  Care, et € corpore propellere poflunt, ut eftaloe,;   Uu coloVerimes  enecanti-  bus. dul-  Cia, vel  pinguia  admtifcen  dà .    Ante en  blafira e-  necantta,   VEFIACS,   ciyfd eres   dulces ip  dendi.    In vermi-  bus enece  dis emplea  flra nbt   applicanda.    Vete  e»tcanit^  óns ger 9    fumptis,  qutd fa-  ^ eendum.    Hamor-  tboidibus  feperf'a?  evactany-  HPHT, n  oàs occlti-  denda,a?  tna reli  'qu*nda,  fententia  A3sGoris. colocynthis,& fimilia,ea fatis effe;fo]hüm q'ein-  digere aut re aliquiabftergente;áut etiam refri-  ectante ebibità: at fi ex iis fuerint; qus eriécan-  te facultate f5là przdita funt, aliqua poft fiper-  bibenda funt; qu: abftersendo eos jam enecatos  expellere poffünt .    De FHæsorrboidibu: .    r12.] N hemorrhoidum curatione, quia ubi   fuperflæ fanguinem emiferint, Medi-   Cos iri contrarias fententias abire, cum maxima.  eétotantium calamitate, quotidie obfervamus;  aflerenübus plerifque cum Hipp. 6. "Apbor. 12.  non omnes occludendas effe, fed unam faltem,  effe apertam relinquendam ; fic enim et immo-  deráti fluxüs fanguinis rationem habebimus;ca-  fum virtiitis vitalis impediemus, et morbis ex  immodicà hzmorthagià imminentibus contri  ibimus ; neque camen morbis illis occafionem.  dabimis, qui ex foeculento, et atro humore.»  oriuntur, qui per illas partes evacuari folet :  Aliis é contrà cuni Actio defendentibus, ubi fi-  perfluus fit fanguinis fluxus, omnes omninooc-  cIudendas effe; et rectà victüs ratione inftitutà,    ftatífque temporibus et ex purgandum effe cor-  pus, et fánguinem per fe&tam venam evacuanJ/ ^ étnh    dum . [E20 veró hujus fim fententiz,obi fanJuly... guis per easvenasimmodicé effluat,ita ut et vi-  : res vitales dejiciantur ; pallor feqvatur magnus,  fubtumida confpiciatur facies, ad malum habitum tendat corpus, omnes omnino effe, fi fieri  | poffit; occludendas ; quia virtutis füpra omnia.»  habenda eftratio, nequeullam apertam relin-  quendam ullo modo efie, cium 1n ct rativis indi-  cationibus ab ec, quod magis urget, femper fi fit  inchoándum. Ne veró res hzc Hippocrati  adveríari, et communi feré omnium lv. edicorü  fententia videatur, cbfervandum eft ; fanguinis  per has venas effuficnem aliquando etle« onfue-  tam;ut ftatis quibufdam temporibus, puta; fin-  | gulo menfe, aut ctiam frequentiüs, vcl bis, vel  ter 1n anno, feri confüeverit; aut c crte vimorbi;  p^ 3, In magna febre, cum fura; à plenitudine  femel, aut iterum acciderit ; aut denique quód  cum ftatis temporibus moderate effunderetur  fanguis, v) morbi, aut ali& occafione fuperfluas  tunc fverit. Secundó obfervandum ett, anti-  quos in immoderata cx veris fedis effuficne.ve-  nas ilfasaut [ieaffe, aut fuiffe, aut, uffiffe, ita ut  numquam per ligatam aflutam aut ufta m ve-  I nam  ius fanguis evacuari pc ffet, ut apud    | Grccos, Arabes, et Latinos ; et antiquos; et re-  centes conftat ; quz tàmen curandi ratio noftris    E temporibus exclevit, pulvifculis cemplafti-  cs, et adftringentibus contentis ; aut ad fum-  Hmumu ftio ne. His fic ftantibus, fi excetfus is hz-  orrhagiz mfoFitus fit; et vi morbi, et plenitu-  |dinis fuperven erit, cenfeo mpino effe fuppri-,  mendum, nullà ap ertà vena reliétaàme vena fan-  guinemevoimente, in propofita incommoda in-  lcidamus. Quod fi ftatis temporibüs, aut quan  Q a ritate    ne /    netu 72...    "A79 y   s feides et m7    (3n€794L    nqlla AAUC 0^ HE    Cf  A Cn »    n,    j «A40 "07 P    4, Yt Tuntn  | bg      | titate excedens;aut qualitate infeftans,aut utrà-]/  » queratione moleftus; à naturà per eas venas ex|   - purgari folitus aliquando modum excetfetit, uti]  et vitales vires profternantur, et alia incommo-   : daindücantur, aut etiam fipngulisevacuationiss| /  ; temporibus, puta; per duos ;aut tresillos diess|  :folitz evacuationis füperfluat, aut fi frequentiuss| /  exiens, quàm foleret; aut oporteret; illa inducatt|  incommoda, fi, ut illiscbfiftamus, occludere»]  venas illas velimus, fi caufticis medicámentis,,]  licaturis; ab&iffione,ati ferro candenteid prz--j  ftare quis tentaverit ; càm ex 1llà curandi ratio--]  nenon folum tranfitus prefenti tempore fangui-] y  ni interclufüus fit, fed omnis via eriamimped 1a-]i  turin pofterum, per quam tranfire poffit ; ne ini  eaincommoda zeri póft incurrant, de « quibus:  itp. G. Epid. et Gal.ibidem. c& 6. Mpbor. va. c7]   3. 1/ 3.ltb. de Humor. necetarium eft;edam aliiss] 5  uflis; atfutis; abífciffis ligatis ; unam relinquere  apertam,ut per eam excrementitiusfanguis;quij  incorpore in dies ageregatus; ftatis temporibus:f ij, evacuari folet, expurgari ex more poffit ; ne af-- Jl    fectus illos melancholicos, maniam;melancho--] ii  liam, ulcera; cutis defeedationes, et alia produ--] ii  cere valeat. Sed fi folüm pulvifculis adftringen-.|  übus; emplafticis; aut et urentibus resagendas   fit; et eumcurationis modumfequamur, qui &:  facilior eft .& fecurior ; licet aliquando recidi-..|  vas admittat ; fi ad eum terminum evacuatio:] «  fanguinis pervenerit, qui jam defcriptus eft;  omnino via omnis erit intercludenda, ut praesentibus incommodis eccurramus ; cm per hác  «curandi rationem non ita obfignentur venz, ut  humore denuó-éxuberante, iterum natura fibi  viam invenire, et ftruere non poffi;aut ope Me-  dici aut perfricauone cum rebus afperis, aut  fcalpello, aut hirudinibus aperiri denuo vena  nequeant.    De Renuum samflammatione,    Lii Vm in curandis renum affectibus evaLaborancuatione fanguinis perfectam venam t» reni    opus eit, à Quà parte mittendus fit fangvis, non  una eft connium Medicorum fentenua ; quód  Galenus tb. de cur. rat. per [ettam venam, partie  bus fupra renes laborantibus, € parübus fupe-  ri: ribus, nempé brachiis, mittendum effe fan-  guinem docuerit; infernis autem atfectis, puta,  utero, veficà, et coxis, é venà vel fub poplite»,  velin talo; cüm renes laborant, pene ambigat:  libro autem 13. Meth. med. in renum affectibus  fecandam venam effe doceat in poplite;aut talo;  aliis majori ex parte fu prà ; alus infrà, aliis fine  diftinétione alterutram partem eligenübus.Ego  cum do&iffimo Trincavellio, habità ratione»  communicationis venarum, majori ex parte ex  infernis mittendum cenífcrem ; cüm et evacua-  tionis eratia;nifi forté plenitudo ad vafa prefens  fuerit, et derivationis, certiffimum fit, à parti-  bus laborantibus, et vicinis, fectis illis venls ;  fanguinem evacuari pofle . At cüm in inflam-  matione    bus au4  vena fe-  £cAnda    Tto xd Ee EC. 4:  Luc aia oU MES    1j     -matrone renum, cüm revulfione opus fit, potif--  fimüm in principio, in contraria retrahi fà  debeat, et ex parteà fonte fanguinis verf  perna retrahendo, pouffimüm fi (fanguinis mul-  tà:Copta refertum fit corpus,à jecorarit brachii  dextri,aut finiftri fanguinem extrahemus: quin--  imo, fi etiam in principio inflammationis nons  verfemur, fed jam affluxerit (aneuis, fed magna ;|  tamen adíit plenitudo, ab iis locis fanguinem.  extrahemus, mne fi ab infernis evacuetur, cüm ex  motu fanguinis in venis, quiin fonte eft, et in  fupernis confertis, verfus locum incifim affa aüam  aftluens, per locum affectum, et vicinas partes  tranfiens, et dolores augcat., et inflammatio-  nem, Quod fiinflammationon fücrit, fed ali-  quis ex aliis affectibus, aut renum; aut aliarmm.,  illarum partium, nec plenitudo magna adf t;in-  dicátio tamen mittendi fanguinis concurrat, ab  1n rez, internis,ob venarum conjunctionem et rectiti-  ipfam. dinem,mstendum effe fanguinem judicamus.,  Home,bf?  114. Áb 1n renum inflammatione in princt-  [«clam ve p15, potillimüm fi multa fübfit plenitudo, licet,  "a ^ ut dictumeft, mitti debeat fanguis ex brachio;  ^t? f &- prooreffü tamen temports ex talo mitti etiam,  "9 Fin poterit, bt quiin vicinis aut in parte confiftit,  ». evacuart, et derivari commode poffit. |  Reb. cobPRpVX OI clyfteres in di folent ad refrigeran-  lorarióu; C010, et emolliendas £rces, ex ptiffanà, violari  chiftesg malva oleo rofàt    dæra    ds    to, aut violato, fyru po violato,  fft Ypau et fimilibus, quantitate mediocres fint  ca quan -Xepletione fübjecti inteftini re  tfta.    t,ne per   nes comprimant.   IIG. Quam-  "    nguis: [iz  i^fü--M    i  we  Quamvisin principio aliarum inflam- J^renw  'lmaaonum mnateriam fli;entem medicaméto pur aj nne-  |Bante evacuari poffe aliàs docuerimus, quód ad- (14:9  fac cruda non tit materia, et dum fluit, revul- nod ut-  lione evacuau và à párte, quz ftatim eam füfce- 5,,  Jptura erat, recràhatur, ut in plevritide docuit 7; Hid;  dIfaciendum, dolore de(cendente, Hippoc. 1.40€.  Irzr. vicd 22 acit. et ain inflammadaone lingue Ga-  fenus t3. ME erb.med. in renum inflammatione,  Ki aliqua jam ad partem fluxerit, omnino abfti-  inendum, ne perinteftina fluente matcrià cum  limedicamento, ma9is renes exardefcant ; quare    principio    i iena: ^2 7    llcatfià fiitulari contenti, au tfyrupo vi a to folu-  lI:kivo, aucf lis;aut mixtis, aut fero lactis ex mal-  Iva, violai là, endivià, vel jujubis, fi evacuauone   opus fit, ad alias comp lendas indicationes de-  Ifcendemu. ; eorum enim etiamfi parsaliqua,in-  lIreftina Ri Wes ad renes pervenerit, utili-  acem afferetnon mediocrem .   117. Khabarbari ufus in hoc morbo, ut et in. rsfzzza-  Jurinz ardore, femper mihi fuit inipectus s et fl n5 rent  quando ab aliquibus in ufüm ductus eft .fem- r^z^era  Iper male ceffi ile vidixquamvis enim ap uüffimum "t »/» /2  fit inedicamentum adi bile m evacuancam, quiz Peas -  iduos hos affectus plerumq; producit;quoniam-   amen ob 1gneas pattes,q! ibus pollet, per venas  kiffundi videmus, et (ubfeque nter ad renes,  iIquód lotia crocea poft illiusaffumptionem often  Ilunt, merito fugiendus videtur.  118. In m: ERI hoc inchoante, licet ufüs re-. gs.    pellentium externé applicandorum conveniat; ;.F,  L| : ']  Rb 115 tamen, Lx nimiumimpensereirigerant, £55        cem da.    cendum . : A í nme  I) see, 120: Adidautem preftandum, licet qua ex-venum v, fiCcante facultate przdita funt, maximé inaliissii  lid? ef; Conventant, 1n renum, et veficz ulceribus 0«4  €dnt;,*, Wnthno fugienda fünt, ob mordacitaté, cujus oc-.  n[us ea». Cafione excitati dolores novam fluxionem con-   lus. citarent; quz blandé igiturabftereunt, et dolo-.]    io,    s$ refrige- abftinédum eft, Alexandri etiam monitu:quáme-.  vantium vis enim, cüm ex parte repellatur materia af-,  w/45: eti» fluens,& calor partis eftuans retundatur,videasd,  Princi vuraffe&tus mitefcere, et omnia fymptomatazsl,..  ""l5. imminui, quz tamen jamaffluxit matería, autt] ...  in fcirrhum vertitur, vel craffefacta indolentenm! .  quafi tumorem producit, qui proceffü temporiss]  fuppuratus ulcus in parte producit, et morbum)...    incurabilem .    De Renus ulceribus .    Viens ve-  aum cito    bus, precepto Galeni curandum eft.  ut fit maximé foHicitus Medicus, rit ulcus quim.  citiffimé ad cicatricem deducatur.    ad citatri    ris mitigatoria funt, convenient, qualis eft mul--Jt  fa, et fyrupus de jujubis, vel ex rofis ficcis, cum  portione fyrupi de portulacá .    L:Be im I2I. In renum ulceribus curandis, cüm &;  ronctden- ynl(à conveniat, et lac;nifi diligens adhibeatur]  do in re-  num ulce  vibtis qua  CATEO »    cura, et in tempore exhibitionis, et in lacte feliz]  gendo, et inillius quantitate, aut fruítra ccnce-  di, aut cum detrimento coenofcemus. In prin-  cipio enim, poft dift ptam vomicam, aut ulcus:  ab acribus humoribus excitattim,cüm ulcus for;  didum    1I9. Biautem ulcus fit excitatum in reni. :    à    ^?    i  didum fuerit, lac conveniet ferofum, quodque»  abftergzere magis valeat, quale afininum :zillud  vero ex lotio cognofci poteft, fi in. eo pus fubfit    copiofiim, feetens, et fordidum . V bi veró ulcus!    meliorem acquirit conditionem, ac à fordibus  repureatum fuerit, quod cosnofcemus; fi pusin    Urinaà contentum, album à et zquale fuerit, lac    Conveniet, quód mipüs abftergat; et trægis car-  hem producere valeat, quale eft caprinum. Vb3  autem ulcera expureata rité fverint; ut lotium.  non ampliüs purulentum appareat, tunc potius  lacus eenus conveniet craffius, mæis nutriens ;  carnémque gererans, quale eft: villv m,aut-bu-  bulum; in primisillis pauxillum mellis, autfacchari, aut julepi rofati,aur violati adjiciendum    erit:in poftremo minimum facchar, aut julepi  rofati, cüm levi quantitate tragacanthbz .    r22. Quantitas lacis neque vno inomnibus 55;    modo metienda eft. R atione loci laborantis,  multa conveniret, et potiffimüm fi ad abfterfio- |  nem exhibeatvr lac afininum, potiffimum fi la-  Qi veeraffuetus fit nec ex ejus ufü moleftiam  fentiat, libram concedemus: fin non affuetus fit;    q tta titat  t2 YCH UTD  tlceribtés    LLL    ab unciis quinque ve] fex incipientes, Pine    ad majorem quantitatem accedemus . Caprilfi  minorem femper qu antitatem concedemus, nceqr euncias fex excedemus, quód diutiüs in ventriculo cüm commoretur, fi mültum illius cen-  cédemus, aut acefcet; aut in grumos concrefcet ;  ob quam rationem ovilli& bubuli etiam mino-  iem folemus quantitatem concedere, x  od  De Calculerenum cum. dolore acerrime .    Vamvis in calculo renum curando ;  vbi dolores non adfint acerrimi, ea»  curandi ratio convenlat, quz ab  Avicennà, et Mauritanistradira eft; quámque. [uu  recentiores plerique fecuti funt ; » repleto ven- . jriti  triculo vomitus provocetur, mollibus clyfteri-. pus  bus fceces fubducantur, aliis itidem emollieng- f:  bus laxatà parte leniantur dolores, et fi quas . fau,  materia in intefünis confiftens., unde eleventur: puto  flatus diftendentes, abítereatur,& evacuetur; juu  mox emollientibus, laxantibus, et anodynis, S& fui  mitgetur dolor,dilatentvr vi ix à calculo diften- .  tt, quod f. mentis, inuncüonibus,emplafuis,& pi  id genusaliis etiam tentar dcbet ; mox conte- |  renübus lapidem, et eundem propellentibus  diureticis curatio prcfeqvi debet.: quinimo fi  Me: evacuarl ventriculus non pou perfe- AT, peros etiam ad fimilia preftanda exhibent [ir  iei fiftularis medullam aut per fe, aut ex levi  portione olei amvedalarum dulcium, aut diafe-  beften ron folutivum, aut diaprunum; mox ab-  ftergentibo s, incidentibus, et atem bed  aptecedentem,& conjunctam materiam ad evas-- f.i.  cuationem pra parant ; numquamautem ab in1--4t«..  tio folvente, et veré purgante medicamentoop,..  utendum judicárunt, ne aut cruda materia aboli  initio hon ptzparata evacuetur, aut deorfum  latalaborantem partem magis affügat. Quo«m.  niam inI3m tamen fepiffimé evenit in noftris hi$ regio-  nibus, et potiíffimumin m æna h ac urbe,ut et  nimium Genió indulgeant, multàque affidué  ingerant,& multis tententurà capite diftillatio-  nibus, ut ventriculu s,Inteftina;& venz mefàrel  urefertze fint niultis crudis humoribus, à quibus  per venas ad renes delatis adeó frequentes fiunt  «lolores renales, et podagrz ; qui nifi cevacuen-  ur, nequetutó anodynis üti poterimus, neque  Iconterentibus lapidem, neque eundem prop cl-  llenübus, quin nec diureticis. Cüm pretercà fz-  ipe adeó urgeat dol. r,urlongam illam curatic-  inem exfp c&tare nec velint &erotantes, nec pof-  fint, nec exp ediat ob collabentes vires ; Menos  Ifima vero illa lenrentia, vel lubricant; fzpi ffi-.  Ite muneriilluevacuandi materiasanultas, cráf-  iS,& vifcidas fatisfacere non valeant,fed reten--  la et 1pfa,:& per fe mclem augendo,«€ com-  iIprimendo dolcrem aueeant ; aut elevatis& ex  le, et ex commortàa;non ex pul:à materià multis  IHatibus, cenfeo fep iffime exyedire,medicamen-  out folvente, pro varietate materia benedictà  lixativa, dia phanico elec gv ario Elefccph, ele-  Ltuario de fucco rofarum, Indo,& finiilibus, ad.  .Ilità portione caffiz, vel du com amc]le ro-  [to fo lutivo; fic enim et crudas illas materias in  JAyentriculo, et inteftinis confiftentes, et fi quc  suntin primis viis tamquam caufe antecedentes;  Mrvacuabimus, eafdémque, X& fizniles revelle-  (fous, molem et fecum, et htmotrum in intefti-  dusrene s comprimentem, et doloremaugentem  immiLenitniia  fola ia cal  culo non    fufficiant.  imminuemus anodynis, mollientibus, laxanti-]:  bus, diureticis ; conterentibrs lapidem, et pro-]  am ftruemus . Quà curandi ratio-]  te,cüm fzcpiüis ad eos acci effemus;qvi nephri-4    pe lenribus v1    tico dolcre laborantes curabanter, priori illoo   1o, clvfteribu llibus videlicet, et bolis exx  InOciO,; C1 eribus mo hbbos viIdCilCet,c« DO IS CXI3  caffix medullà, avt lenitivo, avt fchs; aut cumul    portiunculà Hierz,medicamento folvente exhi-]:    bito,mocx anodynis, mollientibus,laxantibus,&j  lapidem propellentibrs adjunctis cito, et feli--  citer; cum mæná meà glorià ac invidià, cura--  tionem abfclvi. Cüm veró curandi hac ratic    rationibus lis nitatur, quz proximé enarratax] ^^    funt, Hippocratem, et Galenum,duo Medicined  vera Inmina, habet et doctores, et affertores; 654  Epid. Se&. 1. tex. 6. ubi poftquàm tradidit Hip:  pocrates figna, quibus nephriticus affectus coo)  enofci poffit; breviffimis ettam verbis totam cuj  rationem abfolvit, et juvenes etiam helleborcej  pureandos docet : et 27 Com. Galenus, dum.  unamquamque vocem varia praffidia medica.    continentem fieillatim explicat, dum de puri"    cando corpore agit, medicamento purgante-[    tamquam vecte effe propellendum.docet . Ned  que veró cruda tunc evacuare, et pureare dice    mur, contra przceprum Hipp.r. "Apbor. Conc  Bá medicavi, C c.coctio enim illa.de quà in Aphi]  rimo, illa eft, quz humori putrido convenit] in  potiffimum in febribus, cci coétio illa conventi  quz fecundo loco defcribitur ab Atiftotele 44^  Jdeteor. quam putridis humoribus    mentig | |    et exeredi ug mentis convenire docebat, fecundum quam bi-  lem crudam dicimus, et lotium crudum, tam-  quam fienum in febribus putridis: at cruda» s  qua alimentalem cocü 'nem (ubterfugerunt ;  aut P er inediam ad bo nam frugem duci debet ;  aut fi plura fint, quàm fuperari | poffint ; atque.   àcalore ventric "uli evinci, aut conco qui; ;quam- -  primum funt evacuanda aut t lenientibus; &ab-  ftergentibus, aut etiam,fi in venulis mefaraicis;  et altis infarcta fint, purgantibus; qualia hac   e(fe cruda cenfemus, quz in neph isis exubc-   rant. Neque vero | per evacuationem per infer-  naad renes materiam trahimus, fed ab illis re-  vellimus, et per inteftina ft ubdu cimus;quamvis  enim in tranfitu adfit vicIp1a.non adeft tamen.  con] ncl1o; neque periculum eftin tranfitu, nc    LA Í  noxam renes fentiant,utin rénum inflamma  tiohe in tranfitu bilis, quia neque hic inflari.  mpatio in parte c adeft, necne calidus eft humor ;    quimovetur,fed laboranti parti etiam füuccurri-  mus, inanitis inteftinis que ob repleanonemu.  comprimebant renes à lapillo undequaque»  compretios.   124. Incalcrlorenum curando, ubi acerbif-  fimi fuerint dolores, et ex fitu coznoverimus,  jam lapillm ureteres occu páffe, fi quis divre-  ticis tentaverit calculumà loco dimovere, 15.  mænum (ie pen umero periculum zerotantem.,  deducet.nefcilicetin urinz (uppreflionem eum    ] ] » »- r1, » ^4 p»,47,  deducat ET oruente afk t!m ad Obfiru ctum 1 lo-  Clu1n lot 10 5 e fcp c culi arenulis " fz lus Cuts  T5    R craí$à,    Diuretica  ?roprafe -  "aAtione   calculi f«  pé "0XIA «  crafsa,& vifcidà materià . Quare prxftaret runc  emolhentibus, et laxantibus decoctis uti;cx ca-  ricis, malvà, althase, et maálvze feminibus,femi-  nibus item frigidis majoribus, liquiritià, juju-  bis; febeften paratis. Quód fiad pe netrationem  aliquid diuretici: addere voluerint in pauca  quantitate; non repugnarem .. Ad. qvem ufim.,  etiamoptimum^femper jidicavi olei m amyg-  dalinum dulce, ex levi vinialbi tenuiffimi por-  tone».   125. Commwuni feré hominum confenfu re-  ceptiim eft, proavertendis, et pricavendis do-  loribus ex calculo, et impediendà lapidis gene-  ratione, ex Men bisaut rer1n menfe diureti«  cum aliquid a(lumere, ant in fyru pl longl, aut  julepi, decocti, aquarum füillatitiarum;aut ele2598    étuariorum, aut pa dvifculorum formam, quo  materie, quz indiesin renibus agercegartur  paulatim expellantir, et abftereantut, necaloreaccedente renum indu rentur,& ] lapidefcant :  quod inftitutum. ut omnino non eft imprcban-  dum;fi cum rauone fiat;ita quàm plurimis per-  niciofum effe folet;(i enim ab homine continen-  te Ó aticoopbiiil rimaffumptionem leniens,   t abítereens medicamentum fiimptum fit;  uti ditata afferre poteft. Atí1 cule 1s deditus    fit; aut cruda mvlra in primis viisæerecare foleat, vt folent majori ex parte Ape æ et cal-  culofi, tantum abeft; ut illorum a (fumpt t1O €os  prefervetà calculo, ut potius frequc  illi przbeat occafionem, et fepe    'nüorem.  etiam 1n füppreti-  x    ANIM ADFERS. LIB. VII. 259    | preffionem ur in: deducat, et graviffimos alios   | morbos, &f [ymptomata, deductà materia, quie  in ventriculo erat, et in primis viis, ad vias  urinc.    126. Cüm quàm plurimi pro lapillis exre- T/;:";    nibus propellendi s aquis 'Thermalibus utan- les    tur, ut illarüm ufum aliquando laudamus,cüm. cur;  impaócti nimiüm in renibus fuerint;necaliis ce-. caleuL    dant remediis;fic enim refrigerats illis aliquà- /*    do dehiícentes locum cedunt Ja ipidic commoto, €&4*    quin et quantütate aqua pro] ulfüs aliquando  deícendit; ita rarius eedem concedenda erunt,  quod de deb ero batiteli ad locum lapilli d  fepe etiam morbus redditur contumacior, et   liquando ad füppreffionem urinz omnimo' ? " lo " 7t* 111"  dam per illas egrotantes deducuntur.  Lsatid is E22 5  De lapide Vefica..    127. Q' Cioe2o, et antiquos, et recentes fcri-  iJ ptores infinita propemodum, et fimveficà; at horum auctoritate etiam ício quàm 7/2    plurimos ærotantes in perniciem à Medicis ' ts  nimiüm credulis deduc bos Æ grotantes cüm ex /?*    lapidis per incifionem ex tractione quàm P ;luri-  mos mori obfervent, omnia malunt prius ex-  periri, quàm cenus illud carnificinz etiam pe  riculo "um Medici partim experientia deftitu-  ti, promiffis fcriptorum adducti, et fpe przmi  ob avaàrit iartiall Cii, curationem pro trahun    AK 3? cmnia    vlicia, et c mpofita medicamenta tradidiffead czeztu:  comminuendum, et frangendum lapidem in fzz    Lapidis in  veftca a-  oatca cura  2/0,EXIYAde    f    2 P ^  4519,    LVD. SEPT ALII. MEDIOL.  omnia experiuntui ur,.& denique aut fpe defrau-  dati,aut]am curationi füccumbentes, ;tandem  non aliam fe viam invenire curandi, quàm pe  fcctionem, profitentur:fe fed interim zeer crume-  nl exhauftà, ob dolores ; et vieilias confumptis  arnibus, viribus vitalibus etiam. ob v1 igil as  CO! ifi imptis, exará lefcentibus renibus, vefica, et  vrina ipsa, ta pcne mirror hanc  curationem confentit, et eam etiam ob rem ma-  jori ex parte moriuntur diffeéu . Quare p  ret ab initio.    115  Lca4    13 etia 1n in    vp(ta4  Lc, dum vires vitales v iced COr-  pus adhuc car: Yofum, et fucci plenum eft,dum.  veficaadhuc mucosà materlà veftita eft, non-  dum aut perfric atione l: apidis;a utvicalidorum  dicamentorum, et acrium abf ería, unde»  Ó acerbi funt; dum deni-  dum ad magram molem ex-  Crevit, Cul hanctentare, yop timo arti-  fice electo; qua les hoc temporea aliquos excel-  lentes cogno fcimus ; cüm enim prim 1s etatis  mez annis plerique ex hujufinodi curandi ra-  ne per (ectionem interirent, triginta abhinc  nis eorum major pars füpet ftes evadit, co-  rum, quià Ioanne Acorombo no à Nurcià paores non adeo  Is non    itlO ne ln    S    Lo  &, 4    tre, jam hocannowità functo, et Ioanne eA nto-   nio filio curati fuerunt. Quarum A rom tan-   qua minftaromnium hiftoria mp ul chis errimam  hoc ; » co réfatoe utiliffimum effe duxi. Comes  "un roius Ir ite Senator, et Equ es, bona-   rum Td rarum patro nus, cum fl rangu rià p   à liquot rimnen (es 1: labo xratfet Hs in canali urinz rio    Ccarneuim    ert    ANLM. ADVERS. LIB. VII. | 368    carneum aliquod impedimentum perfenfiflet ;  inillud omn E moleftiz caufam referebat;ut la-  pidisin vefic: à,quantum pofl et, fufpicio nem.  declinaretme femper reclamante,& maximam  la pidisin veficà concreti fufpici ionem fubefle »  aflerente .. Cüm antem aliquando ad ameniffi-  mal m Sancti Flo rani fuz ditionis villam fecef-   fifl c t.in eraviffimos, et acerbiffimos dolores  incidit; qvi cüm per quadraginta horarum fpa-  tuum fine intermiflione p 'erfeveraffent, citatis  equis ego accitus fum, et cün : omnes fübeflenc   note, quibus pertu iaderi poteramus, lapidem.  icà, faltem prob abiliter,cüm nullum;icnum path ognomon icum lapidis  1] fi seti ad vrbem remigraret, ut  certam rei hvjus habere poffemus im miffo cathetere coonitionem. Advenit,fed càm carun-  cula impedimento effet, ne catheter in veficam  immitti poffer, priàs auferendum fuit impedir  ?|    (1  i  l    e qerwer m Qs d disas, e orsa sibisie att ndr cA ai X zi:   mentum, « fttata catheteri via,cumque a peri-  Á   *( 2» Avr11l  In M (leo Te invoentnue : d   L c 1i L1CC 111 n 1111 S €elicts lapi ;ilVCHLuLuS5CcILt.    C)vrarect | nità, utaliauando fe ab acerbiflii  n 13    i ^3 ui : le  CO! ril us eximeret vir clarifiimus, omn1a qttra-  prit;um paranda cenítuit, ut ad fectionem veniret, expurearemus nos corpus,dixit;ic animum.    ' /^1 "^ 1; :  vIVPITOATMTDI:1».230C 1me011 I r11 113360 101m  L1 C [1 A17 at Li C |i N hlliüan ) 1C 11 Ine»    C   dienis firmaturum, et teftamento de rebus fuis   difpofiturum . Nos diem felieeremus ad placi-  E |   -, fe1 10.c die ftatul c1 e (1 nibus pa-   ratis accederemus, fe fcmper paratum fore».    Oni IDUS I1(C paratis a CCCOLIIEL $S,alacr1 aniino, f16Sq  ^ 113    262  LFD. SEPT. ALII 7MMEDIOL.    nos excipit, et nosadopus adhortatur, et fe »  omnia intrepidé paffurum profitetur: fit fectio,  nulla vox querula, nullus ejulatus; adhortatio-  nes folum ad artificem, ut intrepidé negotium.  perficeret; unus primó forcipe extrahitur lapis  magnitudinis magnz caftanez ; alium adhuc  füpereffe extrahendum artifex profert : ne du-  bitet, extrahat ; iterum adhortatur : (ecundum  extrahit, tertium; quartum, quintum, et deni-  que fextum ejufdem magnitudinis, fpatio me-  die horz; nullaumquam querela, nullus eju-  latus, celfi animi omnia indicia, (ola poft actio-  nem Deo gratiarum actio. In lecto repofitus,  refectus de more, omnia bene cefferunt, nulla,  febris fupervenit;nulla inflammatio,nullus do-  lor ; fomnus poft tantas vigilias (uavis ; ulcus  iermino quindecim dierum pro medià parte  optime ad cicatricem deductum; ecce cà die fu-  pervenit febris vehementiffima continua, nul-  là occafioneà vulnere habità, quz adeó ardens  fuit, introductà etiam hecticà febre, ut brevi  temporead tabem,& extremam ficcitatem cor-  pus deductum fit ; in quà adeó carnea fübftan-  t11 confümpta eft, ut etiam cutis exaruerit, ita  it extrema cuticula 1n corpufcula furfuraceas  per omnem corporis ambitum diffolveretur, et  excideret; cutis autem vera tamquam ftorea to-  ta fiffuris diftincta confpiceretur, et afpera, du-  r3, et ficca tangeretur;ulcus exaruerat, et labia  in calli modum exficcata confpiciebantur,nulla  amplius fanies, nullus ichor promanabat. Et  cum res fere cflet ccnclamata, refpectu ad  has res habito ; nulla fpes falutis fere fuperetle  videretur, cum ali qui vitales vires adhuc atis   valiiz confifterent, ezoq; humceétantibus, et  retrigerantibus calori febrili contrairem, et in-  ftaurantabus naturaleni calorem foverem, tum  humidum fuübftanuficumoptimis cibis repone-  Moueynlstiginn fe prcma Meine qa  tiin acerille tebrilis calor dafinbpiie ctio cta-  quanto À lior reddita eft ; et quod majorem,  parere poteft admirationem, majoremque ía-  luusípem Vr mri onec rece  pore aridum, et quáfi callofum, 1terum recru-  duit ; dolere aliqi peuleumb itai micéptii-  pem emittere, mox ichorem; póftaliquam etia  faniem, deinde per te, nu] adhibito przfidio    exierno,1ta convaluit, ut ad |  | fanita-  tcim fit reftititus, anno aatis fu: xage Silio    rertuo,cumadl:uc octvæena RENE.  vat,adeo litteris deditus hac etiam atate, ut  perpetuo fcré in inftrucütlima fi à Bibliot theca  véerfetur, perpetuo etianz cum mortuis v1vens    Ccolveéctari videatur. Admirabilem aliam fortafle hiftoriam, n  propofitum, fi  "0 amí, | l EL » T3 ou^ Ins^3   recenfeam. Nobilis Henricus l'eccnius;  Roeetsferidiodshenito viet ft Aoid    ribus ex lapide in vef'ca eflet corfitctatus, nec  umquam curati rem pcr exiraéilonem admi-  fiffet) cim acerbi(Timis doleribusanoctretur, vr  fatius moricerferet, avàm huj: fime di tormen.   rpetuoóaffiig1, cumqueextractum proxi    Á 1n  mé lapidem trium unciarum feliciffimé ab Il-  luftri viro Cefare Pagano fexagenario obfervàaf-  fet,à quo ad hancadmittendam curandi ratio-  nem proprio experimento erat incitatus ; tan-  dem me accivit ; qui D. Pagani curationiadfti-  teram,feomrninoexperiri fortunam füam etia  inillà atate velle ; et fe autabacerbiffimis illis  doloribus eximere, aut ut fortem vitüm mori »  profeffus eft ; càóm uridiq; anguftias fübeffe cer-  nerem, quód pauciffimis diebus cum tot ; tan-  tí(que cruciatibus, vigiliis,& virium viralium»  imbecillitate füpervicturum obfervarem ; eaf-  dem tamen vires imbecillas, ztaté jam effetam,  et mænitudinem lapidis tanto tempore auétà ;  illi operationi repugnare,anceps, et animo du-  bius, quid confulerem, hzrebam tamquam 1n»  falo, et tandem fux voluntati totum negotium  commifi. Oui tandem omnibus expenfis, de-  -revitfe huic curationi committere. Excifus ;  et extractus ab eodem artifice lapis feptem un-  ciarum, et drachmarum quinque ; et quamvis  per loneum tempus vulneris curatio tum ob  mænitudinem, et dilacerationem ; et angul-  nis multi in grumos concteti in veficam colle-  &ionem, tum ob «tatem, protracta fit, conva-  luit tamen poft duos menfes, et per annum»  etiam fupervixit; felix eo tempore, quód dolo-  ribus careret, quibus per tot annos fuerat con»  flictatus .  p '", 4*4 /3« . * e » Q 115  [ 10 fluxu et c st gin » e curando Medicos video à rectà vià aberrare,ut necef129. À  Deófepéin feminis hocinvolunta  3 i    farium fit, aliqua etiam hac in re annotare».  Cum autem morbus 1s ob varias externas occa-  fiones olivenire (Gents et ex congreftu V enerec   Íacpenume ró communicetur, c Fi di    iP eüsmaridum erit, an ex lue G.; oricinem    duxerit, an potius ob exceffum 1n "c" Cta,an ex   congrefiu cum muliere eo morbo laborantes;  e Ci | I] ^ X1* 4 11 11   fine fufpic nc Gallici morbi: fol t enim eti21n»o    communicari 1$ morbis (ine Iue Venerea: diffi    bro artee    4  !   l    »  ?    12?  e bw    de 9?    C &fs    Gonoybaa G ] lica n8 fla  f«pbruneda .    7    Ganor-  rhoi mtt-  fatur Dm  f uxum    2! DI) e    (5 2220Yy-£&a altauando minalia, ut tempore debito femen contineant,  ex continuo enim affluxu partes ille ret rtz na-  turà adeó laxantur; nt diutiüs duret fluxio illa  ob illam folam caufam.   129. Vndeetiam, cümex diuturno feminis  effluxu acrimonia, et calor materiz refrixerit ;  [e penimacró decipiuntur Medici, refrigeranti-  busin eo cafu utentes,cüm excalefaciendum fit  aliqua Vea femper autem adítringendum : in;  quem ufüm ut fiepé foleo decocto ex ligno len-  üfcino, aut ex ligno cupretli, aut decoctione  maftiches, et aliorunrex aquà chalvbeatà, aut  mincr. ic 1s aquis ex ferro .   . De cipit v eró et fepe peritos Medicos ;  q: id. cümab initioab externà aliquà causa ex-  calefaciente, et lixante 15 morbus inceperit, ex  longà auté fluxioa e fpiriibus multis inanis et  malto femine evacuato, et corporis habitus í It  refrieeratus, et multus humoraquofüs, et fri-  e1dus genitus, mul Aq; pituita pr« ducta, cum.  in primis Illis remediis infiftant; omma in dete-  rius ruant, et aneeatur fluxio. In quocafu teme  perad contraria erit tranfenndum,& iis n ten-  dum Lec en faciunt, et ficcant cmm aliquà  fubadfirictione ; 1n quem ufum co    coctum cx Giiajaco, cum pa rtione igsbenæe 1fcinlut 1n nlperi, aut cupreffi;aut maí ftiches: nno    verbo dicam.;ea omis curatio etiam conventet,,  qua prafcribitur mul  laborantibus.    "^    veniet de- Bu    ribus albis purgamentis:f    i   De Menfium [uppre[[ione, -diminutzone .    | 131. T infüppreffis menfibus, ubi fan-  guinis miflione per fectam venam.   | opus eft; (emper Galeni decreto à venis crurum '  evacuandus eft, lib. de cur. rat. per fang. m.  cap. 11." 18. itaubi hzc c eadem fuppreflio cu-  randa eft, cum magnà fanguinisabundantià, in  dubium verti video, an hzceadem curandi ra- btts i  tic ofequen da fit, afferente Ætio ; /;b. 16.cap.$7-   | prius extrah« andium efe fanguinem ex cubiti  vena, mox veró ex venà tali, neaffatim ad 1n-   |ferna ob copiam irruente fanguine, magis ac   | magis venz uteri repleta bítrüerentur ; ;quam  opinionem, tamquam etiam à Galeno non dit-  íentientem ; fequuntur Altomarus, T rincavel-   | lius, Mercatus, &alii multi. Mercurialis au- al tve vitcho.   Item, et Maffarias, etiam fümmà prafente pleinitudine;in fuppreffis menfibus numquam cen-   Lfuerunt à cubito mittendum effe fanguinem;fed   tfemperab infernis,quód etiam per illam fectic-   knem plenitudinem tolli poffe cum Galeno cre-   iliderint; et fi qua fanguinis copla per venas ute   Iri fertura fupernis artracta ; et am per eandem   viam ad inferna attracta evacuetur per infernas   lMllas venas. ( rediderim tamen ego przeftare, dum; Vene. -   .Atibi plenitudo ad vafa in corpore acervata füe-   Iit; illius habità rationc, primó,antequàm füp-   IprefTi lonis curationem æerediamur ; fectà venà   lin cubit ) 5 illam folvere,In1OX VCIO interpofito    | I "  |    * vrbs debito tempore, fectis Aids tal   firppreffioni menfium opitilari ; et cüm prima  illa non fit facta ad curationem füppreffionis  menfium, fed ad folvendám plenitudinem, hac    O ; conveniet    "vao    Ga Í one operi inrenon repugnabimus Ga le no cenfenti,fem-  c    .f47 He.  1 (La jw" £/7€    perin fappreffis menfibus curandis fecandas ef-  fe venas crurum. Æit tamen non placet fenultio e tentia, quem alii recentiores (equuntur;cenfen2e21i2 Y€f N tis,primó mittendum effe ex cubit nsnnen ls  "M / .  ; mox ftatim ex pede, ut per primam folvatur  [ec Ir'one k   7?)    cr prir  vera is plenitudo, per fecundam, fi qua ab ute ro ad fii  menfibus perna facta fit pet primam evacuationem re-  fasrc[fis. tracto, iterum ad confuetam viam uteri retra   ^hatur; fic enim et habenas equo retraheremu  et poft calcaribus ftimularemus, cüm fieri Gof-  fit,ut m M Mie fecta vena füperiorad impe-  diendum, quàm altera inferior ad promoven-  dum m. MA uas pureationes.  Ven: fe- y22 Si avis qua traduntur à a Gal. Zi ). dc ..À  Hoi bra- cur. vat. per fola "m Yenam cap. y6.ubiin Biden fe-  Pens Clodi M talo. pro curatione füppreffarum pur-  sationum menftruarum, tempus folitum, eva-  4 €uatio nisilla rum effe obfervandum docet, atq;  HI J^ pertres,aut quattior anté dies effe evacu andum  s fimguinem, dilige enter confideraver hi facile in1b  1  I  l    *    22  n    Iecov- 2 elu æ, tellioet, 1 1bi plen tudo talis ad vaía ; n c«( X rpore 1  Coah doped 11, quo fuppreffi funt [ibit ci i, non effe  TTL TAM Yam exfpecta midst) npus purga tionis folitum adl  'Vacuatione cubito faciendam : tunce  NEN 7 PY € cuati CImnocx to faciendam ; tunc enim    ) Oo    CAL V.        . "» " T .  ? ^ ( iupnprettiol adillyaremus « Ineaincomtnnw«  Ubpreitioneadcj;uvyarcinus, ecin vLincomÓos-  VOSR 1M. à |] M CL    i 1^5  «a 11 1    et avocaretur in contrarium fanouis, et potius H.    ANIMADVERS. LIB. VII. a69  da incideremus, qua d Ma rcuriali, et Maffarià    proponuntur; fed iliud przftandum erit in medio menfe, poft decem, aut quindecim dies    Z    termino : fic enim et plenitudo tolletur, edm  confuetus motus, cüm eo tempore nullus fit,  avertetür. eia nj uu aulus ZEeineta 1ntelle-  Ti juod tamen intellexiffe vix  fieri poteft, efie quid illiin mentem venerit,  hoc morbo cu rando dixit, non efle fecan  im venam ante prafnitum menfium tempus;  d per dicet. dies poft.  n promoven« is menfibus diminutis ;    licet preceptum Gal. /zb. de cur. vat- per [ang.    995i [[.cap. 19. maxime mihi probetur, ut per tres;  aut quatuor diesante tempi   fanouinem mittamus ; y Penes tamen expertus  fum, mæis proficere, fiftatutum tempuz pur-  eaticnis finamus adventare, 32 ibi diminuté  operari vide  povenuni defabiiair: of Pass evacua-  tonem, veríus finem motüs manus adjutrices  porrigemus naturz, et motum illus promovc-  bimus,ut fimul cumpaturà defence totu1no  opus perficiamus, juxta Galeni decretum 9.  po i" MEC ed. Ó hac dere «eh fentiant ;    "    quunt,aut maxi1i1no timcre c íectione vene ten-  tant vi) moms tse endo pcríeccrtam venam  » 11 1^ " 94 - ; t1f1 17    in talo;per er tres,.aut qu. |LULOT gi1es ance ænnituig    NEN "WO Kid a Je Doo "ve    p ^  "X4 £x Decio 7 MA ee fe yw Kt,    4uA 40 €^ € € .    ^to.    [WP AT  Vez IZOHS  J  dimuirttis  | )Y0?A0-   i  ^ * f  -,F£ "  Len   Ü. 90 65  *v2t   !j L],    ;;0- illud tempus, cum Galeno ; fi enim fluente fan-  cuine fanguis mittatur, non folàüm non promo-   vetur fà inguis menftruus; fed ex animi deliquio,  aut timore ita fiftitur, ut amplius per illum ter-   "t minum effluere non foleat .   Meis  15$. In promovendis menfibus (c&tà venà in   pn qrom* exqu, femper praftabit repetitis vicibus,bis;ter,  Fu - s aut etiam quater fanguinem evacuare, quàm.  vs os: unà cvacuatione fol totum negotium abfolve-  [5 -  re:fic enim melius fanguis ad motum incitaus mi«-  $27 tur, et fepius motus facili üs ad fluxum invi  Sechto ve- tatur.  lossqézsexialo  136. Placet magis füb noctem ex pede fan-  Lex inh. volue fot guinem detrahere, ut ex affiduo motu ; aut fta-  fab mo- tione et humores facilis defcendant,& ex mo-  PREPSURCUUNQ QE attenuati faciliüs profiuant.  fob ixi: : 137; Per duos tamen, aut tres dies ante ab-  W- rof luantur crura. ex decoctis attenuantibus;& aro-  dfricla. 4. ant X. matibusafperfis, et mox longà fricatione deor-  * | fectionem  - AV uon € cuini ;  | Li onda I 5$. Faciliüs etiam fiet voti compos . fi ante  cx ialeti« hecomnia,aut diebus prepara tionis exercitiis  2 dere 4«- ytatur aut univerfi cor poris yat inen par-  éet CX?rC! tium infernarum, maxime autem | ]jumborum.;    f    /  fione fan aut fanguinem ejufdem conditionis obftructio-  nem inutero facere cognoverimus, priüs fo:    culis ex  »]    ;  zai0 oven    yuln    ' |; regio Tnentis, X emp laftris reeioné uteri fovere; quo»    fum trahendo invitetur fanguis ad fluxí9nemi[:  adinferna,44 artenuentur humores mixti fans-B:    DW 74 139. Praftabit aurem etiam ante fanguini: 1  PoE/14- 221]  : miflionem, fi craffum, et v iícidum humoremo.Jnm    ANIA ADVERS. LIB. VII.  l'rum materia, cüm provectioribus hzc fcriba-  | mus; tylva autem prafidicrim apud fcriptores  reperiatur paffim, et fit extra noftrum pro po-   fitum, apponere non opportunum effe cenfui-  mus.   140. In decoctis menfes promovertibus ex-   hibendis hzc adfit animadverfio, ut 1llcru m.  jmagnam quantitarem concedamus, ut integris  viribus ad uterum pervenire poffint; atq; n« n.  tolum fanguineman venis exiftentem craflio-  Irem attenuaxe,fed et eum, quiin utero 1mpa-  ctus, et cbftrvens, impedimento eft fluxui, fe-  cernere, et fübtilemreddere.,    271    De    lAI. Q    Fluxu zeen[iruorum immodtco .    Vemadmodum in fü ppreffis menfi-  bus, dum repetità utimur fanguinis    fep endn e emaul yn. A leg    evt 1x .    Méfes pro  7200€2114  per os fint  2 mmulta  quanti    1216    [n f ^ n xà    nie fium    mifflicne, dictum eft, praftare », PR    mon eadem die 1llá repetere, ut modico illo tem  li peris fpatio imminutà materia, et o1iis interpo-  Mitis et attenvanribus, et attrahentibus, natura  JMmeliusaffuefcere potfet ad materian n per illa  jf partem de more evacuandam : ita é contrà m, !  hr evulfionehacab utero per fupcrras partes bis,  | et ter eadem die rep ctendum cerfercm ; qvód  h& cevacuatio fanguinis vreeat ; et retractà qvà-  primum materiá, fluxio citius fiflatur,neg; tcm  pus Intermeditim neceffarium fit conc dti,Uut  lun Pp) reffione, 2d parandam materian    2. ]n hoc«    medi    0 fangut  "i$ mio  epe !iia   7 F att    a MP d E  ACCQ AA    ifectu video multos vereri i fum :  medicamentoru E folventium, quód "- fum  digpé'ty latus humor biliofüus, ac commotus, unde faépé  gandum . is morbus provenit, ad uterum etiam fet ratur 1  aut compreffion ne, quz in regerendo humore fit,  venz dehifcant magis, atq; magis profundatur  faneuls: quoniam tarnen per eam partem eva-  cuatio aut revulfiua eft. fi fluentis ab hepate;  autàliene, velà toto materia motutm confide-  yaverimus; aut derivativa,ubiautactri,& cali-  do per admixtionem bilis fanguine fiat, aut à    illámqué revocare à .parte;ad quam fluit.Quod  ompreffione mufculorum ventris inciderit,   cüm breviffimum fit   et humoris irritantis evacuatione,    ^    Á    egpen [mnt REIN "entium aliquorum.    fFriclimr. dici 1 ; quia,et fa dftringentes aliquas partes hadatum,    fcrofo, aut psi jc )paümum femper erit, ex-  purgato ab use nentis f: inguine, minüs fuz qu  xilem reddere, mini (foli acrimonià irricantem, f    hs iod incommodum ex motu eveniat .autil  ilo  sueiusibot et revulfione y^    | Midica- | 143. Sint tamen n medicamenta hc aut per]  | spenta tz- fe cum aliquà adftrictione; aut adjectione ad-4    n aü- 4 R hab arbarum ín hoc cafü fugiant Me-]    |  i  !    [  r^ abat- beat: potiffim! üm fi non multüm maturum fue:  62 7 7 vit, quoniam tamen, inquam; tota illius folvem  | fup. [lis di visinieneis et tenuiffiriis partibus pofita Jii  Cie eit. qtux facillime venas uic cd c etlam  ! faneuinem fuo colore tingunt;& eàrationeacu  tiem illiaddunt, et calorem ;càüm tot alia ; 8X  fi nplicia, et compofita fup erint, fatius fempe |  duxi abillo abftinere ; potiffimum cum ab alii    lic, cüm ei, quz aut -i icraffanti facultates aut 774//22*    lipEniraspropémodem mulieres ab hoc morbo    Incmdton. et facillime P: arabile. Recipit àutem Gor deme 4. iy    datvm, obíervàrim, multa in hoc morboattu-  life incomimodao.    I4$. Poft hujt re remedia ea ratione fa(a Pire feri b rdaxitbe corveniant;unumanr pre- /,  (ena cnirtema iato Bodo effe cenfiisquo "^    di ;interfecreta "Jn udo refe rvattim.  clefcehtibas ; áui fub noftrà tütel: id  pPraximi me K Am addiféendàm exercéntur;etia  Icomimiimicatum nb&hcomhníbus;ad communem  Hiliitenm cc mmune iit ;Qquo feré& nunm-  iquam friftra ufus füm,modo exulcerato aliquo  vaíe in ütero fluxus as menftruorum aliquaiu.;  kon habeareccaficohem-: eftautem omnino eva? ^  aqva libras feptent; 1n'quà 1ncoquo cortüces    lerium aurentivm acidorum ; aliouanto adhuc  fiubviridiom,'&i1llas in philyras incido ; et exiccanoàd duarum pártium confumptionem; et  factà colatrri, vhicias novem vel octo potanda    Imane dé: euod fi vay medicamentum paliorebiccirf:m volo;nunrpalum herbz pilofel- 1 31li«c    . £g *1 . E 11  like 1n fne exccquendum addo : Ines adhuc    redditur; fi ie aqvà Villenfi decoctio fiat, aut fi  in octo "Hbris aqui fiat? vbi duz terti? partes  pér coctiopen abf mypta fverint,& excolatumm  ldciimiyehalybetdito ignito fepius 3 PUT   713 roborettir.    Boethi u-  xoris albo  profievio  laboratis  biftortec o  explicata  et Gal.lib,  de praco-  gn. ad   Poflbu22H?7 «    az De albis per uterum purgamentis.    146. C Vmillud mihi femper fit perfuafum, | |.  | in hoc morboeaiterum non laborare.»  per fe, mifi cüm ex longo «lefluxuetiam pars ea;, 1;,  aut laxatur nimiüm ., aur refrigeratur, aut; jy,  cetiamaliquando ulceratur fed vel à totocore. f;  pore, aut à ventziculo;aut ab hepate; aut eriam. |i  àcapite materiam 1llam transfundi, laudare.»  fatis. non poffum,quod Galenus //b. de -pracog.ad  Poflhumurz, maxime necetfarium, effeduxit; ut  aut totius, aut partis laborantis,& tranfmitten- | |.  tis rationem habeamus ;.nec fufficere humores . |...  divertere, et evacuare et per alvum, et per uri-  ps, ut fecit eo loco. Galenus ; qui non folum...  diureticis, afaro, et apio, et hydragogis ufus]...  eít, fedlongà, et forti fricatione, ciun non abi];  hepate, aurà ventriculo tumor ille ventrisinfe-  rioris, et fluxusaquofus per uterum originem.  duxerit, fed ex refrizerato nimiàm,& humente:  habitu corporis, et potiffimum carnibos par...  tium infernarum,unde per longam, et validam;  fiicationem, et fimplicem,& cum melle cocto |    EUR. »    "e    .non folàüm revocabatur ab utero ferofailla af].    fluens humiditas ; fed incalefcebat habitus cor--J  poris, et ira ficcabantur carnes, ut (anguis adi];  appofitionem, et renutritionem tranfiniffuss]  non ampliü s recrudefceret, autin pituitam, fe--] .  rofümve humorem abiret, fed nutrirer,sícque |.  optimé nobilis illa matrona convaluerits nona,  Jguur [^    'J vocare «Quod fi af    ANIM-ADFERS.: LIB. VII.  Igitur oportuit alia etiam adhibuiffe, et exhi-  buiffe prarcr ea, qua tradidit eo Iibroad aufe-  rcndam intemperiem à tcto; aut parte, üt cen-  fuit t doctiffimus laffarlas meus, cm non alia»  labcraret: unde excalefaétà; et ficcatà par-  t€, ne denuo m aterja e enerayrecur, faris fuit;ges  nitam et peralvum, en perurinas ab utero re«  '0  &apioufus eft, ad du-  cendam materiam " er i mofadd àm,qua tamen etia    27$    4| perm,enfes, et uterum folent evacua re; ncn vl"A    P    * f detur mihi reprehendendus;s qui nt và cencra| rione humoris inhibità, rectà victüs ratione;   | potiflimüm pottis parfimonia,iX füblatà intem-  J| petieà parte laborante; nó ahud habebat;quod  | faceret pro eàcurandà ; quàm genitam jam a-  | quam evacuare,& à partéad quam tota fereba! div reticis    »     tur, derivare ; nempe hydræoeis per alvum.  per veficam, et iis quidem;que fimul    menfes prolicere poffunt; qualia effeafarum,&   apic m docuerat 5. C $ xfi med. facul. ^ut  etiam fi qua excrementa picultof.  | uteri veris, et utero 1pfo    i ferofa in,  rent;aut ob craf-  fitiemretincrentvr, neaut corrumperentur re-  tenta, aut iptcanperiem 1n utero 1nducerent,  tandem etiam quamp rimum expurearentur,  147. Ex quacvrandiration e illu d primo col-  ligendum eft, ncn hac 3" làin cedendum effe  in curando fli xv mulIicbi    ahbà enim và 1ncef-  fife et alios Medicc: n. cmanos,& Galenum  ipfum, ex Hi    Medicis anuquvis dcíompt    refide    pocrate, et optimis qvibufqveo  à,Cccnftatex cap1teo    $    à illo:    Albg bro.   fiii fa-  bé CHYAV-  dut  vtría ra-  Moe à    di    tradita et    », ls l;b.  de pr&cog.  ed. Pofl bu    322/4772 .»    lx arena  yanarina    fepe: e  2nalum,  £9 contra    G a.    Albi bro-  finvi vc-  YA CHYAL-  Ai TAL.illo: mutàffea item poftcà Galenum fentétiam;  poftquàminundià ftomachi regione. ex unguen  to nardino precordia perfenfit frizida,& humi-  da, ac mollia; ncn fecüs quàm lac coaguíiatum ;  nondum tamen in càfeum concretum ; ut ex hi-  fori illà tradità Zib.de pracog. ad Poflbusmum.»,  eap. 8. colligia   129. "XN etroris 'arcuendi. funt ; qui  piocurando eo moi rbo ;mulieres in calidá ma-  risarenà fepeli endas ex Ga leni. decreto cenfent;   cim tamen Galerius fateatur aperte; et ce tcros  omnes d C feipfum non firié errore hoc  remedium attentàffe: ut magis ii finr. deridendi;  qui etiam in divi arena Soli aftivo nudas  mulieres exponentes, ac deméreerites ; tentà-  runt mbrbutá huncevincere.   149. C urari igitur poterunt fim iles ur orbi,  derivatà, et fimulevacuatà materià per vias fe  cefsüs ydrago?is; diureticis per viàsu rinz,  eo modo, quem docuit Gal. cap. illo o.de pracog.  ad Poftb. Inter hvdragoga noftrotempore pri-  mum fibi locum vendic at Mechoacani kann  fialiquaadmixta fit bilis; £x Jappa,tum ola    Q    tertüm cum pilu lis ak epha iginis, fuccüs 1reoss  potiffimum, f. Bie I? decoctum; et    Pa m aj  fylv 'CitI1S  14    )a- 541-4 44  Ixt il« LI    t (imilibus«    alia.aut ex 115:2* . Dofita.   tiffimum witbid, &'prafentaneum remiedium  funt; aque T bermales falíz. vt T'ettuciana ; et  fimiles, quód per vias fecefsüs hunziditates de4?    " Do v .À d S S asi es AUI FEMA ^ M.  ducant. Tot ner hanc viam naturam attuetcat eoi-  cCrC. Incafi lium tam een haco n inl daa    fient    dem tranfimitt   y77  Gent, nifi partis cenerantis hos humores ratic-  pem habuerimus aut, ftà toto eenerentur;to-  uus; propterea, in ufum e. CURED dug intem-  periem partis aut touus tollere poflint; puta»    EL: | e MN wd  fi frioe1da et humida fuerit; quod 1a pius evenit;    -  je.    aut ventticuli,aut hepatis, aur toti s,excaiefa-  cientibus,«& ficcantibus conabimur evinccre ?  commodiora autem hazcerunt, f15ü88nrhoc prc1-4 331311 " ; (^v  1taàlnLls 3 a Vt( Lt    : assise ap, o  e« 1ncontrarum tractam eCvacliaic co i LHl-  C15 potiliiniulu lia totoad uterum trans fundaa-  - h 1 * T    decoótum Guajaci: aut fi1ntemperies bec frigii Q | :, 1*3 ^ 14 : vw  da « humida jecur etiam att1gccr1t; quo d Cx Ia-  dice, vel. ilgno oafiairas paratur; ex quorum  hr ES, * $^ "s " 14* T^ we 4 | Qe» T  C XCInD] l ) CU 111 P xin rima aiia | roponl px (tunt.  1 E  I $C. Animadvert« naun Lt 1d Cn,n ja fempet1  aut íerofuin humorem, aut pitu1tcium peccare;  peque ícmpernunc cíic. Cx pl rcandum neque    423311 " I ! À ' E a^ bor d x c4  femper calidis cczr1endam efie caufam efncien    Puross:8  2 mulie    by    12 20)  75ber "t £  J   7 204,211   CALtis    Ci 4avanáa o   Adftrictus enim locis ; aut nobiliota meinbtáà in-. 1:    vadent molefta illa excrementa; aut retenta in.,    malum habitum ; aut. hydropem laborantes]    ducent.  De. Vteri prafocatione .  Prfoa- 132 f leri prefocatio ut morbus eft per-- 1^  Vis air dn niciofus, ita cutn folis mulieribus,,!  tento fei et fepe ex Iimprovifo adveniat ; curationem fe-- [4    ne,odova- X6 € fola fibiadfciverunt, ut inde quàm] j]uri--p    £5 vulva 1naà errata introducta e(ífenon fit titm : Inter    nen inn quz lllud primum locum obtinet ; quodi infuf-- pun   gea. ^ focatione matricis ex retento femine, in matiriss|  virginibus, et viduis ; internas vulva partes ;1n--['  ungunt odotatis cleis, ex Zibeto, Mofcho,& fi--|'    milibus, aut peffaria talia imponunt;quibus,licet ob fuavem odorem, uterus füpetnas partes:    petens deorfüm allictatur ; quoniàtm cunen et  titillatio excitatur, et appetitus Veneris promovectr;quaft in furorem viregineum coricitan-- p    turmulieres, &à comprefhio ne diaphragmatis  retracto utero in proprio loco extenfus, quaft  turzente materia undequaq; movetur, ac fynt-  ptomata p ropemodum ind icibilia producit; Le-   fo cetebro, et corde: hinc cordis palpitationes,    et fyncope, hinc pulfüum deperditaiones, hinc:]    dementis, lío cerebro, concuffiones omnium  partium, convulfiones, et fimilia.  Prafota- 153. Quare pra ft arct fuaves illos odotes co-  tiséeze o X1$in párte internà prope. puderda alligare,  quam  onum intrudere, fic enim beneficio fuavis olen-  ! tie fruerentur,nec in illa tam magna incom-  1 | modi inciderent .   r$4. Nutriquam faciem frigidà in tali Cau  afperzant.   155. Minüsautemodoratis aquis.   r$6. Quinimó ne vino quidem facies erit  abluenda.   157. Quamvis enim vini nonnihil vietiam   adapertoore infündi poffit; cum Hipp.Z/b.dc»  | morb. mul. cra tamen. eodem tempore malé  ! olentia naribus admoveat, vino faciem làvan-  I dam non efle docet .  158. TitiHationes aut'dieito medioimpofi-  | to, et perfricante os uteri,aut aliis inftrumen-  tis,ut femine excreto füblevetur mulier,à Chri-  ! füano homine omnino ablegentur .   1f9. Quametiam ob caufam peffi illi ex ali-  | ptà, lienoa |Joe,eca ryophyllis, Zibeto, et fi fimili-  Pbus parata, licet difcurere flatus uter: valeant,  !quin et fermen promovere;quoniam tamen ten-  J'tizinem maximam promovent, et Saty riafim.  fepe inducunt, in hac fuffoc ationis fpecie ex re-  I rento femine non ita tutó in ufum duci poffunt,  MEC Cerata ex Tacahamach&, Caragnà,  fGalbano, et fimilibus, utin hoc morbo ex re-  litentis menfibus ob craffitiem, aut putrefacts,  llrron refrieeraris excrementus, ac ex flatibus à  Wl proprià fede dimoventibus; proficua funt ; ita,  I[mb: ex femine.retento, et putrefacto ortum du-  Ixerit; non 1ta fecura erunt, nifi cum exftinguén-  S ^ tibus    lentia to  xis appli-  canda .   F scies frs  qida n9 æ  fhergeda.  Nec a-  quis ode-  pyAf:'fe  Nec vinos  Pauxilis  viniconce  dendum  mai? olem  tiba$ na-  ribus Appo-  fitis «   In prafeos  catis ex fe  mine reti  ciéda titi  latione.  Pe[ft odos  raulpra-  LUUD e  femine  reiitiédi »  GCeratæx  Caragna»  galbano »  gc. tpr et  focatis (ex    f 1oine    y.  Gucarcoi-  z ZéLá. 1 " r&-  /* J«   jocis Za   d fit P €? ü4 E tibus femen,aut refrieeran ub us; ficcantibuss  uteítagn 15 caftus&« Sorallium»aliquid adjun-  ol 1l   ^ AX61I«. Scio multas, quo    ri    Pe. ev t TE 7 emo NE S TEN  in locc Pp OpEh yretinea nhtL,Uu6 DnVItCLLiCA alieettio  23    x    Ln en    excitentur; hujufinodi ceratisex T acahátnach  uti,41n.umbilici autem, Cay itate 11    1  f56snere q10n1  nponecie quo    aut tria grana Mofchi: fe C 1 quàm ] ehci fucceffu,    1    ipíz viderint ;ex calore enim corporis et lec  elevatis bene olenübus vaporibus;fepe in pi  focaüones incidunt .,  162. Cucurbitule ut infernis parti  ris, et coxis, quin et 1pfi publ appofitz profi-  ciünt ia reeioni umbilici | Te»  parte Obefle ic lent.  adis. In 3 Vero    y    ftot    A nx 3 - Q5 ;  1€ CX re tenti: d inen  1 /  ^14  e!    * ^x/11133 1140 7 T gor 3 44A  Cu iquo n yd. Xxumque appo lli 29 PP! OXAS bi alliüi Lil 1  US E 1  lm. LJ Cc 291 Db 11C5 Li  Tas 13 EIU 3x4. 1 ders: s  Lou. PLUS 5 ctiam in par: X VilllO a mo s COI  LI »    poris totus refrigeretur ; Don j« LU 1n DatOoxy.    Y    ibe enda eft dili    S4NIMADFERS:- LIB.FIF .281    T2)    166. Incaauteém, quT Cx Hagone ( Ag ine D o0» fla-  T p^des v  ducit, cucurbitulà magna umbilici regioni apa ;;, c55-   lic rel 3 toin (1617 qo ^ 1 :  Prtifi » VCI intcf uroblücum E ul em pl&G- as  tadffimum;fi quod aliud,remediun efleíclet. zza ati-  ^ 2   I67. Hac tamencautione,utaut €x aGUa ca- 5/75.  ÓH 1^ !1 »li "etr! . 111 "Y 1^ ' id-erxa30mnme 13 61 T5 bruvbpi-  ldáaapp ICCI1 L5 41 LCI m non nil m 19n€;, pocti- gu Ve»   - : E ! "1 : nia : 24/3 7H  inum jn pra pinguibus mullcribus . IH: a 255   1698. Sitex iis,qua perforatx funt 1n furn- 5  mitate. j :   3 m. d P m E di 1 2 t 5214   169. Diutius non permittaptul adherere.ne,    - - LI  * a " MoqT1 48 Í3 t: 4 «1171 1^ 1 (11 ^ if  impegito kA AlilLL 2 lllLUl £1l5| D I |) ill «CC 2 ]I1lo 1$ ^^] v m  lI13carr- anmod alia p Qe qu  oa n91 4Enaln CL. aLLiI 3 quod et iiti LIII «idl . )Yali$  et j i j 1  Z»^r:  I * f.  Y : | D, ! )!  3 * up 1410 J 420A A20 n2^77 0741147253122 : ]  Lc 14154 E aud A40, i AF LH222 07-1 A. MI e«LcoATL a Ter 4 Le  per mient e j«€?t    E m, Medicorum 1n partu naturail ; præ    JÆcuncdi ,    dicorum. Canones veró curationiim omnium  morboram muliebrium: diligentiffimé -profe-  cuti funt; przterantiquos Patres noftros, Graz-  cos, Arabes, et Latinos, ex ecentioribus Mer-  catus, Mercurialis, et Maftfarias ; fofüm aliqua  attingamad munus füfceptunvattinentia .  Obfetrici  Primóanimadverto, et frequenti experien-  £us non te tià Obfervavi, nons effe temeré credendum ob-  mtré cre- ftetricibus aut aftruentibus graviditatem, aut  dendil, fea negantibus;,ubi agituraut de promovédis men-  Mec Gus aut de fecandà venà ; aut purgando cor-  dd ed pore, ob urgentem aliquem morbum; fed Me-  Hla iljg,; dicus diligentiam fuam adhibeat, conjecturis  expendos, 4$aG has cum dictis obftetricum congu negat, et  agar,  lufpenfofemper pede in re-admodum judicatu  8 difficili incedat; ne, fi dicta folümobftetricum,  1 aut mulierum fequatur; nimis fecuré incedens,  abortum inducat;aut remediis deftitutam lan-  guentem finat.  Obffetvici | 371. SYumquamtamen in fimilibus cafíbris  bus sfferé aperiendi (untoculi, tunc fáné quàm minimum  tibus fe- obftetricibus eft credendum,etiam jurejurando  tum mor- afferentibus, cüm mortuum effe fætum teftan-  P489 59 tur, et valentibus medicamentis excludendum  ice . Perfüadent; cüm fepenumeró multas videri-  erts mus, à quibus feet!m ramquam mortuum, aut  excludendim;aut, quód pejus ett, ferramentis  extrahendum effe cenfebsnt obftetrices, et fub  füà, ut ajebant; conftientià jurabant, quz non.,  ita muftó póít vivum,& bene valentem fcetiim  pepererunt.    E        HÁÉÓ €    acerbit    ter efflæitant à Medi  potrigant, pulveres, decocta, àquás füllaauas  potrige endo : ; quibi 1S 1 (æp    Vta    ate dol    " utem non ita   óbftetricibus; ita aures non f  tirientibus, qui aifficatéa de partis ue: Na  orm commortz precibus inftanC1:    K    datur, autirritata natul    tcvc    T5  i 4*    n! dd i  cit nac    Ale    Ob hat  tanta    rtat undeaut acerbu  clu(iis ante temptts à natura cotil  fervet ndtur    m fitum 1i    1C ipfam cà  difficiltàs,    unt pra    facile SENCASCI éit  eben    ; ut mahuüs adjuttrice    ftit  n exe indo.  ifaycun  laxantib    P    emolltentibus res erit triti fizenda  ati folemus ad expellénd üm fetum 1mnor    q mbus    tuiim;  I74.    aut fecur    Quod f 1  placidi ráfémpér in  aum parturien  infantis    éxclt    Occidàtmus.    17;.  multerit  neque i    enim CO    ee A    mentes;  fueéverint,  énim fuübfequuntir fübv«  alvus xliquándo citatur :  tó convenit, quód dolores 1l  foleant,n    eet üm .    dated.    ter er,    nin dà  df    no    iearuue    I^    [  r1  aus    1ftofi    uerih  n Ira    1  ^"r41    G  "i 1    n  T    u  ;  ad]:    imyoda  arcu    CUUccl    ! 11€ nfe    t d bl    CX nil    ^  Mc    À.    a» V $^  CXP    ^(  5 5 Xlt    loratunm    laritm,d  Da [im  iciimque c  fiiper  ione exl  TÍI nc  primipatris    1s fi  1  I  1    uo    )    JUS    V  "f.  Cxnh1Dc  $ ventric lt s    iabeamus, quar    e fit; ut infans aut occi-  "i tenifpus debituman-   cegcto datur;aut ex-  utum, non»    n partüs ad-  OUS »    Gt laln 11$    etiam ad hic eft venien« á UL.  um ip: ci debebunp  ivaré    » DC,    'élymus;, " li pfius  Im, (ofüinia aut étiam ip    d : noftris    exhiben video  n  fluxerti it,neque vc he    venit:  nire c De  "EPIIT fe pc    LA o9    E |    CC    1l Qui DadIp iCrvenirc non    283    P parParttut »o  [rà Uth-   vA PTS á  Medico   ob fprttes  parturien    I A7    Paviu dm  ains   vt29  tja fati s    bi 07220    Et [cam  dAs, 4p  20X1A .  Fét& ex-  cLedentt-  64$ QHA7  do  dun; -  Qieu?n 4^  mys dali.  |onü A par-  tu hegue  femper,ze  gue  ou    Uentt s    4at6Hn)11-  ?    Us cg    Febrttit  Li  LoUs.a  bart :  LI  ag mut  jeans [AU  *  gz 4 [u-  ht f par, 2  201ÉS e.    gv i,  - piod qua  purgatio    C07 din et  "i ndo  obofd,   qu. ex  £ontvoverY  fia b«c til    lez d: a .    exp eme.    A!  com bue E    )  254.    LFVD. SEPT.ALII    um fiuere velit materia.   "176. Sifüpervenerit febris, aut inflammatio  aliqua, numquam à fuperioribus venis extra-  hehdus erit fanis, qn dgad alu fentiant;ne »  retrahantur purgamenta: fed ab infernis fem-  pereritevacuandus.    M EDIOL.    : Aag pe ud  De AMforlbis articularibus..    177. ( 7s Íciam maximé. contre  um efle, an incipi Sn eplc  varticulorum,potufflimüm.po   ex ufu fit medicamento elective purgante iid  motes evacüarc, multis 1d affirmantibus, quód  ;, humores fluxionem facientes evacuentur, re-  vocentüf£, et ab articulis, ad quos fluunt, rev Sy  lantur; evacuatà enim materias cn urnores fuc-  céldent dolores ;& brev lori tempore pii ura-  bunt: experientiam bac inre iunltoru m etiain.  afferunt ; in quibus expurgatis humoribus me-  dicamento, et dolores leviores fuerunt, et bre-  v1evanueru nt. B epugna nthuicopiniontali,  afferentes, ci dicamento purgante  res ad inf iürihantur,*« devehantur;,  fpe humores per íé € à medicamento com-  motos vehementius irruentes, majori etiam»  impetu, majori A ug et magis affatin   culos pedum ; et ad 2enua affiuere et  vehementiores cfl dcc re dolores : et ob hanc unà  caufam, dicunt, et Galenum; et omnes fcripto-  restam Gf£zCos, quàm nos« 1    Á IT.    [| bns  iiLilnoO4p 0339  Ccrna e a    SICQUuc    1ad arti-4    *  Maurit 2QI3060S C lat IOS.    m e Crraturos;cu  dloribus adfit et  expellentis ; à    UCTIt COp1a    ANIM ADI    Dæiscommendáàfle evacuationem factam per  contraria humores eoe    £T?    L|  ime. Cij us i cum dili-  Zenter caufam 1inveft1io irem; ceno    iictl1onem hacin re    QC    materias    Savocare,1d vero au    IDnatcria    inque'qdquandatrate    La ad 111a:    RQARSM VEPPE    erimenta;    ul ex] crie tà cc    Ec Cas a l11q l    3 M  ic fiuens 5 CX  3    'Clilltas recipientis  de,ant rob:   controverfiam .düàn  fias evacua    dà ex £diftin- 2uluc ho .    )pri - ü1m.    i8 mS "m pr    E E ",    26. LED. SEPT ALII MEDIOEL.  Ead ut ex fignis debilitas arücnlorum. Facilids  Gxtvonviip autem difcernemus, an purgante medicamento  ^... utendumfit.an abftinendum, ex experimento  facto : fi enim femel aur itezum tentatà purga  tione, &ingravefcant dolores ; et diutius per-  durent, ab illà in pofterum abftinere oportebit:  fin autem melius fe habuerit ; aut faltem bre-  vicr faétus fit morbus, omnino intrepide erit  corpus purgandum.  Purpusio  x79. Cum vero, fi purgandum eft; in princi-  zpwdsgra piold faciendum fj. freftra preparaturfytupis  cü facit. materia; cüm nec putrida fit, ut: cocticne indi-  day etl l4 coat; tantem aucferofa., et rennis,queftaum; Us  um [466 expureari poteft, Galeno magiftro, Jib. Qwoss:. 9  | da, r Qj quatido purgareéxpediat, avt fané bilicfa.; te-  ph wv^^^ quls, non potrida, qua facilé expurgatur;nec. |?  Becy)wM  coctione indiget, quód fit fine putredine: cum. |.  "von netóf v tamen craffa aliquando fb perfit præparari po-  pc terit, et atcenuaris ut facilis, fi non refolvatur  Acum per infenfibilé evaporationem, cvacuari pofht .  179. Miflio (aneuinis per fectam venam ut    / :  A T7ÉATCUAAMA .    Ppodagri "- A 1 É -  : ^ dg quA A: gmaxll ne lauda CUT, ad praca vendam podærà 5. MN  (C sis - |    JC -irgdus, goinefit refertum ; et ad eandem curandam, ft. |!  an guin- bumores mixti fint cum fanguine : ita fi fercft: [uy  jJ" dozen. fucrint humores,& frigidi, &frà parübusexe-- pu   cernis capitis defluat materia, fruftra tentatut: pni  tale remedium, quód. habitum corporis refrie- |  ecret, et hujufmodi humori: prftet occafic-- [1t  nemo .  Pedaga  X80, Quin ubi frequentiüs hujufimodi pce]  dagrice»    [q" ód crudis humoribus tunc det occafionem 5q«      | elagricz acceffiones homines invadunt fie piüf- ^ f   | quealiquem affüixerint, nifi fumma adfit ple- vei fim-   Initudo qui alis inebriofis, et vinofis aggreearl,,;, ji  e   | folet, hujufmodi remedium erit omittendum, tendus    uius    /feffatis    d  vvv eL- eda  | habitum corporis refrigeret, nec curfum hu--* yis  | morim extra venas«ohibere poffit . E-  $1. Repellentia quamvis paffimin princi Podagre    | p1o, Ccvacuato tamen p rlüs corpore aut fangui- lalerax f    | nis miffione, aut purgatione, commendentur à £u ridiou    Jaffirmare,raró tutó in ufum duci poffe ;. fi enim ró Con"ve-  ntt Í   .lidolores vehementes articulorum non prius ps "6o   | zefícunt quàm ubi :materia illa maxime calida,    i'Galeno, Acuo,Pau lo,&. Ceteris; aufim tamen. Jeztia va Lin. hu  C34Y ^    ad externa prol. abitur, tumorem, et ru Pocos Y m  1p partc excitans,quc modo repulfa refrigeratis »«Æ clot    | externis partibus non morbo occoficnem augc-   | bit; exitum impediens ? Quód fiadítridio Ten hleigendes  | pu lion juncta fit, magis eriam ledet .. Sed ve- -   | 1o jam ex parte f'uxa amate ria dolorem excitás,   | nonne etiam, fi cà ref riger à dolor imminu:        tur, craffeícet magis, magi f ue impingetur; et    2. ad  fubind e€contumaciorem mo yrbum efficiet? Non po P»  nifrigitur feviffimis doloribus ; omnem ad fe; "  curationem trahentibus, verisrepellenübvsu- J| C0.  LL a.    remur, frigidà, aceto, farinis admixtis, pfyllio,  lenticulà pafnftri ex aquà.& accto.& fimilibus;  Securius eft oleum rofaccum, quod vocant Com o dos. "-  pletum, quamvis enim refrigeret, et alique eec.  modo repellat, vi tamen olei laxante tranfpira- c^  tionem non impedit, neque partem conftipat;   atit    [Let ano  WSLGii    quatre prat  joy:    !]    -!  * v  cr   el    Tn ex Cut:    $e),  LC    piam 2!    36502  (    3    Í    AG    eui; articulos po    X |    ^    CAT. Q. C    )    "    4    A   do fricart'r,; 1D    ^47 03    Li    Ü    no»  "    4  l    (t, difcutit    nre    iatiifa    P    ter    praulel-. 1    IOX123.».    Ep:    1,€0 nequaten    ^11  v    emm    Ve  V (    nimad    A    Pa    P  Oo ^et  /    Q    "C e E  tS. EUEM    u    pti b    tione  ir dolores    li1ttt    1    wi n  iupra        tis enim c    [ 2,11.0    n    di    aue huimo*    1naíor    1 Of9f!  C |    p    [:    J  *eo( (0  CM    A    1  1    1117€    p    nts 1!!    Phvl    E  41  [1    ntifl    6€ co" ^nbi    4  LI    L    idià    1  *    Qu    tentia, et    el    |    "11  ET A A.    7  [2    ris.    (:3Hs^w1S    I    UETTICIL    soni    e   «& vix falfedo oleo communicatur, foleo ego fa-  lem tritum M A EERATE in vini calidi leviffimà  poruone pat] aum colliquare, mox falem illum    | cciliquatum affidue fpatulà cum oleo agitare »;  I et ficoleum falíedinem contrahit: Velin fübti-  | liffimum pollinem falem contritum, et oleo ad| mixtum femper ; antequàm 1n ufüm ducatur    | dilicentcr concutiemuls .    De AMorbo Gallico.    - ^  136. N Venereà hac ]ue cura inda multa fa-  À néannotare potero, cüm illud veré af-  firmare aufim, poft delatü à novo Qrbe ad nos    I| hunc morbum, me fortaffe multo plures hoc  I morbo laborantes curáffe, quàm qu ifquam.    alius, quód prater innumeros in magna hac urI be paffim curatos, per quadraginta annorum.  fpauum magni illius Hofpitalis Brolii,in quo,    ll folus 1s morbus curatur ; et fzpenumeró vere    I folo fepringentis, quà decoctis, quà inunctioni-  l| bus, et fuffumiegis curato adhibetur ; reliquo    vero tempore faltem ducent ex ulceribus femJ| per crrantur, purgato diligenter corpore, et    Ili multis etiam et pulvifcul 1$, et elec tuariis,alexipharmacis praterea exhibitis ; curam in adole-  fcentià mihi demandatam fcmper retinuerim.,  et adhucin hac tate retineam, ob FRUIR cau-  fas ; rtüm potiffimum, ut adolefcertes, et novi-  tiosin hoc morbo cerrando poffem exercere ».  Vnde cuamanno praterito ; multis poftulantiT bus,    adzmifce-  tur s fi fal  oleo no?»  qa 77 1777 2    idus 04 Lol    CÓ voa /    p Æ ra pn.    Gallici   morbi cu-  ratio du  clort Quo-  7modo fre-  quens, c  in ea mal  ta obfer-  vare quo-  72049 po-  tuerit.    mw M A    MorlLi gal  ]l:wei cura-  20 diver-  f?» morbo  vix 1-  €boante,  FR mento aliquo füperficiei penis, atit feminei pu-  0e  bus, diebus, quibus à Moralibus,& politicis ii    meis lectionibus vacare conceffum erat ; pluttbus fermonibüstotam hanc de Iué Veneftea tra-  étationem comprehenfis fum.    Ex quibus ali:  qua, quain curatione hijus morbi finguilaria  occurrunt, excerptà hocloco annoranda miht  fumpfi. |   Primó ieitur illud annotandutm;non eándem  eífe curationem luis hujus primis diebus com-  municatz, et übi altiüs radices egerit, fedém-  que, quam hepar femper cenfüt, occupaverit 2    . ^oi ^ . . A  fiepé enim malà illà qualitate mediante recre--|    déndi; communtcatà,externas folüm partes oc--J.    cupat; ulcufculo cariofo, aut fimilibus excitato;  quo exficcantibus curato, aliquando penitiorés  partes noh attinet, eu occafioné neque mittendus erit fanouis; néque purgandum corpus ; 4;    ne, quz externis partibüs folis adhæret conta:  cio;agitata magis diffundatur, magífque ad in-  terna trahatur, urndé veré morbus contrahatuür  Neque veró timendim eft ; ne contta medica-   tzcepta agamus, quibus cavetur, ne umquam    localibus utaviur,anteduàm erirverfum fit inásJ,  nitum: Id enim veriffimum eftin morbis à cauw    si interni ortur ducefitibus, non autem in iis     S  &.    qui ab externis ; tiani 1m miorfü venenatorutns]  4nimaltum ómninoad externa evocamus, fiftt]    mus, acad cutem trahimus, denique non. pürn  camus; ut comode in fcabie recenter ccntadt    . ^, ^. » - N . 4  communicata, in quà fxpiffimé citra purgauea    ncm    ANIMADFERS. LIB. FII. 394    nem cuti emendanda, et fcabiei tollenda folüm  unfiftimus .   187. Neq; tamen placet,quod ab Empiricis  paffim commendari video, ut indiftin&é qui-  bufvis cibis ; et cujufceumque conditionis utan-   ' Iur, multaque paffim ingerant, poriffimüm ubi  I:bubones appareant, nec ita facilé eleventur ;  uomodo enim naturam opiailantem ad expul  f1onem habebimus, aut ad foi confervationem,  fiillam multitudine ciborum;aut malà qualita-  ite cbruemus?   Át neinecià etiam macerandum eft cor  pus. neinternz partes 2]imento debito deftitu-  Ita, ab ambitu corporis, et externis partibus at-   T trahànt.   199. Exercirium, quod alii injungunt, po-  tiffimüm in bini bone promovendo, ut non pof-  fum non commendare, ita fi excedat ; f peoffi-   'Teere poteft, apertis nimiiim meatibus ss ex-  'THhaufüs intern2rim partium fpiritibus, quà oc-  Ieafione virus exrernem fepcad interna remeat:  "FQ rows ab exercir1o füdor promoveatur;abij | fter. 'ebet. neaperiis meaubuscumrecremen  tis oualitate mala infectis remeet, et interna  Tinfciat.    | 190. Átveró ne decipiamvr, dilieentet in»  4 carie apparente obfervandum eft, fi à congretfa    Babont-  bus nàe-  XL bas $  n0n "male  ta ingeré-  da,neque  quibufvis  vefcendti,  cotra Em  pirieos .  Morbo gal  lito. in-  ChoADte »  tenuis vte«  ? malus.  Gallico  280t 0 12  cboante  exércitim  valdum  fap made  lssta    Carte gallica atpaI4 Venerco p er quatuoraut quinque dies caries i]- rente; T    f laar paruerit . creffn tempcris : fi  cilenim primun  4 efle ex fordibus communicatis, et tunc nullà    1 a prean po ;tiüs sr    illud evererit,fionum erit,crram    mode tr&  "7 enda  DEAN c9 06? &n1//€ . precedente corporis univerfali evacuatione s  exficcantibus folm totum negotium trarfige-  mus: fi véró ex labe hepati communicat illud  fieri judicabimus, tuncevacaato corpore, ale-  : xipharmacis rem abfolvemus ;  ingow- | 191. Sic& in gonorrhoeá procedendum:ali-  vhs (^ quandoenimà concubitu ftatim evenit ; validà  $0763 49? exi(tente natura, et ftatim propeliente per cam  enodo pro- artem virulentiam contractam; et tunc nullo  cededit « ; f à . à  modo per raultos dies erit cohibenda, fed finen  da, fübluendum folüm quod adharet . At pro-  erediente tempore fi non definat;aut fi novum.  aliquod fymptoma füperveniat jam providendum eft fedi, et evacuato corpore ; alexiphar- |j    macis edomare vim morbi, vel potius malamo  qualitatem tentabimus .    Quomos  192. Idemin bubone apparente:fi enim pri--]  do proct- mis diebus apparuerit ; quoniam robur arguit]  dendw  fAcultatis propellentis luem illam ad ignobi-4.  £2 €/4* lem partem, omnino actioilla eritadjuvanda ;4,    fione, bu-  &one gall  £o appare  gt.    nec purgatione; àut faneuinis;miffione evacuan  düm erit corpus, ne revocemus naturam à mo-  tu illo : et fiepé talem evacuationem aperto bunémque virulentiam evacuáaffe.    Ya 193. Obfervatum tamen eft aliquando, tan)  32 bubo-. ^ iyole humorum premi naturam,& adeo craf!    ze contu- à  snati alina. As aggrediatur natura tale opus,fuccumbat ta    ; men oneri, nec dd elandularum locum poffi!]    purgandi . à :  materiam totam propellere ; inchoatumque- J  opus    COYbM S »    (4m, et contumacem effe materiam, ut, quam    bone totam vim morbi edomáffe conftat, ome«4    y  |    | opus relinquat ; 1n quo |  I fum,füblevatà naturàà mole, et farcinà, eva-  | cuato corpore, foeliciàs omnia ceffiffe, tumo-  ! rem in debitam menfuüram effe elevatum, et  ! materiam duram, et contumacem ad fuppura-  |! tionem effe deductam.    nj X n  r2 . *    PUO I r^ ood ac NLLTTISSERPNXEMS LL LS ud  cafü fzepiffimé expertus    194. Vbi virulenta bac qualitas fedem jam| occupaverit,& morbus Gallicus jam factus fit,  | radicéfq; jam egerit; edomari illa debebit; atq;    " . * . * N  alexipharmacis evinci: expurgarr autem ante    | corpus debebit, fed nonab initio folis lenientibusagendum ; cüm enim ii humores veram»  coctionem non admittant, fed in eo eenere fint;    | utfolàüm pre parariad evacuationem debeant,    I    lenientibus et abftergentia funt adjungenda,&  aliqua etiam veré purgantia;fed in minori quan  ritate; et hzc veré funt minorantia .   195. Quin, fi in aliquo morbo, in hoc maxi-  mé validicribus eft agendum ; tum quód fpé  rebellis,& contumax eft materia, puta, lentas;  et vifcida, et fzpiüs adufta;tum maximé,quia,  cüm per exrerna prorepferit, et jam bonà ex  parte extra venas ad carnes, et folidas partes  pervenerit; non potcft nifi validis medicamen-  üuseducd.   196. In decoctis pro diluendis fvrupis;autin  fyrupisipfis variis pro varià materlà, cul potif-  fimüm infidet virulentia illa; femper admifcen-  dum eriraliquid ex iis, quz alexipharmacá fa-  cultate x    j a"    Gallico  »orbo pro  greffo pur  ga ndum  In eallico  morbo 15  principio  lenietibus  abífergen  I7 N72  ganrtia ad  i 06A o  In gallico  mo bo v4  lidis pur  qantibus  ACenatmm,    T  e    Iv fyrupis  pro morbo  gallico zd  denda 4-  lexiphar»  "afa.    na, aut faponaria; ex quorum ufü.fepiüs exper-   tus fun, poft repegitam purgationem ; et mul-   tos affumptos fyrupos adeo imminuta fuitfe ac-   cidentia, ut mult fe jam convaluiffe cenfentes,   cztera auxilia refpuerent, X ni(i admonuiffem;   refractam folüm effe vim. morbi, non. convul-   fam, vix alia auxilia amplius admififfent .  Pilula ia. 197. Poítremum quod in purgatione repeti»  fine perga c fumitur medicamentum, placet effe in formá  10515. 12 /fo]idà, qualia funt füb pilularum formà ; quód  enorbo gel Sc) longioribusattrahant, et fi qua à medica-  licobF^f- entis, aut (yrupis commota fint recrementa»;  rehda . facts ooi dd cs   acilius poflint educere.   Syvupifol  198. Inrepetità preparatione humorum lau  ventt$ i? doadmiícerefyrupos compofitosfolventes ; ut  gporbo gal fyrupum Montani, de fumarià compofitum,de  //^? ?"* bolypodio, decichoreà Nicoli ; vel Gulielmi ;  dans e. :   tiores, et pouffimüm Maffarias doctiffimus ;   neque enimimpeditur coctio;quz nullibi in ta    limaterià exípectatur ; fed paulatim. prepata- |J    tam materiam, cui virus infidet, evacuamus.  Palvfcu 199. Quinimó,ubi maximam fupereffeads  li fc!ve- Syacmaterke coplam cognoverimus, optimtrm.    26$, (9 e Eg  uo wiain    alli :  atico ANT ^ir n 2  5 rs,; aut fuffumigia, pu 'vifculis, aut confectis ex!    znendaz-: folvéntibus paratis ; Senà, Mechoacano, Ziapro varietate materie, quidquid dicant recen- | ;    effe cenfeo, antequàm ad vera alexipharmacaz.]  véniamis,potiífimum autem ante 1nunctiones,,|    lr. lappà, Turpetho, Hermodactylis,& fimilibus,    : " s *À ^  pro varietate materie exuberatis; add1tà zqualiferéad omnia quántitate Sarzg panilie pulvee;]    I1z4l4 5    NT € B t "  tC s e    ais tunc SDN a. «i vta lora sow ruis cate Se 0"    ANIMADVERS. LIB.VIL a9$    d rizatz, exhibitis, materiam illam imminuere 5  uc qua rel iqua erit, aut per fudorem propelli  poflit, faciiufque dieere e per univerfum cor-  | pus difpet(a edomari, atq; evinci ; aut f1 per os  expure zanda fit, peculiari argenti vivi faculta-  | te, mole (uà. no * füffocet, aut gravi (fima lla;  | quz aliquando folet; fymptomata non inducat.  100. In decocüs ex 1is paratis, qua alexite- Guaiacs  ||| ria facultate ; et antipa thia quàdam virus illud fpecies. in  | evincunt,.& ex corpore pellunt ; ut quod ex vagos  || Guajaco paratur ; primó veniat cófiderandum, 7 Mola  illüdque p rimüm animadvertendum, non effe Ie  illud inufüm ducendum, quod annofum eft;ni-  i| miscraffos truncos habens; ataue peromnia,  i| vetuftatem Niediolebes quod paffim Empurici fa-  i| ciunt, utacrimonià illà perfectionem medica-  i| mentiareuentes a2ris (uis 1m ponant; cüm calor  natur disin tali ligno jam fere fit abíumptus,&  .|| vis ejufdem effeta dedidit ta; Vimoiridum (hbétantis  yn oleaginofa pars abfümpta, aucta ficci-  | ta5 » five potius ariditas fine pinguedine ; nam.  | ob has caufas,cüm multas partes terref fttes de-  i| coctum rale habeat; numquam clarefcit de ter-  j| reftres iile partes cama wifteritate quàdám acres  yh eram pe: (entiuntur  201. Neque tamen etiam truncos illos mi-,,, ;,..  (l| nores laudo ;. minimus cnim illis ineft vigor, et,,,,; i»-  Ji calor h uoi litate füperfluà hebetatur, et fücitlt 2, 4;d;i .  |i tas illa à tota fübftangià tamquam in-infante eft  imbecilla .  202. Efttamen fpecies quedam Guajaci que Gaaiaci  4 n'meGsaiacs,      b. 9^. dass EL.  3 eie W numquam in ufum ducenda eít, qua nierorem.»  cis, c VErumin medio non habet, fed colcris cft íub-  sb Obícuricum quádam viriditate, que decc cvm  decoclumy facit omnino tur bidum, quod numquam clare-  faciens, fcit, tum maximà acredine et in eulà, et fauci-  reiicióda . bus ardorem excitat; ob craffas autem, et terre-  ftres partes majori ex parte in fplene, nonnum«  quametiam in hepate obftructiones inducit ;  Empirici fylveftre lignum fandtum appellant  fed cüm apud fcriptores nullibi reperiam dupli  cem hancífvlvef tris, et domeftici differentiam,  potius ratione foli has qualitates acquirere cen-  ferem.  Guaiaci 03. Ánimadvertendum etiam, ne aut m»  Jobs neq, ciafiær particulas, aut in nimis fabtilem pol-  erf  ]inem minuatur; illud enim impedit, ne virtus  fi (nes ligni bene aquz impertiatu IE hoc autem efficit,  Sec 7? wt difficillime clatefcat decodhum, fed femper  ^' feréebibatur turbidum, undeobftructiones in  fplene, aut hepate.  Virg opi . 2104. Abfu rdum eft, quód viri quidam alio-  mimatc- qui doctiffimi etiam firiptis editis cenfierunt,  "4 »1? ^ yon poffe fieri decocta ex vino,aut faltem ex v i4  12745 et nof, fed infufionem fieri debere ex aquà ;  qan OR Harc diutiüs Reb ime effe, adden-  Fives dümque in fine vinum, quod hoc cenfe 'antine-  : ptam effe materiam infuftoni; quodque tamdiu  cxcoqii nequeat, quamdiu opor teretad clicien  dam Enc medicamenti : certum eft enim,  et in chymicis extractionibus experientià come  probatur, nihil effeaptius ad extrahendas me-  dica.    coéiis 1n  Idicamentorum facultates ipfo vino, aquá vini ;  I& aceto; quód igneis, et calidis, fubtilibut que  partibus renitiora queque permeans ; intimi  rem ise Kun facultatem pcterit extrahere; et    lin fc concipere : verum quidem eft, non adeó  longam pau coctionem, f fed aut longà infufione  id compet fati f let, aut in d ici vafe folet ex-  Eoqvi. Parare ego decoctum foleo 1n morbo in: 4^  Iveterato, cum mal VRRBET- : » materia frigida  pr dominan te, ex vino; quo aliqucs a pud alios  tos ertcéte curavi. Paraturautem hoc ;    ea infufione corticis ligni fancti OpUd C | CI:    ihmodoe:    iml,cra de 'contufi unc. xviij. in vinl alb  |ppem |, ut gt od dpbdfid Vernatia dicitur;boc-  ica æ Isn (catibos decem et octo / funt auteni:    Ilibrz medicineles xxxx1j.) per duos CES exca-  lcfacto prius vino, et femper per duos illos dà  lin duplici vafe, vel cin ribus cale: 16d í  lento iene vel in duplici Và apes IÆ n-  ilfüumptionem rertic partis j quo utàturagrotus  li& mane loco fv1 upi, et    c pro potu in cibis; fümet  NEN ac mier Mr nh ie ds mne iid  Imane unc. v1]. pot ram proliciantvr fudo-  Dr t (d    les: in 'xceda  linc.xiv.Vti    D    '    the    [0] M  'O autem, et 1n ceena » nOn (    vid a 444 44 a  u-ipett rt oo i  i(Timum eft etiam 1n1s, aui inunctioLE    LULA 48A p M [A    Jecoloss Jo    üraaadà  fzve P T m »  medi [^   bro xir  ? gallice .    erdum "Y    Ie factà ex vicia: v1vo non C nvaluc nt;   I& portdoaliqua argenti vivi relicta eft in 76 c; ada   "More   l^ 2o« Sunt,quiutuntur dccocto folvente ex pc;  I3 ta1aco, Sorzà, vcl etiam Chinà, ex Sen, 5  Il'urpetho, Hermodaéctvylis ; aliquand iaim    lveratro ni2ro,additofemper carduo benedi  pL ^    yo 12 Hil  quA,    Sudores  proliciedi  aat i2 by-  pocaufto.,  aut in le-  &o, fed  qu4 caH-  t0 ad pibe  Ev1tbora-  feriis t5  calidis c  fiecis na-  furi utem  dum.  Inter fa-  dandum  nó freque  fer purga  dum.  Sudores  3 0an a  aff umpto  ie i^ favo    EI  lici odit.    Chin ras  ut Brafavolus, et Matthaolus, et aliu. Hzcía-  né in robuftiffimis, et quibus fuüdores aut non»  profunt, aut pr olici non poffunt, meà quidem.  fententià, in ufüm venire poffunt:fi enim pulvifcülis, et clectuariis aliquando, fi non ad reftineuendam, ad imminuendam faltem labem feli-  c fucceffu utimur, cur id etiam cum decoctis  praftare non poterimus ? non tamen adeó eft  fecurum, cüm aliquando infequi foleant 2ravif-  fimz dyfenteriz. S PIER   206. In fudore proliændo, fi fponteab at-  fümpto decocto non fluat;uti tutó poffumus aut  DX poca ta aut capfülà cum 1gne in lecto : fed   n pofteriori hoc diligentia adhibenda eft, mu-  cda effe. liftéimina,ne fordes infecbz jam ex-  pulfz iterum remeent, quodà paucis obferva-  tim vidco: quapropter hypocauftorum ufus, fi  tolerari poteft,.multó tutior effe folet.   207. ln calidis, et ficcis temperaturis, et e-  maciatis vi morbi, füdores commode evapora-  torio proliciemus .   208. Vbifudores commodé proffuunt, non.   adeo frequenter intermediis medicamentis cor  pus per feceffum evacuabimus; revocatur enim  liumoresà füperficie verfus ceatrum,impediüt-  que faltem,aut difficiliorem proptereà reddunt  füdorem, corpüfque rmbecillius faciunt.   209. Non ftatimab affumpto fudoriferoat-  te promovendurs eft fi üdor, fed pel th Drop ln-  tercedente, fi fieri poflit, omn ? cec (Krnon.   210. Inradicis Chine decocto parandó,cüm  foleant,    tid ih    £2.    9  !foleànt; fi recens fuerit; et noncariofa ; unciám  unamillius in decem librisaqua, vel fi felecta  non fuerit, et antiqua, duas ejufdem uncias 1f  libris duodecim aqua. excoquere; multi etiam.    * cf    mat ote Ritt i a ent ehe aaa tg ERREUR Yn, ^    /^ ^ Cem  cAvi^ 0e. 0A  P ili v ü. à  (a0 Á& foe * /    299"    dicis deco  &o inpa-  rando có-  munis er-  ror MediMedia, ut nimie impente rationem habeant ; corum.  ! cüm multi totam illam decoctionem unicá die»  abfumere nequeant,vercanturautém,fi 1n alte!rum dicm confervent ; né acefcat, dimidiam    Chinz ? portionem in dimidiatà aqua quanttæ    te excoquunt, et aut dimidias, aut duas tertias  confumunt, fic cenfentes et indemnitati crümee  . le confiluitfe ; et decoctum xqué validüm pàá«    | raile: fed maximé decipiüntur,& (1 suftüs udi    I cium non fübtraxerint,facilé coenofc ent, poten  ius multó effe primum illud decoctum ; quàm  | fecundum; et rauo * in A Don a:  tis eft dari proportio !   | fpectáidum maxim éte 'mpus coctioni js «& actio-, et reactuonis aquz.  m dca chapa  aquz communicandam ; cüm  l| quatuor, puta; horarü fpatium intercedere de-  | beat ; quantum confuümetur in abf ümendis pet  I elixationerm fex, aut ock |  '] diatà qu: intitate im  cià, libris fex aqi ue, dimidium c ytiftittiere finà-  v Lert e irtes,m ino ride ) qti:    I nis caloris igni  hendam enum facultate:  &- ficcifIima, et    mtus; aut du  duarum horarü al    ni 19nls I  cere     ]  1m IAdl1CI1S ad    libris aQU£s:;    pofi C hin:    ilente ? Nequ Ie vc eró quis di-  is quantitate, et  | magis lento igne fi fat €oslio; poffe nos PM    'eTow  etifcer«    au deat, da  incommodo contrà venire : nam ad extrahen-  ; e. . A E   dam vim hanc ex folidiori fubftantia, debita   quoqueignis quantitas concurrere debet .    " x P j . A  2aw. Sar[opt'i  yir. In Sarzz parilie, quam in edomand$    rd    7*-Gui^i (enpertenere cenfui ; decocto, illud obfervans    (ofa. 9e Qeeacls    ; (L84 &£« de «Af    liz decotlo hac ]ue, et fuperandis fymptomatibus primas    prs seper    . €? dum, numquam folam in ufum ducendam effe;  uitfíceda.    cüm enim laxante quàdam facultate preditas  fit; et fapore fatuo, adeó eos, qui illà utunturj,  naufeabundos reddit, ucob imbecillitatem vi-  rium ex ciborum averfione multa illius ufum  omittere cogantur; adjicienda igitur tertia, vel  quarta pars ligni Guajaci; quinimó apud nos  : Mediolanenfes decoctum Guajaci folius vix in    L ufum duci poteft;ob temperamentum calidum,    et humidum, et ob hepar ejuídem tempera-  tura.   pisa deci So Obfervandum autem, cüm zftate pa-  d ds, CAtür, cumminor quantitas decocti paranda»  145; fit ; majorem effe debere aque quantiratem,    EY e . : A " "  ci msior; quàm hyeme; utloneiori cocturà tota vis Sarze    guiatita. communicari poflit ipfi aque ; nam quemad-  'e 4444 modumin decocto Chinz dicebamus, non fo-  fier? de-. ]àm eftobíervanda proportio aquæ ad medica-  et » C menta, quz fimul excoquentur, fed etiam pro-  ENT portio temporis coctionis, tum ut communice-  tur vis aqua, tum ratione actionis ienis calidi-  tate et ficcitate,tum reactione aquz cum humi-  ditate, et frigiditate.  Guaiati 213. Curautem Guajacum, cüm durius fit ;  deccéluno ex Ííolidius non tantam aqua quantitatem exe»  poi1cat;    "ML AM ^ "  - Vr ennt ir a ier ardere o eel ai Tees nma ra cx c ESL 1T    3ci    Ipofcat; nequetam longam cocturam pro extra-  Ictione virtutis alexipharmacz,ut China et Sar-  za, fecüs quàm cenfuerit doctiffimus Rudius,, [qui temporiscoctionis rationem non confidera-  vit; in caufa eft humidit: 1s Mla ærea, et oleagi-  Inofa Guajacd, in quà potiffimum facultas illa,  álexiteria refidet, quz facilis et extrahitur,&  Icommunicatur aqua, quàm qua in Sarzà eít  | quz quamvis rariori fi fübftz ntià, et minüs fo-  I1idà, ex(ucca tamen eft, et arida; et in hac tcta.  | pofita eft facultas S Sarzz. Chinat tamen multó  | majoriindiget et aquà, et cod turà tum quo-  | niam duriffima eft, tum qu1a;,arida cum fit,nul-  Ilametiam habet oleæinofam fübftantiam.  214. Sed quoniam fepenumeró evenit, ut  aliqui vel vi morbi;vel procraftinatis remediis;  vel Medicorum infcitià,ab hoc morbo macera-  |! ti; et ad extremam tabem deduc fint, ut nulla  amplius f fupereffe falutis fpes videatur, ne etia  n ope medicá deftituti remaneant, remedium  quoddam proponam, quo quàm plurimos ex  | 3isad optimum ftatum deduxi, fimülque viru-  | lentiam exftinxi, &àtalitabeomnino curavi.  | Eft veró confumptum quoddam;quod folà ale-  | xipharmacà qualitate;fine fudore ullo, fed me-  I eliantibus pinguedinofis carnis partibus, ali-  '|! menti vim fumens, et in fübftantiam aliti ver-  '] fum, et vim illam virulentam evincit, et abfu-  | mit, et fanguinem eenerat alexipharma ica illà  '] qualitate præditum,ut malàillà iqualitate : l-  | tà, inaliti bonam fubftantiam vertatur. Sic  autem     t Ó' P     €HY foiads  longa €p-  ura igo  v 1  at, cum  düritás    fit Sar[a deco  i mira-  bile adta  &idos ex  »jorbo gal  lico.    gebe bk  echt Px Anat  - Inte; ;o0. erswxbÁma  autem paratur: Rec. Sarzz pàáriliz electa mi-  vi tola nutim incifz unc.vj. infundatur per horas vigin  ad feq mac .ti quatuor in libris quindecim aquz calentis;ita  E 1 utlenem calorem confervet, et operculo bene  occludatur vas, mox lentoigne decoquatur, it4  ut nihil exhalet, donec quinque libre abfume  pte fint, et tunc cochleari perforato extrahatut  Sarza,& tundaturin marmoreo mortario, moX  eidem aque reimponatvr ; addendo carnis vi-  tuli macrz libras tres, feminum coriandrorum  preparatorum, unc.1, aut eorum loco aut ligni  (an&i rafi tantundem, aut fantalorum citringos  rum minntim inciforum drach.1j. pro varià ho. ft   minum, et przdominantium humorum condis : [|   tione, et benc operto vafe ; iterum lentoigne»]   fimul ebulliant, donec remaneant libre quin--["   que.& in fine aromatizentur cum drach.iij.cin--[   pamomi electi mox fiat colatura cum fort! ex  ar preffione, et refervetur in vafe vitreo, vel vi-  Jud del cov - treato ; de qnà furimo mané per quatuor horassf i  emat - apre cibum capiat zegerunc, vj. aut vij. vefpernp  autem iiij.aut y. unciasante cenam, vcl per tre:gqi  horasanté ; aut fi tempus non intercedat come  modum, immediaté antealios cibos: quód fij  * inaftate verfemur ; autfebris hectica adjunctaqlut  PeaL' ve tulelt fit, fimulcum Sorzà parilià indere foleo hordesphar  5 excorticati uncias Mij. atque in affumptione-Jpt  uri huis decocti per quàm plurimos dies perfeve 3  geb m AN randum eft, jitaut ad Centefimum quandoqu qd j    ote    dicm perveniam.  11j. NNonomittendus hoc loco ufus altering  decoch ANIMADFERS. LIB. FH.) e  inecocti alexipharmaci fa icilé parabilis; pro pau (p fperónth  Iperibusoptimi, €x fa pon: arià, herbà vulgari; et safor A  omnibus notà, parandi ; quin 1n conturaciffi-- ARN  mo morbo áliquando u fus fum eo, felici fuccef-  lusfed guftui inoratum eft; et propterceà páupe- -  libus refervatum . Accipiantur fapona js viri- afe   Iis M. 1j. infundantur per noctem in lib. viij   aqui mox excoquanttur ad coctura fàpc nada   Lteinde librauna cum dimidià aquæ cum herbá   jam coctà excoletur cum expre flione, Q )uz Ire-   lervétur prof potione matutinàad fud resp roli- (ad   Iriendos, fum endo uncias viJ.aut viij. quod ve-   Iro fuperet rotulvereRor cum paffulis;autfa iccha-  ko, pro potü cum cibis; æftate; et bilicfisratu-   IKis;addi poterit aut fonchi,aut cymbalarie Mj.   "Valet et pro tulieribus ad menftrua alba ab- » hé frt.  i fiimenda, cum M.s.cvmbalariz; et addiro tan- ma es nl  iirundem filipendulz.Inventum ef efttz apate;Em- aliscmatlo.  ipirici Hifpani. Egoautem fzj pé ac fe pius illo   Rifus fum. Doct &iffimu s Rudius meus, /jb. $.de2   aptorbis occultis, 4?" venenatis, cap.18. de Sapon:  Aria, et ejus decocto facit mentionem; fed vereor  féum numquam ufum efTe decocto ilo;ctm pu-  ipeillos vj. decoqu átfaponariz inTib.xvj.aqui ad  Mdirnidias ; cüm aquz ad fapcnaria m nimia fit  pqtianutas : et quod majoris eft momenti, tenel-  Aa herba virens non 1nd ciget tam lone elixatio-  "line, jienéz enim et acrez partes c Iuninc evane-  cent; et in nihil iab ibunt; in quibvs temáhn   "héértum eft, vim falteni fudoriferam «ffe pofiZitan V [    116, Eoi4 LED. SEPT.ALII. MEDIOL.    Avv 7 216. Eorum,quz ex argento vivo parantur,  A JO» medicamentorum due cüm fint formule; qui-  tod bus vim. malz hujus quahtatis ; qua 1n mo rbo  ef gnenta ai Gallico reperitur x cw ref. lemus, aut é cor-  4C in ufum pore pellere humores malaillà qualitate infe-   duci pof- ctos: quorum altera in formam fuffumigiorum, 5  Boa. /5* » € altera inunctionum applic ari folet. Duos hos   dii quando. remediorum m: xlos ad evincendum hunc mor- 1;  bum experientia Haygptossesubis magniquie jut  dem viri,tumexantiquioribus, tum ex recens |t:  Dbys,numquamin ufum Pete dos cenfent,  jb multas noxas, quas ex argento v ivo in cot--[ lo  poribus humanis excitari à fcriptc ribus tradi-  tum eft; et (epe experientia oftendit. Alii nullài  factà diftinctione, ftatim ad fuffitus. hos ex  cinnabari,autad uncliones ex hvdrareyro de-4 i  ícendunt, ut faciunt Empirici i. Alii hacin re»  fu fpenío q idem pede eunt.p riüs reo11s alexi- |  ph: armacis evincere l:em illam tentantes, fed  ubi tamquam hydra denvó novum caput emit«| |  ] | tereluea : Veneream vid erint, experiri altert  irum exiis medicamentis permittunt, fed uni];  dr ver(nm neeotium Empiricis, et ba rbitonfcril;...  "m bus committunt; ne fcrm:-]oim quidemaut fuf:  é REC t unguenti, qn Auf ri fint; przcognofcer y.  es,;quinimo, f fi ab es fc mulam aliquam expo  fcas, obmutefcunt ; là timé id Empiricos fcire.  re [popdentes . Ego hacin re ita cenfeo, et ita];  apes pax procedo : fiin p! inci pi: » fuerit. morbus, atu,  eA uolo caamfi progreffu aia iüs radices egerit, nom.  v7. dum tamen ufus fit re elis remediis « alexi phar  macls s» I    F- ^ nd wd L gue    pe    c «f    ANIAt ADVERS. LIB. FII. 305    nacis, omiffis illis ; quid cum veris alexiphar-  Inacls! preftare pæem experior, et quandoque  rei »etità üac curan Idiratione, omni ingenio tali  id em tento 5 ftc emm et ma ilam illam qual Itaté  evincere foleo,& laneuetr entib us particulis robur  addo : $in vcro fic vis morbi evinci nequit fed  hic nos 'eludit ; Su€ fi cb sis iitatem rei fami-  liaris illa 1n ufum duci non poftuünt; tutó;« : ia-  cricer ad hiec remedia tranféundum cenfeo ; et  ecofzpce illa remedia in ufum duco.   217. Sed cavendum, ne totum id neectium  E In pil r1Cl1S I; LE OH CH NN comn Ittàn t5'€  inc m inibus eodem calopodio titentes, autin.  multus imperfectum relin quunt neeotium, aut  pracipites &grotantes aguntin gr: iffima pe-  ricula,aut edam In mortem.   218. Maxi n Crro! reverfantur ii, qui poft  omnia adhibita r reoia remedia, cüm zerotan-  tcs jam imbecillos videant, M rtüute vitali,  et quafi universa carne confumptà ; nec aliam.    » Jue e    ml m RE e den os! mri Rr mme ee n A fm    Intinélto  fumigia  04b Eta  fries,  fsd à fert  tis Medi-  cis ad mi^  niftvari  debent ; nuncio  fun ereí lef] Cc)n, qua min ren led iis x hydrarey- l "n 7  rA end Ern Cimes 7 : nes ex ar  to paratis ; 1 lla quidem ncedut -. ed debilia,    aut quantitate arcenti vV1IVj, aut numero aut  inunctionum, aut foftituum;& fp 'cnumeró fti-  en olant. Ai t cnim omnino duo hec remedia   xcludenda funt, avt omnino valentia conce-  fent, et quantitate hvdrargyri, et numero  inunctionum, aut fuffituum; alioqui attenuata,  et loco motà quidem materi, dolores, et fym-  ptomata imminuta viderentur, fcd cóm ea non  expellatur ; alium locum quarens, fxpe nobi-  | V liorem    qento vi-  vo a no  admint-   firanda »  att vali-  de, trm  quantis  te COZfi--  nua, 11473    PilCrtL A Á liorem partem impetit, potiffimum caput, EN  hydrargyro, et cinnabari na ura fua ten dente $  " et fecum attenuatas materias ducente;quinimo  . cümargentum vivum veneficam habeat qualitatem, eoà corpore non evacuato, egrotantes  duplici morbo laborant, eo, qui fità qualitate»  luis Venerez, et aliis fymptomatibus ; quz ab  hydrargyro fiunt. Quoetiam fit ; ut tales feré  numquam curentüur, fed infeliciffimam vitam   ducant, et tandem tabefcentes marcefcant.  Inundlio 4119. Ex duabus formulis femper et tutio-  uádopra rem, et quæ meliüs morbum exftirpat, eam eí-  ferenda, fe cenfeo, quz cum inunctione perficitur : ino    ch 142- emaciatis enim, fi ccis naturis, 1n ftricto pecto" $2 31    do f4ff^- xe,3nanh lofis magis convenit, et in omnibus   ængi^-  (ymptomatibus magis eft proficua. In caden-   tibus tamen capillis; 3n cruftofis, externis ulce-  ribus, praferre foleo fuffumigia.   Suffumi - 2,20. Abfurdum ett fuffumigiis ilis uti ina  gia levia € ncendo hoc morbo; quz levia à doctiffimis  Fallopii, Fallopio, Mercato, et ahis dicuntur, in quibus  e^ M*r'à noninereditur cinnabaris;exficcant enim exter  zin m?'- nas partes laborantessat «im morbi interni not   £o FOR cxfüneuunt, neque materiam,in quà virulentia   p «nutu Ma refidet, expellunt.   " 221. Bafis fit cinnabaris ; addita. portione»  9j t es Antimoenil Wa March efitæ:ut prouno æorotan-  £5 "7. tecinnabaris fint uncie tres, Antimonii,& Mar-  fo mds chefite ana drachme tres, auripigmenu drach.   s. aromatum ad penetrationem additorum, pro  yarià cerporum condiücne variantium quanti-  tas    v1  1  i  ck    T.    ANIM-ADVERS    1 VAR E: 9  d pon. dus caterotri    LIB.FVIL. 3  Q    im: &[  ichmis fex, v«  aiuti di eria f per prunas, corpus in hypo-  auftoinclufum univerün piat, C anna ac.  ans,   sif firanhelo-  liquando    I| tas it ferea  lius frnou]    lie dr:    es    n exci  Infpirans, et exípi  um tamen erit,    Íus, aut aneuft  nem illiu sfun    45  1222    j$ Antequam ta    IOTacl5s,42   "hs 31 17/3   lexcipere B  j    'mie1a    caleícat aliquandiu zeer,& p O off i fudores Pic 'O-  fluant, non ^ Inutile »,  224. Inunctiones ex hydrarevro: apud me»funt multó frequentior  prouna curatione,iteratis inun  t131 It1Ont Inus tri  | quatuor unciis hydrarey i |  s falis  lgO mw 1n nw    Ct1OI  1  35:10.  ingeicc l GG CD    s    nlus tan    naxti    rta  già, qu  : "ut: laceo,& fi  n «X pulv cribus:   Ini, et Gmilibu S alique m  Case Marciatiaddü nt;  lIidere,; ut aliquibus vifun  b feriat.   215. In fricidiffimis natur   rià przfente,quz vix attenvar b p  CO moveri, 1 Ibi! eft preftantiu  aqua | |    |  aniforum, vel    ale,portionem un-  placet crocum ad-, quod caputinimis     et crafsa mate-  ffit; aut de Io-  $, quàm fi portio  portiuncula olei    Gq  I  1i    226. Vlratftabit "multàan    T  Í  v 3    catis dofibus, ul    OICp OrtiOoibusad fpu  bus, vel ber ona  ., Ex-  | hominis ; commu-  10 Cum.  elIn n du plicata dofi e(fe debet, addi-  pica,lili ni-  "15,1: iaftic em S, benzoi-  07  ulverisil-  [uncia unà 1n,    Suffü "mi-  giA ét ove  * aliquado  eXCipiei  da.  Saffuni-  g*4 aAZIÍE-  quam fiat  calor 1g  corpore ex  [4 71 A A5 LI    H»dárar /  s,1n quarum una dofi 7 JU    prouno  bomine  Cr AW,  v Lr OHAT  Hs, £^  VL et 4d a-  &a propor  10.    CYOCH 1  26i    le    Ch tones  ex bydrar  gyro 7:0 i  egrediatur.  A2uA vis  !&, yel 0»  lea calida  Cbynica,  quado "Án  £uentis  addenda.  Vrguente    so6 LPD. SEPT ALII A4EDIOL.    Iruncédt    e»ultam bus multam illius copiam] Pharmacopola ali-  quie. quis diligens, fidelis fi fimul prz paret;ut axun-  FXericah gla vett iftate cc nt tacta attenuationem adjuva-  i urs poffit: at quoties dofis neceffaria eft extrahen  "æg da, fpatulà, qua: deoríum erant partes fuprà  ponantur,,& piftilli L ongàin gyrum com mmotio-  ne optime de novo commifceantur ; gravitate.»  enim fuà hydrargyrum femper vafis continen-  tisinfimas partes petit.  Sudorife- | 217- Peccant communitet practicantes ; 'e  ya alexi- graviffimi quoqu e fcr ipto res, quia ante hanc in-  pharma- unctionem pr ropinant (iid lorificum aliquod me-  cawuipra- dicamentum a alexipharmacum, fic cenfentes  affuméda igmminui fymptomata illa fà eviffima, quz poft  (ded inundionem illaminfequi f epenumero folent ;  ÉH006*  cym illud potius fequatur, ut fübtili per f füdo-  rem parte cductà, contumacicte crafsa reddita,  non moveatur loco; neque ados feratur; vest  hydrargyrumn maximáà egrotantium pernicie  corpore non ex lens, perpetuam illislafferat mo-  "dex leftiam «i infu perabilia; fere fymptomata .  abarmaca 238. Preftabitigitur decoctis iis alexiphar-  soft inus. WX icis utl poftquàm inunctioneevacuata fue- eg  iones c-. Tit materia, five per fputum, five pe r feceffum  puma.  Áiveper lotium, ut vifcera à malà illà qualita tei    fi« anaréuen erii liberentur.  229. À pedibus aícendendo ad os facrum |    modas .   Qupui nd fiatinunctio, &à carpo vc er(us fcapulas, et per  inungex. Ípinam ad collum ufque : nu wt m caput in- |  dum. X ungatur,quod peífime aliqui iaciunt.   Junto  i30. lnunganturadfputi  prafilicdns ec]    tunc    c PER. M  * 4 T»  - treno t TR i oii BER e e e cati nto tem ANIMADVERS. LIB. VII. 3069  quando    cunc per diemintermtttatur ; et fi lenté moveri Edi  fputum viderimus;iterum unà ; aut alterà inun- 77 P 4"  ctione inCitetur ny s Sjuto zs  231. Si nimis affatim, et cum impetu przci- jj; 4f...  pirari materiam ad os viderimus, periculüm- siad di  que fübeffe inflammationis, aut füffocationis ; effiwentes  deturbanda erit; et ad inferna períeceffum me- c» periei  dicamento aliquo erit ducenda ; id tamen raró /» inflam  faciendum erit, et non nifi magnà urgente ne- 74/0975»  ceffitate . C fuffow  €8110/$75  grafente    FI MAI. XX quid pra    f'andum  FOR V:M;    Quz in hocopere conamnentur.    . P ?" " !  cerum im exyrbodinis mon ftt acerrimum, aut €  * 3 2 Ad : C  vino potenti[[nmo. lib.6. hi    "Aceti loco in oxyrbodimis [uccus citri aut limonum  non iudendus. libro 6. 2!  "etum pro oxymelite non [it acerrmmm nec ex  vino potentif[mo-.-lib.z. $7  JAceti folius ufus im. [puto fanguinis [u[pectus . libro  ó. 1$9  "A cidorum uus 12 acutus. febribus utilis ; fed zodtvandus, C quamodo. lib. 2. 37  ge cerkoodte 2ur-2iddat : Mert PNE  A cribus imus 1 dy Hi EY1A, quid fta um prejram-   dum. ' b a7 L Í O $   1eutic in febribus tenui ens M orant  -Acutis 1n | eUriDus. TOHWIMS CibAHQO Hm quam 17,5  alitis acutis. lib.2. [7   LI T . e /1 * : * ' L ecu   Acute l'ebricitantes [Hragulis nom numis cooperien-  a /. lb. 2 64.  Ps ZI / AA e7 14 277 lk / c5 ULL 23 ! DAL Ü CH inflamma-   Md ^" n^ ] ^ Y ; -J -  1207€ (9 f €t /€» fi Í»ecta. I1b..6. I j 3   n * . cs r* . ] *  Adfieinrentia 1n [puto [anguimis quando conve-  niunt, quando non. lib.6. 152    Jer frigidus acuce febricitantibus quando conce-  dendus. lib.2.. 63  | e Ld  nc flate quomodo ip acutis plus cibi concedendum  lib.2. IQ  etu    IWNSDMESVY    "etii fententia vefutata, in [anguinis miffione 121;  enim [uppreffione. lib. I3I  Albi pr ofi Yit vera curandi vatio que . lib.7. 149  «Albo m fluvio laborantes arena fc peli re malim.»  ;b. 145  4lboi 1H Pluoye adftr ingentia omnino fugienda . [ib; 07. IfI  uA b: mp: ofiuwvium curatum A Galenotaz uxo €  Boetbi 377,eularis fuit cafus ; (9" curatio TAYO    "uitanda. lb.7. I46  "Album profs !"PIUm apis us curandum aiver[Aa Ya-  Vincula T. radit ;G al £7 / 7 LE l1 jf I 47    » [77 "muuaane ovt 7 Voopidibd roa ral 10 5 eo Catttimes. lb. 9$  "    LLexipbarmacts vmpuro corpore non utendum. li-  rà 0 f. 7  "lots dofts varia, fi p*o pureante [umatur, cft f  pro atjeBori. ij I9  "L: oes duplex faculta: 3 fastahorbikana C abfler-  feria etrenans eresa les I9 l| Jdtoes Jonmumenm relettantibus mala. lib.c. 156    loes ulis dr riti libi.    I9  ah locs ulus in fobribu: quotidtantt » C longis opti-  - Ls   27145, C7" quama oeauteuaum . lLb.«. I9  MUI Tx YU T Lb! 2 T] !   JA vi profiuvto laborantibus frigida potus fape con-  Yeztt. lib. 7. Q7    Gp),  «neotna laberantibus, C b petis "fi (922241 1022€,  copiofrus fanmuis evacuart pote[ff, quam in alüs    17 fi. Uy pmeaionbuss € cur. 7 b.4 7    Ant ; '  Aneoiza laboranti bus g (4l Feci PN Llib.6. II3    9 [7 iz laborantibus repe! 'cida [c£ 10 Y€Z hi . h b. Ó.  Æ Cant.    ISUNMS DX Xv    Caut. 174  "nein laborantibus pra[lat potiones dare; quam  medicamenta [olida. lib.6. I1j  "Angiofts [2cculi ex di[curientibus mali busenutia  pra[tave. ib.G. 116  Animi deliquio [uperveniente in principio ex af-  fluxu bumorum acrium ad os veutriculiin prin-  cipio «cce [[7onum eft autriendum; ff ex refolutt  ne [pirituum aliquanto ante . lib.2.. 36  Antbrace, et bubose apparente;pro varietate pav  tis à diver[is venis [anguis mittendu rlib.$. 37  aut braces furimenlo, C bubone im pe fle apparcu-  te; fécanda vena, et quando. tib. 5. 36  A:uimenium in apoplexia fugiendum. lib. 6. 07   dntimonium in pefle veyiciendum . lib. s. $o  Apborifmus quinis prima Sect. quomodo intelli-  SCIAMUS. LIU 2. 23  "M:popletlicis aimiimmonitm mon dandum. lib.6....67  JdApople£licis cauteriam in comnailjura coronali 1n-  utile. lib.6. 63  "Apople£fieis ely[levzum quantitas varia. lib.6. 65    Ci pU  corpus. l'ib.6.  "Apoplett:cis cucurbitula fiucipiti appo[ita utilis. lt4, POETA. rho zi) 3772772 rA» ddr nesrlisitte HG  "p 'DLOCUTCLS COHCHII1CHAMUIP » perjricanaum eft |  $8    i  Lj  bát    bro 6. 644]    "A popletitets 12 ficanda vena vuluus. fiat apaplum.  "Apopleiticis 1a ctirandis votaitus fugiendus. lib.6    Caut. 6C3    "Ayopletticis ligatura quales adhibenda.lib.6. ..6.    "d popletlicis quaudo » C quomodo cucurbitula apiye:    plicauda    plicanda. lib.6 6i  Jd pc aple&icis repetizà fc "euis mittendus. lib. 6. $7  jetpoplectteis, ft [2 net: ei[[oconveniat.flaiin  admitni[handa.lib.6. $6  dpoplecztcis p ezaf ontis qua do [« cazaa.l:b.6.60  ledpoplechicus veficantia caput rafoappoft tau ite.  l:b.6. 64  Jdpoplexia i curanda, valida meaicemen a coti-  veutunt. lib.6. 69  Idpoplexia 1n curandas[ternutatorta quanao ednui-  mftranda. lib.6. 69  IVdpoplex:a 12 curanda » ab oleis minus waltáts 1n-  choandum. lib.6. 70  Mdqua bordet 12 acutzs febribus optimus eft. potus -  lib.2 p : 49  vAqua bordei non comventt 12 ommbus suarbis .h-  bs 0 2.4 A9  ^ kdgua bor "dei quo 077 odo paranda. lib. 3 49  liqua op ciflerninas aut fomiana, jop! mius potus  17 ACHI JA lib. p Á 49    T  L/    IL4daua vita, € olea calida Cbymica arte parat a»  quando cum utilitate wiguentis ex bydrara)ro   |. adauntur.lb.7. 22$   Mr: n&murtna, Yel fluviali, laborantes war em 0-  flivio zudas [zb Sole fepelire malum effe » et    ex  Ww  ^  NY  X  a&  o   de ad    Galezo repugnans. Iib; 7. L4  | wr fenico p braparate placenia pro favendo corde, im  Fe eflc le. lib. s. (9  duetrrevia qua [ecenda in palpitatrome. cordis . lib. 6.  C. 172    «ilti 20ft Zia 1 "77 palp itatione C07 diquando C0AH-  Y€AL.    ILXLNGUAVEX    i    9.    id    ]  b    yenit. lib.6. fyI  JA[cite laborantibus poft bydvagoga valida, ven-  triculus roborandus. lb.7. 49  "Afcite laborantibus bydragoga [aptus vepetit as,  noxia.lib.7.. $5  ftbmati ai tenuantia, OQ" impense calida, mala».  lib.6. I2X  "Af omat: obnoxii gargarifpata f l'neiant.lib.6.110  At omaticis diuretica mala.lib.6. 124  zifhoma icis, fomentis calidis gon fovendum pe-  eD&us. lib.6. 146  VAflbrnaticis c Hi veteris jus naxium.lib.6.. 137  "A: flbmatiecis sa pa rox [mo medicamenti m purgansi  mon propimaud um. lib.6. I40  Af bmaticts iu paroxy[noo nibil violentum f acien--|  ies lib.6. IA4I![  Jl (omaticorum im parox "ox ymo ue clyfleribus uten-  dun. lib. I42  A flbmaticis in par oxyfmno nom perfricandum pe-4  Cus. lb.6. L4 55]  Lh mat icis medicamenta purgantia que opaodo 12.4]  a funr ducen da. Irb.G. 135    T  E    A: batis quomodo, C' quando ladorifera con-4,  : 1 J d    YeRIuut. lib.6 : I3  "A febmatteis ficcamtta fugienda. lib.6. 133  Aftbmaticis fit 745 [ "pin u$,72alus.lib.6. I4  flbznatici [udorif iferisnon utantur fine dulcibus   lib.6. 1j:  "All omatteis vornitus pericn dois. lib.6. I 3f   A fl bmaticis vonzius 1a paroxy[mo fugiendus. lbi]  ^ Cut Hl. I4  A ft hma2    1  L    € TD  h ww : d WT "* A  o ral ep c 0, S BUE oo caliber    à Mie    E£MA COD. E 3    I bmatteis varta remnedia mutaada,ct mes  lib.6. I 47  l'rzennantta tz ^! 1€ comventunt ad deob[lruendas  | vias uriza. lib.7 9)    M'rtenuantia 12 princ: 'pio quottdzanarum non ftnt    J| valeztey catefacinita. ib.s. 20  I vc | L0 0PIZILIAO cibum aliquando d ætervrima  | aueaue concederfa. lib.1. 2:6    Iugoentum acce[[mongs: gmimus incommodeum ciba-   t109 quam fLaiusurmente nece[fiiate. lib.a.. 3  TE €a5 722207€ £A, Gc L0 ques quribus 27C0 quer €» ab-  "    IU furdum. lib. $. (9  Inribus vera inflammatione laboi antibus vepelle "    ] 114 ULX C07 D€ZILHM v b b.6. IO3  luribus applicanda vemedia menit alla fricida. ;  | Ib.6. IO  NES s al us 7 ]1   urium dolor: | "materia frigida, remedia ia-  fait vr ftii: IO$  moz ufus per os aamaittendus. lib.«. $6  lurz per os alJuzmendi varii modi. lib.g. $6    )   b  bendum [. p €, fed paulatim 1n et fuantibus fel mi  bes, mon affattm, C confertim. lib.a. 6o    i   |   ]   p^ a P ],    | febribus, ad offen dendum pureand a»        pe E   77220* €772, | "vfhcit 1 7 lotio 4ac []e P [/A dir 2Z alba H   m p»€?2,C7?' &Qud. pa. lib.,- G   andis iedicamæntis alumptts s ' vus [omms po-  A    " JJ *    Ec[t concedis. Itb. s. IO  i T2947 ux 0i All [^ profiu y:o l. "bora "ntis bi "[Toria Xplicata, Q' rao reddita curationis llus . lib.7.  Cant. 146  Bubone    F.y NS IMESXI    Zubone contumaci exiftente ; aliquando purgattomeM y    utendum. lib.7. 19551:  Bubone Gallico apparente, ques "podus CHYATOHTE enl    Bubone non exeutzte, non multa ingerenda neque dd  quibu[vis ve[cendum» contra E mpiricos. lb. 7-4  Caut. 196;   C   Calculo ureteres occupante,diuretica mala. lib. 77  Cat. 122d   Caragna, T acabamacha, Galbanum, 1n forma cep  vati applicata, in prafocatis ex femine » nul aid   lb.7. 1640)  Cardialeia laborantibus quando yonmitoria;et quad   do dete&loria conveniunt. I1b.7. 2i  Cardialgia laborantibus dejettoria [int 1t forma);   boli. Lib.7. 121]    Carie Gallica apparente, qua cautione proceden,    dum in curatione. ltb.7. 19)|  Carnofts.quam pinguibus;plus [anguis detvaben..    dug. lib.a. I  Cel[ia ia colicts ex taflammatrone utilis .lib.7. 84.  Ca:alepfi laborantibus calida P fteca fugiendax),..   lib.6 - 4A  Catalepft laborantes aceto intus * foris iutevam   cendi. lib.6. "  Cataratla oculi in vemovenda, cavendum ne tu[/h.   ad[it. hb.6. Id  Catavalla oculi antequam deponatur » quid. cavet   dum. lib.6. 1d  Gatarrbo ad thoracem, C pulmones srruente cam  gari[mii|    I N*D E X.    gari iri periculofi.Inb. 6. 108  Wetarrbt non fi lends narcotzets, nifi magna trgeu  da E te. l1b.6. 1124  Vufts rui hissoufüo t bu; quis ordo t2 illis evsa^    C7 er vendus. iib * 2» j:  liaufone laboranti purgato [ers exbibitio poft, op  ma.lib.5. II  iutione s qui multas babere voluerit circa Jangti-  nis 7H, fionem T quibus petere dichos, 2€ acta ab  aliis &gere vta lcaptr. lib.a. v os    uidi Mm 1n futu: a coronal ; cata D0,T€ cien    (9 52.0. 9^ Un REMEC - repe aso wt "P  | YAiclti17 GCCOCIO p«uranao COPMZZHPEAS error  4 ]fec do tinens "mt Ps ,   1 7L cac HT027  LÍD«. /« 2JlIO    j "Aalt) OC )  Ibole: Í 0Yantes qaiuaniao pet tpe? 2 € aq 540  ! t? / /Lat f "p - Le. [D.7 B 2 M,  AI DAI20H€C 17 HA, AH ALÍ€Ya CT! Leandauma &OoY0oÍtjs  Ld  E, 4 d    I3 DU AUECY 1a? 3 4€ C1005 " £barare Yiæant. lib.  2.Canut. 27    v Y^,    ri  4  )4 ; RETOURS KL onspsa osse v T  Apb: 17 «Ctt 0KHE OQUAHGOO 0] eT€HAMS ; (d quanao  ] ]  i    JS [2 1  «^ ]4), " [ 5 * "   per áuas bores ABC HU. 7. 26  *, ; da " E "P ! "n,   ! pons pauio ætertoi,24000 [MAYIOY » COZC CaoHnattse   OT Q NOUTT CN Sete PL E   b 2. À pl CI.245.010H/0« C etit V2 490977 » LE Un, 4  7 Y J H   Wrbu: querido o erre æUet 1» y? "etpio acce) Duy.   ub dib.». jj  ' J 3 £e ÉL.   " d nutaseuutanda YAUDHC lexus, € YoUOTLLS   j r   Ma, -   Uu Col ! À, e 6  * 4, 22   f bun 0p €! 15À2 DY1À ctt 10 2 (2 "Zl 4994€510 act efi:g-   ] d   «hl ?7 j "., "J^ /2 i si j D. : 2 2   ;    " y : : : v ubtes Kroxexes ERI "T  IM UTE 7 0j et / c yr&[rat perju J/4€82 [ftaius » €    --  Rt    Io NSDGEX:    juftante acce[fran e CP auando. lib.2. 21  Ci eres abflergentes in dyfeuteria quandoinden-  ] aài.lb. 7* 98  cif cerium abflergentium in fine dy[enteria abufus.  lib (7. 99  Cly[leres l lande inWiciendi, turgentibus flatuinte-  fini Yo. 2» 24.  Clyfleves communes cum. decottione folita zzmvete-  Válaty 707 let "Idadi ib. 4j. 26    Cl»(lerium commumum frequentes abu[us.lib. 3.277  Cif eres etam refr:, COT AHICS inflammat 25 Y€Hids, fint pauce quantitatis. lib.7. 11j  Chyfleres ia effetiibus vepum quantitatis parva. li-  bro 2 3* AR  Clyfleri in indendo ante fcBlionem venaqua. obfer-  vanda.lib.3. 3l |j  Clyflerem aute indendum in alvo dura, validum..|  muedicamentum exbibendum.lib.. $651  Clyfleres in pragnantibus grandtori | fetu,quanti-  tate non excedant .Atb.3. 2I!    Cl feres NUM €: fícce antes in dyfentericis rejiciemi    di Mib.7. 1044  Clyfieves prapinguibus uonindantur multum calem )  tes. lib. 3. 2.33.  Clysieves pragnantibus non frequenter 3ndantur /V  lib. T 2 CQ,  C! jfrere pro mulieribus quantitate majores effe A. )  iig ID, 2t  Clyfleribus puerorum oleumnon indendum.lib. 388  Chysleves violenter non injiciendi, snteffinis facd,  oM MUR: PL 2'8    Cly[ler    FHAXNTSUIDNEEN XX    Vvfter ut retineaturquid pre[landum. lib.7.. og  piscis a flatu olea data ab aito etiam ut ilia.lib.7 .  Cant. 76  plicis caltda valde atiu, uoxta.lib.7. 68  plicrs cly[Teres ab initio cum vino, vel [apa noxii.  lib.7. 67  pl;cis clr[leres ne zndantur, repleto ventriculo.li-  br ME 69  Wicis ex flatua valenter di[cutie €t4 nox 7 J[ib.7 . 60  Up/zers ex flatu laborantes ante u[um cucurbitula  puregands. lib.7 i SI    E WA 3  TIPIRAS in dolori ibus aqua frigida quandoque utilis ;    e  Ce quama NH, jJ. 72 92   APIZCLS L7 doi lO0Y 10145 .£ i flammat 1071€» "mca 1 A122 CH -  : T j L Q   Jzo purean t1, let baie.lib.7 92, LJ. ] 35 »-  p/ E 'oyt lecta YYCeAA 277 talo. ]14 "dado confert *    i "1 "3 ] ! 4 p - " E ss i -  Izcis 172 aotoribus non Legientibu. Jolissaut ft Ji 'erco-  FAVILIS., «H 'Aræ agentibus med pem C7 1$, Aat        ILI zrautegdum Jed pere pur gaumtiuns » (cur.   I /b.7. 7   rcr s 172 121110 vale nterdi[cutietia mala. lib.7.66  qWNzczs [T upc facientia potilTipouma con vcaiunt jfi fimt  Wa calida mat eria.li ib.7, 70  Meus SEupef acientia concedendas viribus confi flem  Sirebus. lib.7. 71  y2C1$ uftes ok orum ab t1a:t:0,202 ali 4 grecede c2  CHAT » Muiuttlis.lb.7. 73   ' | boatna compen    C" ion5 ^P MV 0o 4 O0^^ mn zs 742 na44 1 f444^ /  FAAULO[L S ! 092€/2: 4 €X olets 208 Iutt 7 "4 bibeg A4 vLlbro    IV NS DEM PA.    Ais 3$] (  dii io male primis diebus oleum cl« onamcli-  ? ex aceto applicati m. lib.6. 37!   C inc oCta médicari,cruda ncn movere, c'e Fin  pocva 1i fent €fii 1a expHeatz ; loc Hi "ppocratiss! i  (C alen: con: roverfi coz ciltati-lib. 3. 48i   "on [udi ar iones meæ debent fieri feciufrs arbi--  tris (P eur-liba. I2   Cos[ mpsaqui a porius ex carme vi tulina.lib.2. 4$]   Con mp quom odo parcatur«F. b.2. 4.581 |   Convt jr partes omnes ca. TUE fo? enda. lib.6. 92, f«do ove [uper Y€81€5H:€ s quid á (enam i (un  Q.    ;41 4  ib. o:    Cordis in palpt'« attore zum ob fers 29 41015 is wbunaa 7    QU x1  z    ram mitiendus fi [anguis » qua caurto adf biben   da. i;b. 6. 16  Code laboramte ex craffis bumoribus, diuretica.A   c fedorifera non cor vertunt. cfi 6. 177]    Coáe laborante ob fer ofó buroves, diuretica » C  [udov:fera optima. Iib. 6. 17  Cordis] palpitattoni quando, G1" quo cafn fangu  "m 'cndus.lib.6. IC  E vi ft d fia fente quomodo proct ede dum.lb.s.  fi in iamper[ecía ; codem die sibil à AMedicomml,  E: €/ don bs 25  Crift immiutntes quando à capite eff repellendum  l:b.6. ]  Critici: diebus quando sædicamentum purgans eA    Crocum inuutliones ex bydrargyro non ingred.  2    Crura    Hi  PY. liD. 7. IA DX Ey  Crura. [unt perfricanda, ' abluenda per tres dies  eunte [ethionem tali.lb.7 137    Cucurbitule zn fpa[mo q ducimio applicanda.lib.6.8e  Cucurbitule12 dor[o, "E 107 cordi5.quando    comvemant.lib.6. 173  Cucurbitule in palpitatione cordis quando applican-  da. l1b.6. 169    Cucurbitula in pefle dorío quando applicanda, is  quando ag0n.lib.$.   Cucurbitule im. prafocatis ex enenfibus famreffis  ventri applieite,mala. lib.7. 163   Cucerbitule in prafocatis nbi affigenda.lib.7. 162   Cucurbitula magna in colicis applicanda cautio. Libro 7 y 78  Cucurbinul 4ARAQUHA ventri a pi heit, fi ff f CHZ paunco  z2ene.lib.7. 167    Cucurbitulamagna [it ex perforatis.lib.7. . 168  Cucurbitula magna ventri appoftta diu 20 bareat .    lib.7. 169  Cucurbitula noa diutius afhxa parti permittatur .  Iib... 26  Cucurbitula [carificata ia pefle aliquando vicarie  fechionis vena.libro 5. 29  Cucurbitula [Gavificata in [uris in pe[fle frequenter  in ufus venire [olent.lib.s. 40    Cucurbitule, fi cum [carificationes cum pauco 1gue  fent afficenda.lib.4. 2  Cucurbitulis [ablatis 1a [pafmzo, fabietla paries fo  vezda.lib.6. oI  D    Debiles dum purgautur.aon ex[uraant.lib.g. 24  X    A  --  i    Dec CÜINDEM.   Decotta folventia in morbo Gallico rarà in ufum  yeniant. lib.7. 20j   Decrepiti parum, C fepe cibandi; € cur.lib.a. 7   Diapboretica 1n flatibus cordis aur 1n ufum. nca  ducenda, aut sllis admi[cenda fabad fl ringentia.  lib.6. | 179   Diarrbea laborantibus pinguia [n[pecta. lb.7. 8$   Diarrbea laborantibus quando ab[lergentium ufus  conventt.ltb.7.    Diureticain a[tbzaate mala.lib.6. 134  Dinretica ia calculo venum in uretevibus mala.  libro 7. 124  Diuretica in pra[evvatione à calculo; [epe moxta.».  lib.7. 12j  Diuretica potulentá won diu in lydropicis in u[um  ducenda, G cur.lib.7. $2  Dolente capite ex intemperte calidasaceti portio it  ox »yrbodrnis frt parva.lib.6. 7    Dolente capite ex intemperie calida fine materia,  oleum vo[atum 1a oxyrbodinis fit ex olivis maturis, C cur. lib.6. 9  Doloribus capitis etiam vebementiffimisyimmninen  te criftsvepellentia fugtenda.lib.6. Ij    Dyfentericis clyfleves abflergentes quando conventant.lib.7. 98)l.    i TU    Pi Dy[enterici ex atra bile antequam purætur, fero--|  cia illius bumoris prius attemperanda.lib.7. 92:41;  Dyfentericis in decltmatione ab[lergentia malas.)  ltb.7. 9.991    Dyfentericis per fe convenit [zngurmis »ui[io;fed oll, adjuntla raro convenit. lib.7. 945    Dyfen- Dy[entericis pinguia in Jict quando utile,  noxium. lib.7.    C" quando    102  Dyfentericis quando purgans medicamentum cosn-  vent, C? quando non.lib. 7. $9  Dy[entevicis quando, * quomodo Janguis mitten-  dur.ltb.7. 96    Dyleutevicit quomodo, cf quando narcoticis uten-  dup.lib.7.    IOt   Dyfentericis KR babarbar: ZZ Jufpettus. lsb. 7. 93   Dyfenterici ubi psrcadi,flatim id pra[ladul.7.91  £z    EmplafHicis in ophthalmia quando utenda.lib. 6. 96    Empyii a na' ura curari per evacuatiouem mattri& per [eceffumsexemplum.lib.G. I27  Empyiei quando wrendi;aut [ecandi. lib. €.  f:,    Epileptici in paroxy[mo non concutiendi.lib6. 45  Epitepriets ex aura virulentælevata raro gmitten  dies [anguis.lib.G. í3    Epilepticis in paroxy[mo caput non ceoperiendum.».  lsb.6. j  Eytlepricis lignum ori nom ind£dum fed quid aliud.  lib.6. f1  KEpilepticis pralervaudi quando ex brachio, cf  quando ex talo mittendu: Janguis. lib. 6. $5  Eptlepticis pra[eyvandis valida purgantta fepe no-  xam afferunt.lib.c. | $4  Epileptiets veficantia capiti de vafo applicata, optt    mum remeditm.lb..    33  Epilepticts vomitus malus.lib.G. $o  KE pilepricis vom orta fempe y mala.lib.6. $4    Epiphbora i2 curanda tn princrpio «dftringentibus  *X HI CHI.N DE X.  Aytendum. lib.6.    $5  KÉypiphbora in curanda eyrbinorü rarus ufus.lib.6.90  Errbina;et flernutatoria aal laborantibus oculis.    lib.6. ! 17  Errbina in letbargo optima »18 emultis tamen fu-  gienda, et 1n quibus .lib.G. 33  Errbina funt pe[[ima in dolore capitis ex- morbo  : Gallico.lib.6. ! I1  Errovescommi[fi ig ten yillu;pravalente indica  tione à virtute, funt majores » fi peceetur minus  dando.lib.2. 21  Errores commi[fi in tenui victu in formapari indi  catione virtutis C£ morbi exiflenre ; pares fant s  c «qualia inducunt pericula.Iib. 2- 22  Errores commi [i ia tenni vitium quan "tates pars  exiflente indicatione virtutis CP morbi, pe]ores  unt fi plus quàm par frt concedamus.lio.1. 23  Errores 1 tenui vitlu p valete mdicatione à sorbo  fabtrabed:, majores»fi peccetur plus dado.l. 2.21   E yacuandum [anguimis mi[fione, antequam motus  defierit ; fi tempore mit endi [anguimis men[es  fluere contigerit »[ed impevfetie lib. a. II  Evaporatorus in calidis,có frecis naturis, ad [udo-  res utendum.lib.7. 207  Ex argento vivo inuntliones parate»? fuffumigits  zon ab Empiricis, fed à peritis pra fcribi debere;   UR yariari.lib.7. 217  Ex bydrargyro parata vestediapro morbo Gallico,  an im ufum duci po[fint. C quande.lib.7. ^ 216    Febricitantibus à partu ummquam mittendus [au-  4/721  e     guis à f[upevnis.lib.7. 1768  Febribus in continuis evacuatto per lotium comma-  dior, quam per [udorem.lib.5. à    Febribus in intermittentibus, potiffrmum tertia  pis,fudoris provocatiopraflats qua urina.lib. s.t  Febribus longis aloes u[us commodus, C quomodo e  lib. 5. 19  Fiuentibus ad oculos bumoribus ; ab[linendnm ab  ad [lringentibus. lib.6. $8  Fonngraci in lippitudine utendum decocto, mon fe-  mins. lib.6. 97  Fanugracum abluendum antequam in ufum duca-  tur .lib. 6. 9  Fotidanon [int,qua capiti [unt applicada. lib.G.11  F gium excludentibus quando utendum, Gi quomo-  do. libro 7. 174  Fomentis calidis non diutius utendu et cur.l.3.39.  Fomentis frigidis a&bu nü dinutenduset cur.l.3.40  Fontanella in [tura coronali in catarrbo ve]iciente    da.lib.6. 107   Formam vittus primo virtus o Bendit,[(ecundo [ym  P | Die   p'omata ertio flatus d:flantia. lib.2.. 20    Forma vitlus qua doceant 1n acutis morbis.l.2. 10  Frigida potus [ugiendus in inflammatione inte jfeinorum. lib.7. 98  Frieid:fima atu e[fe nom debent, qua tboracs apple  cantur.ltb.6. 161  Frigida «d fiflendum [anguinis fuxum optima...  | praterquam [i ex tborace fluat. lib.5. AI  Frontis in vena [écanda » blande gula ad[Iringen-  dax brevi tempore .lib.G. 32    X 3 Frue    I N-DE^X.  E rullus bovarii in acutis vejiciendi.lib.a. 39    Galeni con[ilium pro puero epileptico depravatiam .  lib.2. $7  Galli veteris jus aflbmaticis noxium. lib. 6... 137  Gallico12 7ovbo curando, quomodo zAutlor plura s  quàm alii ober vare potuerit.lib.7. 186  Gallico iz »orbo in principio lententilss abflergen-  tia C purgantia admijcenda.lib. 74.194,  Gallico in morbo curando alexipharmaca mi[cen-  da.lib. 7. 196  Gallico1n morbo proeve]fo purgandum. lib.7.. 194  Gallico in morbo pargantibus validis agendum; c9  cur.libro 7. 19$  Gallici morbicuratio diver[Aa » inchoante ;  pro-  ere[[osmorbo.lib.7. 186  Gallicosmorbo incboante C$ bubone vix exeunte 2,  tenuis vitlusnalus.lib.7. 18$  Gallicoyaorbo incboantesetuam ad bubonez promo-  vendumsexercitium validum malum-lib.7. 199  Gallicus yaorbus inchoans,ftze purgatione exteris    quandoque folis curatur. dib.7. 186   24H " ",,  Garczavifmata fugiendasis, qui repleto [unt tbera-  ce.Iib.6. 109    Gargar:[matain catarrbo quado co veniat.l.6.111  Glaucis 12 oculis s(£ latas-venas babentibusy smittoræxterna comveniunt.lib.G. 89  Glutinantia in [anguinis (puto quando utilia,  quando noxia. 11.6. IjI    Geonorrhbea Gallica non fLatim fupprimeda. 1.7.1 18  Generrbea Gallica in curanda,quomodo 1t curatio-  ne pro-  FINE IROBS X    se procedendum.lib.7. 19]  Gonorrbeamuta:ur 15 f'uxun albu.fi diutius per-  feveret., et mnc quomodo curanda. libro 7. 130  Gonorrbea quando calef acientibus curada.l.7,129  Gracilibus quibus plus [anguinis detrabendum, c  quibus muixus.dib. 4. 11  Cua]aci decoblum cum dura fit illus fob[litia, qua  nodo minus lonea cotitone zndiget. lib. 7. 213  Guajaci ligni fpecies qua in Cura done morbi Gallici    re]ciende. lb.7. 260  Cua]aci lignum quod in ufum ducttur,non [ft anno-  durm-lib.7. 200    Guajac: [pecie s rejiciatursque eft mimi acris,et tur  b1au decoétu facit, pumquam clarefcens.1.7.202  Guajaci fcobs neque craffor, neque im pollinem du&a.lib.7. 203   Gya]aci rune non [int umoris ligzi, neq; parvi,   nam [unt in validi.lib.7. 201  H    Flemorrboietbus [sperflue evacuantibus, am omnes  occiudenda » an una velinqueuda, fententia AA4uCloris.lib.7. II2  Heyate evyfipelate laborantes frigida atla comve-  "nunt .lib.6. 46  Hlepate evyftpelate laboraa*e, vepellentza [ola con-  veniunt . lb.7. 4j  Hlepate f 712:do; calida t? ficcamedicamentæxier  na fufpetta.lib.7. 3$    Hepati: eibbainflamata, ante ufum diureticorum   alvus lenienda. lib.7. I  FHepatico fiuxuis remedium fineulare.lib.7.  106  Ne d Hepaf ND E'zx.   Wgepatis in calidaintemperie quando purgandum »  ci quando non. lib.7- 3  Hepatis in calida integperie manna uo [ufpe£tum -  lib.7. 33  Hlepatis in intemperie calida ref[rigerantiaumpen-  se, e adfiringentia [u[petta-lib.7. 3$  Hepatis in inflammarne in principio non purgan-  dun-ltb.7. 40  Hepatis ia inflammarione repellentibus attenuan tia etiam in principio mi[cenda . lib. 7. 41  Fiepátis in inflammatione attu frigidafugienda .  (im  lib.7. 34 [bi  Hiepatis inflammatatava purgandum. fed in decli». fis  nationes cotla materia. lib.7. 40 MH  Hepate inflamma:o [ime mate ria,repellentia fola  conveniunt dib.7. 44  Hlepatis in iuflammatione in declinatione mon puris. |  vefolv entibus urendum.lib.7. 47    Hepatis in ob[lruttione attenuantia cur dnte pran- «|  dium applicanda.lib.7. 37  Horde: ad aquam proportio pro pti[Jana paranda .. |l,    "m  Ó dj    lib... 42]  Hordeum aliud [læ cortice, ve[hrum aliud. lib. 2..11i  Caut. 40]    Hordeum pro ptifana quale elicendum.lib.a. | 4p  Hordeum quomodo parandum pro pti[Jana confi--|    cienda.lib.z. ATi  Hora tres à cibatione ad principium acce[[wumis nom. |   fifficere. lib.a. 344]  Elunores effc ducendos quo aatura vergit.quomodcià   gntellimendum.lib.5. 47A    H»yárarFIXNYXDOcBGI    | Ei ydrareyri prouno bomine 1numgendoque quati-  tas." qu& ad aliasmar edientta proportio.l.7 l.2.224,   J| Jd ydropicisattenuatia no diu in usu duceda. L 7.5I   | Hydropicis Rhabarbarum inutile. lib. 7. $4.   J| Hydropicis bumores [erofl à principio purgari po[-  fuat; fed à et levioribus tncboandum. lib.7. 49   » li ddyeme plus concedendum. [ed variussa[late miuus;    fed [apius.Iib.2.    H yeme quando minus nutriendum.lib.z: I1  "i   Ilerici inprincipio non purgandis[ed praparandao   eft materia. lib.7. 63    Iilerici valetioribus medicametis evacuadi.l.7.64  Jélevicis valida non danda medicamenta, [i ex ix.  patis inflammatione.lib.7. 65  In cardialeia ex vituitaatida dejecloria fiat cum  purgantibus. lib. 7 30  Is cardtaleia 1n SrinGSpuA vepellentia conveniunt,  non ad[ ringentia.lib.7. 216  In cardia dia fbduiloria fim blanda.lib.7. | 28    Iu empyemate no tentanda materia expurgattio per    Po fece[furn.lib.6. 127  I| Jnflammato bepatesrepellentza ante fecélionem vene  non comveniunt. lib.7. 29  IIo palpitatione cordis curanda que vena f[ecanda,.  | libro 6. 176  In palpitatione cordis ex flatu pr "ovidendum flati-  bus ventricult.lib.6. 174    Jn palpttatione cordis ex flatibus, exterats calidis   non e[[e utendum pra[cuie adbuc materta.l.6.17 5  In plevriticiseexterms no indi[Lintie utedul.G.122  Inter    Jntev [udandum ton adeà [ape purgandu.lib.7.208  Inunéiiones ex argento vrvo aut non [unt 1m u[uino  duccudas aut ft in ufum ducantur valide efJc de-  bent. cur-Àib. 7. iid  Tnunélio in morbo Gallico magis laudanda.l. 7.219  Inuntlio ex argento vivo quando1nte rpolanda. libro 7. 230  Inuntlio fi fiui praferenda in curatione morbi Gal  lici.lb.7. 219  Jnwungendi roodus.lib.7. 229  L |   Lac in d'y[entevicis am conveniat » quando, C quo-  modo parandum lb. 7. 97  Lac in renuma wlceribus qua. diflinélione dandum.  lib. 7. 121    Late a[fempto in phibift, dormiendum. lib.6. 163    Latle muliebri qua di[Hntlione utendum in ophtbal VU,    »mia.lib.6. 92  Latlis quantitas rn ulceribus venum qu&.lib.7. 121.    Lapidem in vefica frangentia medicamenta fiétittia.lib.7. 127']    Lapidis in vefica unica curatio, excifio.lib.7.. 117!  Layidum ex vefica extrattorum bifloria due admiranda. lib.7. £277Àhu    Lapillorum precioforum [us neq omnino ve ficien-  dus,nec pe[[amsut fitsrecipiendus.lib. s. $4    Lenientia:n morborum principio majori ex partem,    comvenunt.lib.s. 44    Bi    P    Lenientia quo tempore, qua bora, C quantum...    ane cibum exbibenda.lib.5.    $i  Lens quomodo Fitppocrati frigidiffima.lib.g.. ye8    LenFONS DEO X.    | ILentium decobtuma, C f)rupus inpe[le, C vartolis  vepiobasdum.lib.5. $9    ie Y MLentium qualitates, variazatura.lib. D? $9   J erbargicis cucurbii ula applicanda. lib.6. 31  | Lei bar. eicis quando [ecanaa veuas C£ quando mon -  lib.6. 30   | Letbargieis vepellentiaparce applicanda. C fiue 2  aa[tvitlione 4:b.6. 34    | Lezimeniis hepatis 1a obflru£lione fotus calidi pra-  ?ALTi endi. vs 28  ; cS FS ): Jt, P". ; sc E P -  V aLippiiudigi valide ad[Lringentta contraria.l.6.9 4  P7 d  !' MM azrea s, co Jp ccharo parata, 14 chole va fn f Cla»  !j  lib.7.    25   M aflicatoria 12 doloribus a calidis, €? temubus  bumoribus quando non concedenda. lib.G.  16   | LM edicamen: ovum altevautium materiam t [fc mu-  tandam.lib.s. I  JM edieus commre]Tus medicos amet, C quopzodo [e  12 €15 gerere debe. l1b.1. I1  aM edicus cum mulierculis, C imperitis de rebus  medici non differat |abyo 1. 18  dM edicus de mercede non paci[catur.lib.t. 21  Mad edteus C do£irizasC ufu inflrutius artemexer  eat lib.i. 24   IdM edicu: fuaiat mollitiem exteruer.lib.t. $    uiuM edieus eratis aliquando curare debet.lib.1.. 19  uM edicus tznan glortasaut nimo [ui amorc aon ten- Ji tetur-lib.x. 9  dub edicu: gratos erian1n nece[[itaizbus non defc-  ab -rat.lb.1. 21    AM cdiI'N*JDS.E    Medicus in omnibus praftans qualis.lib.t. 3  Medicus im oratione, C farmonibus varius, pro  | jo  agrorum varia natura.lib.1. 26 lu  Medicus juvenis fab datto M edico praxim. addi. Lim  fcat Lib. I. 16 0  Medicus morbos [uos excujet. lib.1. 3 |  Medicus nom inbumana [evermate utatur.lib.y.25 li  Medicus aon fit jattabuudus, amt nimium pollici- 4. w(  tator.lib. I. 23 |l  M:edicus gulli [ctt fít additinus s fed nudam fequa-. Mais    rur veritatem.lib.1. 10»  M edicus pietatis cul tor.lib.1. Ii  Medicus qualis in veftitu.lib.1. 6;  Medicus qualis in odorati sfe vendis.lib.t1. 7]  Medicus quomodo excolendus.lib.1. HET    dicus Jamtatem pra[efe vat.lib.t    d  v  Medicus [ecreta remedia non profiteatur, [cd alis  I, communicet.lib.1.  Medicus ftt [Fudiofus munditiei.lib.1.  Medicus [ylvasm medicamentorum prompi am ha  beat. lib.1.,  Avfel vof fol.licet im bilioft : febribus ab initio 20 CCo  vyeniat,in quo'iduanis opiimu eff vemedin.l.s-YÀy,  AMelancbolicis liquida macis.quam arida vIEAICUA  qenta comvemunt.lib.6. «q  €Melancholicis quando fineuis spittendus,quani,.  fupprimendus, et quado finendus.hb.G. Mellis ad aqua propor!10 pro paran da sul [a.l.2..]  Memoria deperdira remedta non famper calidas  cet Galenus ejus caulum frieidam faciat.l.G. .|  Memoria deperdita curanda varii modi et contio.  rii.) Vit. Lib. 6. 36  jJ Memoria deperdita quomodo à frigiditate; fi fepe  à caufis calidis. lib. 6. 36  ^l] Memoria  curada rara evacuatione op eff.l.6.36  | | Men[es promoventia pev os fumpta debent effe i2  multa quantitate. lib. 7. -I40  | AMenfibus immodicis in iflendis repetita [angurauts  silhofiat endeen die. lib. 7. 141  VAM ez fibus mimodice fluent ibus; aliquando medica-  men! o purqante utendum « lib. 7. 142.  AM ez fibus 122 promovendi, Jecari pote[t vena in.  à ante tempus motus cum Galeno, C? verfus  finezo motus. lib. 7. 53   TAM enfibus 12 promovendis mon eff [ecarda ver a dum diminu: € fant tibi mulier aut t1207€ iui  afficiatur. aut animo folea: AT lficei re. l1b.7. 134.  | Wa enfibu:: 15 i pramoy enais pra[lat repetere [25gu:-  71$ 9i Jf oneza. lib. 7. 3$  p^ n[tbus [uapevfiuisscum v "edicement opurgaute o  | uilcenda. aa[tringentia. [; MR I4  "T enfibus [up ci finis remedin "o "lare . 1.7. 145  m7 e libus fupp: ejfcs LU e Pene yox naa. D ies 131  Mercedem oblat am Mediceus prompte, uon qu gi    s]  2 furtim capiat. Irb. I. 2C  Map. onem [aneuinis ex talo pracedere debet exer-  jn CLUMm RA "me partium m fern un. l1b.7. 129  127 ode[Ha aceintius Medicus domos dngrediaiur .  lib.1. 17  WM orbis complicatis ton contvrartis, quomodo pro-  cedendum WWACER S j  "Morbis complicatis eontrarus quomodo provi- acndum dendum.lib.5. ær  Morbis extremis; flatim extremms vemediis utendum Morbo cau[& complicatostau[a primo vationem bæ qu    bebomus.lb.3- ^ 7. 32  Morbis mediocribus blande; cum tempore occur  ;8    vendunz.lib.5    Morbo jn pracipiti [anguis prius mitti debet,qu& Vu    alvus [ubducatur.lib.4. 21    jd    Morbus cum 1gnoratury attenuandus victus . cur »»1)    I$]. quomodo.lib.1.  AMofthus in umbiliai cavitate pr&focatione gignt «vina  lib.7. zGXul  Mulfa alia crudasalia coéfa.lib.». $c    AMul[a aliapro medicamentosaliapro potu.lib.2.. 5 cc (m;    7Mulfa alia meraci[[mmasalia mediocris » alia dilus  ta.lib.z. $«    ' ib    Mul[a ex faccbaro optima quomodo paretur.  AM ufa svekmelicrati d. fEnetro ; e£ conficiendi rad) in  IN    H10.lib.2.    Narcoricaim capitis dolore ratrone doloris ix aad) am    pibenda, fcd aliquando vatione vieiliarum.l.6- i    r  Narcotica:n dolore captis pev fe vix per os concad ai    denda.lib.6. Narcotica in dy[entevia parce adhibenda... 36]    Narcoiicasumaua applicada f uris capiti." 3.4 6,    Narco' ica numquam aurvibu: emmittenda.lb.3 v  Narcotica numqua iu puerts in usu ducenda.l.3.  Narcoticis varo utendumsQ quando.lib.3.   Naufca laborantes quando purgandi, C quado sid,    lib.7.    INatn-li   TT    1]    li    Is Do EY    ] AMaufea prefente, vomitu excitato,in co sion veul-  tum infiflendum.lib.7. IO    ie d Obffetricibus eut affeventibus.aut negatitibus gra-  viditatem, Medicus non temere credat.l.7.170  FOb[lerricibus remeré non credendt.cy afferunt fe-  tum e [fe mortuum se »iexclidenat, ef[c.l.7. 171  ipOlea in colicis data adjuvanda cum ab[lero ibus,  vel pureantibus. lib.7. 7  WOlca f'nllata in wfism mon venient » mft aliis alliez-  ta.lib.6.    71   TOleis cur cera cddenda. lib.G. yÀ:  WOleum amyedaltmum a partu ntq; femper.neq; qui  busvis coz venit  qOlcum per os [umptum quando zn colicis optimum.  4o prafdim.lib.7. 74  aiOleum rofatum pro oxyrbodinis fft vecens.lib.6. 10    JOpb: balmta in curanda opii vfus neq multus, neq;  A frequens.lib.c. 93  JOph!baimia 1n curanda, qua lentorem babent A comrmoda.lib.c. 75  UOpb:balmicis paucif[ma externa vemedia adbiben  | da.lib.6. 99  Dpiatasut 7n alitis ventriculi affctlibus fugienda,  sta in dolore inflammatorio eju[Æm concedenda,   b C quomodo.lb.7. 3  WOp: ufus frequens im lippztudrme malus.lib.G. .9 3  4D: colluendum anrequam æri cibu [smant.l.2.47   | qDo mel no[t-u imbecille ad cra[faincidéda. 1.2. $$    AQ. ymel H0 ferum 17 ACUETS f bribus non fat 15$ 44CCom  eodatum. lib.a«   j  Oxymel    iN Oxymel quamdiu excoquendum. lib. 2. $E  Qxymel feplaftariorum diveríum à Galenico ; C  Gracerum. lib. 2. $2  Ox*ymel feplafiariorum fimplex nom eft potus » fed  forbitio . lib.2. $3  Q:ymel feplafrariorum non bumetlat.lib.2. | $4  Q»ymellis parandi ratto Oxyrbodina applicata ne ficcentur. » aut ex affa  zmateria applicentur. lib.6- 2  Qiyrbodina n capitis dolore magis proficere » ft ex  alto decidant. lib.6. I    Ox yrbodinis narcotica vix adpiifcenda.lib.G. 3 D.    Panatella an [emper ex pane loto.lib. 2. A4  Panatella quomodo paranda 1 acutis.lib.3. ^ 44  Pazalytici quando ab initio purgandi.lib.6.  73  Paralyticis cucurbitula ubi; quamdáo pn A. ra    lib. 6: 791r  Paralyticis diuretica optima . lib.6. 744].  Paralyticis olea diflillata folainutisa - lib.6. 760p  Paralyticis oleanmmis calida mala Paralyticis rubificantia quando comveniant.l.6. 765m  Paralyticis fedorifera non enultum comada.l.6. 744 "7  Paralyticis vc ficantia utilia.itb.6. za  Partus non accelerandus ob preces parturientium | 9  I;b.7. 17:3  partu in diffcils varó exbibenda promoventia fei  cukdas.lib.7. iz  Peffi odorati impoftti in pr efocatis ex femine » ve IL. LA  ciendi.I:b.7. 1$ |.    Pete affecti medicamento purgandi. lib.5- m  Pefle     !| Peffe laborantibus ex diver [rs caufis, quando smit-  rendus fane s.lib. s.    ji  |! Pefle laborantibus mon [emper conveniunt purga-  ros fangumis mito. lib. s. fI  | Peffe laborantibus numquam mittendus [anguis ad  ammideliquium.lib.s. 33  | Peffe laborantibus folum im principio [angws mnitti  poteft. cur. lib.g. 34  |Peftis materia ab initio puyanda. lib. s. 47    | Peflis materia crudadici non poteft.   LPeffis materia majori ex parte turgéns. lib.g. 4  KPe[Hlentes febres, licet peracuta, non requirunt te-  nuifhmum vitium . lib.z. 19  MPeflilentes. febres frne peffe coElionem expo[cunt in  "HAI€YIA » nec 1n principio 1u dis purgandu.l.$. 4$   A MPeflilenti in febre, maculis evumpentibus, [anguis  |... fecta vena poteft evacuari Ci quomodo.lib.$. 3 r  APharmaca glacie, vel aliter vefrigerata pe[[ime à  quibu[dam conceduntur.lib.5. 12  /MPbarmaca » que mifcentur, non ffztt ex dis, qua difpari tempore operantur. lib.2. I6  IPbarmaco a[wmpto, non dormiendum, cr in qui-  buss e quando.ltb.s. 6    IPbarmaco aJumpto, eule, aut vemionz ventriculi  calida non [unt applicanda. lub. 5 . 7  "dMPEarmaco non évacuante, uon [emper poft tres bo-  ] ras pufculapropinanda. lib.5.   dPbarmaco non evacuante;clyfena mo indendsz.1. 2.9  Jbarmacorum validorum extratla per vinum; aur  aquam vite, periculi plena. lb.3.. 14  JPbrenetict in principio purgandi. lib.6. 2  WPbreneticis acetum in oxyrbodimis parce adbibene   v Y 9 um. e  Phreneticis cucurbitulis appo[itis quid faciendum Phreneticis in curandis mon diu narcoticis uiendum. lib.6. 27  Phreneticis in curandis vepellentiætiam folaultra  principium comy emunt . lib.6. 216  Phreneticis non e[l enittendus [anguis ad ammi ufq;    deliquium. lib.6. 2I  Phreneticis fi inbrachio fecari vena non poteft, non  fécanda easquein fronte. lib.6. 20  Phreneticis [latim vena fécanda.lib.6. 19  Phtbifi laborantes latte ajumpto dormire debent .  lib.6. 163    Phthifi laboratibus blande alvus mollieda.l.6. Y64  Piluleta Gallico morbo laborantibus purgandis in    fine praferenda.lib.7. 197  Pilula in tufi f capitis ajfectibus ; male dantur  poft cenam.lib.G. 166    Pilulepro capite expurgando majores » pro ventyt-   culo minores. lib.3.  Pilule pro capite purgando à cea 40 danda.l.6. 15  Pilule valid:f[ima forma non fiut magna (cur.    lib.3 1$    17!|    Dituita fal[a quotidianam producente » plenius mu    rriendum in principio, [éd 4 ventriculo deturbaui y;    da e[ materia. lib. $. ?    Plevrifictí; c€ ante fomentis dolore, non confe[tim|    defi flendum A veris remediis. lib.6. 12 plevriticis, dolore a[cendente » fotus fimt bumidi || defcendente [icci.lib.6. p  DPlevriticis » dolore def[dendente ; iH feclione vez)  "07? 1]    ILLA EX OEAZXA    son efe exfpeclanda coloris [anguimis mutatio .    lib.c. I17  Plevriticis quando fomenta anodyna conveniunt.  lib.6. 120    Plevriticis [acculs fovetes ex levi materia.l.6.122.  Pleuriticis, viribus imbecillbus, nou ex[pettanda   coloris ia [anguine mutatio.lib.G. 118.  Plevriticorum reliquia omnino abfamenda.l.6. Ya y  Pleyrsticorum triapraclarif[Timaremedia.l.6. 126  Podæra laborantibus varo repellentia conveniunt.   lib.7. 19I  Podagra laborantibus am ab suitiomedicamentum  purgans dandum scontrover[ia cociliata    Pi    Podæra laborantibus quando mittendus eft. [anqurs.Iib.  Podagra laborantibus frequenter [ecanda varà ve-  ZA.ltb.7. 1890  Podagrofís fmunttto ex oleo falito ante declinatio-  nem aAla.ltb.7. 183  Podærofi non. [olum oleo. [alito snungendi ». [ed  etiam yperfricands. lib.7. 184  Podævofis oleum [alitum 1m declinatione Optitum. Potulenta 12 bydrope a[cite [epe fu[petla.lb.7. $3  Potus acutarum f ebrium quis, C qualis. [ib.  Prafocatis bene olentta coxis applicanda .lib.7. 153  Prafocatis ex flatu ; cucurbitula magna ventri in-   eriori applicitA » praftanti[umum remedium Prefocatisex retento [emine bene olentibus vulva  non 1nungenda. lib.7. 152    Prefocatts f acie: bene olentibus non e[t a[pereenda.  3 libra. . : r$?  Prafocatis facies frigida non afpergenda.lib.7.14*    Prafócatispauxtllum vini concedendum » [ed vmale  elentianaribus tunc apponénaa. lib.7. 157  Prafocatis quando etiam im pároxy[mo po]fit fecars  pena. lib.7- nsn 164,  Prafocatis quando mon lscet fecare venam. 1.7. 165  Prefácatis vino facies non abluenda. lib.7.. 156  Preanatibus clyfteves no frequeier indatur. 1.3.20  Pregenantibus erandiori fetu cbyfferes quantitate  non excedant. lib.s. 2I  Prapinguibus, et fenfu exauifito praditis inte fhinis,  clyfteves non indanter »ultum calentes 1.3.23  Principio morbi cur aliquando tenui[[ime ciban-  dum.lib.2. 16  Priffanæx quo genere bo ydei paretur   PuJana ut condiatur » que addenda, quando  quomodo. lib.2. 43  Prj[ana ut paretur s quomodo hordeum praparabixinus Puelliin applicatione 'cavendu: fior. lb.7. 7  Puelli in applicatione caveda pollutio nocturna.l 7.9  Pueris ante decimum quartum annumyevacuationtis  eratia,aliquando [ecari yote[t vena. lib.a. 8  Pæris ante feprenmum yra [lat bi rudimbus [angui-  nem mittere, et cur. lib.4. IO  Puevis, c adole[centibus plus cibi concedendum,  quam fenibus. lib... 7  Pueris numquam concedenda narcotica. lib... 46  Pueris pro revulfione fecari omnino «ena débet .. | 5m,  lib. Pulverei C eletluarias qua etiam fol'vant;  n;  bo    PUN DV    bo Gallico comvenive.lib.7. 199  Pulvifculi cardiaci non cum cibis, fed cum potioni-  bus fepunis dandi. lib.s. $$  Purgamenta muliebria non [emper frigida, nec ca-  lids curanda.lib.7.. 1j0  Purgandum egrum quid interrogare oportet.1.3.2.  Purgandum in principto n pe[fle, Difputatio. lb.g.  Cut. Purgandum interrogare oportet » an alvo [it lubri-  c4,an dura. Purgandum in vera declinatione . lib.5. $$  Purgandum non [emper in declinatione febrium pu-.  tridarum.lib.3. $3    Purgandum quando in barum declinatione. 1.3. $4,  Purgantia debilta repetita im. quotidianis. comvenut. lib.s. 22  Purgantia fint leviora 1n febribus, quam in aliis  oorbis, € cur.lib.s. ""  Purgantia valenter apud Galenum in febribus varà  ia ufum veniunt.lib.s. 3I  Purgattone impe[le utendum. lib.s. 46    Purgantia valida in pe[fe non comveniunt.lib.g.. 49    Purgatto in podagrofis fi f acienda» [latim facienda Purulentis nom tentanda efl evacuatio materia per  feceffum medicamento.dib.6. 127    Putrida non omnis materia coquenda Quartana laborantibus vitlus in principio varian-  dus CP quomodo. lib.s. 2j  Quartana laborantibus [al(amenta concedenda; [cd  parca manu.lib.s. 16    1-34 Quarutat laborantibus dum [ecatur vena, prafen«  S    5a Medici nece [[avia.lib.s. 1  uartana laborantibus quando et dextro brachio  extrabendus [anguis. lib. s. 31    Quartanis vena [ectio quando convert.  Ouartanariis dum [anguis mittitur y non flatim.  -fupprimendussetuamfi bonus.lib. 5. 29.(2* 30  Quibus maxume in acutis os colluendum. lib.3.. 47  uotidiana in febre. ab imtio vomitus utilis,  qualis.Iib. s. 17  Quotidianain febre quomodo Galenus commenda-  yit vomitum validu pofl [rema cocottionis.l. 5. Y7  uotidianis in febribus tenuis etiam, quam iz.  flatu alendum in principio Refrigevantia in[igniter qua capita no ferant.l.6.6  Renædiis in multis quomodo procedendum.lib.3.36  Remedium pra[tantiffimum ad wen[es [uperfiuos.    lib.7. I4j  Renibus inflammatis;po[t [etlam venambrachi ea  etiam [ecandæ[L, qua 1n talo.lib.7. I4  Rembus mflanmatis, Rbabarbari wfüs [u[pettus .  lib.7. 117  Renibus laborantibus, clyfleres quantitate parva Renibus laborantibus, qua vena [ecanda: Renibus ulceratislattis admunifltrandi ratio varia.    lib.7. I2I  Renum 1n inflammatione non purgandum, fed le-  niegdum blande. lb.7. ri16    Renum in inflammatione 17 principio ) impense re- WM,  Cc . . )  frigeranziamala Reuun Ü  - UIT PMI    INS DX E^Zi    Renum calculo laborantibus lemientia ab snttzo" ape   non [ufficiunt ; itaq; etiam purgandi Renum tn ulceribus valide exftccatiamala.l.7.126  Renum ulcera quam primur o Jm J.7. 119  Repellentia in cholera quomodo, Cj quando in u[um    ducenda.lib.7. 2$  Repellentia in podagra, [nfpetta.lib.. 181  Repellentia 1n palpitatione cordis, dum mittitur  Janguissregtont cordis applicanda. lib.c. 176  Repelle ntibus folis in doloribus in principio quando  10n utendum  Repetitio fanguinis mi[fiomis quando eadem die, €&  quando altero.lib.a. I6    ] Repetitio [anguis milTionis vevul[iue, contra Ga-  lenum [ape eodem dte repetenda eur" quan-  do: ltb.4 17  ] Revul[1o ree. [célam venam quando requirat vecli-  Iudinem partium (t quando con [en [um YOnat-    Yum. Itb. a. 18  I Rbabarbari safu[lo 12 vino exbibita febres eftuan-  te$ excitat. lrib.a. Ij    I Rbabarbart ufus £n eflnofis febribus [nfpettus.l.s-g  IL Rbabar bar: ulus 12 [puto [auguinis [epe [ufpettus .    lib. 6 157  LRhabasbari ufus dy[entericis fnfpettus.lib.7..Rbabarbarum bydr optcis 10utile. lib.7. f4  I Rbabarbarum im dolore inflammatorio ventriculs  fueieudum.lib.7 x  WRbabarbarum 12 in nflamnratione renum fu[peétum-  lib.7 y    lo ebarbar H2 12 menfibus [opevfluis noxzu. E S 44  Mhatar barum pro purganda bile, 12 dévirmtione    | Y D &[tuan-    | effuatium febriumsmalum, C quando eo uti pof-  famus.lib.s. 7.6 8  Rhabarbarti phreneticis no multu utendum.l.6. 1.5  Rhabarbarum [n[petium in intemperie calida be-    patis.lib.7. 0034  Rhabarbarum torrefatium in dy[enteria rejicienadum Rubificantia quou[que cuti adbarere debent. l.6.77  Ay    Sacchari ro[ati exbibitio poft purgatum corpus ardentibus febribus, non multuprobanda.l. 5.12  Sal clyflevibus non ita frequenter tndendus.l.3.. 2.9  Sal oleum quomodo [al [um reddat, ft oleo nom liqua- 1.4   tur .lib.7. | 18$. [i  Sara et decotlo portio Guajaci cur indenda.l.7. 211  Sara decotlum a[late cum majori quantitate aque. |o    parandum; C cur. lib.7. 2I  Sarza parilia mirabile decoblum ad tabidos ex Gal | i;  lico s2orbo.Itb. Sanguine malo fetla vena exeunteminor quantitas iio;    illius evacuanda . lib.a. 1    Sanguinis in colore zutatio in evacuatiua. eUACHA- i)    tione mon vevulfrvas non ex[peclanda. lib.4. 33).  Sanguinis in colore mutatio nec in vnflammationi-  bus etiam perpetuo exfpettanda. lib.a. T  Sanguinis in colore mutatio quomodo intelligendai|  lib. 4. Mn  Sanguinis in colore mutatio ua vevul[tone a longimsyds,  quis non ex[pectanda. lib.4. T  Sanguinis 1m colore mutatio in plevritide non ei  ex[petlanda, impa 1o in parte bumore. 1. 6.. Yi]  Sanguimis gatffiomi non. [emper p Aldi;  eni- B NODE J    lenitio. lib.a. 1  Sanguinis mi[[io ad animi deliquium raro inu[um.  ducenda.a quibus, C? cur.lLb.a    Sanguinis mi[io quando per [es quando per accidens  A centro ad circum[ erentiam trabit,  quomo-  do.lib. $. 3$   Sanguinis mi[[ionem quando pracedere debeat fa-  cum [ubductio.lib. a. 20   Sanguinis minus detrabendum i1s,qui artes laborio  fas exercent .lib.a. I   Saguinis repetita evacuatio quomodo facieda.] 4g   Sanguinem ve ectantibus cucurbitula parti affix ao    quando conventat . lib.G. I1$O  Sanguinis [puto ex retentis men[ibus, qua vena [c-  veda. lib.G. 148  Saponarie decoélum pro pauperibus 12 morba Gal-  lico.ltb.7. 11$    Scammonii u[us im e[luofts febribus [nfpetlus, e   quando eo titendum . lib.s.  Scarificatio crurum tn pe[le [aluberrima. lib.g. 33  Scar: ficatia quando proj unda factenda, G' quando    Ww    leviter.ib.4. T  Gellio venain talo ad movendos men[es melius jit  fub noctem.hib.7. 136  Semis in curando profluit diver[a ratto [ervan-  da »pro varietate magna occaftoms .lib.7. . X38    Seri € lalle [egreg and: veramdica v mds ie. $1.  Seri quantitas varte 4 uarias tradit a.quomodo con-    cilianda.lib.5. ! $i  Siccanttbus valenter in [puto [anguinis empla[lica o  mi[cenda.l:b.6 (6 2,    Siti in magna  calidas G quando frigidabi-  bcn-    I*UNXDWEW.    Symptomatice narra operante quid à Medice  moliendum. Symptomatice natura operante » caute agendum. |  Iib.ss 61. [s  Synocha labcvantibus quando cibus o fferendus.lib.2.    Cant. jo  Syrupi acetoft parandi ratio. lib. 2... íi  Syrupus » c mel.vof. fol. quando in principio conce-   denda.lib. 3. $a. f,  Syrupus ex cichorea cum Rhabarbaro Guliclmi, 1t   dyfenteriaadmittendus |y,  Syrupis pro morbi Gallici materia paranda alexi-- V,   pharmaca mi[cenda.lib.7. 196  Syruptes vof.(ol.inter lemientia non connumerandus», y.  fed 1n*ev [olventia.lib.5 . 49]  Syrupi [olventes in cura morbi Gallici commendaniy,  di.lib.7. 1993)  T'enui[fcmo vitta in ftatu acutorum utendum fem-.  per. 1. Aphor. 8. quando verum . lib.2. 18:  T enui[fimo vitlu utendum. in peracutis omnibus :) i  exceptis pestilentibus.ltb.2. 114  T'ertiana in febre ante cotlionem quandoque pur: n  eandum, quando. Itb. 5. T    T erttana im febre, etiam intermi[[ionis die; victim [.  à Galemo, cà aliis infhitutus apud noftrates perti  eulofus. lib.s. ij   T'ertianis € ardentibus in febribus clyfleres vii  tepentes indendi.lib. s.   T beviaca in pe[fle quado tendit, ci quomodo.l. 5. [^   "Tiggitui aurium. ex morbo Gallico valentia remit "  dizuon applicanda.lib.6. icd]    7 in- d    E;AN8 Dx Exe X    ! T igmitut aurium ex morbo Gallico remedium pr4-    ftanti[J[ymur.itb.6. 166  JT uillatwüesureri 12 prafocatis ex femine vejicien-  d&.ltb.7. 159  I Y urgens materia quomodo varo, € in pefle [ape  ruygens. lib.s. 47  IT ufft laborantibus quando, &$ quatenus vigilan-  dum.lib.6. 165   p  WMPenis brachii in feriendis » qua cAMLOHES, vA'100€  Suc funt babenda.lib.4 22  Weza [ettio 1n wedalieliediois fit ampla.lib.6. 96  Wene fe£htaun brachio menfibus [uppre[/zs quando  admini 'Jferanda. Irb.7. 132  Wena fetta 1m talo in fanguinis puto, affatim [angus  neo e fe detrabendtuim. iib.. 149    W/entriculi im dolore a frigida, c erafla materias,  purgans aliquod medicamentum Hier a aliquan-  do «ddendaum. lib.7. $   M'entviculi im imbecillitate, in puellis, aut catellss    ventricult reet 0771 eiie » CAY endum, Hnc»    Joma us interrumpatur. l1b.7 G   " eutriculo dolezte ob "mfi ammationcm purgantia  fugienda.lib.7. I  yos A Abe ob LZ miemationem » In mida po-   | $57 €Xt appof 10 quedo c ZH 'UCHIA jt... 4.  ("M7 nodi inflammatopre[enti bile quibus vacuam  de b I  (0«BoPerzmes enecantibus dulcia mi[cenda Aib.7. 108  WVermes enecantibus erzplaftris cly[fleres dulces pra-  ponenas.lib.7. 1C9    WMerzzes enecantibus fumptis peross quid. facien-  z  aum.    IN UID EX:    dum.lib.7. III.(?' 107  Veymibus pro enecandis emplaftra ubi applicanda.  Iib.7. IIO  Vertiginofis flernutatoria,  caputpurgia fugien-  da.lib.6. 47  Veficantia etiem [uper caput applicata, im. "vebe-  sueuti[femis doloribus optima.lib.6. 18. [^  Veficania in febre pefhlentiali [rne pe[ffe sm ujuma. 1  duci nou debent.lib.s. 43  Veftcantia in febre peHlentiali in letbargo optima. 41  lib. 5. 44 .]^  V«ficantta bydropicorum eruribus applicatamoxia, V  Ib.7. $65].  Vificantia in letbargo optima, C quibus partibusi|  applicanda. lib.6. 357]  Veficantia: tn pe[le aliquando in ulum duci po[[unt »)/  C quando.lib.s. 421]  Veficantiaia ye[Hiferis » cum extra corpus alget 4!  utilia.lib.5. 4$  Veficantia in peflilentibus peffreme pa [form ufurpata Ati  Itb. $. $!  Ve ficantia in principio febrium peflilentialium noii] i.  conveniunt. lib. s. T    Vitus cra[fas 1n acutis rejtciemdus.lib.a. jt   Vitlus formatn acutis paffim corrupta y ve '(peCtu ves |  cionis mutanda. lib.2.. I:   Vitus bymidus febricitantibus confert, bumidwl!n,  atu. c potentia.lib.2. PH    Vitius immutandus, vatione temperamentorum CO  quomodo. IHb..   Y. c4 30 9v2141* 772 J, * ; L bi *, f   Vibius mmutanaus, vatiome babitu corporis » CA  terperamenti ventrigulilib.a. 4G]    lt-    ION DoESLY.    Vicius mttandus in acutis obanteatla vitam.La. I4   Villus ratto pro vartetate con[netudipis » Ci vegio-  "s wautanda. lib.z.   Victus tenus pro acutis antiquis quotuplex, Cb qui    4A nobis reciptendus . lib.a. 30  Vicius tenuts 12 acutis cur. lib.a. I    Vinculum laxandum, [e£la wena 1m melanchalicis.  lib.6. 87   Vinum 1n acutis per fe numquam concedendum.»,  præfertim apud Infubres Vinum: acutis quando concedendwum Vinum In[ubriues ineptum pro potu acute febrici-  tantum .lib.3. $9  Vini medicati formula praflanti[ima pro aliqia..  Jpecie morbi Gallici.lib.7. 204  mum optima materia pro paraudis aliquando de-  coctrs pro.quorbo Gallico. 1b.7. 204.  Fino terttana laborantes Apud no[lrates per torum  morbum interdicendi-lb.g. ' I4  Virtute per [e debili, vitlus ativezicus ct 72 forma ;  ft vi wor bi, folum quantitate.lib. 2. !  Virtute debili ob aeevavationems, parten. C varo ;    » M inf n 6n gnat pee  ob reíolutzozt Wn paruTC i&pecióaraum.l.. i  Vite "mhi u""umua lormevitie:i ecutrt.l.a. 13    jg / 7, 2 44. -P pawlir *4h 4  Vomendnm A cibo, cra[]75 in ventriculo exz[lentibi    bus   huno ribu;.dib.7. 16  Vomcndum quando 1e]uno ventriculo, C quands  7 epleto.lib.7. | r$  Vomitorio ab allumpto, quam diu a vosnttu abfti-  nendum .lib.7. 1o    OO QS€, m mq 4 P o osa a £5 pi "p LIFE.  Kk. 0721IMS TTCOHOEAT10? | 4£;:€/2a13 "deu C27? " PE WT    ILZUV DEUX.    Vomitus in men [e determinati non habeant dies»  flatutum Jib.7. 13  Vomitus potius repetendus, quam diu in eo infi 'ften-  dum.lib.7. II  Vomitus quibus noxas afferat inemendabiles.l.3. 12.  Vomitus vepetiti quales effe debeant.lb.7. I2  Vomitus quomedo frequentius byere promovendt ;  C quomodo rarius, € im quibus ca[ibus.l.3.. 10  Vomitus tabidi: inimicus lib.;. II  Voritu qui ab[Linendi.lib.7. I4  Vomiturinon debent nimium cibo vepleri.l.7. 17  Voritoria in cholera fint ex levioribus » nec multe    quántitatis.lib.7. 11.e£ 24  Vomitoria in cholera varianda, pro varietate ma-  teri&  Vomitu in colicis quando utendum.lib.7. M»  Vmbilicus aliquando mumiendus im applicationc.2  cucurbitula.lib.7. 79    Vnguenti ex bydrargyro preftare »multam quanti-  tatem parare, C" cautio ante illius u[nm.1.7. 226  Veri regio fovenda attenuantibus ante. [anguims  wi [tonem ex talo.lb.7. 139    Laus Deo; Deiparzque Virgini    ep" E    Hez ^ MACC gs  NI Aer: ce EO Edd iR c aq. dpa did Ludovicus Septalius. Ludovico Settala. Settala. Keywords: ragion di stato, lizio, sesso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Settala” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Severino: la ragione conversazionale del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di Parmenide – la scuola di Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Intende collocarsi oltre ogni filosofia permeata dal nichilismo. Si laurea a Pavia come alunno dell'almo collegio borromeo, discutendo una tesi su metafisica, sotto la supervisione di BONTADINI. Insegna a Milano e Venezia. Lincei. Critica sia il capitalismo sia il comunismo, fonti della vita inautentica in quanto espressioni di dominio della tecnica, come d'altronde il FASCISMO, ma anche la sinistra in quanto non è più social-democrazia, rilasciando anche dichiarazioni sul suo punto di vista sul passato e sull'avvenire dell'Italia. Le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell'Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assolutoe innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo stato, che detiene il monopolio legittimo della violenza. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di stato. La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in paesi come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando "l'assolutismo religioso e comunista", oltre che tacciando la magistratura di "ingenuità", poiché processando una classe politica a fondo ha rivelato la contiguità anche con la criminalità organizzata, figlia della guerra fredda e, secondo  S., impossibile da debellare integralmente in pochi anni senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli problemi.  «L'Italia è uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell'Italia unita.. Sull'evasione fiscale: Una tara storica, come prima le dicevo. L'evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c'è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto "giusto" pagare le tasse dello stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la "corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato dell'Occidente. Oltre alle citate critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma ha a dire a proposito di "Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il mio Dasein. Già da molto prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani testimoniano come Heidegger seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN  --  è stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di ODIFREDDIi, ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell, dove venneno citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua e "alla rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare l'importanza della scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e GENTILE, a differenza di filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel dialogo con Chiara, “Oltre l’umano e oltre il divino” la filosofia della necessità si contrappone alla filosofia della libertà. Fa spesso riferimento a pensatori come PARMENIDE di VELIA, LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono all'apice della follia del nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due più grandi geni che hanno portato all'estremo la concezione del mulla ovvero l'entrare e l'uscire degli enti dal nulla.  Affronta il problema dell'essere. Tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo: la  fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di esistenza e successivamente ritornante nel nulla.  Rifacendosi a VELIA,  è stato definito come un neo-veliano, di cui sarebbe l'unico esponente, peraltro criticato in senso anti-metafisico da SASSO e VISENTIN, i quali sostengono, rovesciando la sua tesi, come, contrariamente all'opinione diffusa, in VELIA esiste invece un deciso rifiuto della metafisica.. Riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere, dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che l'essere non può non rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (S.rifiuta, quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per S., quindi, tutta  la storia della filosofia occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto.  Ma, mentre VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente, portandolo a delle tesi estreme.  Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo e eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti entrano ed escono del cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo. Dunque, l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere senza vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire dell’essente è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio. L’essente, infatti, esiste  prima di entrare nel campo inter-soggetivo dello specchio e ovviamente continua ad esistere anche dopo esserne uscite. Il di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo si estende anche a ogni essente che nel divenire si manifesta.  La dimostrazione dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di non contraddizione, ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De Interpretatione”. In essa anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova la sua formulazione più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA correggerne l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il divenire così come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto, non è affatto evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella indicata da VELIA, il sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA -- è infatti l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime l'opposizione assoluta tra i "essente" e "non essente". Pertanto ogni essente, in quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non contraddizione aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che il non-essente non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero di una condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa impossibile ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia. L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente e quello immutabile.  L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad alcun mutamento.  Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po' tutti i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali, ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo stesso terreno.  L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il "mortale" come noi lo conosciamo.  Ma l'Occidente è destinato al tramonto, per fare spazio al destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi dell'eterno.  Da quanto detto precedentemente appare chiaro come non ci sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della storia della filosofia,  l'affermazione dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui il divino in tutti i diversi modi nei quali filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta partendo dal presupposto che il di-venire non significhi necessariamente la nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano. Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un rimedio per l'angoscia che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è impossibile che esista un divino. A maggior ragione è impossibile che esista un dio dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libero potrebbe essere, pel divino, l'annichilimento"diverso dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla).  Essendo ogni ente eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce del destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del super-uomo e della volontà di potenza. L’uomo è un super-dio, ben più grande del divino della tradizione religiosa. L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO è stata sostenuta da Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato pubblicamente, ha mostrato la possibilità di utilizzare le intuizioni  sull'eternità dell'essente proprio per affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed elogia la proposta di BARZAGHI.  Con “La Gloria” giunge, tra le altre cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri". Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la conferma delle ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere del mondo, ma che a differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da me visibili. I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema (eminentemente proposti ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu certamente uno dei più cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl), a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento dell'attualità nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino è necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello attuale.  Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in questa sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni svolte dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della "terra" (termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti che via via appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti dal nulla ed al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro apparire esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio dell'apparire). Con "cerchio dell'apparire" si intende, qui, la totalità degli enti che appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come contenuto tutto ciò che appare (ossia è l'apparire "trascendentale"); l'apparire delle cose della terra, quell'apparire incominciante di cui sopra, è, perciò, la relazione tra il cerchio dell'apparire (l'apparire trascendentale) e una parte del suo contenuto.  È altrettanto fondamentale precisare che l'incominciare della terra (a sua volta eterna), non aggiunge alcunché al tutto eterno che è, con VELIA, appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon), “non manchevole” (oulon achineton). Anche l'incominciante apparire, difatti, è eterno: il suo incominciare è il suo entrare nel cerchio dell'apparire. Entrandovi, naturalmente, apparema questo apparire dell'entrare è lo stesso entrare, ossia è quello stesso di cui si dice che, eterno, entra nel cerchio dell'apparire. E, così come ogni ente, anche l'appartenenza della terra al cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna appartenenza al cerchio dell'apparire entra nel cerchio eterno dell'apparire. Entrandovi, appare, e quest'ultimo apparire è lo stesso apparire incominciante in cui consiste l'incominciante appartenenza della terra al cerchio dell'apparire. L'apparire incominciante è cioè apparire di sé stesso (e di tutte le altre cose che incominciano ad apparire), ed è questa autoriflessione dell'apparire incominciante ciò che entra nel cerchio dell'apparire e incomincia a far parte del contenuto di questo cerchio.  Ma ogni essente che incomincia ad apparire (ogni oltrepassante) è destinato ad essere oltrepassato: diventerebbe, altrimenti, condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che sarebbe dovuta apparire già da sempre. Un oltrepassante che sia non oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti esso dovrebbe iniziare ad appartenere allo sfondo (e  intende, con questo termine, quel complesso di significati, o costanti persintattiche costanti sintattiche di ogni significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo per cui non possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i significati esseree e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che via via appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato fosse estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto dalla terra.  La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è, per quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso?  Essa non è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire infinito (l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire finitodove la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un oltrepassamento incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità del finito. La totalità attuale dell'incominciante è, dunque, necessariamente oltrepassata da un incomincianteil quale non può apparire attualmente, ma è tuttavia necessario che appaia (in quanto l'incominciare è incominciare ad apparire), e che quindi è necessario che appaia sopraggiungendo in un cerchio diverso, altro, dal cerchio originario dell'apparire. La totalità simpliciter degli essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità dell'oltrepassante, cioè, che include come parte la totalità attuale dell'oltrepassante) non può essere a sua volta oltrepassata, perché ciò che la oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante non incluso nella totalità dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè l'incominciante) che oltrepassa la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua volta oltrepassato, esso sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per quanto sopra esposto), l'incominciante non-oltrepassabile.  Poiché la terra oltrepassa anche l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo in un cerchio diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio originario dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due direzioni:  (a) In quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale del cerchio originario (o, per utilizzare il suo lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito della terra che si inoltra nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale contenuto è attuale che esso viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale.  (b) In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè, alla sua attualità) il contenuto incominciante è oltrepassato invece in un altro cerchioe in un'infinità di altri cerchi dell'apparire. L'oltrepassante-incominciante, qui, entra nell'apparire non attuale. Anche questa seconda direzione dell'oltrepassamento è un dispiegamento infinito nella Gloria, ma, appunto, nella gloria che consiste nell'infinito sopraggiungere, nel cerchio originario, della costellazione infinita degli altri cerchi. La gloria è l'unità di queste due dimensioni. La dimensione dell'essente, che incomincia cioè ad apparire nel cerchio originario, è necessariamente oltrepassata da un'altra dimensione dell'essente (perché l'incominciante non può incominciare ad appartenere all'essenza dello Sfondo, non incominciante e non tramontante, del cerchio originario); ma anche l'attualità dell'essente che incomincia ad apparireossia anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire attuale) dell'essente che incomincia ad apparireincomincia ad apparire, sì che (per lo stesso motivo) è necessariamente oltrepassata in un altro cerchio dell'apparire; e anche la sintesi tra l'attualità del cerchio originario e l'attualità in sé dell'altro cerchio incomincia ad apparire nel cerchio originario, quando in esso incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa l'attualità; e dunque (per lo stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un terzo cerchio (e, cioè, l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata solo nel cerchio originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così all'infinito.  In definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo cerchio, ma anche lungoquella "orizzontale" della costellazione di cerchi del Destino.  L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva "idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la distruzione. In un contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza degli "altri", perché l'altro, che è il mio oltrepassante, determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un essente che incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere oltrepassato. L'essente che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è, infatti, pensare e vivere le cose come nulla in quanto delle cose non appare il legame alla struttura originaria della verità, e quindi non appare l'eternità. L'essente, o la dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità stessa. L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli essenti e la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire, il loro passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in essi. Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno, cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare gli essenti.  Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano, Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione,  Milano, Adelphi); Filosofia della prassi, Milano, Vita e Pensiero,  Milano, Adelphi); “Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Ritornare a Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica (Roma, Armando,  Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli); “Legge e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano, Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli); “La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana Saggi. Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Milano, Rizzoli,  Traduzione e interpretazione dell'«Orestea» d’Eschilo, Milano, Rizzoli,  La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano, Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia” (Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo” (Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi,  La filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano, Rizzoli); “La follia dell'angelo” (Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e stupenda” (Milano, Rizzoli); “La tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede” (Milano, Rizzoli); “L'anello del ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “Crisi della tradizione occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e la cenere, ovvero, dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa” (Milano, Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della necessità (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio” (Genova, Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale del nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina); Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli,  Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati di santificare le feste” (Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano, Rizzoli). “Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e Scienza” (Milano, Editrice San Raffaele,  Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la fede, Milano, AlboVersorio,  L'identità del destino. Milano, Rizzoli, Il diverso come icona del male, Torino, Boringhieri,  Democrazia, tecnica, capitalismo, Brescia, Morcelliana,  Discussioni intorno al senso della verità, Pisa, ETS, La guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine, Mimesis. Macigni e spirito di gravità. Riflessione sullo stato attuale del mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima mano, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell'Occidente, Perone, Torino, Rosenberg e Sellier, Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana); Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La bilancia. Milano, BUR, Del bello, Milano, Mimesis,,  La morte e la terra, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al pensiero, Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del nulla, Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E la pena di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia, Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia. Una strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana, Storia, Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire” Brescia, Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,.  Sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il nichilismo e la terra, Milano, Mimesis, Testimoniando il destino, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi,  Ontologia e violenza. Milano, Mimesis,  Aristotele, I principi del divenire. Libro primo della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo dell'eterno. Il mio ricordo degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,  “Parmenideo” -- VELIA, su la Repubblica,  Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande filosofo dell'essere, su Il Primato Nazionale,  Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su giornale di brescia  «L'esperimento di Barzaghi è importante e va seguito con attenzione. Immerso nell'alienazione, il cristianesimo è come una casa invisibile di cui qualcuno dice, indicando un banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che cosa si riuscirebbe a vedere se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una casa. Ma forse nulla. Nel primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa da dire, e di grande» (S., Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa).  «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più triste», in Brescia oggi,  Emanuele Severino, il tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi. Ecco perché la giovane Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano, Odifreddi, La scienza sotto tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero, Filosofico. Miligi et al., "Sguardo su S.", su filosofia.)  "filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre riconoscere che le sue posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di dover dare su di esse, non sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero e proprio seguito tra coloro che si occupano professionalmente di filosofia.» (Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo italiano. Le premesse storiche e filosofiche, Napoli, Bibliopolis)  Neo-parmenidismo, su filosofia.  Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le cose, quella induista della creazione del mondoche si ripete continuamente a opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.» (A. Schopenhauer)  Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di Brindisi, "Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo, Brescia, Aristotele, Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto tali, escano dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un tempo in cui l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il non niente sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene l'intera storia dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi, Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli, Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del diveniente. Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo, Brescia, Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica, Roma, Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e metafisica” (Milano, Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli, Scientifica, Paoli, “Furor Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento, Napoli, Città del Sole); Fabro, L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al cuore del destino. Milano, Mimesis Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri, La hybris originaria. Cacciari Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire del mondo. sulla struttura originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso della verità. Pisa, ETS, Messinese, Stanze della metafisica. Carlini, Bontadini, Brescia, Morcelliana,. Messinese, Né laico, né cattolico. S., la Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo, Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole dell'essere. Per S., Milano, Mondadori, Poma, Necessità del divenire. Una critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica e parmenidismo – I veliani, Il contributo della filosofia neoclassica, Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia e storia, Abano Terme, Francisci, Scurati, Pensare l'identità.  Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla e negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento in Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,. Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di Brindisi, Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma, Aracne, Sperduto, Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di Messinese, Roma, Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis, Tarca, Verità,  alienazione e metafisica. Rilettura critica della proposta filosofica di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e salvezza. Saggi dedicati, Bergamo, Moretti &amp; Vitali, Visentin M., Tra struttura e problema. Note intorno al pensiero di E. Severino, Venezia, Marsilio [ora in Il neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Napoli, Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo Leopardi Velia Valent Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Associazione spazio interiore ambiente, Ursini.   EMANUELE   SEVERINO   LA POTENZA  DELL'ERRARE     Sulla storia  dell'Occidente    Alle radici della storia dell’Occidente, in concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione  più profonda della verità, ossia l’estremo disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza  rimanendo impoveriti. A questo principio cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo  libro che, parlando di arte, cristianesimo, politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del  nichilismo, il più potente dei meccanismi dell’errare. «Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore «si  intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto  descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.»  Queste pagine ci esortano invece a prestare ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della  resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela  il meccanismo oscuro che culmina nel rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta  allo scoperto come lo “scambio delle parti” derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e  che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti — come «la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la  persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla». Accademico dei Lincei, è autore di saggi fondamentali. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi sagi più famosi ricordiamo l’autobiografìa   1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli) e Intorno al  senso del nulla (Adelphi) e La potenza dell’errare  Sulla storia dell’Occidente RCS Libri S.p.A., Milano. In copertina:   Art Director: Francesca Leoneschi  Graphic Designer: Andrea Cavallini / f/zeWorldo/DOT rizzoli.eu  La potenza dell’errare. Per richiamare e introdurre   Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di  processi in cui il mezzo di cui ci si serve, agendo in modo più  o meno complesso, diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale  agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il  nuovo scopo. Si può dire che tale rovesciamento è uno  scambio delle parti.   Altri saggi di S. si rivolgono a questo tema. La sezione  prima del saggio intende tuttavia mettere in luce la  relazione tra alcuni luoghi apparentemente distanti in cui  quel rovesciamento si manifesta: arte, cristianesimo, politica,  diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla  radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso  rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso concetto di  azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda  della verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da  parte della storia dell’Occidente. «Disfarsi», nel senso in cui ci  si disfa di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti.   Appunto per questa alienazione il rovesciamento in cui  consiste lo scambio delle parti di cui si è detto appartiene  all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione  prima). Tale essenza è il più potente dei meccanismi  delVerrare. Quanto più l’errore è profondo, tanto più è  cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può  quindi esistere un potenza «buona» e una «cattiva»: la  potenza è, in quanto tale, errare e ferrare è la forma originaria  di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è  altro che la volontà di potenza fallita, frustrata. E la potenza  «ottenuta» e «vincente» è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e  di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più  radicale un evento che è essenzialmente più profondo di ogni  «peccato originale». L’illusione estrema è la fede (posseduta da uomini e dèi) di avere la potenza di condurre le cose dal  nulla all’essere e dall’essere al nulla.   È però possibile parlare di errare e di errore, di alienazione  della verità, solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò  che è opportuno chiamare destino della verità per indicare  qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò  che, lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato  «verità». Il capitolo VI della sezione prima richiama appunto  la configurazione di fondo di tale diversità. Con questo si sta  insieme dicendo che l’alienazione della verità non è  «soltanto» un evento che appartenga alla storia del pensiero  filosofico, ma è il terreno in cui vanno via via crescendo le  opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo  innanzitutto, le molteplici forme culturali - dell’Occidente e  quindi anche ogni historia rerum gestarum.   E forse è il caso di avvertire già qui che, anche queste  pagine, per lo più, intendono parlare delle «cose segrete»,  delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in cima ai  loro pensieri giacché le cose più segrete sono peraltro  manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e  forse non solo), ed è inevitabile che trapelino nel deserto in  cui l’uomo è gettato dall’alienazione della verità.   La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane  quella che altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la  tecnica, dove tutte le forze oggi dominanti (i «luoghi» indicati  all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento  indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del  quale la tecnica consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro,  Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e  accompagnata da altre forme dove tale scambio si costituisce  tra quelle forze stesse (ognuna peraltro destinata alla fine,  come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo scopo che subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo  l’aumento indefinito della potenza). Ad esempio: lo scambio  esistente tra felicità e verità - per cui dapprima la verità viene  ricercata per essere veramente felici e poi si vuole esser felici  per poter contemplare la verità con una felicità diversa da  quella che serve a produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La  buona fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli  2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si produce tra  cristianesimo e arte cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra  individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro  - lo scambio marxiano, questo, che ripropone lo scambio  aristotelico tra economia e crematistica (dove l’uso del denaro  non ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma  l’aumento indefinito del denaro stesso). In generale: nella  storia dell’Occidente la verità sta alla felicità come l’arte  cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno  all’individuo, come il denaro sta alla merce, come la tecnica  sta al diritto (naturale e positivo) e, infine, sta a tutte le forze  che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo  per realizzare i loro scopi. Il primo termine di queste coppie è  ciò che, assunto inizialmente come mezzo per realizzare il  secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che  diventa il mezzo.   Come volontà di aumentare aU’infinito la propria potenza,  e riuscendo a essere la potenza suprema, cioè vincente su ogni  altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere  planetario, destinato quindi a subordinare a sé ogni forma  politica dello Stato e ogni trust sovranazionale che sul  fondamento della potenza economica sia riuscito a  subordinare a sé tale forma. L’Apparato è cioè destinato a  costituirsi come Superstato planetario, essenzialmente diverso  dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni  internazionali come la Società delle Nazioni e l’Onu. La forma politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o i  gruppi sociali si danno per sopravvivere, rinunciando ai  propri impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo  iniziale) e riconoscendo nello Stato il «monopolio legittimo  della violenza-potenza». In modo analogo, la conflittualità  oggi esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum omnium  contro, omnes) spinge verso la forma estrema di Superstato, il  Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e  di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una prima, ancora  acerba ma significativa anticipazione).   Esso riesce a essere il supremo monopolio legittimo della  potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della  propria potenza perché sente la voce del pensiero filosofico  che mostra fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire  dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più di ogni altra forza  è capace di oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella  voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare l’«illegittimità» di  ogni Limite assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche  ma non solo in questo senso la filosofia è la madre della  potenza estrema. Ancora una volta la filosofia degli ultimi due  secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più  inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è il fondamento  della più grande trasformazione storica del pianeta: quella  appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza  della propria forza, riesce a subordinare a sé ogni altra forza.   Questa, sommariamente indicata, è la configurazione  complessiva di ciò che abbiamo chiamato «scambio delle  parti» e dell’alienazione nichilistica della verità che sta alla  radice di esso. Ad alcune delle forme di tale scambio si  rivolgono queste pagine.   Quando si parla di «nichilismo» si intende per lo più il  crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il    10     nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato  come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe  non accadere. Questo libro mette appunto in risalto  (richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare  ascolto alla spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e  al significato di questa inevitabilità. Ma mette in risalto anche  qualcosa di ben più decisivo, giacché la definizione usuale di  «nichilismo», nonostante la sua visibilità, è soltanto una  conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo  chiamato Yessenza - peraltro nascosta del nichilismo. Inutile  ogni rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia  nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione che le cose  siano nulla, e il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la  malattia, quanto meno si riconosce di esserne affetti. Ma una  volta accertata la vera malattia anche il senso del rimedio  mostra un volto essenzialmente diverso.   Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico,  ma è prevalentemente accessibile a chi ha già una certa  confidenza con il pensiero filosofico. Come già ho accennato,  questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione  su questo tema - che è la radice più profonda di ogni  «attualità» - i lettori che tale confidenza non hanno.  Intenderebbe, appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e  della potenza - quindi al destino della verità, cioè allo stare   autenticamente oltre tale essenza. Il linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri rielaborati),  pubblicati prevalentemente sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Liberal». Il tema di S. si rivolge alla poesia di Dante  e di Leopardi può lasciare perplessi. «Il fiore»! Che serietà può  avere rivolgersi alla poesia - e per di più con un’immagine  così scontata come «il fiore» - in un tempo tragico ed  enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono  non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica  sta avviandosi al dominio su tutte le altre forze della civiltà?  La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura  perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e ai fiori.   Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha  proprio nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la  morte? È così scontato che la poesia appartenga al regno del  superfluo? Queste domande non intendono alludere al luogo  comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione  dell’«estetica», crede che la poesia sia qualcosa di  indispensabile per le anime belle.   Oggi, indebolendosi, la poesia è diventata anche questo. Ma  alVorigine la poesia appartiene invece al gesto essenziale che  l’uomo compie contro il dolore e la morte. Appartiene al  rimedio essenziale.   In principio, il gesto e il rimedio essenziale sono la festa  arcaica. All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in  seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia,  arte, sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S.,  Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si  allontana dall’originaria casa festiva, tanto più si indebolisce e  diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può  certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari  dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca «poesia» - poìesis - significa «produzione». La poesia appartiene cioè all’ambito  della potenza. Come gli altri fattori della festa. Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce di  quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24)  Dante si rivolge così ai beati:    [...] O perpetui fiori  de l’eterna letizia, che pur uno  parer mi fate tutti i vostri odori.   Sono, i beati, i perpetui fiori della letizia divina. Fioriscono  dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro  «odori», per i quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono  e sono tuttavia un unico profumo: «pur uno».   Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il  fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w.  32-37);    [...] Or tutto intorno   una ruina involve,   dove tu siedi, o fior gentile, e quasi   i danni altrui commiserando, al cielo   di dolcissimo odor mandi un profumo   che il deserto consola.   Il riferimento a Leopardi e a questo suo canto può  sembrare estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al  tramonto l’universo in cui si muove il pensiero di Dante.  Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel modo più radicale,  mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni  eterna letizia. Non si tratta dell’opinione, della fantasia, del  sentimento di un «poeta» infelice e deluso. Leopardi, come  altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro  tempo: un percorso inevitabile che tuttora è in attoed è la  radice del distacco del nostro tempo dalla grande tradizione  occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero  filosofico dei Greci. Di questa radice Dante è pienamente e potentemente  consapevole. Quando all’uomo non basta più la letizia della  festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è la  massima di cui l’uomo possa godere sulla terra.   Ma, in precedenza, la festa è il primo rimedio c ontro la  paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta  umana contro di essi. Nella festa l’uomo si identifica a questa  immagine. L’immagine si solleva e si libra al di sopra della  lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla  paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della  salvezza.   La paura che è vinta dalla festa è più originaria e  angosciante della paura di chi, ormai all’interno del regno  della ragione e della fede cristiana ha «paura» perché si è  allontanato dalle leggi divine, dalla «diritta via» della salvezza.  Lo dice anche Dante all’inizio deìYInferno. La «selva oscura» è  la lontananza da Dio, dalla quale proviene «la paura»; ma  questa selva paurosa    Tant’è amara che poco è più morte.    ( Inferno, I, v. 7)   È tanto amara che la morte è poco più amara. Il che vuoi  dire che la paura della morte è ancora più amara della paura  suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara  paura a essere inizialmente vinta dalla festa arcaica. Il deserto  della morte è dunque ancora più originario del «gran diserto»  (Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La  paura che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione  dell’immagine festiva è essenzialmente più radicale di quella  di chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato  credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le conseguenze  di questo suo gesto - e tuttavia, anche e proprio per questo    16     suo timore è pur sempre in rapporto con la dimensione  festiva e salvifica.   Di quel più originario e pauroso deserto, da cui l’uomo ha  sempre tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il  «fiore del deserto» «il deserto consola». Nel mondo di Dante i  perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo stato più alto  dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia:  dal deserto che è il regno della morte non si può uscire. La  ginestra è il poeta stesso; il «poeta» è insieme il «filosofo»; il  «genio» è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato  più alto che l’uomo può raggiungere prima di essere afferrato  dal nulla della morte (e dopo che la tecnica ha invano tentato  di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo,  effimero paradiso terrestre; sa di essere il «genio». Il genio  della ginestra «consola» il deserto perché sa che non ci si può  salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella  poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la  poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e  Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997).   Nell’incontro di Dante col «cielo», all’inizio del viaggio  nell’oltretomba, la parola «consolazione» è invece assente in  quanto riferita alla paura del poeta. Dal «cielo» giunge per lui  la salvezza. Quando Virgilio glielo dice, Dante si sente come i  fiori che escono dal gelo notturno - e questo suo stato è la  prima prefigurazione della rosa dei beati:    Quali i fioretti, dal notturno gelo  chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca  si drizzan tutti aperti in loro stelo  tal mi fec’io [...].   ( Inferno, II, w. 127-130)   Dalla paura del gelo notturno al calore eterno - «un sol  calar di molte brace» -, da cui si leva l’unico «odore» dei fiori  dell’eterna letizia. Volendo essere il rimedio contro la paura originaria del  dolore e della morte, la festa arcaica vuol essere sempre più  potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e  oggi si presenta come civiltà della tecnica. Potenziamento  crescente della festa, che è potenziamento delfimmagine  festiva della lotta in cui la vita consiste.   Il potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due  vie: quella del contenuto delfimmagine e quella della forma,  cioè del modo in cui l’immagine esprime il contenuto. Ma  appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via  della propria crescita, appunto per questo l’originaria potenza  festiva si indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il  sorgere e l’articolarsi del mito; il potenziamento della forma è  il sorgere e l’articolarsi di ciò che sarà chiamato «arte»,  «poesia», «tecnica». Gli abitatori originari della casa festiva  tendono a separarsi e la separazione diviene violenta e  irreparabile quando il contenuto sapienziale del mito non sa  resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos,  ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole sapere per salvare. Ma  la volontà di salvezza è massimamente esigente: richiede che il  sapere sia capace di resistere a qualsiasi dubbio; e ciò che  possiede in modo assoluto questa capacità è la «verità», intesa  come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere  che non può essere in alcun modo smentito. Questo il senso  della verità che, lungo l’intera tradizione dell’Occidente,  giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso  della verità il pensiero di Dante è essenzialmente immerso, e  in modo pienamente consapevole.   È questo senso radicale della verità a separarsi dal mito e a  scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e  dunque l’indebolimento degli abitatori dell’antica casa festiva.    18     Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati, è inevitabile che si  trovino estranei gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in  conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla  loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica, sapienza  incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di  salvare dal dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita.  Pochi oggi credono che la poesia o la filosofia possano salvare  dal dolore e dalla morte. E il discorso può essere esteso in  consistente misura alla religione.   Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata  dalla tradizione filosofica è la via lungo la quale procede non  solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la  «diritta via», la «verace via» di cui parla Dante. Nascendo, la  filosofia porta alla luce la forma estrema di ciò che per il  mortale è il pericolo: intende il dolore come l’andare nel  «nulla» da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel  «nulla», da cui non c’è ritorno, da parte della vita intera. E per  poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve  pensare il significato radicale del «nulla» e dell’«essere». La  filosofia salva il mortale perché essa crede che la verità esiga  che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre  salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o addirittura sia  quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla, che è il divino. In  questa concezione del divino si inserivano l’esperienza  cristiana e la riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei  massimi testimoni di questa inscrizione.    19     4. Potenza della «bella menzogna»   Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato.  Questo significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa  che il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione  opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa  che la poesia sia soltanto «bella menzogna» qualora non si  faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta  nascosta sotto «il velame della favola» e il «favoloso e ornato  parlare». Dante pensa della poesia quello che pensa Platone. E  anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina-  cristiana - comprendente anche la configurazione  dell’oltretomba e i viaggi che in esso si possono compiere -,  anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già  stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune sue prese di  posizione.   Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un  «favoloso e ornato parlare» la verità già pensata da altri? Per  questo impegna e consuma tutta la sua vita?   Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di  essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto,  con la Commedia egli intende produrre la nuova immagine  salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva,  consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte.  Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della  tradizione.   Che Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la  grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita  a essa conforme hanno una potenza salvifica inferiore a quella  della dimensione dove la verità e la vita adeguata alla verità  sono il contenuto del canto e della poesia.   «Bella menzogna» e «velame della favola», la poesia,  quando il suo contenuto non è la verità; ma più potente della    20     nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le  conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la  verità possiede di per sé sola.   La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti.  La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il  proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente  letterario o astrattamente culturale, ma esprime la coscienza  che ad attendere e a tendere alla salvezza della verità sono  tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono  identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la  verità della filosofia, solo se tale immagine si presenta non  nella sua cruda e astrale concettualità, ma, attraverso un  ulteriore rinnovamento, con le parole terrene della poesia.   Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il  cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare  presso i mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza  è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora  forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa che dalla poesia  non possa separarsi la festa della verità e della cristianità -  cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria  salvezza e la propria destinazione all’«eterna letizia». La  liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica.   Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la  protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel  terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale  pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva  come unità di poesia e di filosofia. Dante non si limita a essere  un grande testimone della situazione dove lo scopo  dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente  concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue  convinzioni sulla poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la  poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che    21     consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte.   Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità  parla, oltre che ai sapienti, anche agli indotti; mentre nella  letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna  letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè  destinata a scomparire come scompare la fede - giacché la  fede è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non  apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose  si mostrano e non hanno bisogno della fede.   Ma perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e  salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della  verità filosofica, si unisca anche la poesia. E Dante è pur  sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei fiori  dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si  mostra nel paradiso, le forme visibili della «rosa sempiterna»  dei beati - «Il fiume e li topazii / ch’entrano ed escono e il  rider de l’erbe» ( Paradiso, XXX, v.v. 76-77) - sono forme  esterne, preamboli, prefazioni - «prefazi» - della loro verità,  che in qualche modo esse coprono d’ombre («son di lor vero  umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano  in sé stessa. Ma nella condizione terrena - all’interno della  quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio  nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare  la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che  salva: a rendere potente la sua forza salvifica e a rendersi  quindi indispensabile alla potenza dell’immagine:    E vidi lume in forma di rivera  fulvido di fulgore, intra due rive  dipinte di mirabil primavera.   Di tal fiumana uscian faville vive,  e d’ogni parte si mettean ne’ fiori,  quasi rubin che oro circunscrive.  Poi, come inebriate da li odori,  riprofondavan sé nel miro gurge;  e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri.    22     ( Ibid w. 61-69)   Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine  terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque  non dispiega la propria potenza salvifica se i beati non  appaiono insieme nelle forme della poesia: come i perpetui  fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del  cielo, formano le due rive, «dipinte di mirabil primavera», del  fiume, «fulvido di fulgore», da cui escono di continuo le  scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori  depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta  «inebriate da li odori». Imponendo la propria presenza alla liturgia sacra, la  liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui  Dante vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta?   La Commedia apre uno spazio nel quale lo scopo del  mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce alla  filosofia - e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano.  Anche se Dante deve chiamare «commedia» e non «tragedia»  il proprio poetare cristiano, tuttavia la commedia, sulla scia  della tragedia attica intende riproporre il clima della festa  arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere  dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione  degli abitatori della casa festiva. Dante pensa come scopo dei  mortali la festa, nella forma poetica della «commedia»  filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al dolore e  alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è  la «commedia» la forma poetica adeguata all’eterna letizia  cristiana). San Pietro gli dice:    E tu, figliuol, che per lo mortai pondo  ancor giù tornerai, apri la bocca,  e non asconder quel ch’io non ascondo.   (Paradiso, XXVII, w. 64-66)   Il riferimento immediato è alla corruzione della Chiesa, ma  il contesto imprescindibile di tale riferimento è tutto il  contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante  è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che  in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo  appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi  dell’immagine festiva, nella quale il contenuto filosofico-  cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto,  in quanto separato dalla poesia, non è più lo scopo a cui  l’uomo deve mirare.    24     Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al  messaggio cristiano, è soprattutto questo messaggio a parlare  alle genti, e a dir loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù  e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo  padrone; e non si possono servire due padroni. Quaerite  primum regnum Dei. Il messaggio cristiano non dice di  tendere all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà  che compete al regno di Dio in quanto scopo non include la  poesia. La «bella menzogna» della poesia, «il velame della  favola» poetica, «il favoloso e ornato parlare» non sono  necessari per andare in cielo.   La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza,  intende invece mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è  autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia.  Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto  separato dalla poesia, il contenuto filosofico-cristiano cessa  quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo  per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo  che è «l’unità della verità e del canto. Cercate per prima  l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il  regno di Dio non salva.   Questo è lo straordinario pensiero di Dante - anche se in  lui tale pensiero può aver evitato di guardare in faccia sé  stesso. Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del  mondo sapienziale e morale - cioè della filosofia e del  cristianesimo - che pure è cantato nella Commedia. Nel  pensiero di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in  un’immagine salvifica che dev’essere guidata da due padroni,  cioè dal mondo cristiano e dalla poesia; e pertanto il mondo  cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come  indipendente e separato dalla poesia, non appartiene allo  scopo dell’esistenza. Tale mondo può essere cioè presente  solo come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato,  essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico  padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è la pretesa  evangelica.   La Commedia si rivolge al divino - al salvifico - per  cantarlo; non canta per rivolgersi al divino. Non canta per  rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve  della poesia per mostrare la propria gloria al di sopra di tutto,  anche della poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il  canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il divino  che appare nella sua inscindibile unità alla poesia - e che è  salvifico solo in quanto è cantato.   Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la  grande arte cristiana, da Giotto a Bach e oltre ancora, lungo  un processo dove il divino diventerà sempre di più il pretesto  perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà  dell’immagine festiva sapienzialmente e religiosamente  salvifica. Diventa sempre più intenso e perentorio il processo  in cui, per il grande artista «cristiano», al di sopra di tutto -  anche al di sopra del messaggio di Gesù - finisce con Tesserci  l’arte; nell’arte egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando  non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il  vero creatore del mondo. La negazione oggettiva - ossia non  intenzionale - del mondo sapienziale della tradizione greco-  cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della  dominazione di tale mondo. Sussiste, questa dominazione,  anche quando le forze della terra, specie quelle pratico-  economico-politiche agiscono in direzione contraria alla  sapienza e alla morale filosofico-cristiana. Anche questo agire  è una negazione di tale sapienza, ma è una negazione che  avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei  potenti, che tale sapienza è l’inviolabile guida del mondo. È  quindi una negazione in malafede. Video meliora proboque, deteriora sequor. Invece la grande arte cristiana, dunque  anche la poesia di Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non sa o ancora non rende  esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e  alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la  negazione perentoria del modo in cui il cristianesimo,  cresciuto sul tronco della filosofia greca, intende sé stesso. È  una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della  coscienza, ma che ancora non lo frantuma e non si rende  visibile. L’anima riceve vita. Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo  implicita ma an che soltanto «sentita», voluta, vissuta, cioè  senza sostegno e fondamento che non sia appunto la  prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si  contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio modo che  però ha alle proprie spalle il fondamento costituito dalla  grande tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la  negazione della verità della tradizione, da parte della poesia e  dell’arte, attende ancora che venga alla luce la necessità di  lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla luce  e in cui si manifesta il «vero» senso del divino. Nel tempo del  dominio della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la  porta alla «morte di Dio», ma senza ancora sapere quel che sta  facendo e senza riuscire a scorgerne la legittimità e la  necessità.   È Nietzsche a parlare della «morte di Dio» - e a fondarla  (cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di  Leopardi a scorgere questo fondamento a mostrare la  necessità di questa morte, cioè Yimpossibilità di ogni eterno,  di ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna  letizia. Nonostante tutto, la gigantesca potenza filosofica di  Leopardi rimane oggi ancora celata, sebbene fosse stata  intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca  potenza, qui, non si può dir nulla di determinato e pertanto  rinvio ancora una volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il  nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda.   Si deve però richiamare che il carattere indissolubile  dell’unità di poesia e filosofìa, al quale Dante guarda per  primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più  esplicitamente, potentemente e diffusamente presenti nel  pensiero di Leopardi. Ma è presente nella sua innegabile necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di cui qui  sopra si parlava, che invece è assente nella negazione del  mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e  dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è  soltanto volontà di negazione, soltanto volontà di  autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e  filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso  radicalmente nuovo che la filosofia assume quando essa si  rende conto delfimpossibilità della «verità» e del «divino»  evocati dalla tradizione dell’Occidente.   Leopardi mostra per primo, aprendo la strada della filosofia  del nostro tempo, che l’uomo non può salvarsi dal nulla. La  «verità», ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella  cultura degli ultimi due secoli, della morte di un Dio divenuto  più angosciante della paura da cui egli avrebbe dovuto  liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci  si rende conto che nessuna opera umana potrà mai salvare  l’uomo dal nulla. Il contenuto del mito consente al mortale di  sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che,  sebbene unito agli altri tratti dell’immagine festiva, più le  conferisce la potenza salvifica e dunque la letizia per la quale  la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La  filosofia porta il mito al tramonto, ma nella tradizione  dell’Occidente ne diventa anche l’erede. La filosofìa della  tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola  significa appunto «festa». Ma quando la filosofia scorge, e  innanzitutto nel pensiero di Leopardi, che la verità innegabile  è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la  verità della filosofia non può più dare alcuna letizia. Leopardi  vede dapprima che la conoscenza della verità rende estrema e  insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale  può esserci, sia pur breve, un tempo di letizia, cioè di festa,  questo deve nascondere la verità e non essere altro che «bella  menzogna» - che dunque può essere solo «umbrifera»,  apportatrice di ombre che oscurano e che non possono essere,  come in Dante, «prefazii» della verità.   Ma dopo questo primo modo di intendere la poesia  Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo  r«intelletto», ma nemmeno la «fantasia» può lasciarsi  ingannare dalla poesia e che dunque è inevitabile che anche e  soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato  di questa consapevolezza è che l’unico tratto festivo e  caducemente salvifico concesso al mortale è la potenza con  cui la poesia esprime la nullità dell’uomo.   Il «genio» è il produttore: gignens. Genera quanto ormai,  eco lontana, è possibile ripristinare dell’immagine salvifica  della festa. Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel  «pensiero» 259-61 dello Zibaldone - «l’anima riceve vita, se  non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte  perpetua delle cose e sua propria». Questa «vita» è appunto  quanto rimane dell’antica letizia della festa - le opere del  genio, scrive Leopardi in quel «pensiero» dello Zibaldone,  «riaccendono l’entusiasmo», sono «consolazione» che «apre il  cuore e ravviva» ma tale «vita» e «forza» festive posseggono  la potenza dell’immagine in cui il genio presenta la terribile  verità innegabile della filosofia, cioè la morte e la nullità  dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine prodotta dal genio  unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a  consentire al mortale di sollevarsi ancora per un poco al di  sopra del nulla che si mostra nella verità terribile della  filosofia.   Nel genio, l’unione di filosofia e poesia è l’ultimo modo in  cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa  al mortale l’aura festiva di una passeggera letizia. Il pensiero  di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà  quell’ultima forma di tecnica che è la poesia pensante del  genio, l’ultima festa - «l’ultimo quasi rifugio», dice Leopardi -  a cui tendere prima del «silenzio nudo» e della «quiete  altissima» della morte. Il genio è la ginestra, il «fiore del deserto». La ginestra  «siede» tra le rovine del deserto che il vulcano ha steso  attorno a sé:    una ruina involve  dove tu siedi, o fior gentile.   come il genio, cioè Leopardi, «siede» a notte sulle «rive» del  «flutto indurato» della lava:    Sovente in queste rive;   che, desolate, a bruno   veste il flutto indurato, e par che ondeggi,   seggo la notte.   Il «lume» divino, le «scintille» del fiume di fuoco  dell’amore divino    fulvido di fulgore, intradue rive  dipinte di mirabil primavera.   è ormai divenuto «il flutto indurato» della lava, sepolcro  che sigilla, copre e a «bruno veste» la vita annientata dal fuoco  del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è  vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio, siede tra le rovine  delfeterno. Esse sono il «deserto».   Ma Inodorata ginestra», che è la «nobile natura» del genio,  è «contenta dei deserti»: guarda in faccia il deserto del nulla e,  sapendo di non potervisi sottrarre, ne è «contenta», cioè non  si illude di poter aver altro, non si sente il perpetuo fiore  dell’eterna letizia che «d’eternità s’arroga il vanto». La «nobile  natura» del genio della ginestra tien ferma dinanzi agli occhi  la verità terribile, non le sottrae nulla, non distoglie lo  sguardo dal fato comune del nulla: Nobil natura è quella   che a sollevar s’ardisce   gli occhi mortali incontra   al cumun fato, e che con franca lingua,   nulla al ver detraendo,   confessa il mal che ci fu dato in sorte,   e il basso stato e frale.   Non detrae nulla dal «vero» in cui appare l’essenziale  nullità deH’uomo; ardisce sollevare lo sguardo mortale sulla  verità: questa forma intransigente di volontà di verità è  l’essenza della filosofia del nostro tempo. Leopardi la  inaugura. Ma la «franca lingua» che nulla detrae alla verità è  la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che  mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo. Senza la potenza  poetica l’uomo è subito risucchiato nella pietrificata  contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un  poco nell’ultima eco dell’aura festiva, unendo dunque filosofia  e poesia. La ginestra non detrae alcunché alla verità  angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno  «scambio delle parti» già a partire dal «fiore» della poesia, che  da mezzo per mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla  tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi  forze dell’Occidente è destinata a diventare il loro scopo.  Anche le pagine che seguono possono essere lette come un  contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei  miei scritti, di questo «scambio delle parti». Il problema del fiore della poesia conduce dunque al  problema della tecnica. Oggi se ne continua a discutere. Ma se  ne discute rimanendo all’interno della dimensione che ha reso  possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito,  la filosofia, il cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno  della dimensione dove l’uomo percepisce sé stesso come un  mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di  salvarsi.   Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero  pianeta è ormai completamente immerso, non debba  finalmente esser messa essa stessa in questione?   Siamo proprio sicuri che l’eterna letizia non possa avere  altro significato che quello che la tradizione le ha conferito?  Al di là di questo significato, noi siamo perpetui fiori  dell’eterna letizia, ma non nel senso che è stato  inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del  nostro tempo. Il senso autentico dell’eternità del Tutto è  abissalmente lontano dal senso che l’eterno possiede nella  tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che  possa essere rintracciato in qualche altra forma di civiltà,  diversa da quella dell’Occidente - anche se esso risplende nel  fondo di ogni uomo.   Nel paradiso della tecnica, la tecnica può essere guidata e  animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce  alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in entrambi i casi,  per quanto alta possa essere la luce del tramonto, è inevitabile  che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di  vincere il nulla - ossia di vincere il divenire, il contenuto della  fede, cioè della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e  un ritornarvi. Comunque si configuri, il paradiso della tecnica  è cioè destinato all’angoscia estrema.  Può essere quello, allora, il tempo in cui l’uomo incomincia  a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia.   Esso non è un futuro da produrre e da creare.   Già da sempre attende di essere condotto fuori dall’ombra:  già da sempre attende che tramontino le ombre che attirano  su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e,  in questo senso, nell’ombra) la luce piena di quel senso  inaudito. Nella sua essenza il cristianesimo è una grande religione  della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui  sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere la salvezza solo se la  vuole, e solo se, d’altra parte, questo volerla non è un atto di  imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è  pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è quindi la  preghiera, così intesa. Appunto per questo Tertulliano dice  che la preghiera insegnata da Gesù «è veramente la sintesi di  tutto il Vangelo».   Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17) Gesù dice: «Chi  crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato». Ma  prima di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come  Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema  del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile  dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più  conta: la salvezza eterna.   In quel testo Gesù dice. «Abbiate fede in Dio. In verità vi  dico che se qualcuno dirà a questa montagna: “Togliti di lì e  gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et  non haesita = verit in corde suo], ma crederà che quel che dice  s’abbia a compiere [fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi  dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede  [credite] di ottenerle e le otterrete [et evenient vobis]. E  quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa  contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi  perdoni i vostri peccati». Marco accenna subito dopo a quello  che a suo avviso è il centro della preghiera insegnata da Gesù,  ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata  nel Vangelo di Matteo (6, 9). In questa concezione della preghiera è presente un grande  sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa,  per esempio di essere aiutato in una certa circostanza, ma che  in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che  tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a  ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che Dio sia mai  questo, la risposta è scontata: non è il Dio delle religioni  monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo,  perché se alla fine egli cambiasse parere ciò accadrebbe o  perché quell’uomo è più potente di lui, oppure perché alla  fine Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli  ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente di un uomo o  che può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo,  non è il Dio di Gesù.   Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere  da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere  esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può chiedere dunque  solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli  vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella  preghiera: «Sia fatta la tua volontà». È sul fondamento di  questo decisivo sottinteso che va interpretato il senso  deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne  e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere,  «tutte le cose sono possibili per lui» (omnia possibilia sunt  credenti, Me., 9, 23).   Se avendo fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna,  si può anche ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio,  l’Onnipotente. Già Platone, dando forma filosofica al mito  biblico, afferma che Dio è «tecnica» divina, cioè la più  potente.   Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la  salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la  forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi,  pregando, l’uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver  dubbi, di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo.  (Chiedendo di credere, chiede insieme di non aver dubbi  intorno a questa sua richiesta. Si può mostrare che chiedere  con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di  vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio vuole, non può  non ottenerlo, perché Dio è l’Onnipotente. Da quel punto di  vista, la fede che muove le montagne non è un paradosso.  Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non solo ottiene  ciò che vuole, ma sa di ottenerlo, perché non può non sapere  di voler quello stesso che è voluto da Dio, che è  l’Onnipotente.   E non spezza nemmeno in due quella preghiera, come se  nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di  Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole lui - il pane  quotidiano, la remissione dei debiti; la liberazione dal male  ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché  sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il pane. Lo stesso si  dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello che è  espresso dalle parole «e perdona a noi i nostri debiti, come  anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Infatti nella  preghiera autentica l’uomo può chiedere di essere perdonato  solo se sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno  perché crede che sia il Figlio di Dio a comandargli di chiedere  al Padre di essere perdonato, e il Figlio non potrebbe  comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare  l’uomo.   La preghiera di Gesù contiene dunque anche  l’implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono  per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da  parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi    40     confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli  chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo  perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi  confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto  che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo?  No. Lasciarlo solo vorrebbe dire, per Dio, non volere che  l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni:  starsene in disparte lasciando che sia l’uomo a trovar la forza  che lo può salvare eternamente - visto che se non perdona  non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere  qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui è indifferente.  Verrebbe meno, allora, il principio per il quale l’uomo può  ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che  Dio, dopo aver detto all’uomo che se non perdonerà non sarà  perdonato lo lasci solo a raccogliere le forze che gli occorrono  per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo.   Tutto questo significa che - quando, nella preghiera di  Gesù, l’uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come  egli perdona quelli dei propri debitori - è necessario che  l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di  perdonarli. Anche il perdono delle offese è dunque qualcosa  che l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua  capacità di perdonare è voluta da Dio, e che quindi egli  otterrà anche questa capacità (più diffìcile da avere che non la  capacità di muovere le montagne).   L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede  è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da  Dio, e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove  non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole  effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama, e si fa  tutto ciò che Dio prescrive. E volendo tutto questo si è  convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è  voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di    41     ottenere quel che vuole.   Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto, il buono,  il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche  necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il  santo, perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio  anche sul proprio star volendo quel che Dio vuole. Chi si  trova in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo  qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole quel che  Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di ottenerlo.  Volere qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di  volerlo non lo si sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o  meno, non ci si trova cioè nella condizione di chi, pregando,  riesce a muovere le montagne.   Convinto di essere il giusto che perdona le offese e ama il  suo prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e  si imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con  sé quella convinzione. (Altrimenti abbandonerebbe  l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis.  La «politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le  istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la «politica» è  innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa  azione sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una  cert’altra ancora sia una forma di amore è chi agisce nel  mondo a doverlo decidere.   A questo punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si  trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo  in cui egli decide di considerare offesa, perdono, amore certe  azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non  compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole  e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere -  in relazione alle valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve  adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e quella di Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo  autentico; rinuncia pertanto alla propria salvezza (perché  «solo chi crede sarà salvo»). Sul piano politico è la rinuncia a  ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso  crede che ogni sua azione privata o pubblica sia la volontà di  Dio e che quindi egli sia il giusto, il buono, il santo che sa  capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque  sa realizzare il regno di Dio in terra.   Non ammette che sia per un equivoco che egli giudica  come offesa un’azione; né può ammettere che nel proprio  agire non sia presente il vero perdono e il vero amore,  conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere  che giusta. Sul piano politico è, questo, il passo decisivo verso  la teocrazia, che è il regno di Dio in questo mondo, mentre  Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo.   Certo, chi ha l’intenzione di essere cristiano tenta di ritrarsi  da ciò a cui conducono entrambe queste strade (anche se  entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di  camminare un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Ma anche in  questo modo tradirà la propria fede, non ne salverà la  coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del  rapporto che nei Vangeli viene istituito tra il credere e il  pregare?   Lo scambio delle parti che si presenta nella preghiera di  Gesù è una delle più potenti anticipazioni dello scambio in  cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù  l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per salvarsi: la  salvezza è lo scopo, la Potenza divina il mezzo. Ma anche  Gesù fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura  il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè assunto da un  essere bisognoso di salvezza, quindi debole, finito, mortale  quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa  capire che l’uomo deve porre come scopo non il  soddisfacimento dei propri bisogni ma la volontà di Dio («Sia  fatta la tua volontà»). In questo modo gli sarà dato tutto il  resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della situazione  in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica,  capisce che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: «Sia  fatta la tua volontà, non la mia», che, posta come scopo  (volontà capitalistica, comunista, cristiana, democratica ecc.),  non ha la potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo,  indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé  stessa.   Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la volontà  cessa di essere ciò che intendeva essere, giacché per essere ciò  che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso modo,  si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a  imboccare quelle due strade che lo portano a non esser più  cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e quindi per pregare  autenticamente, per salvarsi, il cristiano non può più essere  cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la  volontà di Dio. È indubbio che «chi vorrà salvare la propria  vita la perderà», ma non è nemmeno vero che «chi perderà la  propria vita per amor mio [héneken emou, cioè avendo me  come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà».  Lo scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa  scopo e quindi salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come  vita autentica, cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo  che la si è perduta, Gesù assicura che la si sia salvata. È  perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che chi  vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare.   Proprio perché, per raggiungere la salvezza, ci si serve di  ciò che si considera come la Potenza suprema (teologica o  tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza  suprema, perché, rispetto alla Potenza teologica, la volontà  che intenderebbe esser cristiana non può esserlo e, rispetto  alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo,  cioè volontà capitalistica, comunista, democratica, totalitaria,  cristiana ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò  che essa intende essere. Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su  quelli ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse  umane, determinati dal bisogno elementare di sopravvivere.  Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la propria sofferenza. Il  modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne  dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui  interpreta la propria vita. «Cultura» è innanzitutto questo  credere. Per quanto ne sappiamo, in questo credere sono sin  dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente  che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze  che lo possono aiutare o schiacciare. Il senso della «cultura» è  legato a quello della «coltivazione» e del «culto». La pressione  dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno eminentemente  culturale.   Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri  è diverso da quello cristiano in cui, almeno formalmente, i  Paesi ricchi si riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam  a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza  e della fame dei poveri. In quest’ultimo decennio si è reso  altrettanto visibile - sebbene non nelle forme drammatiche  della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato  vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di un fenomeno  ambivalente, perché da un lato la Chiesa non può non vedere  nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità,  dall’altro non può non avvertire che l’islam è anche  l’avversario dove la religiosità dei fedeli è molto più convinta  di quella cristiana (non dice forse la Chiesa che «l’Europa è  terra di missione»?), tanto da alimentare quel  fondamentalismo che convince individui a immolare la  propria vita per il trionfo della causa. D’altra parte non è  nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più  determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro  perché la modernità, contro cui cristianesimo e islam si  trovano alleati, esiste.   La tecnica, che è impensabile senza la cultura moderna,  stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo senza  guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche  della tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti  inviolabili. Un gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che  rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo  non va toccato.   Intendo dire che chi potrebbe rendere il gigante capace di  replicare è la punta estrema della modernità, ossia quella  essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro  tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza di ogni  inviolabile e che quindi il gigante è legittimato a toccare il  cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che  nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da un lato, pertanto,  la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi  impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti  così non riuscirà mai a possedere Penelope, cioè a dominare il  mondo, lasciando ancora a lungo la scena alla coscienza  religiosa. Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua  rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del  cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi in un mondo  «soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran  peso per la vita della fede» (in mundo nostri temporis rapidis  mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis prò  vita fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un  pontefice dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è  un tema che, nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa  in secondo piano. Nel testo, la parola pondus («peso»)  compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la  vita della fede, come «peso» del gesto di rinuncia e come peso  del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle  forze. Ma solo il primo peso vien detto «grande»: la vita della  fede è oggi gravata da «questioni di gran peso» ed è essa stessa  turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto  meno un pontefice) non può riconoscere che il turbamento  della fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla  corruzione alfinterno della Chiesa.   Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la  fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora  dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro  volta «fedi»). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla  democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla  mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo  sovietico, come il nazismo, era tra le più rilevanti di queste  forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le  proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere  l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né  un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente  un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da  «questioni di gran peso» - da questioni che fanno  intravedere l’inevitabilità di tale tramonto.   Certo, un pontefice deve credere che il cristianesimo durerà  fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle  forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del  loro vero avversario, che le scuote e le travolge. Il  «relativismo» è stato l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo  di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il  semplicismo concettuale e l’ingenuità del relativismo ne  favoriscono infattila diffusione presso le masse, e tale  diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede.  Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all’avversario  autentico quando individuava negli inizi della filosofia  moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del XX  secolo, quali le dittature del comuniSmo e del  nazionalsocialismo, o l’egoismo dell’economia capitalistica. In  questa prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso  come un parto di quella matrice.   Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a  guardare in faccia l’avversario autentico. Riusciranno le varie  forme di fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere  un po’ più a lungo, non accada loro di combattere i nani,  quando invece il gigante pesa già su di esse e toghe loro il  respiro? Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo».  Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni cenni; doppiamente  insufficienti perché a chi sta per morire, e non vuole, è  estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria  morte.   All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere  all’uomo il respiro, impedendogli di vivere. L’uomo può  incominciare a vivere solo se vuole trasformare sé stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può  nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il  respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo  nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo.  La Barriera è l’Ordine immutabile della natura. Solo se la  penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può  liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli  vuole. La Barriera è l’altro gigante: il Tremendum (per  servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto).  Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché l’uomo può  incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera  frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del  frutto proibito, frantumando cioè l’icona stessa del divino,  può diventare Dio ( eritis sicut dii, «sarete come dèi», dice il  serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto  essenziale del sacro, del divino, del Dio.   La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l’uomo;  l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo  essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco -  uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo all’uomo. Prometeo  è l’uomo. Soprattutto da due secoli egli è l’avversario della  tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e  che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che più salta agli  occhi, ossia l’allontanamento della modernità e soprattutto  del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla  «vita della fede». (In questo contesto, la corruzione della  Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado.)  Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui  esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con  Dio. Giacché, dopo l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata,  ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e  l’uomo della tradizione lo ha trovato meno tremendum e più  fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di fede, non solo cristiana ma anche quella degli dèi - delle barriere - in cui  consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel  mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo  con Dio. È la potenza di questo furto a nascondersi, per lo più  inesplorata, sotto le «rapide mutazioni» del nostro tempo,  «turbato da questioni di gran peso per la vita della fede». Una delle radici dello Stato moderno è il desiderio  dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo  funzionare lo Stato come una «macchina tecnicamente  razionale» a cui viene riconosciuto il monopolio della forza e  che quindi consente a ognuno di «calcolare» in anticipo le  conseguenze delle azioni proprie e altrui. Così si esprime Max  Weber; ma questa constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si  chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere.   Anche il capitalismo è un calcolo razionale (a differenza  delle forme violente di acquisizione della ricchezza). Tuttavia  è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle  conseguenze dell’agire. Due componenti inseparabili, fino a  che il capitalismo esiste nella sua forma tradizionale. Il talento  dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di  vista scientifico è imprevedibile: la forma relativamente più  remunerativa di investimento.   A sua volta, il talento è inseparabile dalla fortuna. Il più  «capace» degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente  capace. È vero: oggi si sa che una teoria scientifica non è  valida se non è confermata e che tale conferma è una forma di  fortuna, una «circostanza felice». Ma l’imprenditore capace  deve avere una fortuna incomparabilmente più grande di  quella sinora richiesta per le teorie scientifiche: egli ha tanto  più successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in  base alle proprie intuizioni - le precauzioni della razionalità  scientifica - che essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro  adottabili anche dalla concorrenza.   Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali,  Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque in direzioni  opposte: azzeramento e moltiplicazione del rischio.   La tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato -  non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua base sta il  crescente potenziamento dell’economia e il crescente  indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel  potenziamento corrisponde non solo l’indebolimento dello  Stato, ma anche quello della produzione economica legata  principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo  imprenditore. La «macchina» economica tende cioè a  diventare l’erede della «macchina» statale e del compito,  proprio di quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio  del vivere.   Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto  rispetto ai bisogni della società civile, le destre mirano invece,  ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non  esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di  rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in questo modo si mira a  qualcosa che corre a sua volta il rischio di diventare obsoleto  prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a  rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di  rischiare e di imporre il rischio alle minoranze, credendo che  la fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori  statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo.   La difesa dello Stato tradizionale contro le prevaricazioni  dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta  stentano a comprendere la tendenza, di cui si è detto, che  conduce dalla «macchina tecnicamente razionale» dello Stato  a quella di una economia sempre più simile alle procedure  scientifiche e sempre meno bisognosa del carisma e della  fortuna di certe persone - la presenza delle quali può peraltro  costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre  credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la  concezione minimalista dello Stato non equivale, per le  destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre  continuano a credere nella capacità dell’apparato giuridico statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può  essere superata restando all’interno della politica.   Ma si vuol riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e  quella economica sono «tecnicamente» razionali? Non è già  significativo che tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo  siano considerati delle «macchine»? Si tratta di comprendere  che è la tecnica a conferire potenza agli Stati e alle economie.  E si è richiamato che nel suo significato più autentico la  tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero  filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra  l’inesistenza di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e  innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con  un ozio astratto: è la condizione che consente all’operatività  tecnica di accrescere indefinitamente la propria potenza.   Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del  vivere, non sarà più né la forma tradizionale dello Stato, né lo  Stato-azienda, ma la tecnica, di cui entrambi hanno così  bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per  assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato o lo Stato-azienda  che si servono della razionalità tecnologica, ma quest’ultima  che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi  siano diventati mezzi: mezzi di cui la tecnica può servirsi per  accrescere il proprio dominio sul mondo.   Se a questo punto si vuol usare ancora la parola «politica»,  si può dire che la «grande politica» è destinata a restare  estranea alle destre e alle sinistre mondiali sino a quando non  comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla  dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla  dominazione della tecnica. In uno dei suoi significati economici più importanti la  «collaborazione» -- di Grice, ‘the principle of conversational helpfulness – efficenza e solidarieta -- riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il  rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio  di questo termine). Con la fine del socialismo reale è finita  anche, nelle società avanzate del pianeta, la volontà di  soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col  suo opposto, cioè con la lotta di classe.   La collaborazione riguarda il rapporto tra gli interessi di chi  lavora e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli  interessi dei lavoratori quando non si propone soltanto il  proprio interesse, cioè l’aumento del profitto, ma anche la  salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A  sua volta, il lavoratore collabora con gli interessi del capitale  quando non si propone soltanto di aumentare il proprio  tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui  egli si trova ad agire. Il primo  tipo di collaborazione conduce  alla «solidarietà»; il secondo all’«effìcienza».   Fino a questo punto, si può credere che, sia nell’ambito del  capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la  collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual  modo, la sintesi di efficienza e solidarietà - la sintesi in cui,  appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il  centro del problema stia nel saper realizzare le condizioni che  conducono alla collaborazione. Ma in questo modo si va fuori  strada: non si scorge la configurazione autentica del problema  e ci si priva degli strumenti per poterlo affrontare.   Visibilissima in tutte le società avanzate, la lotta tra capitale  e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della  «lotta di classe» marxista; ma non si estingue con la  realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che  sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del    55     capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si  ripropone a causa del diverso modo in cui tale sintesi è  perseguita da queste due forze.   Oggi si tende a mascherare questa diversità. Per esempio  dicendo che efficienza e solidarietà «devono alimentarsi in  una circolarità virtuosa» - una espressione che si è fatta strada  tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico  (o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella  alimentazione circolare i due elementi in circolo sono posti  sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è un’apparenza  la «virtù» del circolo.   Infatti, dal punto di vista del capitale i «livelli di solidarietà»  (quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta la  solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il  capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto)  non possa scendere. Ma dal punto di vista del lavoro i livelli  di efficienza (cioè fino a che punto debba essere promosso lo  sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei  quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio  tenore di vita e la qualità della propria vita. Nel primo caso la  collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo  primario e dominante l’efficienza; nel secondo caso la  collaborazione ha come scopo primario e dominante la  solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per  realizzare l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per  realizzare la solidarietà. In entrambi i casi le due  semicirconferenze della «circolarità virtuosa» sono diseguali,  si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante,  cioè viziosa.   I due avversari possono gettarsi a vicenda polvere negli  occhi, invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando  la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di  efficienza e solidarietà, cioè a una forma di collaborazione,  dove lo scopo dell’agire economico è la solidarietà e  l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista  afferma che «non si può dire a un capitalista “limita il tuo  guadagno”», perché «un imprenditore deve produrre  ricchezza e quanto più lo fa, più opera per il bene della  società», il capitalista che parla così pensa a una sintesi di  efficienza e di solidarietà, cioè a una forma di collaborazione  dove invece lo scopo dell’agire economico è l’efficienza e la  solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come  si è detto, la collaborazione è una circolarità viziosa, dove  ognuno dei due fattori circolanti tende a fare dell’altro il  proprio «alimento» evitando di diventare a sua volta  l’«alimento» dell’altro.   Ciò significa che la «collaborazione» è un paravento, una  maschera che più o meno consapevolmente nasconde il  proprio opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto  irrisolto. Si evita di riconoscere che se la collaborazione tra  interessi del capitale e interessi del lavoro esistesse per  davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far  posto all’altro, e pertanto non esisterebbe più né il senso  autentico dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del  lavoro; e che se invece questi due fattori esistono per davvero  - come in effetti esistono storicamente per davvero -, allora  ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre  l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro  «alimentarsi in una circolarità virtuosa» svanisce, cioè  svanisce la loro collaborazione.   Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire  economico è la sintesi di quei due fattori - ossia è la sintesi  costituita dalla loro collaborazione -, allora, in questa loro  sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne  distrugge la configurazione originaria. Se un uomo (fuor di  metafora: l’agire economico) ama due donne (fuor di  metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e crede che il  suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a  «collaborare», cioè ad «alimentarsi in una circolarità  virtuosa», quest’uomo si inganna, perché l’amore che darebbe  a una se non ci fosse l’altra non può esserci più quando oltre a  quell’una ama anche l’altra. Se i due amori si alimentano  virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno  amata, l’amore «vero», «esclusivo» che ci sarebbe potuto  essere per lei è andato perduto; se invece questo amore «vero»  ed «esclusivo» rimane, allora esso non potrà più dividersi tra  le due donne e cioè l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’una  finirà inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore  «vero» ed «esclusivo» per l’altra.   Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà collaborano, ma  allora non ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di «non  limitare il proprio guadagno» - né dottrina sociale della  Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in modo diverso, non  intendono limitare la realizzazione del bene comune,  sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e  solidarietà mantengono i caratteri che storicamente sono loro  propri e per i quali ognuna di queste due forze intende essere  lo scopo primario dell’agire economico, ma allora non ci  potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto  più o meno mascherati.   Per ora, si può dire che ognuno dei due antagonisti tende a  predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la  collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno  consapevolmente, la propria rovina - e questo è appunto il  predicar «male»), ma in effetti persegue il proprio scopo  tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e  questo è appunto il razzolar «bene»). Ci sono avvisaglie, nel  mondo, che oltre a predicar male i due avversari incomincino  anche a razzolar male, e cioè incomincino a «collaborare». Ma  questo fatto vorrebbe dire che i due avversari - efficienza  capitalistica e solidarietà cristiana o progressista - stanno  avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel «vero»  amore per una donna quando esso viene a trovarsi in  compagnia dell’amore per un’altra. Stanno avviandosi al  tramonto perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano  a sé stessi. Che cos’è oggi un «governo tecnico» in Europa - e, con  qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni,  vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza  scientifica, si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale  «benessere» non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa  cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le  diverse concezioni culturali dell’«uomo» e del «bene».  Appunto per questo, quando si produce un forte  condizionamento politico dei partiti che sostengono un  governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le  decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di  competenza scientifica e di volontà politica, e la competenza  scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che  forze politiche quasi sempre contrapposte hanno del  benessere del popolo che esse intendono guidare.   Tale concetto non ha un carattere scientifico. L’azione  politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la  «politica» (Yazione politica) è un’«arte», avvolta quindi da  quell’alone di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade  quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per  realizzare una forma di non-scienza, tanto più lontana dalla  coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle  forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per  Max Weber la scienza ha un carattere puramente strumentale,  il cui scopo non ha un valore scientificamente appurabile; ma  è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al  servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del  mondo. (Certo, si dovrà poicapire che cosa sta dietro la  ragione scientifica.)   Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di  mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il condizionamento politico, è il benessere quale è inteso,  appunto, all’interno delle categorie della produzione  capitalistica della ricchezza. In questa situazione, il  capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo  tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo si serve.  Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una  economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le  sinistre vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di  marxismo o di economia pianificata. La contrapposizione tra  destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore  comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico.  Parlare dunque di un condizionamento capitalistico dei  governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E  lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro, destra,  sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e  seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano  che il «riformismo» del governo di Monti si sia rivolto a  (quasi) tutte le formazioni politiche, rendendo più visibile che  (quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno della logica  capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il  capitalismo si serve per realizzare i propri scopi.   Sennonché nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza  economica può sostenere che esso è la forma più efficace di  produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo  appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la scienza è  essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano  leggi a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph  Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua  crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la  routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte,  anche per il carattere rischioso del proprio agire, il capitalismo  si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il  benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale    61     privato. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare  che esso, assumendo come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la  scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia  ciò che oggi è considerato come «la ragione» per eccellenza)  serva a realizzare la non-ragione.   Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando  accade che la dimensione tecnica del potere sia condizionata  non soltanto dall’economia capitalistica, ma anche, e magari  fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla  Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere  insieme capitalismo, politica e cattolicesimo (evitando le  degenerazioni dell’agire economico e politico e anche  religioso), servendosi della tecno-scienza. La situazione si  complica ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo  scopo primario dell’agire economico e quindi del governo è  l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo  primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere  il profitto, ma il «bene comune» quale è appunto concepito  dalla dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere  cioè un mezzo per realizzare questa forma del «bene  comune». Mezzo, e non scopo.   La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da tempo) che il  capitalismo abbia come scopo il «bene comune» e non il  profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua  volta il capitalismo, assumendo come scopo primario il  profitto, vuole, a volte non rendendosene conto, la  distruzione della società cristiana. È un problema, questo, che  non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma  tutte le presumibili coalizioni che governeranno l’Italia.  (Quasi vent’anni fa, in un articolo sul «Corriere» poi incluso  in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in  considerazione la proposta di Monti al convegno di  Cernobbio di quell’anno, di tenere insieme efficienza capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo mostrato le  difficoltà a cui va incontro non solo tale proposta, ma ogni  progetto politico che intenda conciliare democrazia,  capitalismo, cristianesimo.)   Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia  si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del  mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del  cristianesimo - e della politica). Un governo che assuma  come scopo primario sia l’efficienza sia la solidarietà, assume  infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo  né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro  fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove  l’efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la  solidarietà, a sua volta, subordina a sé l’efficienza,  servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in  posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la solidarietà  cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una  contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non  abbia a realizzarsi, e magari con risultati soddisfacenti:  significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori,  instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò  che crede di poter ottenere. Come di regola accade lungo il  corso storico.   Comunque, sia illudendosi di unire efficienza capitalistica e  solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa  contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso  dell’efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione,  proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze  tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi  ritenuta la più rigorosa della razionalità umana (la tecno-  scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose  di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al  servizio della non potenza. E la potenza, la capacità di realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo.   Proporsi, come accade nei governi tecnici d’oggigiorno, di  eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è  però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce  col capire che le società diventano potenti e ricche non  eliminando la «cattiva» politica e la «cattiva» economia, ma  mettendo la buona politica e la buona economia (che anche  risanate sono pur sempre forme meno rigorose dell’agire  razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della  tecnica, il cui scopo è precisamente l’aumento indefinito della  potenza.    64     Ili   Democrazia e tecnica   1. Europa e America   Difficile smentire, nel loro insieme e nel loro senso più  corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla  rivista «Liberal» (n. 19) per la discussione intorno agli Stati  Uniti d’America. Esempio. «Dall’Europa, dalla sua cultura  politica prevalente, si guarda sempre più all’America in modo  semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua  democrazia e a sottolinearne, al contrario, i limiti.»   Se le espressioni «Europa» e «sua cultura politica  prevalente» indicano soprattutto gli umori dell’opinione  pubblica europea, allora è un «fatto» che mentre alla fine della  seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei  i «liberatori», oggi vengono piuttosto sentiti come i cittadini  di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del  proprio operato. Questo è un problema di «psicologia delle  masse», facili a dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il  ricambio generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non  siano più i beneficiati di ieri).   Se invece «Liberal» intendesse affermare che oggi in  Europa è in atto una critica dei valori espressi dalla  Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire  che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia) per lo Stato  autoritario. Ma questo non è vero (in Europa i partiti di  estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze);  e non sembra nemmeno che «Liberal» voglia sostenere questa  tesi. Fuori discussione, invece, che quella americana è la  prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo  moderno - la prima, cioè, dove il principio della libertà dal  potere politico si unisce al principio dell’eguaglianza dei  cittadini di fronte alla legge. E fuori discussione, inoltre, che «gli Stati Uniti sono nati da  una grande decisione collettiva di proteggere gli interessi e il  bene comune», definiti soprattutto in relazione a ciò che essi  significano nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che  tale decisione è tanto più rilevante quanto più essa ha inteso  arginare (con maggiore o minore successo) gli interessi e il  bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non  ha e non può avere di mira l’interesse e il bene comune, ma  l’interesse e il bene privato, cioè l’incremento del profitto (sì  che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica,  non sono lo scopo dell’agire economico, ma una  conseguenza, un sottoprodotto di quell’incremento).  Relativamente allo sfondo (o al contenimento) liberal-  democratico del capitalismo si può dire, con «Liberal», che «è  la natura della democrazia americana a presentarsi come un  fenomeno unico anche nel contesto più generale  dell’Occidente».   La domanda centrale (e, se non mi inganno, retorica) di  «Liberal» suona comunque: «Non è forse questo» -  americano - «l’unico modo di vivere una democrazia, che  altrimenti si limiterebbe ad essere un insieme di  procedure...?»; e tale domanda è preceduta dalla  affermazione della capacità della democrazia americana di  credere in sé stessa e di assumersi le proprie «responsabilità».   Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni  eterogenee: da un lato, la tesi che la condotta storico fattuale  degli Stati Uniti è sostanzialmente fedele al proprio  ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa  avrebbe il miglior ordinamento costituzionale se adottasse  quello statunitense; e, anche che gli Europei condurrebbero la  miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si  adeguassero alla propria rinnovata costituzione così come gli  Americani vi si adeguano.    66     Tesi, queste ultime, che possono essere veramente discusse,  ma che lasciano fuori campo la questione preliminare e  decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è  venuta sempre più in luce dopo la risposta americana, in  Afghanistan e in Iraq, all’attacco terroristico dell’11  settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni  produce uno Stato che agisce in base alla convinzione di  essere di fatto rimasto l’unica Superpotenza alla guida del  mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a  esserlo?   La risposta americana all’attacco subito era inevitabile  (come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile che la  risposta avvenisse nella forma della «guerra preventiva»  concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel  che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il  problema preliminare e decisivo. Esso riguarda il contesto  delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa  fase della loro storia. Altro è infatti credere che i supremi  interessi dello Stato americano richiedano che esso si difenda  adottando misure come la «guerra preventiva», ma lo si creda  sapendo che tali misure, prese in modo così fortemente  autonomo, sollevano il problema, non meno grave di quello  del terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia  americana e il resto del mondo, e cioè sapendo che tale  problema è, appunto, problema e non soluzione; altro è che  gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano  convinti che, poiché sono di fatto venuti a trovarsi alla guida  del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia  esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza  naturale della loro primazia planetaria. Due atteggiamenti  profondamente diversi, questi due, e, soprattutto negli ultimi  tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto  è alimentato dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non    67     possono reggere da soli il peso immane di cui il secondo, e  trionfalistico, di quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli.   Affermare che «l’unico modo di vivere una democrazia» è  quello americano significa certamente che l’Europa non può  mettersi in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche  che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della  riflessione politica auspica che l’Europa non allenti i legami  con gli Usa e che d’altra parte non ne sia succube. Ma può  l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè  militarmente forte, o addirittura competitiva rispetto agli Usa  - e continuando ad affidare aU’America la propria difesa? Sembra che vi sia stata la tendenza a sottovalutare l’asse  Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in  contrapposizione alla guerra Usa contro l’Iraq. Ma si parla  anche dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione  eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi passi verso  l’economia di mercato sia per la rinnovata visibilità della  Chiesa ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo  è stato poi incluso ne II declino del capitalismo, cit., col titolo  L’Europa tra America e Russia ): «Ciò a cui si presta troppo  poca attenzione è che la Russia, una volta aiutata  dall’Occidente a uscire dalla crisi economica in cui si trova  attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella  protezione militare, contro le minacce del Sud, di cui gli Stati  Uniti hanno oggi il monopolio - e in nome della quale  possono pretendere che l’Europa stia in posizione  subordinata, perché non può restituir loro un vantaggio di  egual peso. Scambio che invece è possibile nel rapporto tra  Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare  sostanzialmente il livello della propria potenza militare, ma  anche la Russia, che può consentire questo aumento, ha a sua  volta bisogno del sostegno economico che l’Europa  occidentale può darle. Un processo che d’altra parte già allora  si presentava tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto  riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché  l’Europa potrebbe sostenerne economicamente l’efficienza  solo se la gestione e il controllo di esso fossero effettuati, oltre  che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei.   Certo, a distanza di vent’anni, la situazione è cambiata: la  crisi economica dell’Unione europea rende quest’ultima  molto meno forte nella contrattazione con una Russia che ha  superato il trauma dovuta al tramonto del marxismo e dell’economia pianificata. Da ciò si spiega l’aumento della  diffidenza dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della  Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà  superata, il processo che conduce a una più stretta  collaborazione politica tra Europa e Russia subirà un  inevitabile rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i  quali diventa peraltro sempre più pesante il compito di  contenere anche in Europa la pressione del mondo arabo -,  l’Europa non intende diventare satellite della Russia. D’altra  parte è nella natura della storia dei rapporti secolari tra  Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali  rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a  formare un unico sistema euroasiatico di controllo della  conflittualità internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina,  India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la  decadenza dell’Europa venga arginata per non essere  coinvolta, dall’altro lato la Russia non può non capire che gli  Stati Uniti non accetterebbero mai che per tale decadenza la  Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se  oggi l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione  con la Russia, esistono tuttavia le condizioni perché il  rapporto tra queste due aree tenda a riequilibrarsi.   Non si tratta qui di «auspicare» (o «temere») la simbiosi  Europa-Russia, ma di constatare una tendenza che è  nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze,  innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono gli Usa come  l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo suo  status e che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé  stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche la Chiesa  cattolica, che vedrebbe ridimensionata la sua presenza in  Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa,  per bocca dell’allora ministro degli Esteri vaticano Tauran ha  manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione europea, aggiungendo che prima si dovrebbe pensare  all’entrata di Stati come l’Ucraina e la Moldavia.)   Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la  pace nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico  delle due superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha  anche contenuto e controllato la loro aggressività.  Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per  quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in  modo decisivo ad assicurare la pace delle società  democratico-capitalitiche. Da quando si è creduto che il  bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati  sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante  dal fatto che la Russia, avviandosi verso la democrazia e  l’economia di mercato, si è sempre meno presentata come  guida delle rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più  schierata in favore delle popolazioni slave contro quelle  mussulmane. Il bipolarismo Usa-Urss è stato (come da  vent’anni sostengo) la prima incarnazione dello Stato  mondiale - ossia del «monopolio legittimo della violenza»  esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza  fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988); e sin dalla  caduta del muro di Berlino sostengo che la scomparsa del  bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti.  Infatti, il bipolarismo ha un carattere primariamente militare,  che non è certo venuto meno per il fatto che l’arsenale  nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa,  non è più gestito da una ideologia totalitaria (Cfr. E.S., Il  declino del capitalismo, cit.).   Se il bipolarismo gestito da irriducibili avversari ideologici  ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato  l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze  della terra considerassero seriamente la possibilità di  distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso un bipolarismo costituito da due dimensioni economico-  politiche (Usa e Europa-Russia), che, in parte già omogenee,  per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più  avvicinandosi e che, insieme, possono costituire quel centro  dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito  da una sola delle due. È nello stesso interesse di quest’ultimi  che tale nuova forma di bipolarismo prenda piede. Ed è  prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro  autentici interessi. Degno di nota, in proposito - ripetiamo -  che in Italia il presidente del Consiglio del governo di  centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia  nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate  indicano il contesto in cui tale proposta può avere  fondamento. E forse è interessante anche (e non paradossale,  come a prima vista potrebbe sembrare) che quella proposta  sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse  preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella  proposta può essere infatti condotta a significare che l’Europa  può essere la vera alleata e dunque non subordinata  ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza  economica, anche quella militare, che oggi continua ad avere  il suo fulcro in un arsenale atomico invincibile, cioè in un  apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire  (nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma  che la Russia realmente possiede, e la cui perpetuazione  diventa tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta,  quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza che in un  mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà atomica è un  bene irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il  capitale atomico cedendone porzioni in cambio dei vantaggi  economici che i compratori, più o meno affidabili, potrebbero  assicurarle.   L’entrata della Russia in Europa pone indubbiamente enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto  riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però  sono pur sempre inferiori a quelli dell’alternativa costituita da  un mondo sempre più complesso (anche per l’affacciarsi di  nuove grandi potenze come la Cina) ed esplosivo, dove gli  Usa fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e  dove le difficoltà economiche della Russia potrebbero farle  perdere il controllo del proprio apparato nucleare a vantaggio  del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli  ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello  economico; ma la tendenza verso l’entrata della Russia  nell’Unione europea e il conseguente rinnovato bipolarismo  stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende  quindi efficace e sicura la loro indifferibile decisione di  ridurre la loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. La costituzione americana è un grande modello di società  liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa  senza tener conto del processo storico reale che spinge  l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione  anche perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e  dell’economia di mercato è che quest’ultime, dopo la fine del  socialismo reale, non abbiano alternative. Ma, anche qui,  debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo.  Infatti il Meccanismo inaggirabile - richiamato anche nelle  pagine precedenti - per il quale le grandi forze che oggi  guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo,  islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri, socialismo reale), e che  lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica moderna,  sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del  proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale dunque è destinata  a diventare il loro scopo.   Ma la tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica  scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico-  tecnologico in quanto esso va unendosi all’essenza della  filosofia contemporanea, ossia alla struttura concettuale che  negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni  limite assoluto all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è  guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico  dell’Occidente. In quanto tale pensiero la guida e le fa  scorgere l’impossibilità di ogni limite assoluto dell’agire, la  tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a  quella di ogni tecnica che invece sia assunta come mezzo e  pertanto sia limitata e frenata dagli scopi delle forze della  tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la  destina - in un mondo che crede sempre di meno nei valori  assoluti della tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica che funzioni come mezzo per la realizzazione di tali valori.  Già da questo ordine di considerazioni si può capire che lo  strumento vincente conduce a una situazione dove la sua  tutela e Fincremento della sua potenza sono destinati a  diventare lo scopo delle forze che invece vorrebbero  trattenerlo nella sua funzione di mezzo.   Oggi anche la democrazia si serve della tecnica, ma il  mondo procede verso un tempo in cui sarà la tecnica (intesa  in quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia  (e delle altre forze prima menzionate), ossia a utilizzare  l’organizzazione democratica della società per realizzare  Fincremento della propria potenza - a utilizzare la  democrazia, dico, e non quell’assolutismo politico che  appartiene all’insieme dei limiti assoluti di cui il pensiero  filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la  democrazia come scopo della tecnica è qualcosa di  essenzialmente diverso dalla democrazia che diventa mezzo  della tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita  buona, cioè dell’etica, è qualcosa di essenzialmente diverso  della ricchezza che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si  serve della ricchezza è qualcosa di essenzialmente diverso  dall’etica di cui la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato  perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di  scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile - un  rovesciamento, peraltro, che pur non dicendo affatto l’ultima  parola, è destinato a dominare per lungo tempo la storia del  pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il  destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione  occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su  diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S., Capitalismo senza futuro,  cit.).   La democrazia europea e americana continuano a  concepire la tecnica come mezzo per realizzare un mondo democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si può  vedere nella costituzione americana il modello stesso della  vita democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la  democrazia è destinata a perpetuarsi solo nella misura in cui  diventa mezzo della tecnica, e se la democrazia come mezzo è  qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come  scopo, allora il problema dell’adeguazione della democrazia  europea al modello americano diventa obsoleto, perché a  questo punto viene in primo piano il problema di quale  nuova configurazione venga ad assumere - negli Stati Uniti,  in Europa, in Russia - la democrazia, una volta che essa sia  ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di  cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge lo stesso  problema, prima considerato, relativo al rapporto tra Usa,  Europa, Russia.   Il processo che conduce verso il nuovo bipolarismo  democratico è inscritto cioè nel più ampio e più profondo  processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito  potenziamento della tecnica - in quanto unita alla  consapevolezza filosofica che non esistono limiti assoluti  all’agire umano («Dio è morto») - diventa lo scopo delle forze  che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque  diventa lo scopo della stessa democrazia. La rivista «Liberal»  rileva che la democrazia americana «crede anche nelle  responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i  suoi principi di riferimento». A fondamento di questa fede si  trova la volontà di non cedere agli avversari; e tale volontà è  concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato  scientifico-tecnologico che le consente di non cedere. Ma sino  a che tale apparato è mezzo, strumento, esso è soggetto al  logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia  stessa non può permettere che abbia a logorarsi lo strumento  che le assicura la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in quanto evita che la tecnica, ossia il proprio strumento,  attualmente insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è  già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la  strada dove la democrazia stessa rinuncia a porsi come lo  scopo dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire  la tutela e rincremento indefinito della potenza del proprio  strumento. Lo stesso discorso va fatto a proposito di tutte le  altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della  tecnica come mezzo per la realizzazione dei loro scopi  (reciprocamente escludentisi).   D’altra parte la liberal-democrazia americana è unita  all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è  più lo scopo dell’azione storica degli Stati Uniti. Essi cioè, in  quanto superpotenza planetaria, non intendono sviluppare la  propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di  incrementare il profitto dei grandi trust del capitalismo  americano, ma, all’opposto, intendono servirsi del profitto  che l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di  sviluppare la propria potenza e dominare il mondo. Infatti,  anche questi due scopi sono tra loro conflittuali; ed essere  potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e  quindi la stessa ricchezza che dalla potenza è resa possibile e  sostenuta.   L’inevitabile percezione di questa conseguenza spinge  l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca  per essere potente, cioè per incrementare la potenza del  proprio apparato tecnologico, di cui ci si illude ancora, negli  stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più  giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del  tramonto dei valori della tradizione occidentale - tra i quali,  va sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori  dell’islamismo. In questa situazione, lo scopo dell’agire non è  più l’incremento capitalismo del profitto, e quindi non è più la liberal-democrazia in quanto a esso unita: lo scopo diventa  la tecnica; e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che  sono ancora tutti da decifrare. Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per  tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il «rovesciamento»  in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo - il meccanismo  cioè del rovesciamento - è un «movimento» che si costituisce  alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede  appartiene alla follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come  tale follia diventa coerente quando essa nega ogni immutabile  e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per  dominarlo, così la follia estrema diventa coerente quando la  volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione in cui  essa si serve della tecnica come mezzo ed entra nella  situazione in cui il potenziamento infinito della tecnica  diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al  contenuto della fede nel divenir altro delle cose, e pertanto  della volontà di farle diventare altro, il «rovesciamento» di cui  stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia  alla non-verità. Nello sguardo del destino, invece, appare che,  commisurato alla verità autentica ossia al destino della verità,  il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della  volontà interpretante - è il nulla - non essendo invece un  nulla la fede, la certezza che tale contenuto non solo non sia  un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del  destino della verità appare cioè che l’apparire di quelVeterno,  che è la fede di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da  quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa  scopo - dove questo rovesciamento, cioè questo scambio delle  parti, ha un carattere vincolante, ossia è qualcosa di  inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si  costituisce il contenuto della volontà interpretante, ossia della  fede. In altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir  altro, che essa, diventando coerente alla propria logica,  afferma la «necessità» che quella volontà di far diventar altro le cose, in cui la tecnica consiste, divenga, da mezzo, scopo.   Il discorso va esteso all’intero contenuto della volontà  interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma  tutte le determinazioni che restano evocate dalla volontà  intepretante sono degli eterni che appaiono con necessità così  come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente  diversa da quella che compete alla logica che guida la fede e la  volontà interpretante. Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in  queste pagine si afferma che lo «scambio delle parti» - ossia il  rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale  logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.).   Nell’agire, lo scopo, come «idea» - ossia come primum in  intentione, come «presenza ideale nella mente di chi agisce» -  determina il mezzo da cui è realizzato: lo configura, lo orienta  e gli assegna i limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a  realizzare tale scopo. Lo scopo, come «fatto reale» - ossia in  quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma,  prima e durante questa produzione, la «presenza ideale» dello  scopo guida, controlla, regola la produzione del mezzo. (Ad  esempio, la decisione di far guerra guida, controlla, regola la  produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale  decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di cui quella  decisione si serve per realizzarsi?)   Se uno scopo è in conflitto con altri scopi e non intende  farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e  sopprimerli, l’agire che mira a farlo prevalere non può evitare  di potenziare il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve  per far prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre i  limiti al di là dei quali il mezzo non è più guidato, controllato,  regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo  non può concentrare tutte le proprie energie nella produzione  e nel perfezionamento e potenziamento del mezzo, altrimenti  non resterebbero più energie e tempo per la realizzazione  dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e  potenziare il più possibile il mezzo con cui ci si propone di  realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo,  alla regola che lo scopo stabilisce per la produzione del  mezzo. Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno  scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno  di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una  parte della propria determinazione del mezzo e potenzia il  mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo,  gli scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il vincitore  non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a  determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso.  Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo,  il mezzo che ha vinto non ha realizzato il proprio scopo  perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che,  insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso  da quello che inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per  realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è stato realizzato è  diventato il potenziamento del mezzo che doveva realizzare  un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale  potenziamento, il vecchio tenta di restare aggrappato per  poter mantenere ancora la propria funzione di scopo. Ma  invano, perché la fine di un conflitto è solo una parentesi  nella conflittualità che è ineliminabile perché è dovuta  all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla  luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del  mezzo, che non consente ai vecchi scopi di restargli  aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo Stato  parassitario che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a  tramontare.   Una situazione, poi, in cui nessun agire oltrepassi i limiti  che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi  sarebbe una situazione non conflittuale, cioè una situazione  impossibile, perché le cose che la volontà di una certa forma  di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le  stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol  trasformare per ottenere uno scopo diverso, e quindi il conflitto tra le due volontà è inevitabile.   Quando si afferma che il fine non giustifica i mezzi, si  intende che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il  fine giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la  giustificazione dei mezzi è anche la loro limitazione. La  giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro  mortificazione, il loro freno.   Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale,  l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per realizzare scopi, è una  contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da  cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che  impediscono tale realizzazione, lo scopo non guida il mezzo.  Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo punto,  dall’altro è potenziato oltre quel punto.   La «libertà» dell’individuo moderno è la facoltà di  realizzare una serie di scopi, e nella democrazia la libertà di  un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri  individui. Lo Stato moderno dovrebbe garantire l’equilibrio,  cioè i limiti che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la  libertà di ogni individuo. Ma anche all’interno dello Stato  moderno queste diverse serie sono tra loro conflittuali, e  pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione.  La libertà del cittadino è contraddizione. All’interno della  contraddizione si trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù,  che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una  signoria totale o parziale sul vinto. Nel conflitto, chi ha vinto  un avversario autentico - cioè che non si limita a subire lo  scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere  sull’avversario - ha dovuto potenziare i propri mezzi oltre i  limiti che determinano i mezzi e definiscono lo scopo del  vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per  non perdere ha dovuto a sua volta oltrepassare il più possibile    83     i limiti che determinano i mezzi di cui disponeva e che  definiscono gli scopi a cui mirava. L’avversario autentico non  perde (diventando in tal modo «servo» o «schiavo») perché  non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli  non ha ottenuto dai propri mezzi la potenza che dai propri è  riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è  contraddizione proprio perché è contraddizione anche l’agire  del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi  in vista della realizzazione di scopi, e si trova essenzialmente  all’interno di una situazione conflittuale, l’agire umano in  quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso  punto di vista di chi non vede l’alienazione dell’agire in  quanto volontà che qualcosa divenga e sia altro da ciò che  essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla  situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le  grandi forze dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi  conflittuali servendosi ognuna di una certa frazione  dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo  supremo per la realizzazione di ogni scopo dell’uomo. La  filosofia del nostro tempo mostra infatti, nella propria  essenza, che non può esistere alcuna dimensione divina e  immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso  da quello tecnologico, cioè da ciò che nella tradizione  filosofica era l’adeguazione dell’uomo e dello Stato alla verità  svelata dal sapere filosofico.   All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente  intende guidare, controllare, regolare e quindi limitare il  mezzo tecnologico di cui essa dispone. Ma nella situazione  conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e  definisce lo scopo di ognuna di tali forze sia oltrepassato e che  il potenziamento della tecnica divenga lo scopo supremo di  tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente  dello «scambio delle parti» e, insieme, la forma più imponente    84     della contraddizione dell’agire. Capitalismo, comuniSmo,  democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o  sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il  Mezzo tecnologico a loro disposizione, e, dall’altro, sono (o  sono stati) costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il  potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo,  dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la tecnica è il  fondamento della salvezza di ogni scopo e quindi ogni scopo,  per salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il  potenziamento del proprio Mezzo: per salvare sé stesso ogni  scopo è costretto a rinunciare a sé stesso. Nel saggio di S. La tendenza fondamentale del nostro tempo  (Adelphi), ma anche prima in Téchne (Rusconi 1979), e  in seguito in altri scritti ancora, si mostra in che senso e per  quali motivi è «necessario» affermare, da un lato, che  l’«essenza» - Inanima» - della civiltà occidentale è il pensiero  filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro  tempo, quando si riesca a scendere nel suo sottosuolo  essenziale, mette in luce l’«inevitabilità» del tramonto della  grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto «inevitabile»  destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a  che non si scorge il significato autentico di queste  affermazioni, esse scadono al livello della semplice notizia. (Se  non intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni  affermazione dev’essere infatti «argomentata». La parola  «argomento» proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che  indicano il porre in chiara luce. Poiché la luminosità può  essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo  adeguato bisognerebbe dire che cosa propriamente significa  «luce» e qual è il grado di luminosità di cui la risposta si  avvale. Da millenni l’uomo tenta di dirlo.)   In che consiste l’«identità» dell’Europa? È stato indicato in  molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa  in luce l’indicazione che è in grado di includere tutte le altre e  che non è inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che  essa sia la più «astratta». In quanto è comune alla maggiore o  minore «concretezza» di tutte le altre, tale indicazione sta  infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla.  L’«astratto» non è qualcosa di negativo; è anzi il segreto in cui  è riposta l’adeguatezza della diagnosi.   Si tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa  varietà di eventi da cui è costituita la storia europea. Oggi il sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi, che la  forma più rigorosa del sapere sia la specializzazione scientifica  - che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune.  Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni sapere autentico -  si dice - dev’essere specialistico e quindi il senso dell’Europa  si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno  delle varie forme della specializzazione e del frammento. Ma  se solo il frammento ha senso - se cioè il senso è  frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di  inevitabilmente comune : di essere, appunto, dei frammenti.   Inoltre l’Europa è, originariamente ed essenzialmente,  tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose.  A un certo momento, in Grecia si incomincia a pensare che  una «cosa» è «ciò che è» - l’«ente» - ed è come ciò che non  era e non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a  esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna  relazione con ciò che già esiste, instaura relazioni provvisorie  e accidentali che verranno meno quando ciò che è non sarà  più.   Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso  contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra.  La specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella  filosofia greca, che stabilisce una volta per tutte il significato  delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente  e operante in ogni azione e in ogni conoscenza: in ognuno  degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che formano la storia  dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta.   In questo significato consiste Yidentità dell’Occidente. A  esso sono essenzialmente legate la volontà di potenza e la  violenza estrema. Si può voler annientare qualcosa solo se si  crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé  stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza dell’annientamento inseparabile dalla violenza della creatività.   Dapprima l’Occidente non si accorge del proprio essere  volontà separante e costruisce le grandiose cattedrali della  volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che raccoglie  in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il «Dio» di  tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto  figli di Dio, la volontà di essere comprensibile da tutti, lo  Stato che è il Dio in terra e dunque principio di unità,  l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli,  la scienza che, prima di diventare specializzazione, vuol essere  a lungo unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo  che si rivolge ai lavoratori di tutto il mondo perché si  uniscano, la «globalizzazione» del nostro tempo: sono alcuni  degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che,  essendo stato concepito e vissuto come separato, non può  essere unito.   È innanzitutto il sottosuolo del pensiero filosofico del  nostro tempo a portare al tramonto la volontà unificante della  tradizione. Dio muore e rimane la «terra infranta». Su questa  base, non solo ogni «integrazione» e «interazione» tra i  popoli, ma anche tra gli individui dello stesso popolo, della  stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi  provvisori.   Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari  Schmitt). Anche su base linguistica, lex è l’ordinamento  imposto alle cose, che quindi le costringe a stare insieme. La  «verità» è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole  legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente  separato. La verità è quindi destinata al tramonto. E auctoritas  significa «potenza» (anche qui la linguistica lo conferma). La  legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia della costrizione che  lega insieme le cose.    88     La potenza della legge può essere maggiore o minore. Oggi  la potenza maggiore è la tecnica guidata dalla scienza  moderna. Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha  distrutto la «verità» e quindi autorizza la tecnica a facere  legem. La specializzazione scientifica, Lisciamento e il  frammento sono legati alla costrizione che con la propria  potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è il fondamento  di ciò che vien chiamato «globalizzazione». Ma se ogni  volontà di unire ciò che non può essere unito è una  costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema  della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle  spalle la stessa civiltà della tecnica. Stiamo parlando a un pubblico composto soprattutto da  giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi  comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento  tenga conto anche delle sollecitazioni che prima mi sono state  rivolte.   Innanzitutto è il caso che ci si chieda che cosa significhi  «filosofia». Se già qui non ci intendiamo, faremo poca strada  insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia  come un sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè  che la filosofia, per costituirsi, debba incominciare col tener  conto di quanto si afferma nell’ambito del sapere scientifico.  Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è  anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia debba  fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne  sono anche altre).   Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza, meglio lasciarla  perdere, la filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una  specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar  parlare questo sapere. Prima è venuto fuori il nome di Searle.  Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà  appunto per scontato che esista quella forma di storia del  mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste,  seguita da un tempo nel quale l’uomo esiste, e infine da un  tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il  mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la  scienza procede adottando la convinzione che la realtà esista  indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve  parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma con eccezioni) gli  scienziati (per esempio Max Planck) lo affermano esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista,  ammette la possibilità che il mondo intero sia incominciato a  esistere da pochi istanti, corredato di tutte le esperienze che  ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo più lontano  passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il  futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus  habens. Non credo tuttavia di esserlo, se affermo che la  filosofia non può presupporre alcune delle pur mirabili  costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta di un  sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi  riconosce il proprio carattere ipotetico.   Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che si desse  credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al  «senso comune», e lo si sollevasse al rango di verità  incontrovertibile, là dove il sapere scientifico, perfino il sapere  logico-matematico, mette in questione la propria  incontrovertibilità, la propria verità assoluta. La filosofia è  critica radicale, radicale problematizzazione del sapere, e  quindi non può procedere dando per scontati i risultati della  scienza (o di qualsiasi altra sapienza, quella filosofica  compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad  affermare che la filosofia, autenticamente intesa, richiede una  concettualità estremamente più radicale di quella scientifica.  Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere (ripeto) un  panorama del sapere scientifico, o una specie di pattuglia in  avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano  nel deserto per tentar di vedere di sfuggita e  approssimativamente come stanno le cose, in attesa che poi  arrivino le truppe regolari, quelle della scienza, che  stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano  nelle retrovie le avanguardie filosofiche. No: sin dall’inizio la  filosofia ha inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della  verità in quanto innegabilità assoluta. Anche quando si contrappongono i «fatti» alle «interpretazioni» si tende a  considerare il «fatto» come l’innegabile, come ciò che non  può essere negato, mentre l’«interpretazione» - lo richiamava  il professor Zaccaria - rende sì particolarmente significativo il  «fatto», ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di  non-verità, per cui da ultimo, nel confronto, è il «fatto» che  prevale - e prevale in quanto, appunto, lo si ritiene  innegabile.   La filosofia evoca il senso radicale dell’innegabile unendolo  al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere  Heidegger: basta un vocabolario per sapere che i Greci  chiamano alétheia la verità. A-létheia significa, alla lettera,  «non nascondimento». Ciò che è vero è il non nascosto.  Heidegger però non rileva che, per il pensiero greco la verità,  nel suo senso radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes  alethéias («scienza della verità» è una delle traduzioni correnti  di questa espressione). Ciò che si disvela neW alétheia è il  contenuto assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste  di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta, nomina appunto  lo stare di ciò che, disvelato, si impone «su» (epi) tutto ciò che  vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si  può dire che epistéme tes alethéias esprime sia un genitivo  oggettivo (il sapere assolutamente stabile che ha come  contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità  assoluta che è il contenuto del disvelamento). Questo senso  radicale della verità - il contenuto manifesto che sta e che,  proprio perché sta, è innegabile - è evocato una volta per  tutte dal pensiero greco. «Una volta per tutte», anche perché  quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si  dichiara di non voler proporre verità assolute,  incontrovertibili, definitive, ci si riferisce appunto al senso  radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta  evocato, e da esso ci si allontana. A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò  che si mostra nella sua stabilità, significa che ciò che oggi è  chiamato «coscienza» è il luogo dell’innegabile. È nella  coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si  rendono visibili. I Greci chiamano phàinesthai la visibilità,  l’ apparire (phàinesthai deriva da phos, «luce», e il visibile,  essendo ciò che sta in luce, garantisce la propria esistenza).   Ma come la semplice affermazione che X è X, o che a X non  possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter  affermare che il principio di identità e di non contraddizione  sono innegabili, così la semplice affermazione che qualcosa  appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio  della fenomenologia - che in effetti non riesce a essere che un  presupposto, un dogma. Perché ciò che appare non può  essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità  di procedere oltre l’immediata elevazione del visibile al rango  dell’innegabilità. Il senso greco deìYalétheia (da cui discende il  «principio di tutti i principi» della fenomenologia) è  ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta stabilità  e innegabilità richieste dal pensiero filosofico.   Quando, sul «Corriere della Sera», intervenni nella  polemica sul cosiddetto «nuovo realismo» (cfr., nel presente  saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali  siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di  forme filosofiche che si presentano all’interno della storia  dell’Occidente. I miei scritti indicano tuttavia la dimensione  che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione  della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso  della verità, ma aprono anche la strada al pensiero in cui si  intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale,  l’alienazione della verità. In quel mio intervento sottolineavo  la potenza concettuale di Giovanni Gentile; ma non,  ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da    93     quell’alienazione. Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è  abissalmente lontano dal pensiero di Gentile. La potenza  concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale  pensiero è massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo  conto di questa potenza dell’errare, il cosiddetto «nuovo  realismo» (all’estero e in Italia) non fa cheriproporre (sembra  senza rendersene conto) quel realismo della tradizione greco-  medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo  sviluppo fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a  Kant, all’idealismo fino, appunto, aH’idealismo gentiliano.  Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo  del problema del rapporto tra realismo e idealismo o tra  realismo e ermeneutica, ben più decisivo è il problema della  sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è  il contenuto che la verità (l’incontrovertibile, l’innegabile) ha  assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto  che la verità è venuta in seguito ad assumere - e  inevitabilmente.  Queste considerazioni coinvolgono anche la dimensione  del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con  l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più  compete il carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in  campo giuridico il problema del rapporto fatto-  interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in  relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende  stabilire la compatibilità del fatto con la norma. E  l’accertamento della convergenza o divergenza del fatto  rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché  sia fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia  al problema della giustizia; e tale problema riceve oggi (penso  ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente  diversa da quella che gli viene data lungo la tradizione  filosofico-giuridica.   Qual è la definizione tradizionale di «giustizia»? Nella  Summa Theologica Tommaso d’Aquino scrive: «Iustitia est  constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi»,  «la perpetua e costante volontà di assegnare a ciascuno il suo  ius». Una definizione in seguito continuamente ripetuta  (qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio).  Sono note le critiche che sono state rivolte a questa  definizione - non solo tomistica, ma classica - di «giustizia».  Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si  ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il definiendum, ma  ius, che compare nel definiens sarebbe daccapo identico al  definiendum).   Eppure questa definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a  Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : «giustizia»  è, sì, che «ciascuno non abbia ciò che è di altri e non sia  privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma quel che è decisivo è    95     che ciò che è «suo» è ciò che gli spetta in relazione  all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito  dell’ epistéme della verità mostrare, indicando pertanto in che  luogo di tale Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La  verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli  uomini e i diversi tipi dell’umano, e la giustizia è il  riconoscimento, nel conoscere e nell’agire, di ciò che, in  verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in  verità, è di altri. Lo ius che compare nel definiens della  definizione qui sopra menzionata non è dunque la semplice  ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché  Yepistéme tes alethéias crede di poter mostrare in modo  incontrovertibile l’esistenza di un Ordinamento assoluto e  immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è  quello che essa è solo in quanto ha il posto che le spetta  all’interno di tale Ordinamento), la giustizia è appunto il  riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni  cosa, e pertanto quella definizione della iustitia non è un  circolo vizioso. (Né ciò significa che lungo la storia del  pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la  stessa configurazione.)   Questa grandiosa concezione della giustizia illumina e  domina anche la dimensione giuridica della tra dizione  occidentale. Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il  rapporto tra «diritto naturale» e «diritto positivo». Il diritto  naturale è il modo in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato  dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che  nella società accade, i «fatti», e le norme che la regolano. Tali  norme si inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò  che spetta a ciascuno aH’interno di esso, ossia ciò che a  ciascuno spetta «per natura» - la «natura» non essendo altro  che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale  afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta    96     necessariamente, per natura, nell’Ordinamento complessivo e  incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le  «interpretazioni», ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto  «constatazione»), qui, hanno il compito di accertare se i  «fatti» (ciò che accade) siano o no compatibili con le norme.   Al diritto naturale si contrappone oggi il «diritto positivo».  Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo  giuridico, di un evento grandioso e spaesante: il tramonto  delle forme sapienziali e pratiche della tradizione  dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il  tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento  immutabile che essa ha inteso mostrare.   Essenzialmente più decisiva del rapporto tra idealismo (o  pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende  valere come il contenuto della verità - è, dicevo prima, la  domanda: «Che ne è della verità?»; e quindi: «Qual è la storia  della verità?». Infatti il problema della contrapposizione tra  realismo e idealismo può essere risolto solo accertando perché  si debba tener ferma la verità dell’uno piuttosto che la verità  dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella  contrapposizione, e pertanto alla questione del rapporto tra  fatti e interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale  sia il contenuto che è necessario porre come verità, ossia come  incontrovertibilità.   Vado richiamando da tempo che l’autentico e profondo  avversario della tradizione occidentale non è il relativismo  (come ad esempio la Chiesa cattolica invece ritiene). Al di  sotto del rifiuto appariscente ma impotente della tradizione  occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto,  ossia nel luogo che vado chiamando «sottosuolo filosofico del  nostro tempo», agisce un pensiero tendenzialmente nascosto,  ma capace di mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento immutabile e divino della tradizione sia il contenuto  dell’ epistéme della verità. Fra i pochi abitatori del  «sottosuolo», Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di  loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità quell’ordinamento  immutabile domina il mutamento degli enti del mondo,  domina cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi.  L 'epistéme è il riconoscimento originario dell’esistenza del  mutamento così inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale  riconoscimento che nel «sottosuolo» essenziale del nostro  tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità  dell’esistenza di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e  ogni sapienza sono pertanto storiche, temporali, contingenti,  finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto  positivo sul diritto naturale, cioè segue la necessità che ciò che  spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli sottratto è tale  non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica  dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi sulle altre  stabiliscono (con una voluntas che quindi non è constans et  perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno  (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere  tolto. Hanno carattere storico, pertanto, non solo i fatti, ma  anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati,  interpretati e giudicati. E, questo, sia che i fatti vengano sia  che non vengano considerati come indipendenti dal loro  essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza  immutabile è quindi l’orizzonte comune al realismo e  all’idealismo - la cui contesa si risolve peraltro in favore  dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla  dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho  mostrato) ha saputo indicare.    98     3. Il «sottosuolo» filosofico del nostro tempo e il positivismo  giuridico   Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della  potenza concettuale del «sottosuolo» filosofico del nostro  tempo (degli ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si  vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere  come tratto comune agli abitatori del «sottosuolo» (che  d’altra parte hanno elaborato in modi specifici e differenziati  tale tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione  di fondo che incomincia con la vita stessa dell’uomo sulla  terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un  sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non  viene in alcun modo messo in questione lungo l’intera storia  dell’uomo: si tratta della convinzione che la terra si trasforma,  e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da  parte delle cose, il loro diventare altro da ciò che dapprima  esse sono. Le «teogonie» e le «metamorfosi» confermano il  carattere archetipico di questa convinzione.   Con l’avvento del pensiero filosofico il diventar altro da  parte delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro  diventar altro si spinge fino al loro diventare  quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro  esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla, diventano  quell’assolutamente altro dal nulla che è il loro essere, ossia il  loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte  nella storia dell’Occidente e ormai del pianeta, non solo il  senso della verità come assoluta incontrovertibilità, come  epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del  diventar altro delle cose; e una volta per tutte, lungo quella  storia, l ’epistéme della verità pone tale senso come il proprio  contenuto originario.   È a partire da questo contenuto che, nella tradizione, Yepistéme della verità si porta oltre di esso («oltre», cioè metà,  nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come  sapere che mostra la necessità di affermare, «al di là» delle  trasformazioni del mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento  immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il  quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il  senso ontologico del diventar altro diventa in tal modo  l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia della tradizione  dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro tempo,  sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e  il carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la  forma più radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo  l’intera storia dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque  anche all’interno del sapere scientifico, religioso, artistico e  ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema  evidenza del senso ontologico del diventar altro. (È per questa  fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di  etica, su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una  certa epoca storica e che quindi - la tesi è resa esplicita da  Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.)   Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi  primi pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli  enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche  Parmenide lo creda: nel senso che egli afferma l’esistenza di  una regione dove si crede evidente il provenire e il ritornare  nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli  qualifica come illusione, dóxa). All’interno di questa  convinzione il futuro è «l’ancor nulla», il passato è «formai  nulla». D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme  della verità, che lungo la tradizione dell’Occidente intende  affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge)  immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini  soltanto il presente, ma deve ritenere che il suo dominio si estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè che  futuro e passato non possano sottrarsi al suo dominio e alla  sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla  del futuro possano provenire o che dall’ormai nulla del  passato possano ritornare cose che si sottraggono a tale  Ordinamento e siano per esso qualcosa di imprevisto.  Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose  riescono a distruggere realmente la Legge. La Legge  deirimmutabile è universale (e chi ha creduto di poterla  violare si è ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla  Giustizia e dalla Punizione).   Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor  nulla del futuro e l’ormai nulla del passato e gli prescrive tutto  ciò che da essi può veramente (e non apparentemente e  provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato  ad appartenere. Ma questa invasione del nulla da parte  deH’Immutabile rende essente il nulla, lo entifica e quindi  cancella o rende apparente il senso ontologico del diventar  altro, il senso che sussiste solo in quanto è un diventare dal  nulla e un diventare nulla. E tale entificazione del nulla non  soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che  Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per prima a  riconoscere -, ma nega e sopprime anche quella differenza tra  il cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale  nessun divenire, e tanto meno il divenire ontologicamente  inteso, può esistere. Così parla il «sottosuolo» essenziale (cioè  filosofico) del nostro tempo.   Se una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile  esistono, è impossibile che esistano quel divenire e quella  volontà di far divenire le cose che per l’intera storia  dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica)  sono l’originaria, suprema e innegabile evidenza. È appunto  nel «sottosuolo» essenziale del nostro tempo che l’Occidente giunge a scorgere, sul fondamento di tale evidenza, che  l’autentica realtà e l’autentica verità immutabile sono il  divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto  sono la volontà sempre più potente di trasformare il mondo.  Non rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente  antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico-  ontologica dell’Occidente elabora la pur potente struttura  concettuale in cui si intende mostrare che gli enti divenienti  esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del  «sottosuolo» essenziale del nostro tempo, scorgendo il  carattere antinomico della tradizione, si rendono conto che  gli enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun  Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede  che il divenire sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se  il «sottosuolo» non ama questa espressione, esso è dunque la  forma più coerente dell’ epistéme tes alethéias, perché esso  mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è  il rapporto tra il divenire e l’Immutabile, ma l’esclusione  necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa  necessità tale «sottosuolo» non ha nulla a che vedere con le  ingenuità del relativismo e dello scetticismo.   Dalla potenza concettuale del «sottosuolo» deriva  l’impossibilità di ogni «diritto naturale»; il prevalere del  «diritto positivo» è inevitabile. Il tramonto della forma  tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega dai Greci a Hegel) è  cioè anche il tramonto della configurazione giuridica di tale  forma, ossia è il tramonto del «diritto naturale». Il senso  autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo  può essere quindi compreso solo se lo si vede inscritto nella  grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario  degli Immutabili.   Tuttavia, anche per il positivismo giuridico la giustizia è  volontà di ius suum unicuique tribuere: nel senso che ciò che spetta a ciascuno non è quanto viene mostrato dalYepistéme  della verità, ma ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale  e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti  spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento della distruzione  dell ’epistéme della verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni  luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale  divenire, il loro essenziale esser qualcosa che esce dal proprio  nulla e vi ritorna; sì che la giustizia consiste nel salvaguardare  e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il  loro diritto di oltrepassare ogni limite assoluto (e di non  costituire un limite siffatto). In questa situazione, ogni forza si  propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma  le grandi forze che guidano il mondo e gli individui si servono  tutte, per prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica  è destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali forze, essa  impedisce che l’anarchia totale prenda piede e, subordinando  a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza  e a ogni volontà di potenza ciò che loro spetta alFinterno di  tale gerarchia e pertanto realizza la forma suprema di giustizia  a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà  di ius suum unicuique tribuere.    103      4. Realismo e idealismo   Quanto alla contrapposizione tra realismo e idealismo  (nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni),  ho già rilevato che essa si inscrive nella vicenda, qui sopra  tratteggiata, del tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale  contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero  occidentale, una complessità ben più profonda del modo in  cui il realismo viene oggi sostenuto in ambito «analitico» e  «continentale» e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo  viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la  «necessità» che conduce dal realismo premoderno alla  riflessione cartesiana sull’ impossibilità che - se la «vera» realtà  è esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il  realismo premoderno e lo stesso Cartesio) - la realtà pensata  (il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il  mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente dal pensiero. E si  tende a ignorare l’ulteriore «necessità» (mostrata  dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente  dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un  concetto autocontraddittorio. (Nella tradizione l’«idea» è «ciò  attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale», essa è id quo  objectum cognoscitur; Cartesio mostra la necessità di  intendere l’idea come «ciò che è conosciuto, id quod  cognoscitur, ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà  l’«essere formale»: Kant vede l’impossibilità di conoscere la  vera realtà, la «cosa in sé»; l’idealismo, rilevando  l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di  realtà al di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum  del pensiero sia «idea», ma mostra insieme che l’idea è la  stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso sviluppo  si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che conduce alla  cosiddetta «svolta linguistica»; lo sviluppo dove, dapprima,  nella tradizione, la parola è intesa come id quo objectum    104     dicitur - e Yobjectum sta al di là della parola poi ci rende  conto che, in quanto detto, è Yid quod dicitur a dover essere  Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del  linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori di sé la «cosa»;  infine si intrawede che anche la «cosa» è in qualche modo  detta e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il  linguaggio stesso è la «cosa», che peraltro continua a esser  concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna).   Ma anche il realismo premoderno è ben più complesso  delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad  esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della verità  ha dimostrato l’esistenza della Realtà immutabile, è solo allora  che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla  conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se ricordo bene,  in 1139 b), si dice che «quello che sappiamo epistemicamente  non può essere diversamente da com’è; ciò che può essere  diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci]  rimane nascosto se esso sia o non sia». La potenza di questa  affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa  del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il testo greco  dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con «quello che  sappiamo epistemicamente», ossia ne\Yepistéme della «verità».  Ciò che sappiamo in modo epistemico met’endéchesthai àllos  échein, «non può essere diversamente [da come è]». Questo  non poter essere diversamente è l’innegabilità,  l’incontrovertibilità, la definitività deìYepistéme della verità. È  in modo assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in  modo epistemico non possa essere diversamente; esso non  può assolutamente essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il  testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle  «cose che è possibile che stiano diversamente» (e che quindi  non sono contenuti àe\Yepistéme), e dice che, «quando escono  dall’osservazione» ( hótan éxo tou theoreìn génetai), allora lanthànei, cioè «rimane nascosto», ei estin e mé, «se esse siano  o non siano». L’«osservazione», theorein, è la nostra visione  delle cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il  phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto  theorein con «osservazione» perché theorein è costruito su  theorós, ossia lo «spettatore», «colui che osserva e vede con i  propri occhi». Quando le cose non epistemicamente note  escono dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi  rimane nascosto se continuino a esistere o no. Ciò che invece  continua a esistere anche quando non appare nella  conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è  dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del  principium firmissimum che nega la contraddittorietà degli  enti.   D’altra parte, l’apparire degli enti che possono essere  diversamente è l’apparire del loro diventar altro; e tale  apparire è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera  come l’evidenza originaria e supremamente innegabile e  quindi come appartenente eàYepistéme della verità. Ciò si  spiega, perché se quelli divenienti sono gli enti che possono  diventar altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed  essere diversamente da come sono è qualcosa che, appunto  perché appare, ossia è originariamente evidente e innegabile,  non può diventar altro e non può essere diversamente da  come è. Appunto per questo Leibniz potrà considerare come  «verità» (ossia come epistéme della verità) non solo le «verità  di ragione» (riguardanti ciò che non può essere diversamente  perché è contraddittorio che lo sia), ma anche le «verità di  fatto» (che appunto riguardano ciò che può essere  diversamente perché non è contraddittorio che lo sia).   Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e  continuerà a esistere anche quando l’uomo non ci sarà più,  tuttavia la scienza è una fede; certo, oggi, la più potente. Ma la    106     potenza non è la verità. Il mondo che esisterebbe  indipendentemente daH’«osservazione» e dallo  «sperimentare» non è comunque qualcosa di osservabile e di  sperimentabile. Questo anche se all’interno delle regole della  fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole  non incontrovertibili) certe conseguenze, che conducono alla  tesi dell’indipendenza del mondo dall’osservazione umana.  Ma, appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una  fede. Sul fondamento della convinzione che le cose del mondo  diventano altro è inevitabile che prevalga la sapienza del  «sottosuolo», in cui si mostra l’impossibilità di ogni  Immutabile e quindi di ogni verità incontrovertibile che, da  un lato, si ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro  differisca dalla verità assoluta che si mostra nel «sottosuolo».  Ma il destino della verità (così viene chiamato nei miei scritti)  sta al di là della fede nel diventar altro delle cose e degli enti,  ossia al di là deWintera storia del mortale e dell’Occidente,  dunque al di là dello stesso processo che conduce  dall ’epistéme metafisica della verità al sottosuolo essenziale  del nostro tempo. Sta pertanto al di là dell’inevitabile  prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni  verità immutabile. Il destino sta «al di là», nel senso che  contiene, mostrandola, la storia del mortale e dell’Occidente.  Il destino è l’apparire del senso autentico della necessità e  della necessità che ogni essente sia eterno. E la testimonianza  del destino non è né realismo né idealismo, perché sia il  realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni  dell’ente possono esistere anche se altre non esistono ancora o  non esistono più; laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo  può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza  l’uomo e senza la più «irrilevante»delle sue parti.   Poiché si obbietta - come anche in questo nostro incontro  è accaduto - che l’affermazione dell’eternità di ogni essente  nega ciò che incontrovertibilmente appare, ossia nega il  diventar altro delle cose, concludo accennando al motivo di  fondo per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente  non è in contrasto con il contenuto che appare  incontrovertibilmente, e che, in quanto tale, appartiene alla  struttura del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro sentire nei concetti di «esperienza», «osservazione», «dato»,  «fenomeno» ecc.   Quando si crede che gli enti che si manifestano non siano  stati (totalmente o in parte) e tornino a non essere  (totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal  nulla e vi ritornino, è impossibile (contraddittorio) che si  creda che gli enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si  manifestino già così come appaiono e si manifestano quando  incominciano a essere; ed è impossibile che si creda che essi,  annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così  come appaiono e si manifestano prima del loro  annientamento. È impossibile, perché altrimenti, nel diventar  altro, il «prima» non differirebbe dal «poi» e quindi non ci  sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario  che, quando si crede nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si  creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo  in cui appaiono quando incominciano a essere, pur  apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser  attesi, sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che,  quando vanno nel nulla, non appaiano più nel modo in cui  appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed essendo  in qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie  forme in cui ci si riferisce al passato.   Ciò significa che nella misura in cui si crede nel tempo in  cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa  misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene  alla totalità degli enti che appaiono - la quale include anche  gli enti che, in quanto attesi e ricordati, non sono un nulla.  Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in  quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché di ciò che  non le appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non  le appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto  l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno mostrare che gl’enti escono dal nulla  e vi ritornano, appunto perché il loro  esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli  appartiene nemmeno che gli enti sono già e continuano a  essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui  qualcosa non è (ossia è nulla), in questa misura esso non  appare e pertanto l’apparire non può mostrare il suo non  essere. (Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti  che appaiono e il sole a uno di questi enti, allora, quando il  sole non è ancora sorto e quando è ormai tramontato, non si  può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra  nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte  del sole.) Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un  ente che «può essere diversamente» (ossia che diviene) non  appare, «rimane nascosto», cioè non appare se esso sia o non  sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che  certi enti che appaiono possano non essere. Eppure non può  essere l’apparire a mostrare il non essere degli enti che, non  essendo, non possono nemmeno apparire.   Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più  è dunque una interpretazione, non una constatazione; una  interpretazione che non solo richiede un fondamento, ma che  è negata dal destino della verità, che scorge in tale  interpretazione il culmine dell’estrema follia in cui l’uomo si  trova. (Tale interpretazione non ha un fondamento  incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso  terribile, in cui ciò che all’uomo sta a cuore esce dall’apparire,  sia dalla constatazione che ciò che esce in quel modo  dall’apparire «non ritorna più».)   Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al  tema decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto essente  non sia. (Sta al centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è  cioè, insieme, di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla  dimensione, già da sempre salva, che circonda la follia del mortale e dell’Occidente.    Dalla relazione tenuta al convegno «fatti e interpretazioni» rivolto a un pubblico di filosofi del  diritto, tenutosi all’università di Padova, il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof.  Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra  gli altri, dei Illetterati, Milanesi, Scilironi, Testoni. Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di  Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i  popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla  rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli  che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il  Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto in quei dodici  giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la  vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che  veniva chiamato l’«anno». Ripetono la creazione originaria  compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo.   Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro  cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo  profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale cultura è la  tecnica scientificamente orientata e controllata dalla  produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di  beni e di merci richiede «energia». Il consumo di «energia» ne  richiede il rinnovo, la reintegrazione. Richiede la  ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo  energetico ripropone la ripetizione umana della creazione  divina. Il Capodanno può essere anche la festa del ciclo  energetico.   Noi capiamo subito che l’«energia» si consuma e dev’esser  rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di  rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde,  anche l’analogia tra tecnica e rifondazione mitica del mondo  rimane sospesa nel vuoto.   Eppure quel bisogno è molto meno stravagante di quanto  possa sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo  posti incomincia a venire in aiuto il concetto di «volontà» (un    112     aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da  parte delle scienze dell’uomo). Poi indicherò come le  implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il  bisogno di cui stiamo parlando - che non è per noi irrilevante,  ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di  vivere.   Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé  stessi). Se non si vuole e si resta immobili, si muore. La  volontà è la vita. Ma quando la volontà apre gli occhi non  ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che  non si lascia smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il  singolo è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è  ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi si presenta,  appunto, come la Barriera di fronte alla quale l’uomo si sente  impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia  aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per  vivere. Un varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta  alla volontà come la dimensione della Potenza suprema,  demonica, divina.   Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile acquista per l’uomo il  volto del divino, in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve  quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera,  spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere «come  Dio» Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo  rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che,  avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo si senta  colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di  espiazione.   Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di  ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse  davanti come un unico blocco che non si lascia spezzare, ci  spegneremmo subito. La volontà, per ottenere, ha bisogno di spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco.  L’agire richiede l’isolamento delle parti dal blocco e tra di  loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia «seria» solo se  fa conoscere parti del mondo, non il «Tutto», vanamente  inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama  «specializzazione» la propria conoscenza delle parti. E la  tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte  si chiude nel «frammento».) Adamo che vuol uccidere Dio ha  già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima teologica. E il  senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della  tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria  incapacità di realizzare uno «sviluppo sostenibile».   Per quanto ci dicono le scienze storiche si può dire che  ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al  proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la  condizione dell’esistenza del mondo. Dall’Oceania alla  Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle  società greco-cristiane i miti raccontano la creazione del  mondo come effetto del sacrifìcio originario di un Dio, di una  Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio:  Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat  (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e Prajapati  (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo.   La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che  diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in quanto usa,  consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di  Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata  creazione del mondo che era andato consumandosi e  morendo in conseguenza del peccato. E nel Genesi si dice che  Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva  fatto» e da cui era stato dunque consumato e indebolito.   Ma il divino rimane pur sempre la fonte della vita. L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così come lo era  l’inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo  estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario  che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è  stato consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio  religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che  assume anche la forma del sacrificio dell uomo) come  ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione  del mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei  popoli, ma l’essenza della ripetizione del sacrificio divino e  della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della  necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la  fonte della vita.   Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta  dall’uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il  compito gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario  credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale  Dio restituisce a sé stesso quello che la violenza e il peccato  dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e  fare cose vere», si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da  cui sarà seguita), le sue prime parole (quelle di  Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal  divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando  la pena dell’«ingiustizia» commessa con tale separazione -  dove la separazione dal Dio è l’eco dello smembramento-  sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l’eco della  ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel  nostro tempo, non si crederà più né negli dèi del mito né in  quelli della «verità», e la lotta contro la morte sarà affidata  soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al  consumo di questa Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà  corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del  passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non  contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica.   Sin dagli inizi della storia deH’uomo il giorno del  Capodanno, rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo  alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della «vecchia terra»,  ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell’oblio.  (Accade anche nel grande Capodanno de\YApocalisse di  Giovanni, dove l’«anno» della vecchia terra viene diviso da  quello della nuova.) Oggi il Capodanno «rievoca» soltanto le  vicissitudini della volontà: non le rivive.   Ma a questo punto la questione decisiva rimane ancora  tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della  volontà - alla quale invece ci si affida come alla cosa più  sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si  svolge interamente al di fuori di quel senso.   Ora si aggiunga che quando, all’inizio, si trova di fronte  all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da  essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro,  riuscirebbe non solo a far diventare altro il mondo, ma a  ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché  tornare indietro è lasciarsi alle spalle la Barriera che le  impedisce di trasformare il mondo. Ma la volontà riesce a  vivere solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica  un tempo in cui la volontà è bloccata e muore (è  originariamente morta). E non può nemmeno, e per lo stesso  motivo, muoversi di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o  il basso. Appunto per questo diciamo che all’inizio la volontà  si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è  insieme avvolta da essa.   Le metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a  comprendere perché, essendo di fronte e insieme avvolta dalla  Barriera, il far breccia in essa sia insieme un uscire da essa.    116     Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico,  Anassimandro ripropone il rapporto tra la volontà e la  Barriera, dicendo che le cose del mondo, «separandosi»  dall’«Uno», «divino», ne escono - escono dal luogo da cui  proviene la loro «nascita» ( génesis ). Far breccia dall’esterno è  lo stesso far breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è  avvolti e commettendo «ingiustizia» (adikia). La volontà può  riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si  è separato dell’«Uno») solo ritornando nel luogo, separandosi  dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo morendo le cose  che hanno voluto separarsi dal divino possono «rendergli  giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes  adikìas). E così si comprende perché le cose debbano tornare  là da dove son venute. Dove il sottinteso è che la morte subita  dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera  del «divino» è diversa dalla morte a cui la volontà (ossia la  totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel  divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è  incominciare a vivere la vera vita.   Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto in Anassimandro,  è un sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla  breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso.  L’intenzione esplicita della filosofia, sin dall’inizio, è di  affermare, come dice Anassimandro, che il divino è «eterno e  non invecchia», è «immortale e incorruttibile»; eppure la  Barriera che la volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a  sbarrarle la strada, è sentita da essa come la Potenza  dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans,  l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio,  ucciso in quanto Inflessibile, perché la volontà possa vivere.  (D’altra parte la Barriera, smembrata, è anche la condizione  perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per  questo, oltre che a essere il Tremendum, essa è anche il    117     Fascinans .) E che l’uscire delle cose dall’Uno divino sia inteso  da Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito,  del sottinteso che il divino è ferito e ucciso dall’avvento della  volontà. Il pensiero della tradizione filosofica deve trattenere  nell’inespresso il sottinteso, cioè la contraddizione per la  quale il divino, in quanto trascendente il mondo, Altro dal  mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può  permettersi di evitarla sia con la fede nell’unità del divino e  del mondano (ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie  forme di immanentismo), sia con la fede nell’esistenza di una  molteplicità di dèi (per la quale la morte riguarda uno o  alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino  non muore definitivamente, ma muore e risorge.   Ma, detto questo, la questione decisiva rimane ancora tutta  da esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla  quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo.  Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente  al di fuori di quel senso.    118     2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo   Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di  indicare come si configura il contenuto del sapere che ha il  carattere dell’assoluta incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme  (alla lettera: il «sovra-stare») della verità. Tale epistéme è per  Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è  negazione della negazione di màrtys, «testimone», colui che  essendo in presenza delle cose non può errare nei loro  confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a cui compete il  carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non  solo è «ciò che è», l’«ente» (tò ón ), ma è l’ente che  assolutamente (pantelós) e primariamente è, l’Ente  immutabile ed eterno, il divino che è fondamento  (trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono  assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al  loro essere e viceversa.   Per la tradizione filosofica Yepistéme è prevalentemente  sapere metafisico. Con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio  lo scetticismo), la più profonda delle quali è  l’antimetafisicismo kantiano. Che però intende mantenere il  carattere primario àe\Y epistéme della verità, cioè  l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura  a priori della soggettività finita (immutabile, quindi, sino a  che il soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione  filosofica è la storia delfincontrovertibilità dell’epistéme e del  modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento  nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme metafisica è Dio.  Vessenza della filosofia degli ultimi due secoli è invece la  distruzione di questa grandiosa concezione della realtà.  Distruzione, dunque, che - nella sua essenza, appunto - è a  sua volta grandiosa. Purché la si sappia cogliere.   Oggi come ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono    119     per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di  una scelta che da ultimo è arbitraria (anche quando si  presenta come «ragionevole», rationabile obsequium). Sul  piano filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici  e nemici di Dio non è per lo più consapevole della grandezza  e profondità della lotta tra il presente e il passato della  filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto  meno entrambi gli avversari si rendono conto che  l’abbandono del passato non è una semplice scelta o una  semplice constatazione storica, ma è la fondazione  incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello  stesso mondo filosofico la grandezza di quella lotta rimane  cioè sullo sfondo, o addirittura sepolta.   Non mancano certo forza e competenza, a quel mondo, che  si usa ancora dividere tra «analitici» e «continentali». Ma le  due prospettive sono molto meno divise di quanto possa  sembrare. Giacché per entrambe la fine deH’affermazione  filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione.  Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto assente la  discussione sull’autentico fondamento filosofico che ha  condotto alla negazione di Dio. Una negazione che tende  quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al livello  che è proprio della fede. Accade quindi non di rado che oggi  sia la filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una  fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad esempio, di essere  la semplice constatazione che la fede in Dio, almeno in certi  luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di essere una  scelta, una prassi - dunque una fede, che preferisce un  universo in cui Dio non esista.   Rinunciando a quella fondazione, e a ogni fondazione  assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel  «relativismo» o «nichilismo» concettualmente inconsistente a  cui gli epigoni della tradizione filosofica - tra cui la Chiesa    120     cattolica - trovano comodo o tendono a ridurre tutto ciò che  la filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo  modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro  autentico avversario, e gli avversari della tradizione filosofica  ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono.  Da tempo i miei scritti mostrano la distanza tra Yessenza  profonda e tendenzialmente nascosta del pensiero filosofico  del nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta  alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel  «relativismo» e «nichilismo» di cui ci si può sbarazzare molto  facilmente.   L’avversario autentico della tradizione filosofico-metafisica  è appunto quell’essenza. Tale essenza - si diceva - è la  fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. «Radicale»  significa «che procede dalla radice stessa della storia  dell’Occidente», la radice che fa vivere sia gli amici sia i  nemici di Dio, sia l’essenza del pensiero filosofico del nostro  tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi,  uomini di azione e di pensiero. Questa radice è la persuasione  che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal  nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano  nel nulla. Per la filosofia che è amica di Dio questa  oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un assurdo  solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della  filosofia del nostro tempo tale oscillazione non è un assurdo  solo se il Dio immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul  fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono  dal nulla e vi ritornino che Yessenza del pensiero filosofico del  nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e  che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo  sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale essenza è la  fondazione «radicale» delfimpossibilità di Dio perché si  fonda sulla radice che essa ha comune con la tradizione    121     filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza  autentica del nichilismo la cui forma più coerente si presenta  nell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo.   Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di  questi cenni. Qui si può solo indicare il senso generale del  discorso, rinviando, per quel suo senso concreto, agli scritti  sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema  dell’essenza autentica del nichilismo e quindi mostrano che la  persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è  soltanto una fede.   Innanzitutto, ciò che è stato chiamato «essenza della  filosofia del nostro tempo» ha un contenuto storico  determinato: è un nucleo, circondato da un alone che più si  distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per  quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della  filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un perimetro breve. È  costituito dalla dimensione centrale del pensiero di Nietzsche  e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi -  e conosciuta da entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi.  All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono  ritenuti tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein.  Non si tratta di mettere in questione la loro importanza, bensì  di rendersi conto che, nonostante essa, in modi differenti  lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è  fuggito. Una porta che invece non è lasciata aperta dai  pensatori di quel sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi,  la cui potenza filosofica, soprattutto nella filosofia  anglosassone, è completamente sconosciuta).   L’essenza della filosofia del nostro tempo consiste nel  mostrare che se esistesse il Dio immutabile ed eterno della  tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi  anche il nulla da cui le cose provengono e il nulla in cui esse     ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un  suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un  ente. Ma la persuasione che gli enti provengono dal nulla e vi  ritornano implica necessariamente che l’ente e il nulla  differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se,  nell’ambito dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il  principio di non contraddizione è visto come negazione del  divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione,  la negazione dell’esistenza del Dio immutabile ed eterno della  tradizione è incontrovertibile perché tale esistenza implica  necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è  impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non  solo del pensiero metafisico (che procedendo dal divenire  intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece  distrugge la tradizione metafisica, ma anche delle stesse opere  e istituzioni che costituiscono la civiltà dell’Occidente.   Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza  della lotta tra tradizione e distruzione radicale di essa - anche  il dialogo tra credenti e non credenti rimane alla superficie,  ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma  autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del  nostro tempo mostra l’impossibilità di porre limiti assoluti  all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema  dell’agire che è la tecnica guidata dalla scienza moderna e il  supremo Limite assoluto è la Legge in cui consiste il Dio  immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in  grado di ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro  tempo. Nessuna meraviglia, visto che nemmeno la filosofia  contemporanea e il cosiddetto «laicismo» sono in grado di  ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede  nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la tecnica esistono,  ed è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro  unione consente la maggiore potenza di cui l’uomo abbia mai potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario del  Dio della tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il  consumismo dell’«Occidente».   Ma il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le  due grandi forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e  l’essenza del presente della civiltà occidentale, ormai  planetaria - è il loro prender coscienza della propria anima  comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi  ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio perché ciò accada  è la fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un  Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono  è certo grandioso, esso è ciononostante qualcosa di  subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima comune, cioè  rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il  loro sepolcro.   Abbiamo più volte chiamato fede quell’«anima comune»  che invece, sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è  l’evidenza suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di  volgersi verso il culmine del pensiero e di lasciarsi alle spalle  anche quel passo decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il  passato e il presente dell’Occidente. Volgendosi verso quel  culmine si vedrebbe che in entrambi - cioè sia  nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il  senso più radicale del nichilismo, ossia la convinzione che le  cose (ossia gli essenti, che non sono un nulla) sono nulla:  proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente  e conclusivamente nulla. E, come sopra si accennava, la  convinzione che ha come contenuto l’Errore estremo,  l’estrema Follia, non può essere che una fede.   L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza  del nichilismo, cioè dell’eccidio dell’essere. E, insieme, è la  forma fondamentale dell’omicidio. La convinzione che l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto  di Dio o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si  decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni decisione non è  forse, ormai, la volontà di far passare le cose dall’essere al  nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un  eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e  l’uc-cidere?) Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della  sua grandezza poetica e filosofica, il genio di Leopardi,  insieme al genio di Eschilo, è forse quello di cui meno si è  visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà -  dunque non «soltanto» della cultura - occidentale.   L’accostamento dei due nomi non è casuale. Eschilo  appartiene al ristretto convegno di sovrani con il quale  incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è  tragica. La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo estremo:  che il divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e  il loro ritornare nel nulla, da cui non si ritorna più, sì che  anche la morte dell’uomo assume il volto e l’anima tragici  dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il  passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso  autentico di ciò che Leopardi ha inteso dire nelle sue «prose»  e nelle sue «poesie».   Anche quel portare alla luce è qualcosa di assolutamente  inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo  sta -re nella luce (nella quale essa stessa consiste) come la sta¬  bilità del sapere che non può essere in alcun modo scosso o  smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità  assoluta del sapere innegabile. La chiama, appunto, «epi-sté-  me» (in cui risuona lo sta -re e che inadeguatamente  traduciamo con la parola «scienza»). La stabilità dell ’epistéme  è l’essenza della verità. Porta oltre i millenni dell’esistenza  guidata dal mito. Ma proprio perché attribuisce questa  stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e  ritornano nel nulla (proprio perché afferma che Tesser preda  del nulla è verità), la filosofia getta l’uomo nelYangoscia più  profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e  che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il mito conferisce al    mondo un senso che non si mostra nella luce, ma è voluto, e  quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive  nel mito non se ne avvede e crede che esso mostri la realtà.   Tuttavia la filosofia è, insieme, la radice del senso che la  tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa  sorgere nell’uomo anche la ricerca del «saldo rimedio»  (secondo l’espressione di Eschilo) contro il dolore e  l’angoscia. Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce  l’esistenza di un «Principio» {arche) divino, eterno e  incorruttibile, sì che la nascita delle cose è dovuta al loro  «separarsi» da esso e la loro morte è il loro  farvi ritorno,   lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia tutto ciò che nelle  cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il  Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che  preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al  mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si  mostra nella luce, non è «saldo».   Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che  Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio  contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della  felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma  culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è  espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere  quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al  «teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per  Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della  «Verità». Il «dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in  genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere  nel «teatro» di Eschilo il proprio più potente predecessore.   Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto  l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del  quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la  cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo  stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della  cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto -  presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se  non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto,  ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di  indicare?   A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si  richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi  afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»:  nel senso che «dobbiamo», che «è necessario», che è tutto  l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia.   Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un  solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il  non sapere [ amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere»  (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale  solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel  mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un  rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un  vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la  salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della  verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in  questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e  l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del  male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto  è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo.   Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è «tutto l’opposto»,  cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere  (amathia ) è l’unico bene.   Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva,  sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun    128     Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le  cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che  le precede, le segue e le attraversa.   Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile  custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al  cuore deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio  sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza;  laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della  verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile.  Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è  che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente  anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte  di Dio».   Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il  Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non  saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che  Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti  Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho  pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e,  per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della  ragione: Eschilo, Adelphi 1989).   Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame  profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla  poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima  di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione,  inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però  impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno  letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta  incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa  sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che  peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto -  l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la  poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e  il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo  primo atteggiamento, dove il naufragio nel «mare»  delFInfinito è «dolce». Ma poco dopo egli sviluppa la grande  teoria del «genio» che unisce nella propria opera la verità  terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia  e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il  contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente,  convergono nella potenza del canto, in modo che «l’anima  riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui  sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Infinita ed  eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca  a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca,  con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e  caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma  di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E  sono la suprema salvezza e «consolazione» concesse a chi non  può salvarsi né essere consolato.   La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e  nullità di tutte le cose; il «fiore» è il genio. Egli è mortale,  nasce per morire, e questa nascita è «natura». Ma «nobile».  «Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il  suo «profumo» (la potenza del canto) e Yepistéme della verità  che vede il «deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un  profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si  addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente  cantato come reale: l’Infinito è morto («è distrutto Iddio»,  scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e  il deserto ne ha preso il posto.    Nobil natura è quella  che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra   al comun fato, e che con franca lingua,   nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte.   Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con  occhi mortali la morte («il comun fato»), non nasconde la  verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il  quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è  la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto  poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli  uomini questa unione. Come vero amore e come unico  rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica,  potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del  «vulcano ardente» abbia a distruggere la ginestra, il fiore del  genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne  vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo  «profumo» «consola» il deserto.   Il «genio» che consola il deserto non è la volontà  dell’«oltreuomo» che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne  vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica  di Nietzsche, da questa «vetta della contemplazione», come  egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta  raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui  linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche),  allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il  pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice  all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene  portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che getta  le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso  del nulla, allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione  inevitabile della storia dell’Occidente e del mortale.   Ma proprio a questo punto si fa innanzi la questione  decisiva. Possiamo formularla così: è così indiscutibile che  quel vortice - in cui crede sia la tradizione dell’Occidente, sia  la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi - appartenga all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente  indiscutibile? Ogni linguaggio è problematico: non solo quel che esso  dice lo dice all’interno di un’interpretazione, che non può mai  essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del  linguaggio è il contenuto di una interpretazione. Noi  dialoghiamo perché, nonostante la problematicità  dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al  linguaggio delle parole, ma anche a quello del  comportamento, ma poi a tutte le cose dalla terra e del cielo -,  abbiamo fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro  interlocutore (se esiste) sia a sua volta un interpretare e ponga  a fondamento del suo interpretare le stesse regole che noi, e,  daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a  fondamento del nostro. Ma anche «noi» - e anch’«io» - siamo  contenuti di una interpretazione. Di solito quelle regole non  vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un  prossimo, una società, che certi eventi sensibili siano  linguaggio, che un certo oggetto sia un libro e che sia scritto  in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di  interpretazione che ne scaturisce in virtù di certe altre regole  - analoghe alle «regole di trasformazione» di cui parla la  logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia  dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche (o un certo  Nietzsche).   Con queste considerazioni non si intende affermare che  ogni sapere sia interpretazione. Anzi, solo sul fondamento  dell’apparire della verità autentica si può affermare che un  certo ambito delle convinzioni umane è interpretazione, ossia  non-verità.   Nietzsche appartiene all’esito inevitabile della storia del  pensiero occidentale - e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr. E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi). L’attenzione  maggiore deve essere dunque rivolta all ’inevitabilità della  distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente  contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto alla semplice  circostanza che - come lo stesso Nietzsche qualche volta  ritiene - la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli  è indubbiamente questa - nonostante il peso che le religioni  hanno riacquistato negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche,  si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di  nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è risorto?  L’«obbiezione storica decisiva», che per Nietzsche  consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non  ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta  altrove.   Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di  Nietzsche al «prospettivismo» - che sostanzialmente non  differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in  forma non ingenua quando - di fronte ad avversari che si  limitano a rilevare la contraddizione della sua tesi che  sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare  chiedendo per quale motivo non ci si debba contraddire; e a  questa sua domanda ben pochi sono in grado di rispondere in  modo adeguato.)   Nella sua essenza autentica - tanto più autentica quanto  più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo  non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di  Leopardi e di Giovanni Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche,  seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro  tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza  dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza del divenire, inteso  nella configurazione ontologica che i Greci una volta per  sempre gli hanno assegnato: la fede nell’evidenza originaria e  irrinunciabile di tale configurazione.    134     Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza del  divenire - inteso secondo tale configurazione - Nietzsche  (come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio.   Si tratta di capire l’incontrovertibilità - Yinevitabilità,  appunto - di questa fondazione. Che Dio sia morto - cioè che  non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una  necessità. Si tratta di capire il senso di questa necessità. E,  insieme, di capire che Nietzsche porta al culmine la storia  dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza  che la tecnica è destinata ad assumere per essere la potenza  suprema è la potenza della volontà che vuole l’eterno ritorno  di tutte le cose.   Capire cioè che, proprio perché è necessario che Dio sia un  morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di  tutte le cose ed è necessario che tale ritorno divenga il  contenuto essenziale della volontà che costituisce la tecnica.   Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può  esistere è chiamato da Zarathustra l’«Uno», il «Pieno», il  «Satollo», l’«Immoto», l’«Imperituro». La fede nel divenire,  che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente,  implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo  Dio. Zarathustra dice: «Affinché vi apra tutto il mio cuore,  amici, se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non  essere Dio! Dunque non vi sono dèi» ( Sulle isole beate). Ma  nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di  quel «Dunque» è quanto Zarathustra dice verso la fine del  capitolo: «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi  esistessero?». Ma nemmeno questa è un’affermazione che non  abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche aveva ragione ad  affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per  la comprensione di Così parlo Zarathustra, da lui considerato  il più importante dei suoi scritti.    135     Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale che  costituisce la grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere  così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza  originaria. Tale evidenza implica con necessità l’impossibilità  di ogni Dio. La stessa necessità che implica tale impossibilità  comporta l’eterno ritorno di tutte le cose, il ritorno che in  quanto voluto dalla volontà di potenza conferisce alla tecnica  la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione  concreta di tale «necessità»).   Questa è una indicazione astratta. Senza la concretezza  corrispondente (a cui L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca  strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò  significa che tale sequenza non esprime le molteplici  tematiche che nel discorso di Nietzsche le sono più o meno  strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della  sequenza essenziale presente neWAnello del ritorno esprima  qualcosa che appartiene a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se  ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia  la capacità di modificare questa mia convinzione), ebbene  non avrei troppe difficoltà ad affermare - modestia invita -  che quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la  storia dell’Occidente (non cesserebbe di esserne il culmine),  per il fatto di non appartenere a Nietzsche.   b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore»   «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?»  Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo  retorico. Creare e annientare: sono gli aspetti fondamentali  del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al  divenire: andare dal non essere all’essere e dall’essere al non  essere. Creare: condurre nell’essere ciò che non era, che era  nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a  essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare    136     1’esistenza del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è  l’evidenza suprema.   Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo, se gli dèi  esistessero? Nulla! L’esistenza degli dèi rende impensabile la  potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita  dell’uomo - giacché è questa potenza a formare il centro di  ogni divenire, e dunque il centro dell’evidenza originaria.   Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e  impossibile il creare e l’annientare dell’uomo?   Incominciamo a rispondere dicendo il motivo per il quale  Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser «l’Uno e il  Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro». È ben più  profondo di quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e  sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta nell’immutabile  e imperitura unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa  unità anche se lo si pensa separato dal mondo. Il mondo non  aggiunge nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche  se ha lasciato al di fuori di sé il mondo.   Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte le cose. Ne è la  Legge. Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto  ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è  già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio, avesse una propria  legge, un proprio ordine e senso, una propria vita, diversi da  quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio,  avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare.   Egli prescrive sé stesso al presente, al passato, al futuro, al  tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in  cui egli consiste e che egli proietta intorno a sé, nei secoli dei  secoli, catturando e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da  sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al  divenire dell’uomo e della terra non resta dunque nulla. Nulla  da creare e da annientare. Il divenire sarebbe impossibile, «se vi fossero degli dèi».   Se vi fossero, «come potrei sopportare di non essere dio!?»,  dice Zarathustra. Non si tratta di una esclamazione vana e  infine patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo  dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la  verità e che non può sopportare che l’esistenza del dio renda  impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e  irrefutabile del divenire. Il dio è infatti la Legge suprema a cui  tutto deve adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla  emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la  sua legislazione e mostri che solo apparentemente egli era  sazio e immoto. Con la propria pienezza e sazietà egli ha già  raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da  alcunché. È «pieno» perché ha riempito tutto di sé. Che cosa  resterebbe da creare, che divenire resterebbe, se egli avesse  tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse  raggiunto e occupato futuro, passato, presente, imponendo al  futuro di non essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già  una regione totalmente adeguata alla Legge; e, trattenendo a  sé il passato, impedendogli di essere un ormai nulla e  prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge,  andandosene in una regione dove si possa essere liberi da  essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo  dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive.  Dunque dio non può esistere.   Il divenire implica che esista un non essere da cui gli enti  divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente  pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti  del non essere: da essi non può provenire alcunché di cui egli  non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto in cui le cose si  portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si  sia ancora impadronito o che si sia lasciato sfuggire di mano.  Ciò significa - ecco il tratto decisivo e fondamentale - che 1’esistenza del dio, la cui legislazione si estende al tutto e alla  totalità del tempo, trasforma il non essere, che è  necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in  un suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e  quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza originaria e  suprema del pensiero e delle opere dell’Occidente.   Molti a questo punto possono domandarsi se sia così  scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia  nulla. Non è forse ben nota la spregiudicatezza di Nietzsche  nei confronti dei principi «logici»? Eppure, chi crede  nell’esistenza del divenire, quella spregiudicatezza non può  averla - o ha un senso del tutto diverso da quello che  comunemente le si assegna.   Credere nel divenire significa infatti credere nella  differenza tra il prima e il poi, tra ciò che ancora non è, ed è  un nulla, è ciò che ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è  più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del  principio di non contraddizione proposte dal pensiero del  nostro tempo negano tale principio in quanto esso si presenta  ai loro occhi come negazione del divenire, ossia come  negazione del senso autentico della non contraddittorietà, del  senso consistente appunto nella ineliminabile differenza, nella  struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il  nulla.   Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere  risolti da un ritorno ai valori, alla tradizione dell’Occidente e  soprattutto alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un  passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia  secca, ancora attaccata al ramo - una grande foresta  disseccata che all’uomo della tradizione appare ancora come  una vegetazione animata dalle linfe della terra e quindi ancora  capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è veramente morto    139     come è ancora possibile questa illusione?   c) Eterno ritorno e tecnica   La seconda parte di quella che sopra abbiamo chiamato la  «sequenza essenziale» del pensiero di Nietzsche afferma che la  stessa necessità che implica l’inesistenza di Dio implica anche  l’eterno ritorno di tutte le cose. Si può esprimere questa tesi  anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve  perdere di vista la concatenazione essenziale di tre capitoli  che nel testo compaiono invece separati l’uno dall’altro: Sulle  isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma.   La visione e l’enigma racconta l’eterno ritorno di tutte le  cose. Zarathustra racconta che ci sono due strade, una che  procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano,  non si dovrebbero mai incontrare; eppure, assicura  Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose che camminano  su di esse si ripresenteranno, e infinite volte, così come una  volta si sono presentate - ad esempio questo ragno e questo  chiaro di luna e il colloquio tra Zarathustra e il nano.  Zarathustra, qui, «racconta».   Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di  «raccontar miti». La sua è una «gaia scienza». Gaia; ma  scienza. Non la scienza come epistéme che afferma resistenza  di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere  incontrovertibile e innanzitutto affermazione  incontrovertibile dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di  tutte le cose e, su questo fondamento, conoscenza  incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende  impensabile e impossibile resistenza del divenire.   Il pensiero di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza  autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i  miei scritti mostrando la Follia estrema -; ma, proprio perché  è la forma più radicale del nichilismo, esso è anche la forma più radicale di fedeltà alla fede nel divenire. Gli amici di Dio,  che pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non  posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al  tramonto e a essiccare anche se sono attaccati ai rami. Il genio  di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto fra la  creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra  tale creatività e il passato.   Come il Dio immoto, imperituro e sazio è immodificabile  dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come  immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più  intervenire, non lo si può cambiare. «Così fu.» Ma questa -  agli occhi della fede nel divenire - è la voce della non-verità;  come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è  vivo. Il passato possiede la stessa anima, la stessa essenza  dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio  rende impossibile il divenire, così il divenire è reso  impossibile daH’immutabilità del passato.   Sebbene Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire  che anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi  oltre l’uomo - è «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e  l’Imperituro». La sua esistenza è infatti la legislazione che  condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma  nel senso che anche quando ci si vuole liberare dal passato e  dai suoi condizionamenti non si può evitare che esso sia stato  così come è stato, sicché la liberazione da ciò che non può  essere diverso da come è stato non può renderlo diverso da sé  e non può non esserne condizionata. Una liberazione  apparente. Ci si potrà proporre di evitarne le conseguenze,  ma non si potrà evitare che la totalità del futuro si mantenga  in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e  a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in questo senso più  profondo. In nessun luogo del divenire si potrà evitare di  rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere più ciò che è stato.   La coscienza umana può «ricercare» il passato - pensa la  fede nel divenire -, ma è prigioniera della convinzione di non  poter far sì che ciò che è stato non sia stato. La legislazione in  cui anche il passato consiste potrà essere dimenticata ma non  distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé ogni spazio vuoto  del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa  quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così  come il nulla implicato dal divenire diventa, con resistenza di  Dio, un ascoltatore e un suddito di essa, diventa cioè un  essere. Proprio perché non può essere modificato o  annientato, il passato è il «macigno» che anticipa il futuro, e  quindi lo annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun  evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne  conto, ossia potrebbe configurarsi indipendentemente da  esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò che è diventato nulla;  dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non  rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non  vi rinuncia Dio; sì che anche in questo senso il «così fu» è  l’identificazione del nulla e dell’essere.   Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo crede che il  passato sia immodificabile, si presenta come qualcosa che non  proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto  dall’essenza del divenire -, ma proviene dal «macigno» del  passato, da cui dipende come si dipende dal «macigno» di  Dio. Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica  la negazione del divenire, cioè di quella novità autentica che è  la nullità di ciò che è ancora un futuro. Come Dio, anche il  passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non  ci può essere divenire, in un essere, in un ascoltatore del  passato.   Pertanto, come è necessario affermare che Dio è morto,    142     così è necessario affermare che è morto anche il passato, in  quanto esso è pensato e vissuto come l’assoluta  immodificabilità del «così fu». La creatività della volontà  implica cioè necessariamente la sua capacità di trasformare il  passato, di volere il passato come si vuole il futuro. Si tratta  ora di indicare come ciò sia possibile.   d) Volere Veterno ritorno e volere il passato   Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra - che  nonostante i suoi tentativi di sviare il lettore contiene tutti gli  elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una  conseguenza inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo  dunque il modo in cui Zarathustra mostra come la volontà  possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da  quanto è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice  velleità.   La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è  innanzitutto il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale  da ogni forma che gli immutabili possono assumere. Proprio  per questo, è libera nel senso che non è sottoposta ad alcun  disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso.  Se essa si presenta dapprima come volontà che vuole il futuro,  ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità di questo  aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del  passato come del futuro. Essa vuole anche il passato. Ma essa  non può volerlo separatamente dal proprio volere il futuro,  perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto,  diventerebbe un passato su cui la volontà non ha potenza. È  cioè necessario che il volere «in avanti» - il volere che vuole il  futuro - sia lo stesso volere che vuole «a ritroso», ossia che  vuole il passato. Questa identità è possibile solo se volendo  «in avanti» si percorre un circolo: un percorso in cui si finisce  col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - l’«anello del ritorno» - rende possibile che, volendo il futuro,  si voglia per ciò stesso il passato. Solo se il divenire del mondo  è un circolo, e un circolo che ritorna su di sé alfinfinito - «un  anello del ritorno» -, la volontà che vuole il futuro vuole per  ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro.   Ogni punto del circolo è un punto di partenza. Altrimenti,  se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto  immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio  immutabile che anticiperebbe in sé la totalità del divenire,  vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se  inizio e fine sono il nulla (come invece pensa Leopardi con un  rigore che è massimo all’interno di una prospettiva in cui,  tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di  tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe  una direzione, cioè sarebbe sottoposto a una legge che  attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri  dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso fosse  l’origine unica e inamovibile da cui tutto proviene e il termine  a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la  cosmologia si muovono per lo più nei paraggi di questa tesi),  il nulla preordinerebbe il futuro e riceverebbe il passato in  modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono  rispettivamente preordinati e conservati da Dio.   Ciò non significa che il futuro non sia un uscire dal nulla e  il passato non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla  del futuro e del passato si distacchino dai punti del circolo  dell’eterno ritorno e si configurino come dimensioni  teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla  casualità del divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e  il riposo eterno dell’uomo. L’esistenza non ha senso.   Che il divenire abbia un «senso» è un modo di affermare  che il divenire è guidato da un Dio. Appunto perché è    144     impossibile che un qualsiasi immutabile esista, è necessario  che il divenire - e cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia  assolutamente senza senso. Come è impossibile un inizio  assoluto, così è impossibile uno scopo assoluto.   Il pensiero di Nietzsche mostra dunque non solo che ogni  Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma  che la forma più potente della volontà è quella in cui la  volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la  scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una  volontà che vuole soltanto «in avanti» e che non sa di avere  potenza anche sul passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno  ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la  potenza massima cui è destinata. Il destino della tecnica è di  ascoltare la voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di  realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile  dall’esistenza (e a sua volta destinata a declinare, a ridursi, per  poi ricomparire infinite volte).   La tecnica è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le  cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora è la più  lontana dalla coscienza che scienza e tecnica hanno di sé  stesse (anche se la possibilità di un recupero del passato è  sempre più presa in considerazione aH’interno del sapere  scientifico). Più vicina a quella coscienza è la dottrina che la  morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche  se la morte di Dio non deve essere trattata come un dogma  simmetrico a quello degli amici di Dio, ma deve essere vista  nella sua necessità.   Tutto ciò che qui è stato sommariamente tracciato trova il  proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si  deve lasciar da parte, di quel mio scritto, la considerazione  dell’aspetto speculativamente più rilevante del pensiero di  Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è    145     avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede  nell’evidenza del divenire implica necessariamente l’eterno  ritorno di tutte le cose, tale fede implica necessariamente la  negazione di sé stessa.   Infatti, se l’eterno ritorno non è la riesumazione di  un’antica dottrina metafisica, esso è tuttavia pur sempre  un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai  guardato in faccia (e che quindi non ha nulla a che vedere con  le considerazioni di Nietzsche sulla tragedia attica) e che  tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire  appartiene necessariamente all’essenza del divenire: che il  divenire non è divenire.   Il genio di Nietzsche è infinitamente maggiore di quello  che egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente  maggiore, perché, senza volerlo - e anzi volendo l’opposto -  mostra l’abisso senza fondo su cui si libra la fede che regge  l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la  storia dell’Occidente. Non si dovrà dire allora che il librarsi  della fede nel divenire sull’abisso senza fondo della negazione  di questa fede - il legame indissolubile che lega questa fede  alla propria negazione - è il librarsi stesso della Follia - non  quella che lacera la mente di un individuo che è stato un  grande filosofo, ma quella che sta alla radice del modo in cui  l’uomo ha abitato e tuttora abita la terra? Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era  venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’ Foscari parlando  di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra  conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer  era imminente, volli avanzare quello che mi sembrava il  punto decisivo, e gli dissi che tra Heidegger e l’essenza della  tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer  rispose con un «no» tanto perentorio quanto gentile. Ma è  proprio su questo punto che vorrei un po’ soffermarmi;  quindi mi è cara l’occasione per riprendere quel discorso  interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero  di Heidegger con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che  secondo Heidegger si colloca agli antipodi della sua posizione.   Ieri si è parlato di «differenza ontologica»: vorrei prendere  le mosse da questo concetto. «Differenza ontologica» significa  che esiste una essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere  e l’ente. Significa che l’ente non è essenzialmente legato  all’essere e in questo senso è un evento che sopraggiunge  improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è  opposto a quello di «differenza ontologica» è la «non-  differenza ontologica». Questa lega l’essere all’ente; questo  legame, per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia  della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le  cose al loro essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e  arginano, bloccano, il sopraggiungere delle novità storiche.   Allora, parlare della «non-differenza ontologica» è parlare  delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose. Recentemente, è  uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene  sviluppato il concetto che al culmine di questa assicurazione  degli enti all’essere, al culmine della «non-differenza  ontologica» sta il pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il frammento della Volontà di potenza, dove si parla della  «vetta della contemplazione»: la vetta della contemplazione è  il ritorno di tutte le cose. Questa, per Nietzsche, è l’«estrema  approssimazione del mondo del divenire al mondo  dell’essere». Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico  dell’eterno ritorno, l’anticipatore della civiltà della tecnica,  perché la civiltà della tecnica consiste nella programmazione  che esclude la differenza ontologica; la programmazione che,  stabilendo la routine, la ripetizione dell’inedito, esclude la  possibilità del sopraggiungere del nuovo, del diverso.   Heidegger si muove certamente verso l’espressione  dell’essenza del pensiero occidentale, in quanto,  allontanandosi dalla maggior parte delle forme del pensiero  contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista  in termini ontologici. Ma è appunto in questa raffigurazione  heideggeriana dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale  che si cela quella sostanziale solidarietà fra Heidegger e la  tecnica, di cui avevo parlato prima. Perché?   Il tema dell’«eterno ritorno» dice dunque che il nuovo è  impossibile, ed «eterno ritorno» vuol dire «estrema  approssimazione del mondo del divenire al mondo  dell’essere». Ecco, penso che tutti colgano il significato della  parola «approssimazione», che è «estrema», ma è pur sempre  approssimazione. Ciò vuol dire che la distinzione tra il mondo  del divenire e il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo  tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia  inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È  il massimo che si può compiere per identificare i due mondi;  ma il tentativo è uno sforzo, non riesce.   Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il  divenire, ma il divenire è bloccato solo in quanto se ne  riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della  tecnica, allora l’immutabile, cioè la non-differenza ontologica  in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è  possibile soltanto sul fondamento del riconoscimento  dell’esistenza del divenire. L’immutabile protegge dal pericolo  della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa  rispetto alla novità che il divenire porta con sé, appunto per  questo l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del  divenire.   Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è  evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole  assolutamente cautelare dal divenire - questo riconoscimento  del divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che  Heidegger chiama «differenza ontologica». Perché, se  «differenza ontologica» significa accidentalità dell’ente  rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente  all’essere da parte dell’ente, allora «differenza ontologica»  vuol dire appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la  loro eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui  le cose sono lasciate nel loro andare e venire. Voglio dire che  quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da  Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme  difendersene) con 1’evocazione dell’eterno ritorno, quel  divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger  quando egli lo esprime in termini puramente ontologici,  come, appunto, «differenza ontologica».   D’altra parte è chiaro che quando Heidegger parla della  programmazione operata dalla civiltà della tecnica, che  impedisce la storia, dissente da questo acme che la metafisica  occidentale raggiunge nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà  della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare  Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a  Weber, non è quello che intendo sostenere. Dal punto di vista filologico è ovvio che Heidegger intende prendere le distanze  dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica  la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione  del nuovo.   Allora, una prima domanda: qual è il fondamento  dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve essere il nuovo?  Perché non ci può essere un sistema che predetermini la  totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e  rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è ciò che fonda  questa esigenza del nuovo, che è l’esigenza dell’esistenza della  storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi  vogliamo che la storia esista. Ma perché deve esistere il non¬  sistema? Ecco, sostengo che Heidegger esprime  semplicemente l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della  esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è  proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può  escludere il sopraggiungere di un sistema il quale riesca a fare  ciò che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema,  per riuscire a escludere la negazione della storia e della novità  è necessario un approfondimento del senso ontologico del  divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di  Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo,  Armando 1978, il capitolo intitolato Gòtterdàmmerung).   Seconda domanda: quando Heidegger polemizza contro la  civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non  si dimentica forse della caratteristica essenziale della scienza  moderna, cioè del carattere ipotetico della scienza?  L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è  indubbiamente una cattura che elimina radicalmente la  novità. Se è già aperto il senso del mondo, se il senso del  mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo  è certamente impossibile. Ma la scienza moderna si è  costituita proprio attraverso la distruzione d elYepistéme; quindi la programmazione, il piano, in cui consiste la civiltà  della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se  teniamo presente il concetto di scienza come «metodo  sperimentale», allora, all’interno di questa prospettiva, la  scienza, come sperimentazione, è una programmazione che  però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità  sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla  novità: Io so già che cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la  scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo  quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che  Heidegger si limita a invocare. Questo sarebbe un primo  senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica  erede dell’atteggiamento che Heidegger intende proporre. Ma  vi è un senso più sostanziale.   Il senso più originario e più nascosto della volontà di  potenza è la volontà che la storia (il divenire, la «differenza  ontologica») esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si fa  oscillare tra l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente.  Alla base della volontà di dominio sta la volontà che esista il  campo del dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza  dell’Occidente. E in questa essenza convengono quindi anche  la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di  Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria  essenza, perché mentre la tecnica, volendo il dominio  dell’ente, porta a compimento l’originaria volontà di potenza  (cioè la volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele  alla propria essenza, Heidegger contrappone alla volontà di  dominio il «lasciar essere» gli enti: quel «lasciar essere» che è  stato originariamente violato (anche) dal pensiero di  Heidegger, proprio perché la volontà che separa l’ente  dall’essere - e che quindi vuole la nientità dell’ente - non  lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo  essere unito al suo essere. In questo senso, la volontà di potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce la  propria essenza), mentre la tecnica si libera da questa  incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di Heidegger  (e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il  pensiero di Heidegger è unterwegs zur Technik, in cammino  verso la tecnica. O anche: il pensiero di Heidegger esce  dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze  che si contendono il dominio dell’ente, e quindi come il  lasciar essere l’organizzazione tecnologica del mondo, che   ormai ha avuto il predominio su ogni altra forza.   *   Intervento al convegno su «L’eredità di Heidegger», tenutosi all’università di Padova nell’inverno  1978 (con la partecipazione, tra gli altri, di H.G. Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi  pubblicato in «Verifiche». Le religioni soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I  miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze  supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo  felice in un’altra vita. Dando ascolto a queste voci, per  millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra  quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha fede in esse, ne è  certo. Ma queste voci asseriscono, raccontano: non possono  impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran  massa delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è  inaffidabile. La salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno  le religioni più evolute riescono a uscirne.   Si fa avanti allora la religione. Intende mostrare come il  dubbio possa esser vinto. La storia breve della religione: due  millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò  che è sogno sono andati sempre più perfezionandosi. E  tuttavia il contenuto del sogno non è stato sostituito da una  veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto  vedere - e, di assolutamente affidabile, ha visto soltanto  l’assoluta precarietà della propria condizione.   Scienza e tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra,  l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che  nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno. Sanno che,  per quanto raffinate, le loro procedure razionali sono  ipotetiche, fallibili. La condizione umana è precaria, perché  precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà  dell’umano. Sia pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e  dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato. In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che  non può non sembrare esorbitante e velleitario. Può essere  espresso con l’affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli  uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né  suppongono». Intendo: da cose che sono infinitamente «di  più» di ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di  ottenere; infinitamente di «di più» di ciò verso chi vuole  condurre la stessa speranza cristiana, e dunque «di più» di  ogni «immortalità» e di ogni «resurrezione della carne» che a  speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente «di  più» di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo  destinati a qualcosa che è infinitamente «di più» di tutto  quanto il più insaziabile dei desideri può volere.   Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni è ancora  maggiore, perché quel che esse indicano non si presenta, nei  miei scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare,  in modo assoluto, al di fuori del sogno in cui rimane ogni mito  e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al di fuori  del sogno non si tratta di «attendere» l’avvento dell’insperato:  già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una «veglia»  assoluta che è infinitamente «più» radicale di ogni  incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione -  dunque anche di quella delle scienze logico-matematico-  naturali. È all’interno di questa «veglia assoluta» che si mostra  la destinazione dell’uomo a cose che egli non spera né  suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno  credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa  veglia assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa,  cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del  Tutto, ossia della Gioia che l’uomo, da ultimo, è.   Nei miei scritti tale «veglia assoluta» è indicata dalla parola  «destino», intesa come costruita in modo analogo a termini  quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì che il destino è  l’intensificazione estrema dello «stare», cioè dell’inamovibilità  in cui consiste la «veglia assoluta».   Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel  destino appare che ogni essente è sé stesso e non diventa altro  da sé, e dunque è eterno; e appare che il variare del mondo è il  sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria  dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel  destino appare che la negazione del destino è negazione di sé  stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il  destino è il senso autentico della verità.   E, ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il  ritornarvi non appaiono, ma appare il sopraggiungere di  quegli eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia.  Il cadavere - gli eterni che sono «oltrepassati» quando  tramonta l’isolamento della terra dal destino. Nell’isolamento  della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di  salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è  il divenir altro (ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali  hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che  essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli  alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la  morte.   Certo, tutto questo, detto in questi termini, può sembrare  un ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione  filosofico-metafisica dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di  quanto interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire  (l’unità tuttavia che non può essere realizzata né dalla  coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è  venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia  stessa dell’Occidente, quella tradizione è tramontata.  Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra    155     l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in  quella dimensione più profonda del pensiero filosofico del  nostro tempo, che questo stesso pensiero per lo più non riesce  a raggiungere.   D’altra parte sin dal suo inizio la filosofia porta alla luce  non solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso  radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal  nulla da cui le cose del mondo sporgono improvvisamente. Il  mito prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede  nemmeno che la morte è annientamento. Non vede il pericolo  estremo e quindi non salva da esso. Pensando l’eternità del  divino, la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla  sia possibile. Ma se si sa scendere nella dimensione profonda  della filosofia degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi  Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni  «verità eterna», incontrovertibile, definitiva. Ciò significa che  sia la tradizione filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia  l’intero passato sia l’intero presente della civiltà occidentale, e  dunque, ormai, planetaria, hanno in comune il grande mito -  la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come  l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte degli essenti. (Il mito  che dunque accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio,  ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo,  la cosiddetta «filosofia analitica» e la cosiddetta «filosofia  continentale»). La volontà di salvezza - che è la stessa volontà  di potenza - è la figlia di questo mito.   Ma è inevitabile che si obbietti: «Come può essere  sostenibile un discorso che ritiene di essere l’unico a non  appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre  fatto perno sul divenir altro delle cose; e proprio quel  discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre  pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato,  dovrebbe esser l’unico detentore della verità?».    156     Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione -  che peraltro è sempre stata rivolta ai filosofi e al «campo di  lotte senza fine» (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che  esistano altre coscienze, oltre a quella che appare nel destino  è, originariamente, un problema, non una verità assoluta.  Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di  individui umani. Ed è un problema anche ciò che i linguaggi  dell’uomo intendono dire. Li si interpreta; ma  l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque  un’interpretazione anche Yesistenza del dissenso rispetto al  linguaggio che indica il destino - del dissenso che si esprime  dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una  interpretazione anche l’esistenza della storia, di cui prima si è  detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli  uomini sia sempre rimasto al di fuori del destino, e abbia  sempre agito secondo questa sua alienazione, è  interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio  che indica il destino dovrebbe propriamente dire: se c’è stato  qualcosa come «mito», e se c’è stato qualcosa come «ragione»,  allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito,  e la esprime nel modo sopra rilevato.   Certo, al destino appartiene anche la necessità del suo  essere presente in infiniti altri cerchi dell’apparire - e in  questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è  Tessere una molteplicità di modi di esser uomo, ossia è una  «società». Ma poiché è sul fondamento del destino che  l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata  incontrovertibilmente, allora, se si scopre che tale molteplicità  è tutta o in parte un dissenso rispetto al contenuto del  destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò  sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua  esistenza. Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le  esorbitanti pretese del linguaggio che indica il destino non è    157     un «fatto»: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra di  essere presente in un’infinità di «coscienze» e mostra il loro  dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale  dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da  cui si dissente. La fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle  «forme di rappresentazione più antiche e più generali  dell’umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa  dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia  dello spirito umano». Così scrive Cari Gustav Jung. Platone  vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli  archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma  per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri»  dello spirito umano, bensì alla «scienza» ( epistéme ) della  «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che  dunque è l’opposto della «fantasia» intesa come evocazione  misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi.   Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni  archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci  si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti  quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la  storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti  si può pensare che la più antica origine di questa parola  indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il  seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore  e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino  raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da  molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che  vengono e vanno.   Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I  mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma  l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare  ciò che da sempre la verità è destinata a essere: il «destino  della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i  mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità».  Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme a essa    159     sopraggiunge e si fa dominante la convinzione che l’uomo sia  un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in  verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna.  Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i  «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è  eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la  terra dal destino della verità.   Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono  convinti i mortali. Anche e soprattutto in questo caso la sua  inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente  indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che  senso è necessario risalire molto più indietro di ogni  archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter  scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia»  hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria  della fantasia.   In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la  capacità di portare alla luce mondi diversi da quello  quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente.  Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi  evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il  fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della  sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra  nel luogo eterno del destino della verità.   Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono  queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che  fare con la «realtà» e la «serietà della vita». Fantasie, appunto.  Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto credono di  sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia  originaria è cioè la convinzione che la «realtà» con cui noi  abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che  vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai    160     si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto  è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i  mortali vivono nella terra separata dal destino della verità,  nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La  terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della  terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a  comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi  che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più  radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra  forma di sapere, scienza compresa.   Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli  attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non  si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più  alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle  anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli  archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei  cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal  volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo  direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose  con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal  volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli,  gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettano loro  addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li  trascinano giù in basso e li uccidono.   La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L’arte  tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente,  rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto  sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella  metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il  cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde  dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino  della verità. Tale isolamento è la forma originaria della  fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere  morte dei mortali. Discutere il destino della verità, concretezza delVerrare,  isolamento della terra, linguaggio   Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico -  nonostante i tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla  loro presenza - riguarda la «verità» di ciò che è conosciuto e  voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza e rigore la  filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una «verità»  assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di  Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa ben diversa dal  considerare superfluo il tema della «verità»; e che là dove è  adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è  tuttavia la coerenza estrema del nichilismo.   Da quando abita la terra l’uomo intende le cose del mondo  come un «diventare altro»; da quando la terra è abitata dalla  filosofia la filosofia concepisce la «cosa» come «ciò che è»  («ente») e definisce il suo diventar altro come «passaggio dal  suo non essere al suo essere» e viceversa. La cosa che  incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui essa non  era e incomincia, e la cosa che finisce di essere torna nel nulla  nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da  questo senso dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia  pervenga al rifiuto di ogni verità assoluta e definitiva e di ogni  Ente immutabile e «divino»; e viceversa, tale rifiuto è  inevitabile solo se procede da quel senso - che domina  progressivamente non solo i pensieri ma anche le opere della  civiltà occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non  significa che questa dominante inevitabilità stia davanti agli  occhi di tutti i protagonisti della filosofia contemporanea:  all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro  tempo.)   Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è  ritenuto indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In questa domanda traspare la dimensione ignota alla storia  della terra. Tanto più ignota quanto più tale dimensione si  mostra non come un semplice domandare, ma come  negazione di quel senso e quindi come negazione di ciò sulla  cui base è inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni  verità incontrovertibile. Tale dimensione è il destino (inteso  secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti).   Il destino è la manifestazione del differire degli essenti tra  loro e del loro non essere. Essi sono le differenze. Proprio per  questo il destino è la manifestazione dell’impossibilità che  «ciò che è», in quanto tale, non sia: è l’apparire della necessità  che Tessente in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia  «eterno». Le implicazioni di questa affermazione conducono  molto lontano.   Ma il destino è tale solo in quanto è la dimensione in cui  appare incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e  Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è la fede nella  propria incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non  può che rimanere astratta, formale, si può indicare il senso  delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo  che esso è la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Il  destino è la negazione della fede, cioè dell’errare.   L’«uomo» di cui si parla all’interno della terra isolata dal  destino è anch’esso il contenuto di una fede. Con ciò si  intende qualcosa di essenzialmente più radicale  dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede  nell’esistenza dell’uomo della terra isolata è un errare, un  sogno. La terra intera, in quanto appare separata dal destino,  è il contenuto del grande sogno in cui consiste la «vita» e che  è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un essente, anche il  sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è il destino.  Essa non «appartiene» ad alcuno degli abitatori, umani o  divini, della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad  appartenere al contenuto che appare nel destino - giacché  solo nel destino può apparire incontrovertibilmente  l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia della  negazione del destino della verità.   Discutere il destino è un modo di negarlo, sì che tale  discussione nega sé stessa. Infatti «discutere» significa  affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in  vari modi gli si oppone. E il destino - si è detto - è  innanzitutto l’apparire del senso che compete alla differenza  (ossia alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al  destino è quindi un differirne. E proprio per questo è  condividerne, più o meno inconsapevolmente, il tratto  originario: l’affermazione della differenza. In questo differire -  condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si ripresenta  l’indicazione, prima sommariamente richiamata, del senso  dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui  negazione nega sé stessa. Discutere il destino è condividerlo;  ma è anche negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì  che discutere il destino è negazione di sé stesso.   È necessario affermare l’esistenza delle differenze non  perché esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui  consiste la terra isolata dal destino - e dunque, da ultimo, non  perché si vuole che esse siano. È nel destino che appare la  necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro  eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da  sempre si apre al di là del percorso dove gli abitatori della  terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede  nel diventar altro, alla negazione di ogni verità e di ogni Ente  immutabile.   Discutere e opporsi al destino, quindi condividendolo, è  pertanto solo il tentativo inconsapevole di condividerlo. Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene  essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria  negazione (e questa negazione del destino non è un semplice  tentativo di esser negazione); altro è la negazione che appare  nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra  negazione) si rende visibile agli abitatori di questa terra,  tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere  negazione del destino.   Già il vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto,  credere, aver fede di trovarvisi. Forse la differenza più antica è  quella che la volontà è convinta di esperire tra i propri  desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica  guidata dalla scienza moderna è il modo più potente con cui  la volontà domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la  tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi  al di là della fede e pertanto della fede nell’esistenza delle  differenze.   La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di liberarsi dalla fede  - quindi dal mito, che è uno dei contenuti più antichi della  fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra  forma di fede (e ancora permane in molte parti del mondo).  Eppure la filosofìa conserva il tratto centraledella fede  prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel  loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede  che le differenze siano anche un differenziarsi, e nel modo più  radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie,  metamorfosi: le grandi forme del diventar altro.   La filosofìa, però, intende essere il «vero» racconto. La sua  grandezza sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso  radicale della «verità». La «verità» è il mostrarsi  dell’assolutamente incontrovertibile. Si è poi trattato di  stabilire il senso dell’«assolutamente incontrovertibile» e il contenuto di cui è necessario affermare tale  incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è  prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi sviluppata come  fede nel differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre  più consolidata come fede nell’incontrovertibilità della  manifestazione («esperibilità», «osservabilità») di tale  differenziarsi.   «Verità» si dice in molti sensi anche perché molti ambiti  della vita si presentano come «verità» - e per questo si parla  di «verità» religiosa e morale, di «verità» degli istinti, degli  affetti, dell’arte, di «verità» della filosofia e della scienza; e,  complessivamente, di «verità» dell’esistenza della vita e della  terra (quale appare nel suo essere isolata dal destino). Ma  poiché queste «verità» non sono il destino della verità, esse  sono tutte «verità» controvertibili - per quanto diversa possa  essere la loro «plausibilità» («probabilità», «ragionevolezza»,  «potenza» e «coerenza» concettuale) e potenza - e raffermarle  è sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella  propria incontrovertibilità. La «più plausibile» è lontana dal  destino tanto qua nto la «meno plausibile»: infinitamente.  (Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita  lontananza che tuttavia si presenta come «inevitabile», nel  pensiero del nostro tempo, la distruzione di ogni «verità»  assoluta e di ogni Ente immutabile.)   Si può chiamare «filosofia futura» il linguaggio che, invece,  testimonia il destino della verità. Essa è futura perché se nel  presente la sua voce è soverchiata dalle voci della terra isolata  dal destino, tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il  linguaggio dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino,  la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è  inclusa, ma - più antica del più lontano passato - include la  totalità del tempo che viene affermato all’interno della terra  isolata.    167     Tuttavia, le stesse voci che si levano nella terra isolata, e  sono quindi negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse  «sempre più concreto» il contenuto del destino. Infatti vanno  rendendo sempre più concreta quella negazione del destino  che essenzialmente gli è unita, e in questo senso gli  appartiene, e quindi senza la quale il destino non potrebbe  essere. Ciò significa che la discussione del destino non è  soltanto l’opporglisi che, si è detto, proprio perché intende  differirne condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di  condividere) l’affermazione della differenza che in esso  appare: tale discussione è insieme l’arricchirsi della negazione  del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di  esso. In questo senso tutto l’infinito contenuto della terra  isolata dal destino - il contenuto che è, tutto, negazione del  destino - va rendendo sempre più concreta la negazione del  destino e quindi il destino stesso, in quanto negazione di tale  negazione.   D’altra parte, la terra isolata, in quanto fede originaria, è  interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma,  proprio in quanto esso è un «conferire», non gli può  competere l’incontrovertibile necessità del destino, ed è  quindi volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso  che, nella terra isolata che appare nel destino, certi eventi  appaiono come linguaggi e come linguaggi che negano il  destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella  terra isolata sono cioè contenuti dell’interpretare (cioè del  sogno) che appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è  pertanto un tratto del destino). Gli eventi della terra isolata  sono interpretati come linguaggi che, proprio perché  testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che  dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra  isolata, è qualcosa di voluto dall’interpretare (che appare nel  destino). Né può essere diversamente, perché se nella negazione del  destino il destino apparisse, essa apparirebbe come negazione  di sé stessa, e l’apparire di tale autonegazione sarebbe  l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile  «esser convinti» della sua negabilità e controvertibilità. Lo si  può discutere e negare, se ne può affermare la  controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e  negarlo è un linguaggio che nella terra isolata testimonia  soltanto essa - cioè un linguaggio che nel destino appare  come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così  evocati anche i linguaggi che, all’interno dell’interpretazione,  mostrano di essere affermazione del destino, o di  «condividere» il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso  linguaggio è evocato dall’interpretazione in quanto esso  appartiene al passato, mostrandosi con la proprietà dell’«esser  mio». Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi  del destino) si rivolge la discussione del destino nella misura  in cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a  costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne  contiene l’apparire, non lo «capisce»: solo in quanto non ha  come contenuto il destino, nel quale la negazione-discussione  di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque:  nella misura in cui riesce a costituirsi la discussione del  destino si rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è  non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte  le condizioni richieste per essere «capito» dai linguaggi  «altrui». L’uomo vive soltanto se crede - nel senso più ampio di  questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una  specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto  credere di esistere e di agire nel mondo. E ogni credere, ogni  fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il  mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole che le  cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano e  siano state. La fede-volontà è interpretazione.   Tuttavia credere-volere-interpretare è stare al di fuori della  verità non smentibile. Credere è errare.   Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè un credere,  allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che  vivere è credere e volere - affermazione condivisa peraltro da  gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo.   E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa -  questa affermazione non è un credere, ma è una verità non  smentibile.   Ciò significa che l’uomo non è soltanto vita, cioè fede, ma  è, originariamente, l’apparire della verità non smentibile. È  all’interno della verità che - in modo non smentibile,  incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà.   La «verità» a cui si è rivolta l’intera storia dell’Occidente  non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che  d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo  (e ovunque qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la  chiama «destino della verità» - come appunto nei miei scritti  viene chiamata. Ma, anche qui, che questo linguaggio sia  l’agire di «qualcuno» - che qualcuno ne sia l’«autore», che tale  linguaggio abbia il carattere dell’«esser mio» -, questo è  daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a  credere (come crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e che sia l’«autore» dei linguaggi che parlano del mondo).   Il nichilismo - inteso nel senso indicato nei cosiddetti  «miei» scritti - è la forma più potente della vita, cioè della  fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche in questi  scritti, che sono andati via via liberandosene. D’altra parte  sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che  conduce oltre il nichilismo, sia quella forma di vita che è il  voler dire e quindi anche il voler dire in cui consiste quel  linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della  verità. Esso mostra anche in che senso non è contraddittorio  che quella duplice forma di fede (cioè di non-verità) possa  «condurre» al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto  tale, non è un «punto di arrivo», ma è il punto di partenza di  ogni percorso.   In un senso che è fondamentale i miei scritti hanno quasi  subito guardato nella stessa direzione. Però il loro è stato un  percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è  incominciato molto presto (nei primi anni Cinquanta), ma  l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo^   Anche ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura  consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture  filosofiche) si può quindi muovere l’obbiezione, considerata  nel paragrafo precedente, di essere uno sviluppo dove il  linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso  dapprima negava. E perché, allora, quel che ora esso dice non  dovrebbe essere a sua volta negato da un suo ulteriore  sviluppo?   Tale obbiezione e la relativa risposta hanno in questo caso  un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso  radicale della verità e il linguaggio che lo indica. I molti  significati della parola «verità», comunque, non tolgono di  mezzo la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui    171    contenuto è l’assolutamente non smentibile e  incontrovertibile - il destino della verità, appunto - e tutti gli  altri sensi, nei quali, alla luce della verità così intesa, le diverse  forme di «verità» appaiono invece come sapere il cui  contenuto non è qualcosa che non possa essere in qualche  modo negato. «Saperi», si è detto (si pensi ad esempio alle  espressioni «verità morale», «verità dell’arte», «verità della  fede», «verità del cuore», ecc.), ma anche intuizioni,  emozioni, certezze, fedi, impulsi profondi, desideri, costumi,  tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del  contenuto dell’«incontrovertibile», ossia del «non poter essere  altrimenti» (secondo la definizione aristotelica): il contenuto  che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come  «verità» (« epistéme della verità») non è riuscito a essere  l’assolutamente incontrovertibile. Rispetto   all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose  che differisca da esso è un modo del «controvertibile», cioè  tien stretto un mondo che d’altra parte può sottrarsi alla  stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e  nobile o per quanto profondo e preteso dalle viscere e dal  cuore. L’incontrovertibile autentico è il destino-, e la struttura  originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme  pianura infinita del destino. Nella sua essenza autentica  l’uomo - ogni uomo - ne è l’eterno apparire (e tale  affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella  multiforme infinità).   La risposta all’obbiezione che si sta considerando in questo  e nel precedente paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e  «terra». Nel destino appare la «terra» - ossia tutto ciò che  sopraggiunge nell’eterno apparire del destino ma appare nel  suo esser isolata dal destino, appare cioè come il luogo  originario del controvertibile - ossia del credere-volere -  interpretare. AH’interno della terra isolata si crede inoltre che    172     il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra (lo si  crede, senza poter sapere che sono le cose - umane e divine  della terra isolata dal destino).   E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra  isolata anche il linguaggio che testimonia il destino riesce ad  affacciarsi; e appare che non è impossibile che tale linguaggio  sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle  interpretazioni del mondo che crescono e dominano  alfinterno dell’isolamento della terra - le negazioni più  perentorie dei tratti del destino. Quella forma di  testimonianza del destino che sono i «miei scritti» sono eventi  della terra isolata, che nello sguardo del destino appaiono  alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce  l’isolamento della terra - appaiono all’interno dello  sconfinato contenuto dell’isolamento.   L’obbiezione che si sta prendendo in considerazione è una  voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la  testimonianza del destino sia uno sviluppo dove il linguaggio  giunge a dire qualcosa che prima negava è un presupposto  controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in  quanto configurantesi così come attualmente si configura -  potrebbe venire a mostrarsi come incontrovertibile: quella  configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte  le più incrollabili certezze della «vita» (che appaiono tutte  nella terra isolata) - tutte le forme del controvertibile - sono  alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione  consiste appunto nel rilevare che tale obbiezione non solo è  un presupposto controvertibile, ma si costituisce all’interno di  quella forma estrema dell’alienazione della verità che è  l’isolamento della terra.   In relazione allo sviluppo del mio discorso filosofico -  quale appare all’interno della terra isolata - dell’intera storia    173     isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che  conducono da La struttura originaria (1958) a La morte e la  terra (Adelphi 2011), e nelle quali, tuttavia, il centro di quello  scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto  innanzi già qualche anno prima). Nel tragitto, la «svolta» (così  è stata chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza,  per un verso, che quel centro richiede la messa in questione  dell’intera storia dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione  dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso  autentico della verità ) che domina tale storia lascia per un  certo tempo le sue tracce anche neìYalone che nei miei scritti  avvolge quel centro.   L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi  anche il cristianesimo. Ma anche il «cristianesimo», come  ogni altro evento «storico», appare all’interno  dell’interpretare secondo cui si costituisce la terra isolata dal  destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli  uomini abbiano una «fede cristiana» è cioè il contenuto di  una fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra.  Nello sguardo del destino non è invece il contenuto di una  fede l’esistenza di quella fede e dell’interpretare che compete  all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che  chiamiamo «la nostra vita» è contenuto della fede  interpretante. (Appare aH’interno di quella fede anche l’intera  vicenda che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio  libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001. Questo  «scontro», che appare all’interno della fede della terra isolata,  sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e  quella grandiosa forma dell’alienazione della verità che è il  cristianesimo e la sua configurazione storico-istituzionale, ma  tale «scontro» è, innanzitutto e propriamente, la negazione,  da parte del destino della verità, della «verità» di ogni  contenuto della terra isolata - e quindi anche del cristianesimo, in quanto appartenente a tale contenuto.)    175     5. Il destino e l’errare   Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando  voglia, abbia la facoltà di interpretarlo. Anche gli uomini e i  loro rapporti appartengono infatti al contenuto  dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà  interpretante, non è a disposizione dell’uomo, ma dispone  l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa  stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma  l’interpretazione non è verità: è fede, volontà, ossia errare. Il  mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare.   Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità.  Non delle verità del mondo - che sono a loro volta form  e  particolari di interpretazione -, ma di ciò che nei miei scritti è  chiamato «destino della verità», o semplicemente «destino».  L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino.  La «terra isolata» è ciò che appare in questa separazione.  Anche le teorie dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del  nostro tempo, appartengono alla terra isolata.   L’interpretazione, che evoca i propri contenuti sul  fondamento di regole e di criteri (di cui essa è più o meno  consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di  regole e di criteri in base ai quali essa può affermare che  l’uomo esiste come molteplicità di individui umani e che gli  uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un  diverso grado di coerenza rispetto alle regole e ai criteri  adottati. Ma anche e innanzitutto il destino della verità vede  la differente coerenza delle interpretazioni evocate  dall’interpretazione originaria. Che la «storia» dell’«uomo» sia  storia del mortale, cioè della fede che, in modi estremamente  diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso diventano altro da  ciò che essi sono e quindi muoiono via via ciò che sono stati,  fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è una interpretazione; che però si presenta come la più  «coerente», sino ad ora, rispetto a ogni altra interpretazione di  quella «storia» (la cui stessa esistenza è un contenuto  interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito  a una svolta radicale delle discipline storiche, linguistiche,  antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova  forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai  creduto che le cose siano un diventar altro.   Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione  «più coerente» è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore  coerenza, per la quale i diversi modi di pensare e di vivere il  diventar altro delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più  coerente a sé stesso, lungo il percorso che conduce  dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla  «verità» e, in seguito, dalla distruzione della «verità» (ossia  della «verità» che appartiene alla terra isolata) alla civiltà della  tecnica.   Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove  YErrare estremo perviene alla propria estrema coerenza; ma è  anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e  dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar  sempre più coerente alla fede nel diventar altro, dalla quale  tale percorso si sprigiona. Non potendo sapere di essere  l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più  coerente (e, dal suo punto di vista, sempre più «vera») la  propria fede nel diventar altro, che all’inizio della storia  dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come  convinzione che le cose del mondo, corruttibili, escono dal  loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché  questa convinzione - se il linguaggio si libera  daH’incantesimo della terra isolata - è convinzione che  l’essente in quanto essente sia niente, la storia dell’Occidente è  storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da    177     quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto,  l’intera storia della filosofia si costituisce il proprio costituirsi  come sistema : non in senso hegeliano, come sistema della  «Verità», ma come sistema dell’Errare.   Il compito gigantesco da cui è atteso il linguaggio che sul  fondamento del destino mostra il nichilismo dell’Occidente è  di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega  l’Occidente l’analisi in cui appare il suo carattere di sistema :  allargarla alla dimensione religiosa, artistica, economica,  politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e  delle res gestae, oltre che, appunto, a quella delle diverse  forme della scienza in quanto sapere della natura e dell’uomo  e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste  dimensioni è possibile scorgere il percorso che rende sempre  più coerente e visibile il nichilismo che in modo specifico le  avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La  dimensione filosofica del nichilismo anima tutti gli altri  luoghi dell’Occidente e ormai del pianeta - e tanto più quanto  più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione  analitica del suo articolarsi dev’esser data la precedenza.   Per indicare l’Errare è necessario esserne al di fuori: solo in  quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa  può apparire come l’Errare - che d’altra parte non è qualcosa  di accidentale rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del  nichilismo non è una semplice «confutazione» di un errore  che, esercitando una maggior attenzione e perspicacia, si  sarebbe potuto evitare. La grandezza della verità richiede la  grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza  delle configurazioni storiche del pensiero filosofico, per la  loro inevitabilità - cioè per la loro capacità di andar oltre le  forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché  sono queste stesse forme a richiedere di essere oltrepassate  senza peraltro riuscire a soddisfare questo loro intento più    178     profondo, è un modo di pensare la filosofia che troppo presto  è stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva  abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è già  detto), si dovrà comunque distinguere il senso che  l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto  considerato alfinterno della logica dell’Errare e il senso di tale  inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino.   Al culmine della propria coerenza - e dunque  nell’incombere della propria distruzione - il nichilismo si  presenta come civiltà della tecnica.   Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è  infatti il suo carattere scientifico-matematico (che peraltro,  oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una  concettualità più potente - anche se questa insostituibilità è  una situazione di fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie  spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è la  messa in opera del rapporto mezzo-fine: l’organizzazione di  mezzi in vista della produzione di scopi, e propriamente di  quello scopo che è l’incremento indefinito della capacità di  produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica -  se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo,  costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la  potenza suprema, tale qualcosa sarebbe la tecnica autentica,  cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e  usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di  servirsi di essa come mezzo, ma si serve anche di sé stessa o di  una dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine  di quell’illusione), che qualcosa si serva della tecnica significa  che la tecnica, ossia ciò che oggi si presenta come la forma più  potente del divenire, si serve e usa sé stessa o una sua  dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere  all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa  volontà è la forma «trascendentale» del divenire, che servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme  particolari, «empiriche» del divenire. Detto in modo  sommario: si serve di sé, in quanto potenza massima  attualmente realizzata, per produrre sé in quanto potenza  ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si  serve e usa anche le forme di volontà di potenza che credono  ancora di poter guidare la tecnica (e lo credono nella misura  in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce  dell’essenza, peraltro tendenzialmente nascosta, del pensiero  filosofico del nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni  limite assoluto alla volontà di accrescere la propria capacità di  realizzare scopi). La tecnica - che può essere mezzo solo in  quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del  divenire - è ormai la forma fondamentale del divenire,  rispetto alla quale il divenire «naturale» si presenta come  routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo.  La civiltà della tecnica è, così, il culmine della coerenza del  nichilismo (anche se ancora resta da esplorare, da un lato, il  rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche  intendono la forma trascendentale della volontà che si fa  avanti alla fine dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto  tra questi modi e l’attualismo gentiliano). L’anima dell’Occidente: la persuasione che le cose e gli  eventi - gli essenti - escano dal niente e si annientino.   Ciò significa che annientati sono niente, e che prima di  uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione è la  Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel  mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un  essente, un no n-niente, divenendo, sia, in quanto essente,  niente (come passato e come futuro). In forme diverse, la  Follia domina la storia della terra, ma al di fuori della Follia  appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni evento,  di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato  del mondo. Il «mantenersi al di fuori della Follia essenziale»  non è una semplice fede, un mito, un desiderio vano, un dono  divino, una «filosofia», e non è nemmeno un atteggiamento  scientifico: non perché non riesca a raggiungere il rigore delle  scienze della natura e delle scienze logico-matematiche, ma  perché, nel suo significato autentico, il «mantenersi al di fuori  della Follia» ha un «rigore», un’«incontrovertibilità», una  «stabilità», e dunque una «verità» e «necessità»  essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere  scientifico, e a ogni altra forma di «sapere» e di «coscienza».   La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la  coscienza critica del nostro tempo è conseguenza inevitabile  della persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè  possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare,  nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella  conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire,  al pensiero che si mantiene nella Non-Follia, di essere la  verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni «verità»  e «necessità» della conoscenza scientifica, e di ogni altra  forma di conoscenza. «Destino della necessità» si può chiamare questo senso estremo della verità e della necessità,  che si mantiene eternamente presso di sé.   Il destino della necessità è l’essenza autentica dell’uomo:  come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente  altro dall’essere un che di effimero, preda del tempo e del  nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un  Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno  che accoglie la terra, ossia tutto ciò che sopraggiunge - e tutto  ciò che sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale  appartengono non solo gli «individui umani», ma la stessa  Follia essenziale, cioè la stessa fede che gli essenti possano  uscire dal niente e ritornarvi.   Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano «storia  del mondo e dell’universo» il sopraggiungere degli eterni,  ossia la terra. Al di fuori della Follia, la storia del mondo e  dell’universo non è la produzione e la distruzione degli  essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti, cioè  degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli  eterni, è un evento interno al cerchio eterno dell’apparire  degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte non travolge e  non disperde l’uomo, ma è l’uomo a comprenderla in sé  stesso come parte della totalità in cui egli consiste.   Da sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della  verità del destino. La terra sopraggiunge nel cerchio del  destino - che dunque è una dimensione finita.   L’uomo è sì l’apparire infinito del destino della verità, ossia  l’apparire di tutto ciò che è, nella sua verità assoluta - e  dunque è l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché  (appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma  l’infinito rimane l’inconscio del finito: nell’uomo, in quanto  luce finita del cerchio del destino, l’eterna luce infinita è  destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra,    182     in quel cerchio.   Come eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del  finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio  dell’uomo, in cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito.   Ma che ne sanno, intanto, gli «individui umani» - o i  «popoli» - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità,  ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena  luce e parlano soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra  appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la  potenza di trasformare e dominare cose ed eventi. «Due  anime abitano nel nostro petto»: l’apparire del destino della  verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in  cui crediamo di vivere - il mondo del dolore e della morte - è  il volto che la terra viene a mostrare nel suo essere così  separata e isolata.   Ma intanto, prima del tramonto della Follia l’uomo è  rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente  di più di quel che crede di essere. Rattrappito, perfino quando  crede di essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia  immortale o che anche il suo corpo possa risorgere.   È rattrappito anche nei suoi desideri: non perché debba  desiderare di più, ma perché l’uomo desidera quando non è  consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità  che tale ricchezza gli si faccia innanzi lungo un percorso a sua  volta infinito al quale, dunque, si addice la parola «Gloria». E,  tutto questo, non certo perché sia io o tu o un popolo o un  Dio a dirlo, ma perché appare, non smentibile, nel più  profondo di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre  qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser uomo.   L’isolamento della terra dal destino della verità è il  fondamento, la radice più profonda della Follia essenziale.  L’isolamento della terra non è una «colpa», una «decisione»    183     dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto  cerchio finito del destino. Solo all’interno della terra isolata  può apparire qualcosa come «individuo umano», «popolo»,  «società». Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi,  nell’apparire, la Follia essenziale e la storia dell’Occidente, che  è ormai storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà  della tecnica.   Quali sentieri la terra è destinata a percorrere nel cerchio  finito dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è  insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali  spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi in quel cerchio  durante la «vita» e dopo la «morte» - che, comunque, non  può essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via  via apparendo?   Nella sua essenza autentica l’uomo non solo è l’eterno  apparire degli eterni e degli eterni della terra, ma è la luce che  si allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che  ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni configurazione della  terra) è destinato a essere oltrepassato dal sopraggiungere,  nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della  terra - che tuttora domina i pensieri e le azioni dei mortali - è  destinato al tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile,  è destinata a mostrarsi libera dal contrasto con la terra isolata.  L’essenza autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli  eterni, che si allarga senza fine, è la Gloria dell’uomo.   L’uomo è destinato a questo rapporto tra la Gioia e la  Gloria - che dunque non è un premio concesso a chi abbia  usato «bene» la propria «volontà libera» -. È necessità che,  dopo il tramonto dell’isolamento della terra - e dunque dopo  il tramonto della «vita» e della «morte», della «volontà» e  dell’«abulia» - l’uomo sia l’inesauribile apparire della libertà  della Gloria dalla terra isolata. Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò che nel  cerchio dell’apparire è oltrepassato è insieme totalmente  conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente  è anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente  conservato nel cerchio delfapparire, il suo oltrepassamento  sarebbe una semplice immagine, un’astratta rappresentazione  (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001).   Poiché la «Gloria» - il dispiegamento infinito degli eterni  nel cerchio finito delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un  verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare questa «mia»  fede di essere una forza, «individuo» capace di trasformare  consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il  dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro cerchio, degli  infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è destinata cioè a  sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita dell’umano  e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e  sarà isolata. Questo è il «venerdì» santo che precede la  «pasqua» della terra libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo:  Nonne oportuit haec pati Christum et ita intrare in gloriam  suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la terra per  prendere su di sé il dolore del mondo, egli «vuole» qualcosa  che invece è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire,  e il cui accadimento è richiesto con necessità dalla  destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet haec pati in   Gloria - e nella Gioia. Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del  mondo. Dialogo con Emanuele Severino, Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di  Emanuele Severino, ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele  Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla,   Mimesis 2011. A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria  (La Scuola) - e in generale la prima fase del mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche  perché, a suo avviso, essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece  sottolineare quanto del nichilismo permanga in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e,  questo, per valorizzare il modo in cui gli scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa    185    anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane in quella prima fase e  tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo, compiuto appunto in tale fase, che è  quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri. Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a  essere uno dei più grandi poeti sono anche uno dei più grandi  filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio  perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in  me così grande la poesia...   Ma... c’è anche dell’altro...   Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è molto! - non ti può  bastare... e non certo perché tu sia insaziabile...   E. Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della  tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo Corteo lo vede  fermarsi (o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato  da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro  tempo: la civiltà della «morte di Dio», come Nietzsche si  esprime, la civiltà della tecnica... Non è così?...   I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta  non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la  più gran questione, a partire dai Greci, è il senso della  «verità»... Quanto al semplice dire, anche i bambini sono  capaci oggi di dire che Dio è morto...   E. ... e tu credi invece che si possa sapere il vero perché di  questa morte!   I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo capire...   E. Lo so... Perché poi, a tuo avviso, tutti e due quei Cortei  di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti  da una stessa cadenza... o, se preferite, dalla stessa Anima...  Come se la loro marcia fosse scandita dallo stesso Canto...  (che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e  per te quest’Anima e questo Canto li accomuna più di quanto    188    la loro inimicizia li divida...: come se celebrassero un rito  comune... che però è inviso al Cielo... (chiamiamolo così).   I. Sì... purché ci si intenda sulla parola «Cielo»... Non la  uso mai... ma forse, in questo nostro veloce colloquio  potrebbe servirci...   E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare il  riconoscimento che tu dai della mia grandezza poetica e  filosofica! Ti sembra che mi ci trovi bene alla testa di un  Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un  altro ancora più potente, ma che insieme a quest’altro non  ottiene il favore del Cielo?   L Dipende da questo «Cielo» che le cose vadano così. Cioè  né da me né da te... Ma, intanto, su questo possiamo esser  d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere  il cielo di Dio (non si dice che Dio sta «nell’alto dei cieli»?)...  ma nemmeno essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo  al soffitto delle loro case...   Non credo che avremo tempo di parlare del significato del  «Cielo» inaudito al quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo  dire questo...   E. Certo!   E ... che se non ottenere il favore del «Cielo» significa  essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso come la verità...  Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di  cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso in cui quell’altro  grande che è Emanuele Kant osservava che senza la resistenza  dell’aria le colombe non potrebbero volare...   E. ... Intanto siamo al mio «Cielo»: il «Cielo» di Dio... che  d’altronde non è nemmeno il cielo di Cristo... e non solo  perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato...   L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue parole - «con un sapere  che sta e non si lascia smentire»; e questo sapere non può    189      essere la fede cristiana né alcun’altra fede. Avvolto nello  splendore della tua poesia, è tuttavia il «Dio dei filosofi» e tu  sei stato uno dei primi re del pensiero ad affermarlo. La  grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa  che da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli  amanti della poesia ma ha fatto perdere di vista che lì stava  nascendo la filosofìa, la più grande delle avventure del  mortale...   E. Di solito, quando si dice «Dio dei filosofi» si pronuncia  questa espressione con un accento di più o meno larvato  rimprovero, mentre il volto e la voce si rischiarano, quando a  codesto Dio si contrappone il «Dio di Abramo, di Isacco e di  Giacobbe» e, soprattutto, il Dio di Gesù...   I. Ma il rischiararsi di quei volti e di quelle voci è poca cosa  rispetto al chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al «sapere  che sta e non si lascia smentire»!   E. È il chiarore della filosofia. Quando pronuncio  l’espressione phrenòn tò pàn intendo parlare del «culmine  della sapienza»... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci  eravamo in procinto di chiamare «filosofia». E il «culmine  della sapienza» è il «sapere che non si lascia smentire»...  Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei,  «nella luce», nel vero chiarore...   I. Sì, nella tua lingua «luce» si dice phàos e la parola  «filosofia» contiene le parola sophia... che è costruita sulla  parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce...   E. ... Certo: quel «so» di so-phia è un prefisso che rafforza,  intensifica e, appunto rende grande il significato della parola  da cui è seguito, cioè, in questo caso, il significato della parola  phàos.   I. ... e quindi si deve dire che philo-sophia significa «aver  cura per ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce»... La cura per qualcosa che è essenzialmente più radicale del  rigore del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede.   E. ... e che per questo, ma solo per questo, può essere detto  «sapienza»...   Forse ora si potrebbe incominciare a capire ciò che tu  affermi del modo in cui io intendo la «sapienza»: quel che sta  al culmine della luce è «il sapere che sta e non si lascia  smentire»...   L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per  tradurre quel che tu esprimi rapidamente quando affermi di  rivolgerti a Dio...   E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio pant’epistathmómenos ... che  tradotto alla lettera nella vostra lingua significa «ponderando  bene tutte le cose»... Ma tradotto così alla lettera dice ben  poco... Se si è capaci di scendere nel senso profondo di queste  mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu  ti sei messo... In esse risuona una grande parola: la parola  epistéme che alla lettera vien tradotta con la parola «scienza»,  ma che nel suo significato originario significa «lo stare» (-  stéme), dove lo stante non si lascia scuotere dalle forze che  vorrebbero scuoterlo, abbatterlo e smentirlo.   I. Ti ringrazio per quanto hai detto di me... A questo punto  sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel  tuo «Inno a Zeus» - l’«Inno a Dio» - che, parlando del  culmine della sapienza, sta esso al culmine della sapienza che  guida la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto  in cui compare la rapida e potente espressione che ho tradotto  con «il sapere che sta e non si lascia smentire»...   E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua,  ma nella traduzione che tu nei hai dato, e con qualche  ritocco...   «Se il dolore, che getta nella follia, dev’essere cacciato    191     dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un  sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che  a Zeus [...] che ha vinto tre volte».   Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua  vittoria perviene al culmine della sapienza.   Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il  sapere acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno,  goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora,  anche senza che lo vogliano, sopraggiunge nei mortali un  sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono  potenti sul sacro seggio di Zeus.   I. Quanto tempo occorrerebbe per portare alla luce la  grandezza di queste parole!... Bisognerebbe mostrare,  innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo,  chiama «Dio»... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere...   E. Zeus «ha vinto tre volte»: ha vinto per sempre la propria  mente... quindi è il «totalmente essente», come tu hai  tradotto l’espressione pantelés, che compare nella mia  tragedia Le supplici ...   I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che tu incominci a  intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a  pensare quel significato radicale del nulla che prima di  Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto nell’ombra... e  portandolo alla luce avete fatto sì che gli uomini  incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da  prima: nel modo estremo e più terribile...   E. Morire sapendo di andare nel nulla dal quale «non c’è  ritorno» è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla  morte di chi, la morte, non la può vedere legata al nulla  perché ancora non sa nulla del nulla...   I. All’estremo opposto di Zeus che «ha vinto per sempre» la  propria morte e per questo è «totalmente essente», c’è il panóles, la parola con la quale tu indichi Tesser totalmente  distrutto» di chi è spinto nel nulla dalla morte...   E. Eppure... eppure nel mio «Inno a Zeus» dico che «il  dolore che getta nella follia deve essere cacciato dalVanimo con  verità»...! e il dolore getta nella follia quando lo si patisce  come messaggero della morte!... Nel mio Inno io indico  anche il «Rimedio»!... il Rimedio contro la follia in cui getta  l’angoscia della morte!... il «Sommo Rimedio»!   I. Sì, tu hai indicato il «Rimedio»... Di più: alTinterno della  storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a chiare   lettere... Di più ancora! Il tuo «Rimedio» è il Riparo sotto il  quale si sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia  dell’Occidente... e si semplificano troppo le cose dicendo che  il tuo Rimedio è Dio!...   E. Certo, si semplificano troppo, perché anche nel mio  Inno dico che... «con verità» è necessario cacciare la follia del  dolore... «con verità»!... cioè con un «sapere che sta e non si  lascia smentire»... e questo sapere non può essere nessuna  sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno  quella che per chi è venuto dopo di me è stata la fede cristiana  o la fede nella tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti,  cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e della fede, non è  forse il mio Prometeo, a urlare: «La tecnica è troppo più  debole della Necessità»? Sono io a pronunciarle, queste  parole, perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta  alTinterno del «sapere che sta e non si lascia smentire», e che  nel mio Inno chiamo sophronéin, cioè «sapere che salva»,  come tu hai tradotto...   L Siamo al centro del tuo pensiero e del pensiero della  tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno  lo metti in piena luce.   E. «Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il    193     sapere acquisti potenza sul dolore» e questo è il sapere che sta  e non si lascia smentire.   I. Ha in mente te e gli altri grandi filosofi greci, Gesù,  quando dice: «La verità vi farà liberi»! Liberi da che cosa se  non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...?   E. ... solo che in lui la verità è ormai diventata la verità  della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è lui a  rivelarlo...   I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri da  sé stesso di non poter essere smentito...   E. Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni...   L ... si tratta di aver cura per la luce che non inganni e della  potenza che può essere suprema, divina, supremamente  liberatrice solo in quanto essa appaia in questa luce...   E. «Saldi rimedi»; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla  fine della mia Orestea... Su questo pensiero la filosofia si è  curvata per millenni...   L ... e si è spezzata... e questo è insieme lo spezzarsi  dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del  mondo...   E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui  parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità  liberatrice, del divino...   L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove invece si scorge  l’inesistenza di ogni «Rimedio», di ogni «Riparo» dalla nullità  dell’uomo.   E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i  mortali sporgono provvisoriamente dal nulla, ma ha anche  pensato che dall’angoscia in cui spinge il pensiero della nostra  nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non  smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la    194     morte e in cui in qualche modo restano salvate dal nulla tutte  le cose mortali...   I. ... ma una volta che il tuo Corteo ha evocato il canto  terribile della nullità delle cose era inevitabile che il  controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal  nulla si rivelasse senza forza e si spegnesse, e si facesse innanzi  l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo  stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio legittimo del tuo: l’Inno  del nulla, della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è  inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da quest’altro...   E. ... ma tu dici anche questa inevitabilità non è a portata  di mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il  mondo debba essere guidato da loro...   I. Sì, lo «credono»... si illudono... perché sotto la cenere di  Dio c’è il fuoco del nulla. Leopardi canta così:    ... a noi presso la culla  immoto siede, e su la tomba, il nulla   e questo canto finisci col sentirlo anche al di sotto delle voci  delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica...   E. ... che tenta di allontanare il più possibile il dolore e la  morte.   L La tua sentenza che «la tecnica è troppo più debole della  Necessità» deve essere rovesciata: oggi appare che la Necessità  è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa  (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se la tecnica stessa  che è molto più forte è poi del tutto impotente rispetto al  nulla che attende ogni cosa!   E. Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due  Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato all’inizio!). Mi sembra  che tu voglia dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla,  e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo cantato di poter    195     cantare anche quello a Zeus...   I. Sì, ma ora è tempo che il nostro colloquio si concluda...   E. ... e sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due  gli Inni non riescano a ottenere il favore di quel Cielo di cui  parli tu e che sarebbe abissalmente diverso sia da quello degli  amici sia da quello dei nemici di Dio...   L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci...   E. ... e in quel Cielo appare la Necessità autentica, non  quella che si fa vincere dalla tecnica, ma la Necessità che tutto  sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni  vicenda, anche i due Cortei, e anche i due Inni...   I. ... questo Cielo non è una dottrina che passi dalla testa di  uno a quella degli altri.   E. ... risplende in ognuno di noi anche quando non ce ne  accorgiamo...   I. Ti ringrazio di aver accennato a queste cose..   E. ... arrivederci, allora!   I. Arrivederci!    196     2. Parmenide 1   Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li chiami «mortali».  Della loro mente dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a  lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante».  Non è sbagliato - purché si sappia che cosa spinge la loro  mente a errare.   Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare perché credono  che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal  nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio  Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello che voi chiamate  «frammento 8».   I. Ma quando dici che la mente dei mortali è plaktón rendi  ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da  questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei  mortali (fr. 6), prima ancora che «errante», significa «colpita».  E chi è colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e  nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere  ciò che si vuole. Quando ciò accade si è preda del dolore, e  allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La  mente dei mortali è «errante» perché è «colpita». È colpita  dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E,  preda di questa convinzione, patisce.   P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa  impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal  dolore quando non si segue - così lo chiamo - il «sentiero  della Verità». Amechame indica l’assenza di mechané, ossia  della «macchina» (nel senso originario di questa parola), ossia  del «mezzo» che consente di liberarsi dall’impotenza  angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante  dei mortali dice infatti: «Nei loro petti un’impotenza  angosciata governa la mente colpita ed errante».   I. Dunque tu dici che credendo nell’esistenza della nascita e    197    della morte, nell’essere e non essere di ciò che è, la mente dei  mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... !   P. ... e che da questa «Notte» si esce andando «verso la  luce» della Verità.   I. Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima  di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu  stai indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un  celebre filosofo della scienza ha sostenuto non molto tempo fa  che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna  che è la fisica e che tutti i grandi fisici del nostro tempo sono  stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel che ha  detto di te: «Venerando e terribile», l’espressione che Omero  riferiva agli dèi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un  grande dio bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai...   P. Sentirò che cosa intendi dire.   I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto stavamo dicendo  prima della mia digressione. Quando parli dei mortali dalla  mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e  dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu dici, sono «ottusi»,  «accecati», «storditi». E sostieni che è necessario cacciare via  dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli.   P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso la Verità,  accompagnato dalle «Figlie del Sole», e mi sono lasciato alle  spalle le «case della Notte», le case di quell’impotenza.   I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a  Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: «È necessario cacciar via  dalla mente, con verità, il dolore che rende folli».   P. Sì, son proprio le sue parole...   I. ... e anche le tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e  lui phrontìs; e il dolore che rende folli tu lo chiami amechame,  mentre lui lo chiama àchthos. Ma quell’affermazione di  Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della filosofia -    198     anzi, sono questa nascita.   P. Sì, la filosofia è il «sentiero della Verità». Se lo si percorre  si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa  impotenza che la rende folle.   I. Anche prima della filosofia ciò che i mortali vogliono  sopra ogni altra cosa è riuscire a vincere il dolore e la morte.  Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi  credono nell’esistenza delle potenze demoniche e divine della  terra e del cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma,  appunto, credono, hanno opinioni, si illudono e nutrono  «cieche speranze» (anche queste sono parole di Eschilo), la  loro è una salvezza sognata.   P. Sì, per uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera  salvezza, è necessario che la Verità venga incontro e si mostri  all’uomo, e mostri in che consista la vera Potenza. Ma l’uomo  può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità.  Questo è il culmine della sapienza.   I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo punto  ricordiamo che per Aristotele la filosofia nasce dalla  «meraviglia». Con questa parola si traduce solitamente il  termine greco thàuma. Ma è una traduzione che porta fuori  strada. Basta tener presente, per giustificare questa mia  affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito  (l’«amante del mito», philómythos) «è in certo qual modo  filosofo», perché anch’egli è preso dalle reti di thàuma. Ora, è  ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia  l’esangue sentimento della «meraviglia» a esser capace di far  rivolgere l’uomo e di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze  che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare  contro l’immane sorpresa del dolore e della morte. Thàuma è  l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa impotenza.   P. Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che    199     la filosofia conduce «nello stato contrario» a quello da cui essa  procede. Il viaggio che descrivo all’inizio del mio Poema  conduce anch’esso allo stato contrario: dalla «Notte»  delYamechame al «Giorno» della Verità, «dove il mio animo  vuol pervenire» (fr. 1, v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a  cui la filosofia conduce, è per Aristotele la felicità, per quel  tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza.   I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il pensiero che  stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque  della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che  importa una salvezza se non è vera? E una virtù, una sapienza,  una potenza che non siano vere? È un amore per il divino se  l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per  primi con te filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile:  aver capito che l’avventura più alta dell’uomo consiste nel  portare alla luce il senso della Verità.   P. I più pensano ad altro. Lo dice anche Eraclito: «I molti  vivono come avendo una loro propria saggezza» (fr. 2), che è  del tutto estranea alla Verità di tutte le cose.   I. «Tutte le cose»! Il Tutto! Tu e quel coro di dèi che voi  siete - voi, i primi pensatori greci per la prima volta sulla  terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento  infinitamente più decisivo di quello in cui, come si racconta,  l’uomo si è rizzato sulle gambe e ha incominciato a guardare  il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il  Tutto rispetto al cielo stellato.   P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è necessariamente richiesto  dal senso della Verità. Infatti il «cuore» della Verità «non  trema» (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il  cuore di tutto ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il  cuore non tremante della Verità non può esser negato né da  uomini né da dèi. Proprio per questo la Verità non può essere la verità di  una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe esposta al pericolo  che dalle altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di  smentire la «verità» di quella parte - la verità, cioè di  dimensione particolare dell’essere -, e il cuore della verità non  cesserebbe mai di tremare.   P. Questo è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto  non è «divisibile», ossia non ha parti.   I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco.  Ora vorrei aggiungere che la Verità non può essere negata né  da uomini né da dèi, non perché per ora essi non siano capaci  di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano  potrebbero diventarne capaci...   P. ... ma perché è impossibile che lo diventino.   I. Solo che è questo «impossibile» a dover render conto,  ora, del proprio significato. Da questa «impossibilità» dipende  infatti 1’esistenza di un cuore non tremante della Verità.   P. Infatti, il Tutto è «ciò che è», «l’essente» (tò eón). E al  centro del mio Poema sta questa affermazione: «È impossibile  dire o pensare che Tessente non sia». L’impossibile è appunto  questo: che Tessente (ciò che è) non sia.   I. E qui tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi  sembra che tu voglia anche affermare che l’«impossibile» non  ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal  significato dell’espressione «Tessente non è»; ma che  «impossibile» significa proprio questo: «il non essere  dell’essente». O almeno mi sembra che nel tuo Poema le cose  vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo  dire che è impossibile che Tessente (il Tutto) non sia. Tu hai  l’audacia di affermare che ciò che è, è «ingenerato»,  «imperituro», eterno dunque. E non è un’audacia avventata,  ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che son    201     venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne  sono rese conto e ancora per molto continueranno a non  rendersene conto.   P. Ma non ci sono quelle due affermazioni che tu hai  lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che  io sarei un grande dio bifronte; e, la seconda, la tua riserva -  almeno così mi è sembrata - a proposito della mia tesi che il  Tutto - Tessente - non è «divisibile», cioè non ha parti.   I. Andando avanti per questa strada - tu lo sai bene - ci  avviamo verso una regione impervia e insieme grandiosa, che  in questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare  da lontano. Si tratta, ancora una volta, di capire che cosa  significa «essente».   P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con potenza mirabile  perché io escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa  sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un  «parricidio», come lui dice, nei confronti del mio pensiero,  cioè ha mostrato che Tessente è necessariamente molteplice,  ossia ha parti.   I. Diciamolo, intanto, che cosa significa che Tessente non  ha parti.   P. Significa che il mondo, in apparenza ricchissimo di parti  nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti,  non può essere Verità. Nel mondo, «Tocchio non vede»,  «l’orecchio è stordito», «la lingua straparla». Le cose del  mondo sono soltanto «opinioni dei mortali, a cui non  compete alcuna vera convinzione». Sono illusioni. Sono  soltanto «nomi». Dicevo all’inizio che i mortali sono spinti a  errare anche perché credono che nascita e morte siano verità.  Ma come è illusione la falsa ricchezza delle molte cose, così è  illusione la nascita e la morte.   I. E Platone mostra perché tu neghi che Tessente abbia parti    202     (terra, cielo, piante, animali): perché, se le avesse, ognuna  dovrebbe differire dall’essente. Infatti «cielo» (o «casa» o  altro) non significa «essente», cioè non è essente, e il non  essente non può essere. Quindi le molte cose del mondo non  sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del  mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici, come è necessario  che Tessente sia, così è necessario che il nulla non sia.   P. «Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che  non sono siano.» So che, secondo alcuni, io non avrei negato  la molteplicità delle cose. Ma se fosse così dovremmo dire che  pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano  letteralmente capito quello che ho detto.   I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da tempo che non è  stata capita la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare  che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non  si è capito quel che il tuo Poema ha esplicitamente affermato.   P. Tu hai scritto anche più volte che il mio pensiero può  sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi  più vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il  buddhismo, dico anch’io che il mondo è illusione - maya,  dice l’Oriente. Ma quale differenza!   I. Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi  analoghe a quelle che si leggono nel tuo Poema, ma, separate  dalla cura per la Verità, separate dal perché le si afferma, esse  non sono filosofia, ma miti.   P. Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos.  Poi rileggerà i propri pensieri - il cui splendore è indiscutibile  - alla luce dei nostri.   I. D’altra parte, proprio perché il tuo discorso  sulTimpossibilità che Tessente abbia parti è ben  comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone,  che mostra, all’opposto, la necessità che Tessente sia molteplice; e lo mostra portando alla luce un principio che  resterà alla base dell’intero sviluppo dell’Occidente -  dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale.   P. Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è  una molteplicità di essenti...   I. ... l’affermazione che il mondo esiste...   P. ... non implica, come invece io sostengo, che le cose che  non sono siano...   I. ... cioè non implica che il nulla sia.   P. Di questo gran passo di Platone parleremo un’altra  volta...   I. D’accordo, qui vorrei allora restare alTinterno del tuo  discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la  mia «riserva», invitandomi a non dimenticarla. I mortali, tu  dici, vivono nell’«opinione» ( dóxa ), che è illusoria: credono  che esista la molteplicità delle cose e la loro generazione e  corruzione.   P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se  non esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li  fa errare lontani dalla Verità, li «colpisce» e li fa sprofondare  nell’ amechanie.   I. Ma tutto questo significa che, per te, l’opinione illusoria e  Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono, esistono, non sono  un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a essere, ma anche  il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto, quando dici  che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire  che, dunque, è nulla...   P. ... e allora tu mi stai obbiettando che dunque, ciò che è,  Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che  vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo dell’illusione, che  poi è a sua volta costituito dalle molte cose illusorie che sono soltanto «nomi» - e, anche qui, tu diresti che per me i molti  nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io  stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che  invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai  «nomi» che per i mortali sono cose, ci sono le parole che nel  mio Poema indicano la Verità e si distinguono le une dalle  altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti  per il fatto che sono molte...   ... Ma a questo punto puoi andare avanti e dirmi perché,  prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi pare di  aver capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui  sarei bifronte già per il fatto di affermare implicitamente  quella molteplicità delle cose che invece esplicitamente nego.   I. Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non  abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più conta dovremo  quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il  senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto  all’essenza autentica del nichilismo, ossia dell’anima e del  fondamento dell’intera storia dell’Occidente e, ormai,  dell’intero pianeta.   P. Se questo è il tema, allora so quel che sostieni. Tu dici  che io sono colui che indica il «Sentiero del Giorno» e,  contemporaneamente, spinge verso il «Sentiero della Notte»:  colui che indica che cosa sia veramente il nichilismo e quale  sia il senso autentico della sua negazione, ma che, insieme,  apre la strada che conduce nel baratro del nichilismo.   I. L’essenza del nichilismo è infatti affermare che ciò che è  non sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli  uomini e ogni devastazione della terra sono possibili perché,  innanzitutto, si crede che ciò che è possa non essere. L’errore  estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche  tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali «dalla doppia testa», dikranoi, come tu dici: anche tu affermi  che ciò che è non è, ossia che le molte cose del mondo sono  nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te,  nella misura in cui sono il contenuto dell’opinione illusoria.   P. E questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una  qualsiasi cosa del mondo, ad esempio «la luna», non ha lo  stesso significato di «ciò che è», o di «essente» - se dunque la  luna non è Tessente -, d’altra parte «la luna» non ha  nemmeno lo stesso significato di «nulla», «luna» non significa  «nulla», e pertanto non è un nulla...   I. ... con la conseguenza che, affermando che la luna è, non  si è costretti ad affermare; come invece tu sostieni, «che le  cose che non sono siano», ossia che il nulla è; ed è dunque  necessario affermare che le molte cose sono.   P. Ma so anche che, per te, Platone, salvando il mondo da  me, si porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col  quale io uccido (o almeno penso di uccidere) il mondo. Tu  dici appunto che, col parricidio compiuto nei miei riguardi,  Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà  ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno di questa cattiva cura  del gregge che poi si farà innanzi, lungo la storia  dell’Occidente, ogni «buon pastore».   I. Ma quando parlo del nichilismo che anima quella storia,  non intendo dire che gli uomini avrebbero potuto pensare  meglio di come hanno pensato - e qui mi riferisco  innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era  necessità che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra  procedono nel modo in cui è necessario che procedano. In  proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un  momento su quel discorso che facevo a proposito della luna,  cioè del suo non esser né Tessente né un nulla. Questo non  significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di    206     intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa  invece che quel «ciò che è», separato dalla molteplicità delle  cose che sono, è esso un nulla. Certo, «luna» non significa  «essente», «ciò che è»; ma Tessente non è il non composto, il  «semplice», ma è ciò che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò  che è presente in ogni cosa.   P. Vedo dove il tuo discorso sta andando. Tu dici che,  essente, è ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli  essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che  Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di  questo pensiero mi chiami un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è  ogni cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è  impossibile che non sia, è cioè necessario affermare che è  eterna.   I. Hai detto bene anche questo: che quello splendore è  accecante. Ha accecato tutti, tutte le menti più alte  dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non  si dispiegasse totalmente e in tutta la sua forza e in tutte le sue  luci, la Verità non potrebbe esistere; così come il Giorno non  potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il  linguaggio parli e del Giorno e della Notte, ma che dica «sì» al  Giorno, non alla Notte.   P. Della Notte parlano i mortali, la cui mente, colpita dal  dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della  Notte credendo che sia il Giorno.   I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa, per i quali «Tessente  non è ed è necessario che non sia», il linguaggio della  Notte gliel’hai messo in bocca proprio tu!   P. Cioè?   I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali sei  stato tu a evocarli per la prima volta.   P. Perché?  I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a  pensare e a parlare dell’essente come di ciò che è  assolutamente opposto al nulla. L’Oriente ignora la radicalità  di questa opposizione. E se così stanno le cose, prima di te  non potevano esserci quei supermortali per i quali Tessente  non è ed è necessario che non sia. Esistevano i comuni  mortali del mito, che ancora non potevano sapere che la  morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente.   P. E quindi tu affermi che io non solo ho evocato per primo  la Verità dell’essente, ma per primo ho anche evocato i suoi  nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali.   I. Che sono per davvero tali, perché, a partire  dall’atmosfera aperta dalle tue parole, essi hanno  incominciato a credere di morire dinanzi al nulla che li  attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere  infinitamente più angosciante di quella del mito. Proprio per  questo tu hai guardato alla Verità come sommo rimedio  contro l’angoscia estrema.   P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche se abbiamo  dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran  voce chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora   dobbiamo salutarci. A presto! Dal testo richiestomi da Pressburger per le «Interviste impossibili», tenutesi nel 2007 al  Teatro Stabile di Trieste. Dialogo richiestomi dal «Corriere della Sera». Di tutti i miei possibili critici, (dunque, oltre che di quelli  passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti,  con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a  cui si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione non suona  paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo  6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno se si  aggiunge, e lo si deve, che tutte le possibili critiche al  Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno  rilevanti, di quel Contenuto (una parola, questa, che va con la  maiuscola, «miei scritti» andando invece con le minuscole).  Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità.  Immodesto non sono «io»: immodesta è la verità che ne ha il  diritto perché non è cosa modesta e attira a sé il linguaggio  imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su  questi temi.   La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non  c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel  senso che essa ha il «cuore che non trema» - per usare  un’espressione di Parmenide - solo in quanto mostra che essa  è e significa «errore» e la necessità di negarlo. Essa vive,  eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire), solo in quanto  l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è  concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale,  suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli  compete.   La verità ha cioè bisogno degli scavatori che portino alla  luce questa ricchezza con la convinzione di portare alla luce la verità (una convinzione che è presente anche quando  scrivono libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È,  il loro, un lavoro che invece chi scava per portare alla luce la  verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e  la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i  critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si  rivolgono i miei scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e  spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere  mosse a proposito del discorso che qui si è appena fatto  intorno al rapporto tra verità e errore, agli scavatori  dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La  magnificenza dell’Occidente, che ormai conquista la terra, è il  tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la  verità non abbandona a sé stesso l’errore: esso cresce secondo  le leggi della verità.   L’errore cresce secondo le leggi della verità anche perché  ogni obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e  l’ignorarlo è la forma preminente della negazione di esso) è  convinta di affermare qualcosa che differisce da tale  Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire  non sia cosa di poco conto. E infatti è di tantissimo conto. Il  Contenuto di cui si sta parlando è infatti la manifestazione del  senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È il  punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede  sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dunque,  daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero  obbiezioni; ossia intendano differire da ciò contro cui  obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei  differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno  fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio  quel Contenuto contro il quale esse vorrebbero andare.   Gli scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui  tutti sono erranti, anche quelli che scavano la verità. Nel tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo  deH’«uomo», cioè con l’uomo quale è inteso all’interno della  terra isolata dal destino della verità -, l’errore crede di  conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si  crede capace di distinguere questo, che gli appare come  l’errore, dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale  agli occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e  distruggere ciò che ai suoi occhi è errore, ma non l’errante, là  è inevitabile che ci si convinca che il fiorire degli erranti  finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è  ritenuto verità, e si finisca col condannare, e punire e  distruggere anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e  l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure  anch’essa contribuisce alla costituzione della concretezza  dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta  da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a  oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare,  Adelphi 2007, La morte e la terra, 2011, cit.). Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere  una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa  definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto  quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che  quella negazione della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e  in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo  saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande  fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci si può  fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi  afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli  stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità  assoluta. (Le cose non sono però così pacifiche, perché un  negatore della verità potrebbe replicare che egli intende  proprio negare e insieme affermare la verità, perché no?, visto  che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il  «principio di non contraddizione» egli potrebbe daccapo  rispondere che quel principio, così semplicemente affermato,  è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli  che non lo è).   Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt’altra cosa. Nega  tutto l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno  crede che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per  il quale la verità assoluta non potrà mai esser trovata perché  «tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che,  proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere  nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il  quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal  non giunge a tanto, perché per lui quel «tutto che muta» è,  propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché,  fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta,  mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un qualsiasi Essere    212     eterno e assoluto, al di là (o all’interno) del mondo.   Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di  tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente - e, ormai, del  pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la  filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia  una verità incontrovertibile (e che il mutamento sia un passare  delle cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un  carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era  stato precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni  relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si  appoggiano, che il mutamento del mondo sia il contenuto di  una «conoscenza fallibile, congetturale» (per usare una nota  espressione di Popper)? E la «ricerca della verità», che i  relativisti preferiscono al suo «possesso», tale ricerca, dico,  non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E  l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto  di una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O  vedano loro che cosa intendono sostenere.)   Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare  perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario  concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile  oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e  che non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri  che mutano nel tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche  e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo  essenziale del pensiero del nostro tempo - sanno fare cioè  quel che i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo  sanno anche perché, per lo più e più o meno  consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è  una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose  mutano col tempo.   Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione    213     dell’Occidente condividono sì la persuasione che il  mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma,  a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia  anche l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o  aH’interno del mondo. Sono gli amici della «metafisica». Nel  sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto  l’impossibilità della metafisica. D’altra parte, ai relativisti che  stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i  metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se  tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è  anche Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile  e congetturale. Ed è quindi inevitabile che i relativisti di  superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la  metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile.   Per trarsi d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di  superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro  relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine  dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si  dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo liberale americano  Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva  riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito,  che però aveva il difetto di non essere americano e di essere  fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile - che invece,  insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel  sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper.  Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch’egli  sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale,  pronta ad «abbandonare i propri valori» teorici e morali «se  altri si rivelano più credibili», lo ascolto con interesse  (condividendo anche i suoi buoni sentimenti).   Ma aggiungo che anche questa autocritica del relativista è  apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i  propri valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita    214     di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad  abbandonarli se ne vedo di più credibili?». È uno che dice:  «Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne  vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si  son capite le domande, la risposta non può che essere  negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette in dubbio,  è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera  come irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il  proprio trovarsi nello stato in cui egli è disposto ad  abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori.  Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se  dice: «Dubito di quel che dico», egli non dubita di dubitare.  (Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se  l’uomo apre bocca solo se non dubita, la maggior parte delle  volte che l’apre dice però cose false; mentre le considerazioni  di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità  incontrovertibile.)   A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di  tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d’altra  parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di  questo mondo - è sempre convinto, più o meno  consapevolmente, di conoscere verità assolute e  incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne  sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti  avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) «che non ci è  possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna  teoria». Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper  e alla Hans Kelsen, che sostengono un’implicazione  necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà,  democrazia. E allora?   Allora, nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e  anzi spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità  assolute, si trovano anche gli uomini dell’Occidente, per i    215     quali la verità assoluta e incontrovertibile dominante è che le  cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare  (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le cose  mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste  alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire  e il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità.   Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la  tradizione antirelativistica dell’Occidente, consistevano  nell’adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla  verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la  morale convinte di parlare «con verità». Se oggi qualcuno  auspica una politica capace di parlare «con verità», deve tener  presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda  parecchio complessa. Per questo in un mio articolo sul  «Corriere» avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia, che  cosa intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto  auspicato una politica capace di parlare «con verità». Glielo  avevo chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa  ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e  una morale che, contro il relativismo, siano legate alla verità  incontrovertibile e assoluta della metafisica tradizionale  (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una  democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia  procedurale, una «libertà senza verità». La risposta di Galli  della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era  ancora il governo di centrodestra - che una politica che parla  con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato  miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci  tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che non riguarda la  verità, ma la «sincerità», giacché se non c’è verità senza  sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur  sempre subordinato alla gran questione del rapporto tra  relativismo e antirelativismo - visto che l’accentuata corruzione della politica e della morale è una conseguenza  dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la  tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre  sottoposti al giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo  in cui - con l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e  di ogni eterno Signore del mondo - quella forma suprema  dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere  in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il  sottosuolo, dico, non la «vera» «buona» politica. (Un processo,  questo, in cui consiste il senso autentico dell’«antipohtica».) Con la lettera del pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra  «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande  importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche  da parte di chi è soltanto uno spettatore - che però, come me,  sia interessato al problema. Il pontefice ha un modo  ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole,  anche, il desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con  ciò in cui non credono. Proprio per fimportanza di questa  inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che  non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.   Il pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero  secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure  una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e  soggettive, sia un errore o un peccato». Il pontefice risponde:  «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”,  nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di  ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è  l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò  non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro».  Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì  parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è  slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che  non è «variabile e soggettiva». E il papa gli risponde che no,  non è variabile e soggettiva: «tutt’altro». In questo modo, la  domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della  Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La  Scuola 2013).   A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo,  ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla  costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa  addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda  per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal  sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è variabile e soggettiva?  No, risponde il pontefice: «Tutf altro»!   Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori,  vorrei segnalare, e ben più importante. Dopo aver scritto che  la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per  l’esclusione», il pontefice aggiunge che «da ciò consegue  anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la  sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio  quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata  con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la  storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari  abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli  che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso  sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco.   Da quasi cinquantanni (che rispetto alla storia  dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che  quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la  sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non  ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave  mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che  forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho  parlato anche sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui  debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che  indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte  non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?   Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa  dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi  Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non  potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della  cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria.    219     Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi  neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro  Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù  risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si  renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la  libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato  sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico);  con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche  questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per  Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e  cattoliche).   Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non  implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no.  Quindi - come spesso si dice, ma senza accorgersi della  connessione tra questo dire e il detto di Gesù - è necessario  che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire  contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che  nell’al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera  religiosa e la sfera politica», che, anche secondo questo  pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece  radicalmente negata da questo detto. Certo, Yintenzione di  Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il  contenuto oggettivo di quello che egli afferma è  inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella  religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol  conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro  reciproca opposizione (giacché anche la politica che non  crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro  Cesare).   Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere  che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol  tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il  comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede.   Nel dialogo tra Scalfari e il pontefice i problemi che ho  indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in  fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela  della chiarezza del dialogo. Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato  il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione.  Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui  risultati della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa  debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono  inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di  quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità  delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra  Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M.  Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley 1974).  E se il fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei  buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di non essere «molto  interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la  scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega  Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta  sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per  Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini  in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi  precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del  primo principio della termodinamica, per il quale la quantità  totale di energia dell’universo rimane costante nella  trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia  è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme  è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere»,  «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e  del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non  può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è  aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando  i suoi cultori alzano le spalle davanti alla filosofia, che a  quest’anima si rivolge sin dall’inizio.   Si ritiene tuttora che la teoria generale della relatività d’Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano  incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono  mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬  occidentale dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo»  di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla  e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile  («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale  percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui  le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non  è un caso che egli abbia ricondotto il concetto di «onde di  probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza»,  cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del  mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a  scrivere, di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali:  «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si  capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla  caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per  scontata.   La filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere  controvertibile della scienza. La discussione è tuttora aperta.  Anche al tema deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da  sempre. Per il grande matematico David Hilbert «il rigore  nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza  proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno  filosofico generale della nostra ragione». E II più grande  spettacolo della terra di Richard Dawkins (Mondadori 2010),  eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le  prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno  e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la  “teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale  incontrovertibile». Ma quel che rimane oscillante e alla fine  oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di  «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad  accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra  parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal  proprio non essere e vi ritornano così come accade per le  forme incostanti della costante quantità totale dell’energia.   «L’evoluzione è un fatto», «oltre ogni ragionevole dubbio»,  «è la pura verità» «confermata da una valanga di prove», con  la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la  certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della  terra e che l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica  e quella della deriva dei continenti. Si può certo convenire.  Ma il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso  dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie  di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove  nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro  abbondanza consentano di dire che le teorie così provate  godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà  smentita». A meno che Dawkins - e allora il discorso  potrebbe finire qui - non si proponga altro che allineare la  teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per  dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e  improprio, che però, tirate le somme, risulta inoffensivo.  (D’altra parte egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor  di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare  davvero qualcosa». Parole che però debbono fare i conti con  quest’altra sua dichiarazione: «Nel resto del libro dimostrerò  che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i  matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa»,  allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero»  che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste  possano sembrare all’illustre collega considerazioni da  «pedanti» e da «sofisti», però è diffìcile sostenere che non  siano «a rigor di logica».) Ma che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro  «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa  bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere  oggetto di osservazione diretta, la quale, come egli sottolinea,  è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere quindi  un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo  evolutivo risale all’esistenza di tale processo, al suo essere,  appunto, un «fatto». Egli sa bene che anche «l’inferenza si  deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene  però che l’osservazione diretta di un evento come un  omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle  «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore  di identificazione un testimone oculare piuttosto che un  sistema di inferenza indiretta come il test del Dna» . Sì, posto  che sia «più facile», non è però impossibile che in certi casi  l’osservazione diretta sia più affidabile. Anche per Dawkins.  Esser «più facile» non significa essere incontrovertibile, ossia  è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa  ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con  cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto»  incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza»,  e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto «ipotesi».  (Egli rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo  lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco  della sua vita. Ma chi si propone di dimostrare che  l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale  fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio  questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo  lentissimo, afferma arbitrariamente che essa non può essere  direttamente osservabile perché è un processo lentissimo.)   Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota  ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si  mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, almeno come viene intesa dai  biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può  anche darsi che abbiamo cominciato tutti a esistere cinque  minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e  capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni,  che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della  Passione secondo san Matteo di Bach, e, questo, per far sapere  che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte  cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero  pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica,  temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla  (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche  quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della  poesia o di altra nobile e austera dimensione - a parte tutto  questo, come risponde Dawkins a Russell?   Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser  pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso  che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale  inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto,  sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui  pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta  deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile  dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma  nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di  scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal  fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale  inganno» non segue che tale inganno non possa esser  perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere.   Queste osservazioni non hanno il benché minimo intento  di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano  ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle  ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il  costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro    226     incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di  trasformare il mondo conformemente ai progetti che  l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una  scienza che si affanni a dimostrare la «verità  incontrovertibile» dei propri contenuti combatte una  battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze  della natura vale anche per quelle logico-matematiche.  L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica  che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità  incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi  su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma  relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia  pensa la verità come in-contro-vertibilità, ossia come ciò  contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non  intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile.  La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non  contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per  Hilbert la questione «più importante» è dimostrare che  basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai  arrivare a dei risultati contraddittori». Ma Kurt Godei  dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la  matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un  sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile.  Se lo dimentica Dawkins quando afferma che «solo i  matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa».  Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente,  significa essere in grado di escludere quella possibilità.   Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine della  specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista  linguistico «origine», che rinvia al latino orior («provengo  da...», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola  con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il  «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte    227     ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo  incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del  «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata  nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a  lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano bisogno di qualcosa  d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili.  Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori  della stirpe, il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia  appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di  questa fede è la convinzione (a cui prima si è accennato) che  le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi,  quando la filosofia incomincia a parlare, sono di per sé  incapaci di «essere», e sono preda del «nulla». Cose morte. La  morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal  sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si  muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede  filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione  filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di  quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per Yarché e  l’«origine della specie», per il big bang come origine  dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della  coscienza. E ancora: per il lavoro, la società, la storia, il  linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della  mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e  remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei  vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o  meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine  ultima.   Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza  dell’uomo. Ma proprio perché la fede nell’origine porta sulle  spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si  debba chiedere se sia in grado di reggerlo? In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato  l’affinità tra la «tesi» centrale del mio discorso filosofico -  l’eternità di ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e  la «tesi» di Einstein che «per noi fisici, la distinzione tra  passato, presente e futuro non è che una testarda illusione».  Ho messo tra virgolette la parola «tesi», per sottolineare che  quando le «logiche» che conducono «alla stessa» tesi son  diverse, son diverse anche le tesi che suonano  apparentemente identiche. E la logica della fìsica einsteniana è  essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la  necessità dell’eternità di ogni essente a cui si rivolgono i miei  scritti.   Ciò non vuol dire che ci si debba disinteressare del  rapporto tra le due «tesi», soprattutto ora che molti fisici  mettono in questione il concetto di «tempo», che sta in piedi  solo se il presente differisce dal passato, ossia dall’«ormai  nulla», e dal futuro, ossia dall’«ancor nulla». L’esempio più  recente e tra i più rilevanti di questa crisi del tempo nel  mondo della fisica è il libro del fisico Julian Barbour, La fine  del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi  2003).   Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo  comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia intende  comprendere il senso della scienza e della tecnica, scienza e  tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche  l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un fisico come  Steven Hawking prevede (1979) che la fìsica debba lasciare il  posto a una «Teoria del Tutto», si toccherebbe il fondo della  povertà di pensiero se non ci si rivolgesse alla filosofia che, da  sempre, è stata la «Teoria del Tutto». Ma poi la filosofia  giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio mira appunto a questa indicazione - in che senso essa non è  un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico, falsificabile ecc.,  ma è il sapere assolutamente incontrovertibile - in un senso  essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica  attribuisce all’incontrovertibile e di cui la filosofia del nostro  tempo ha mostrato l’impossibilità.   Barbour scrive: «Da una quindicina d’anni un numero  esiguo ma crescente di fisici, me compreso, comincia a  considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo  stesso vale per il movimento». Posso invitarlo a tener presente  che la riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento  è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta  e che a metà degli anni Sessanta la discussione su questo tema  è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che  continua tuttora a essere vivo? Egli non è uno di quegli  sprovveduti che non vedono relazioni tra fisica e filosofia:  nella prima pagina del suo libro (di grande interesse e  avvincente) scrive che «ben pochi pensatori, nelle epoche  successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io  invece sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una  radicata illusione».   Dirò allora al professor Barbour che qui in Italia, da mezzo  secolo, quelle idee sono state prese molto sul serio non solo da  me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son  certo che al professore non interessa favorire quella sorta di  incompetenza che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. Letteratura, scienza e religione, confrontandosi con la  filosofia, si danno spesso la mano.   La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra  le sue più importanti e ricche della loro disincantata sobrietà:  La letteratura e gli dei (Adelphi 2001). Indicano la Bellezza  che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla  Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli dèi pagani,  soprattutto quelli greci, che si eclissano in oscurità variamente  profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme  di «evidenza». Ad esempio nella pittura fra il Quattrocento e  il Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine  dell’Ottocento: «l’età eroica della letteratura assoluta» che  incomincia con la comparsa della rivista «Athenaeum»  (Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé.  Letteratura «assoluta» perché indipendente da ogni  legislazione esterna, soprattutto quella della «comunità» è  «alla ricerca di un assoluto» e perciò non può che  «coinvolgere» «il tutto». Un anello - Calasso ne intende  decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia,  poesia, arte e gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il  sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla  «letteratura assoluta».   Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che la filosofia si è  sempre rivolta con l’intento di preservare il proprio sguardo  da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla «comunità» e  dal «sociale»? E, se è così, la discordia tra «letteratura  assoluta» e «filosofìa» non è la discordia tra due forme della  filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa  lontananza Calasso scrive ad esempio: «La letteratura cresce  come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero». Ma è un  «accertamento poliziesco di identità» (come dice Calasso dei    231     tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se  quelle parole di Calasso sono erba o lastra? Certo, l’esperienza  degli dèi, in cui consiste la «letteratura assoluta», «intender  non la può chi non la pruova». Ma o quest’ultima espressione  non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale  senso, è la mano che incorona la testa di quell’esperienza, e  pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo  che stringe il collo della proclamazione romantica della  superiorità assoluta dell’arte. Ma se non è una possente lastra  del pensiero a conferire assolutezza alla «letteratura assoluta»,  allora, a conferirla, è erba che appassisce, semplice  aspirazione all’assoluto.   Oltre l’«età eroica della letteratura assoluta», ma nel suo  clima, si ricorda nel libro, Gottfried Benn scrive che al di  sopra del linguaggio che «raffigura» vi è «il linguaggio», cioè  Nietzsche: «E allora viene Nietzsche e incomincia il  linguaggio, che non vuole (e non può) altro che fosforeggiare,  luciferare, rapire, stordire». Calasso commenta: «Nietzsche  era stato il primo tentativo di evadere dalla gabbia delle  categorie di origine platonica e aristotelica. Che cosa si  estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora  accertato». Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da parte mia,  chiedo a Calasso se non gli sembra che su questo punto il suo  discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra  parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio, che come dice  Benn, non vuole altro che...» non è forse un «volere»? E non  si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa  il significhi, appunto, «volere»? (E, certo, l’affermazione che al  di sopra del linguaggio che «raffigura», vi è il linguaggio che  stordisce vuole raffigurare o stordire?)   Il rapporto teatro-scienza, e in generale arte-scienza è stato  teorizzato da Brecht in Scritti teatrali (Einaudi 1962). Una  prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente    232     antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come  l’autore delle tre versioni di Vita di Galileo -, per altro verso  va incontro a una delle esigenze più profonde espresse da  Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti.   Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte  in genere proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni  e non scienza intorno ai grandi temi della vita e della morte,  dello Stato, della pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai  quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito.   Certo, Brecht riconosce che «il piano della scienza e quello  dell’arte sono diversissimi». Tuttavia non solo si rifiuta di  considerare semplici «hobby» gli interessi scientifici di Goe¬  the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi offerti da Platone  nel libro X della Repubblica («grandi passioni», «storia dei  popoli», «impulso del potere»), sostiene che anche nell’arte «i  grandi e complicati avvenimenti non possono essere  sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non  si provvedano di tutti gli strumenti utili ad intenderli».   Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto  solo da chi conosce da vicino la nascita della scienza  moderna. E Brecht, che per la Vita di Galileo ebbe a ricorrere  anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a  riconoscere che «una quantità di letteratura è a uno stadio  fortemente primitivo».   Platone respinge l’arte perché non ha competenza di ciò a  cui essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece  questa competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la  sterminata quantità di «letteratura» che invece si trova, per la  sua incompetenza, «a uno stadio fortemente primitivo».  Rimane il problema di come «il contenuto scientifico che può  essere racchiuso in un’opera poetica» debba essere  «completamente risolto in poesia». Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra  Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata a una vita  immortale, e un Brecht, che in sintonia con il pensiero  filosofico del nostro tempo, scrive:    Lo confesso: io   non ho nessuna speranza.   I ciechi parlano di una via d’uscita. Io  ci vedo.   Quando gli errori sono esauriti   siede come ultimo compagno   di fronte a noi il nulla ( Poesie, Einaudi 1962).   Non è allora del senso del nulla che (anche) l’artista deve  avere la massima competenza? Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la  forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai  il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo  riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte  prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In  modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha  aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora»  scrive «una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia  dell’umanità.» Passa la vita a tracciare la configurazione di  questa nuova scienza.   Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè,  per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì  un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna  Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e  quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova»  deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le  «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze  storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia.   Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza  (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo -  esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed  eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare  proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità  che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto  separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è stata ripubblicata  da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di  Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un importante saggio  introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo  l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e  Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e  del 1744. Un’imponente operazione culturale. Molto opportunamente, Vitiello mette in luce il carattere  problematico della conoscenza storica e in generale della  nostra memoria.   Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica  non mettono però in questione Yesistenza della storia. E  nemmeno le scienze naturali mettono in questione Yesistenza  della natura. Storia e natura sono cioè trattate come  indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una  verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di  mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che  esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi  problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente  vera, e quindi non scientifica? Né il senso comune può farsi  avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può  avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a  quella della scienza.   Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile  significa affidare alla filosofìa il compito di mostrarlo. È  sempre stato il suo compito metter tutto in questione e  spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser  messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo  in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè  implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane  indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per  altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non  può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla  natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima  affermazione.   Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando  nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza  dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede  anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso    236     comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e  non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a  meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente  anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al  sole, che sta fermo rispetto a essa.   Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in  manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa;  sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza  del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza  vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo  può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità  innegabile: 1’esistenza del divenire del mondo, cioè del  divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni  «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle.  Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo  (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile  al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo  afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a  distruggere chi la pensa diversamente da essa.   In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso  altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua  esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno  della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia  la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della  non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda.  È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al  cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede  nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra  non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il  mondo è la fede nel mondo e che la non-verità della fede nel  mondo appartiene necessariamente, come negata, al  contenuto della verità. Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme  istoria e filosofìa dell’umanità», non scorge che l’esistenza  della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede  che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata  dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e  tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio  opposto, cioè dalla fede, dall’errore.   Quale volto deve avere la verità che si mette  autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo  conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni  vichiane » Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura  della “possibilità” del futuro, che non solo, in quanto futuro,  non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d’accordo che  questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè  lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo  sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla  filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il  Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si  parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel  nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di  un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero  della Notte» - dove la «Notte» è l’errare estremo. Quella  «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la  propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato  essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofìa del nostro  tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere  immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la  malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta  al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di  essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia  mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta  che il futuro e il passato non sono e non è necessario che  siano.    238     Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran  tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della  posta in gioco quel tempo è minimo.    239     8. «Suicidio dell’Europa»   «Lasciar da parte la brocca riempita di vino e porre al suo  posto una cavità dove si trova del liquido.» È quel che fa la  scienza, secondo Heidegger, rendendo «un che di nullo» la  brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la scienza lascia da  parte gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa  astrazione è chiamata da Hegel «intelletto». Non è nemmeno  un discorso perentorio, perché si potrebbe replicare che  anche la poesia «annulla» tutto ciò a cui invece si rivolge la  scienza.   E quella cosa che è l’«Europa»? Pietro Barcellona non si  confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo  libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è  stata annientata dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata  sostituita con una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la  scienza è un fenomeno europeo l’annientamento dell’Europa  è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti  intitolato II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005).   Da molto tempo Barcellona si dichiara d’accordo con vari  aspetti del mio discorso filosofico. A modo suo, con  sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: «Bisogna fare a  pugni oppure aprire le braccia». Non mi sembra che le apra  alla mia tesi che la dominazione della tecnica e della scienza è  inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia  dell’Occidente.   Però lo invito a mostrare dove non lo soddisfano le pagine  che ho scritto a proposito di tale inevitabilità. In esse si  mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si  suicida ma è un albero dove i rami più alti (tecnica e essenza  profonda della filosofìa del nostro tempo), per respirare e  vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico-  metafisica-religiosa dell’Occidente), sebbene, come    240     quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle stesse radici e dallo  stesso tronco. Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima  parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche  Lucifero è folle, ma è il signore del mondo.   Barcellona mi concede che gli eventi del mondo siano  l’apparire e lo scomparire degli Eterni, i quali sono pace,  guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che  non si lascia vedere e che culmina nella gioia e nella gloria a  cui l’uomo è destinato. Ma Barcellona parla anche degli  «intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non  si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno di questi  intervalli, mi ci ritrovo io - scrive - che, non avendo (ancora)  visto la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male».   Dice infatti che la tecnica distrugge «avvenire», «speranza»,  «promessa», «profezia», rende tutto presente, calcolabile,  manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale  però per il pensiero filosofico tradizionale (i rami bassi  dell’albero di cui sopra parlavo). Volendo essere tale pensiero  incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto  sull’essenza del futuro, ossia di ciò che ancora, per l’intero  Occidente, è un nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono  invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza,  ma le si adatta, lasciandola vivere e aprendosi all’«awenire».  Inoltre la filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di  ogni Eterno che stia al di sopra delle cose create e annientate,  ma che non ha nulla a che vedere con gli Eterni, di cui  parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e  regolano quella creazione e annientano, ma sono le cose  stesse.   Questa sintesi di tecnica e filosofia del nostro tempo, alla  quale ben pochi guardano, è animata da quella volontà di  «avvenire», la cui mancanza fa star male Barcellona e anche altri. Mi sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione  allo spirito del nostro tempo - che, proprio in quanto  tecnologico, e contro quel che di solito si pensa, intensamente  vuole e promuove l’«awenire» - e l’adesione al mio discorso  filosofico, dove anche la totalità del futuro è già, eterna, e  attende di venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la  Follia da cui è dominata la terra.   A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo  modesto. Alla base del suo discorso c’è invece una filosofia  per la quale la verità non può essere che «visione». È il  principio della fenomenologia. «Ma si può dare davvero un  rapporto necessario con la verità» scrive «che non sia la  visione?» Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà  mai essere «necessità». Limitarsi, in un paradiso, a «vedere»  Dio, significa esporsi al dubbio di essere vittime di una  illusione. La semplice «visione» non mostra la necessità di  quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la  «necessità» che egli fosse il Figlio di Dio.   Tempo fa, in un editoriale di «Liberal» (n. 19, 1998) il  direttore Ferdinando Adornato richiamava il problema delle  nuove «regole di un equilibrio mondiale» e affermava la  necessità che l’Europa abbia «una propria autonomia politica  di difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare «saggio»  «pensare che tale autonomia debba servire a riproporre un  ordine mondiale basato su un “bipolarismo antagonista” nei  confronti degli Usa». Poiché in un mio articolo pubblicato su  quello stesso numero sostenevo una tesi che a prima vista  sarebbe potuta sembrare affine a quella che l’editoriale non  considerava «saggia», nel numero successivo aggiunsi, in  risposta, quanto segue.   Siamo d’accordo che l’Europa si trova all’interno di un  processo storico che la vede e continuerà a vederla alleata    242     degli Usa. D’accordo, anche, che un alleato non è un suddito.  Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’«autonomia» di  cui Lei parla. A meno che l’alleato debole abbia grande  autorità su quello forte. Ma non è il caso dell’Europa rispetto  agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle  esortazioni del Papa).   Nel mio articolo rilevavo che il processo storico in cui si  trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla Russia, nel senso  che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la  potenza economica europea e la potenza nucleare russa.  L’unione di questi due fattori fa nascere appunto quell’alleato  degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila  dunque un semplice «antagonismo» rispetto agli Usa. Perfino  il bipolarismo Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin  dagli anni Settanta, «Duumvirato» (l’espressione era piaciuta  anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del  Duumvirato di allora, il Duumvirato che si sta profilando (e  che il mio discorso si limita a constatare) vede  considerevolmente ridotta la discordia. D’altra parte gli alleati  sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle  possibili prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di  alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire  all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto  al resto del mondo.   Lei rileva invece che la logica della deterrenza nucleare è  obsoleta. Il terrorismo è evanescente e asimmetrico.  (D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un  ombrello nucleare russo che sostituisse quello che gli Usa  hanno tenuto e tengono aperto sull’Europa. Ora,  contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è  ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le  cosiddette «nano-tecnologie» di basso costo e di altissimo  potenziale distruttivo dalle quali è estremamente difficile difendersi. Ma perché i terroristi non le hanno usate, per  esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento  nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine,  sono soprattutto degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli  Usa non parlano forse di «Stati canaglia»? Rispetto a  quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata  dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora  non si dovrà dire che il terrorismo si astiene dall’uso delle  armi chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati  temono la ritorsione atomica su di essi da parte degli Usa (e  della Russia)?   Ma poi, la concreta risposta americana al terrorismo dell’11  settembre non è stata forse l’attacco a due Stati? E un articolo  di questo numero di «Liberal», scritto da un americano, non è  forse significativamente intitolato E adesso l’Iran^ È proprio  così obsoleto il possesso di un arsenale invincibile (e  invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo),  in un mondo dove la rincorsa all’armamento nucleare sta  diventando sempre più pressante - come proprio in queste  settimane stiamo constatando?   A parte il riferimento alla «potenza economica europea»,  che come già si è accennato nelle pagine precedenti si è nel  frattempo notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in  quella mia risposta vanno tuttora tenute ferme. «Non credo alla sopravvivenza»   Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la  comprensibilità del discorso di Jacques Derrida ha tratto, un  notevole, giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati  Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida.  Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive che per Derrida,  «cercare di far sì che non tutto scompaia è stato al centro delle  sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis  narcisistica» (p. 20).   A dar ragione a Ferraris, è lo stesso Derrida che dichiara:  «Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano  dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente.  Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è  veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella  misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In  fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono,  scrivo, dico» (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto,  Laterza 1997). «Nella cenere tutto viene annientato» dice da  qualche parte.   Ma di quel continuo analizzare «il fenomeno della  sopravvivenza» non trovo traccia nelle pagine di Ferraris. E lo  si spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno  nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che continua a pensarci,  ma è difficile venire a sapere che cosa egli abbia pensato in  proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli  «non crede alla sopravvivenza post mortem». In questo senso,  non solo Ferraris ha ragione a sostenere che in Derrida non  c’è «una meditatio mortis narcisistica», ma verrebbe da dire  che non c’è affatto una meditatio mortis.   Certo, a dirlo così nudo e crudo si sbaglierebbe, perché  Derrida conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla  morte. E tuttavia doveva anche saper bene che è una    245     meditazione «fenomenologica», che cioè non si pronuncia sui  problemi «metafisici» come 1’esistenza di Dio, la  sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque  l’impressione che Derrida abbia distolto lo sguardo da ciò che  maggiormente lo assillava.   Che è certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma  sono d’accordo perché al tema della «cenere» in cui «tutto  viene annientato» ho invece dedicato tutto quello che ho  scritto. Tutto quel che ho scritto si riferisce alla necessità che  ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa  si annienti nel cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce  argomentandola e mostrando il senso della «necessità» e  dell’«argomentare». Peccato che in proposito Derrida non  abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi a dichiarare la  propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più  alto della filosofìa.   All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire,  in questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia, non si è mai  interessato di Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è  grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è  soltanto «fenomenologia». Leopardi crede di poter mostrare  che nessuna cosa è eterna. Ma come è alto e ricco, e  argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono  fare i conti i credenti. Derrida li disturba ben poco.   Se non si guarda da vicino il senso del pericolo, cioè  dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice  dell’angoscia, quale consistenza può avere la ricerca di un  rimedio contro la morte ossia di quel «far sì che nontutto  scompaia»? Per Derrida il rimedio era la «scrittura», che  trattiene ancora per un po’ le cose nell’esistenza. Proust  questa tesi l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui,  com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura nel senso più ampio, cioè, come «opera» del «genio», ossia di  chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose.    247     10. Follia giudiziosa   Per le scienze del linguaggio il «sacro» è il «separato»: tiene  lontano l’uomo; anche se insieme lo attira. Freud ha visto  neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è  distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme del sacro Umberto  Galimberti scrive tuttavia che «a conoscere questa follia non  sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la  religione».   Ma la religione - osservo - è solo un «credere»; e se un  sapere riuscisse a mostrare che l’occhio della religione vede  più lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità  della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è  chiamato «filosofia») ad avere l’occhio più acuto? Più in alto  di una testa incoronata sta la mano che la incorona.   Per Nietzsche al di là della ragione c’è il «caos». Per  Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio è il luogo in cui  non vige più il principio di identità e di non contraddizione.  La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la  verità ultima dell’esistenza. In ognuno di questi casi, si apre  alle spalle della ragione il mondo dell’«indifferenziato», dove,  scrive Galimberti, una cosa è «questo e anche altro».   La ragione, tuttavia, non trova scandaloso pensare che un  vino possa essere forte e anche nero. I problemi incominciano  quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e  non nero: «indifferenziato», appunto. Platone e soprattutto  Aristotele sostengono che il contenuto di questo pensiero non  può esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere.  Qui mi limito a riproporre una domanda che può sembrare  oziosa.   Quella follia che, separata, sta al di là della ragione, è forse  non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua,  dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia,    248     del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la  follia non, è forse, anche, non follia? A questo punto quegli  amici perderanno la pazienza e diranno di aver già detto che  la follia è follia - punto e basta.   Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa  follia che se ne sta ben attaccata a sé stessa (e dunque al  principio di non contraddizione), e non vuol essere «anche  altro», cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le  somme, non si permette di essere folle?    249     IL Paradosso e monocromia   «Secondo un principio consolidato della metafisica classica,  il divenire richiede una condizione che lo trascende» scrive  Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo,  dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011,  p. 121) - e tale principio regola anche il pensiero di questi due  grandi protagonisti del «moderno». La complessità del saggio  di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano  politico, richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel  principio della metafisica classica domina effettivamente sia  l’«antico», sia il «moderno»; non però il pensiero del nostro  tempo, per il quale il divenire non richiede altro che sé stesso.  Il mondo non ha bisogno di Dio.   Che il divenire richieda una condizione trascendente,  indiveniente, infinita, significa che essa salva il finito - il  divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della  finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di  Spinoza e di Hegel è di salvare il finito, è quindi del tutto  consequenziale. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma  dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende  esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato.  Semplificando molto il suo discorso, si può dire che il mondo  è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo  produce inevitabilmente un radicale spaesamento del  pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i  problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò  significa che le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro  il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono  imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono  strutturali.   In una delle pagine decisive del suo libro de Giovanni  scrive: «I grandi testi della filosofia non sono grandi precisamente perché gravidi di altissimi contrasti, che sono il  vero sale del pensiero?», e questo sale non è forse «la profonda  istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e  che però ambisce a vincere la scissione senza poterla  abolire?», sì che «proprio questo paradosso è la stessa vita  umana»? Ritengo che i punti interrogativi non siano retorici.  De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza  delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la  richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè  l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor  più del finito, il luogo dove i problemi e le contraddizioni  maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per  lui il contenuto di una «fede».   Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso  all’essenza dell’uomo, ossia a quel «paradosso» che avvolge  non questo o quel gruppo umano; non questa o quell’epoca,  ma «la stessa vita umana» in quanto tale. E qui il paradosso  indicato da de Giovanni è scavalcato, nel senso che diventa  ancora più complesso, la fede nell’invisibile essendo appunto  ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto  dell’essenza o «sottosuolo della filosofia del nostro tempo»,  dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito -  diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante all’«antico» e al  «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla,  e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti,  che unisce l’intera storia dell’uomo e che quindi sostiene sia la  fede nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici  della Terra.   De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare  la «storia dell’Occidente» a quello dei miei scritti, che  «considera il pensiero dell’Occidente come preso in un unico  solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo,  certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze», ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p. 117).  Credo che qui de Giovanni si riferisca alle differenze intese  come differenti modi di errare, non come differenze tout court  - giacché l’affermazione dell’esistenza e anzi dell’eternità delle  differenze (ossia delle molte cose e dei molti aspetti del  mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso  filosofico.   Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione  dell’esistenza di differenti, infiniti modi di errare; che però  hanno questo di identico, di essere errori, cioè negazioni della  verità. E l’avere in comune il loro esser errori non cancella i  differenti modi dell’errare - così come, per i colori, l’avere in  comune Tesser colori non è una monocromia, ossia non  cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei scritti si  mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che  vi è di identico in ogni errore, ossia il suo essersi separato  dalla verità.   De Giovanni mi gratifica di un riconoscimento che mi  piacerebbe meritare («Sono convinto che la profondità  speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in  Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa  profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla  storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione  dell’errore». Nei miei scritti si mostra che l’Errore è la fede  nella trasformazione delle cose, il loro diventar altro da sé.  Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta  monocromia, un solo punto, nella storia dell’uomo, dove non  si creda nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si  creda in una forma di errore diversa da questa fede. Poi, se  vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i  quali affermo che questa fede, nonostante la sua apparente  plausibilità ed evidenza, è l’Errore più profondo a cui l’uomo  è stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico dell’uomo è già da sempre libero. Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in  genere male intesa) che «non esistono fatti ma solo  interpretazioni». Nietzsche non è un «realista». Ma  implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a  Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo  Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire  appunto da Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di  far rivivere su scala mondiale i «fatti», la «verità», il  «realismo».   Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo secolo  va dicendo che il senso autentico della verità non è investito  dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità» quale  è intesa lungo la storia dell’Occidente, e quindi anche dal  «realismo».   Ma Ferraris vuol far rivivere «fatti», «verità» e «realismo»  dando come cosa per sé evidente (almeno così sembra) che la  realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la  quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo  appunto i «fatti», ed essendo quindi una certezza che ha come  contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare  questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto  «identità di certezza e verità». Non dubito che Ferraris (e Eco)  l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso  comune non è la conferma filosofica del senso comune.   Anche per le scienze della natura la realtà esiste  indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è  anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «senso  comune». Ma ben prima della scienza è la filosofia, sin dai  suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la  realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale,  con la grande filosofia classica (Platone, Aristotele), la    254     conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà  chiamata «realismo». La prospettiva espressa dal principio di  Protagora che «l’uomo è la misura di tutte le cose» (e che  quindi la realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e  vuole) resta a lungo emarginata.   Ma, proprio perché conforma il senso comune, il  «realismo» filosofico non è il senso comune. La filosofia,  infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto  della parola «verità» - il senso che domina l’intera tradizione  dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità  come «scienza» (epistéme) incontrovertibile, fondata su  principi primi innegabili e per sé evidenti e il realismo  filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la  filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso  comune.   Per avere un esempio della potenza e complessità  concettuale del realismo filosofico si tenga ancora sott’occhio  (cfr. sezione prima, cap. Ili) questo passo deW Etica  Nicomachea di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo scienza non  può essere diversamente da come; delle cose che possono  essere diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra  osservazione, rimane nascosto se esistano o no». (La parola  «osservazione» traduce la parola theoréin : l’osservazione  appunto, la manifestazione del mondo, che accade con  l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia  addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del  pensiero contemporaneo che è la «fenomenologia» fondata da  Edmund Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò  che è osservabile (manifesto, immediatamente presente,  sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità,  venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato.   Proprio per questo la fenomenologia non è una conferma    255     del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò  che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una  critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di  fuori della conferma che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso  dice non è «scienza» (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la  realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente  dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la  «fenomenologia» c’è scienza (e anche Husserl intende la  filosofia come «scienza rigorosa»). La scienza è infatti, per  Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche  scienza di Dio, «metafìsica».   Il «realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia  patristica e scolastica (Agostino, Tommaso tee.) e quindi  nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese  cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia  moderna prekantiana, che però procede a una forma più  elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato  messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi  riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due  secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si  è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono  l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il  neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il  realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole  coscienze degli individui umani. È dalla coscienza  «trascendentale» (liquidata con troppa disinvoltura) che la  natura non è indipendente.   La scienza, si diceva sopra, è realista. E la «filosofia  analitica» sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il  mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più  epistéme). Sennonché, se il «realismo» della scienza moderna  non vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è  una tesi filosofica è cioè quel realismo filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni  non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere  scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al  «nuovo realismo», stando al modo in cui esso è stato  presentato.   Si aggiunga che la scienza intende fondarsi  suh’«osservazione». Ma la gran questione è che la realtà - che  per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non  esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un  certo punto dello sviluppo dell’universo) -, in quanto  esistente senza l’uomo è per definizione ciò che non è  osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non  può esserci esperienza umana di ciò che esiste quando  l’umano non esiste. Quindi l’affermazione che la realtà è  indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una  semplice fede, o quella forma di fede che è considerata come  «altamente probabile».   Comune al «nuovo realismo» e al «pensiero debole» di  Vattimo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale,  messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire  il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il mito e poi la scienza  moderna - è nata, sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla  morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo  senso la filosofìa (come il mito e la scienza), nascendo dalla  paura, è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia  si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del  mito, ma deve avere «verità», e la «verità» non può fondarsi  sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta  spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza  dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere.  Altrimenti essa è semplice edificazione.   Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va  intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di  eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per  Nietzsche un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni  storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire (la storia  il tempo) esistano è per Nietzsche - anche per Nietzsche -  l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è  necessario negare ogni realtà eterna immutabile, «divina» che  sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la  Grande Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente  e, ormai, del pianeta. La fede che da tempo i miei scritti  invitano a dar conto del suo incontrastato potere. Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti della  cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare  quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico  del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale  nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del  mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio  nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica,  politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo  essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente  ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni  Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni  Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e  dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare  ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale  capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di  esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è  capace.   Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il  pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile,  la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti  figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla.  Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante  (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi).  All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella  «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il  nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema  filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi  comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della  tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante,  «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione  planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che  producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho  incominciato a dire - al tema, molto più modesto,  riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune  implicazioni.   Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica  (Heidegger, Gadamer ecc.), l’«antirealista», cioè la critica alla  «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di  Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della  critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza» tra  intellectus e res, tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro  Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con  maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo  radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella  definizione. In sostanza egli argomentava - per sapere se  l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla  rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il  pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la  cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a  essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è  «interna». Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha  bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna».   Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da  quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente  per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo  interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione»,  ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è  revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma  questa «sentenza» di Nietzsche dovrà dire allora che anche la  critica alla concezione metafisica della verità è  un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco  quindi che egli consideri anche la propria filosofìa soltanto  come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-  politiche (p. 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla  metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una  minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva  dell’esistenza» (p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti  altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti  libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo  mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa  della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una  bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti  altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva»  dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile?   En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi  attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la  restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pp. 164-  165) e rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che  l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto  divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere;  mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere  eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente  lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale  storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile  differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il  Pensiero come indiveniente).   Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto  quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la  verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una  realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì  che la critica a tale corrispondenza toghe di mezzo solo un  certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni  Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale  al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente  in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e  che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del  nostro tempo.   Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla  verità come corrispondenza, su questo punto è  inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo  tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un «nuovo realismo»  (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse  rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con  Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con  Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta  in Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci  editore 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che  conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non  abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto  di verità». L’«argomento» è che, una volta ammesso  che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il  «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il  «fatto» che dunque è indipendente da «noi». Gabriel lascia  indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli  interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco).  Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile  risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non  producono il «fatto» consistente nella produzione umana di  qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da  Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come  invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal  pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.   «Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in-  un-mondo», scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di  qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun  chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione».  Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza.    262     L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche  se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è  apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o  queU’individuo empirico, allora, su questo punto, sono  d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà  dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza  è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto,  come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così  l’«apparizione»?   Per lui ciò che esiste esiste necessariamente «all’interno di  un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il  motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo  in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo  «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma  esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai  suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione  - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto  principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente  abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa  come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere  perché il Tutto non può avere un contesto, e non può  nemmeno contenere sé stesso, giacché è necessario che il  Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto  contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto  è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe  esserlo), allora questa apparizione contiene sé stessa proprio  perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il  contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il  contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su  questo tema come su quello del significato che compete  all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A  proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il  quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo -    263     tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 -  l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro  annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa  consistere la loro contingenza e storicità.)   L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a ssoluto realismo,  perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione  fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un  rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari  neorealisti a studiare Gentile.   Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere  «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo  sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al  neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero,  l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui  l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo  possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per  questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso  e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di  là di esso e come indipendente da esso. Questo  trascendimento è la verità.   L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita  oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di  convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il  fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più  ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo  concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si  presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo  esseri storici e la massima evidenza disponibile qui e ora si  costruisce solo con un accordo, che può essere messo in  questione e rinegoziato» (p. 109). Ma, daccapo, questa sua  affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli  uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o    264     discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile?  Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel  far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla  filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a  lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere  le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello  sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca  col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e  indiscutibile.    265     14. Realismo e idealismo in relazione all’ostacolo   La tecnica può riuscire a porsi alla guida del mondo solo se  si è in grado dimostrare che ormai questo compito non può  più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il  capitalismo, le religioni, la politica e la concezione del mondo  che sta al loro fondamento). Ma chi può mostrarlo? Non  certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza  tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a  mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra che non  possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze delle  tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche  (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo.  Di qui l’importanza di saper cogliere ciò che chiamo «essenza  della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono  pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo  contesto si riferiva anche il mio articolo («Corriere della  Sera», la Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono  intervenuti vari interlocutori.   D’altra parte, continuo a ripetere, quell ’essenza è la forma  più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza  dell’uomo - la Follia del nichilismo).   Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la  sua volontà. E si convince che il mondo esista  indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la  base di ogni forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo  individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di  realismo. D’altra parte, il mito, e il pensiero filosofico della  tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono  in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina»,  di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son  fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo,  come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e  cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come  Cristo, l’uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto  non dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del  neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel  modo più rigoroso. Marramao («Il Secolo d’Italia») è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore -  osservando giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del  disinteresse per Gentile sta nel suo stile «pesante» e  «ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore  concettuale estremamente superiore a quello del neohegeliani  del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente  alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi  hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel,  determinando una reazione «realistica» non immune da  consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se  nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di  neohegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile.   Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del  realismo rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta  quasi sempre come «realismo» (assunto come ipotesi di  lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte  sua il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la  filosofia non possa procedere indipendentemente dalla  scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza  nel mondo contemporaneo determini il predominio del  realismo rispetto a ogni altra forma filosofica.   Nell’intervento di Maurizio Ferraris («la Repubblica» 18  settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da  Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che fare con cose in  sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi». No: questo lo si può dire di Kant (e  propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di  Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il  contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua  volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone  (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero,  si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto  fenomeni. Per confutare l’idealismo Ferraris richiama  l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo,  gli ostacoli incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli  eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste  situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e  che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti  da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi  individui umani che nascono, subiscono quelle avversità e  muoiono. I miei scritti stanno tuttavia al di là dell’opposizione  realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato  opportunamente («Corriere» 27 settembre 2011) i loro temi  centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per  non complicare troppo il discorso.   Invece Gianni Vattimo («Corriere» 21 settembre 2011) mi  trova troppo affezionato «al vecchio argomento antiscettico»  (se uno dice che non c’è verità sostiene peraltro che quel che  lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo  avviso, che un «giochetto logico-metafisico». Un giochetto  che però (per richiamare solo due tra molti) Platone ( Teeteto) e Aristotele ( Metafisica) prendono molto sul  serio. Platone scrive addirittura che quell’argomento è  «raffinatissimo» (kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica  che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della  realtà, cit., p. 25) lo chiama invece «giusta accusa di  autocontraddizione». (Comunque nel mio articolo prendevo  atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo.  Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento  contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria  negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa  vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che  quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?)  Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento  non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi  gli obbietta che si contraddice egli può ancora replicare  chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il  discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta  neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa  andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con  Gentile, con l’«essenza del pensiero del nostro tempo», con la  storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto»  con loro. Dialogo anche con Vattimo...)   Per Markus Gabriel («Corriere» 29 ottobre 2011) il  contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista,  scrive che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite  fu Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide  afferma «un essere indipendente dall’ambiente umano».  Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno  mostrando che ciò che Parmenide dice dell’«essere» va detto  invece degli enti : di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è  impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è  eterno anche ogni «ambiente» e pertanto anche Cambiente  umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo,  che identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o  può diventare un niente. Se «realismo» significa che certi enti  potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo  è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi  autocontraddittoria) - come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe  esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente  contraddittoria» (e cioè che il principio di non  contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini  continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo  secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è  l’impossibile, il necessariamente inesistente (Cfr. sezione  terza). Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e  non sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo  coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son  convinti non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende  dunque parziale il dominio del principio di non  contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è  stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come  un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle  espressioni più decisive del nichilismo.    270     15. Stelle e formiche   Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni  («Giornale di Brescia» 4 settembre 2012) che Massimo  Borghesi ha dedicato al mio libretto-intervista Educare al  pensiero, gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo  a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di  quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea  della Divina Commedia affermando che essa è una  illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi, se non proprio  evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E quindi  uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me  la vita sarebbe cioè infeliceì )   Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma vorrei  sfatare l’impressione complessiva che si può avere leggendo  l’articolo di Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte  soprattutto, che il mio discorso consista nel sostenere che noi  tutti siamo eternamente dannati e con noi tutte le nostre  convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la  metafora dantesca, nei miei scritti si mostra che ognuno di noi  è infinitamente di più di quel che crede solitamente di essere:  è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore  delle «stelle», l’eterno apparire del firmamento.   Sennonché (lo mostro nei miei scritti), nella luce del  firmamento che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la  quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta. Infatti, abitandola,  noi ci chiudiamo in quel che per lo più crediamo di essere e  non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del  quale sta un Firmamento ancora più infinito).   Per quanto riguarda la parte dei miei temi considerata dal  Borghesi troverei invece molto più adatte queste parole di  Angelus Silesius: «Uomo, smetti di esser uomo se vuoi  raggiungere il Paradiso: Dio riceve solo altri dèi». Oppure, «Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non vi entrerai  mai». Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola  indica e nasconde. Ad esempio è sommamente occultante  Yimperativo («smetti di esser uomo»), perché ogni uomo ha  già smesso da sempre di essere quell’uomo che per lo più  crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha  dentro di sé il «Paradiso» che peraltro è destinato a  raggiungere. Ma poi sono le parole «uomo» «Dio», «dèi»,  «Paradiso» a dover deporre il loro timbro mitico-metaforico -  anche perché sapere che cosa significhi «uomo» non è per  nulla più facile che sapere che cosa significhi «Dio».   Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è «un  sistema di pensiero che rifiuta l’idea che l’uomo possa  cambiare». Detta così, questa sua affermazione altera il senso  del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un  lato. Proprio nella prima risposta dell’intervista dico: «Invece  gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli  uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto  da qualche parte che “solo l’eterno può divenire”. Nel senso  che lo spettacolo che sta davanti, costituito dall’apparire degli  eterni, è continuamente variante», «è il variare che dapprima  si mantiene all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal  destino” [cioè l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là  della terra isolata dal destino della verità [dove il “destino” è  l’apparire, che noi siamo, dello splendore delle “stelle”].  Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un  proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La  Gloria è l’infinita adeguazione del finito all’infinito» (p. 18).  Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso.   Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16 maggio 2012).  Massimo Borghesi dà, dei miei scritti, un’immagine  certamente più adeguata di quella da lui proposta in prima  battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito  di questo suo nuovo articolo.   Mi sembra che egli non condivida la tesi che Inesistenza»  dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a lui,  che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di  Giovanni si legge: «E la luce splende nelle tenebre e le tenebre  non l’hanno accolta». La «luce» è innanzitutto la verità; le  «tenebre» sono l’esistenza dell’uomo nel «mondo», e sono  «tenebre» perché sono sogno, non-verità; errore, negazione  della verità. Dicendo questo, «delegittimiamo» forse le  tenebre, come Borghesi in sostanza sostiene, criticandomi? Si  delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che  ferrare implica)?   Certo, il pensiero filosofico non può accontentarsi del  senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è  anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le  tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di  capire perché, nei miei scritti, si afferma che ogni uomo è già  da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo  è nel modo che gli è proprio e che lo distingue da ogni altro  uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se  questo suo esserlo è contrastato dalla convinzione  ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più a vivere.   E, ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si  afferma che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed  estese di quelle a cui si riferisce Giovanni, e perché da quel  contrasto siamo tuttavia destinati a uscire, e perché la luce  lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è  un «dualismo». E allora? Questo suo dire è solo una  descrizione, non una confutazione. Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire  cose che non ho mai detto -, soprattutto quando afferma che per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’«inutile  affaccendarsi» di un «formicaio». Ancora una volta, vorrei  chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano  soltanto al «mondo» (alle «tenebre» di Giovanni), e non a  Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo, l’inutile  affaccendarsi di un formicaio?   Tuttavia preferisco ricordare che il sogno nel quale  consistono le tenebre di cui parlano i miei scritti non è quel  vagare delle formiche che per chi non sa che cosa sia un  formicaio è senza senso, un «inutile affaccendarsi». Il grande  sogno si svolge anch’esso secondo la necessità del destino  (come peraltro lo stesso mio critico riconosce); e con un  ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei libri  sono andato indicando, chiamandola «storia del mortale»  (ossia dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande  sogno è la persuasione che le cose si strappino da sé e  divengano altro, invadendolo, dividendolo, spezzandolo.  Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di far  diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è  necessario che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella  storia della razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine  nella distruzione di questa razionalità e nella progressiva  dominazione planetaria della tecnica. È necessità che nelle  tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero.  L’autentica «educazione» è il linguaggio che mostra tutto  questo, e non invita a incrociare le braccia (anche il  rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che  cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati  a volere.   Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa,  su «30 Giorni», ebbe a scrivere che «Severino su un punto ha  ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo». Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei  miei punti, osservo che non per caso la tecnica è l’orizzonte  assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola  lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo della struttura qui  sopra indicata. Se la si studia, si può constatare che,  nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo  interlocutore: «Tu non pensavi ch’io loico fossi». La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita  cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale  Rifiuto nega che il giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi  stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro  da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è  presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi  decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl  tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva»  quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss  mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E  infatti come sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto  più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la «mentalità  primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)?  Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo.   Tale Rifiuto sta all’«origine» e alle «fondamenta» della vita  umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che  corrispondono all’antica parola greca arché, che viene  tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il  Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la  conoscenza. Ma la filosofìa intende il Rifiuto originario in un  modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler  negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via. La  filosofia sostiene che questa negazioni non sono  semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non  smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere  e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele  dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da  un’unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più  tardi questa arché sarà chiamata «principio di non  contraddizione».   Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo  principio dalla volontà, facendone la suprema «verità»  incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo  ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e  (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia  contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con  vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte, nella coscienza  religiosa. Popper rileva sì che senza il principio di non  contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale  principio è il fondamento dell’atteggiamento «razionale»;  sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è  una «fede irrazionale», e quindi è innanzitutto il principio di  non contraddizione a esser dominato e guidato da una  volontà («fede») senza verità. 1 Al di sotto della propria  maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse  configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è  appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso  prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato  l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre  quel principio all’arbitrio della volontà.) Tale principio serve  certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e  sia utile non significa che essa sia vera.   Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente  richiamata - la storia cioè del Rifiuto originario - copre e  nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo.   Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia  l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse  sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito  tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà.  Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più  alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere  altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è sé stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa - dunque  ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell’anima, ogni  situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo.   La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del  mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno,  ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da  sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è  ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la  teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e  nasconde sia il Rifiuto autentico, sia YEternità (anch’essa da  intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente  diverso da quello che le compete lungo tale vicenda).   Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive  diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del  Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando  in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata  alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli  interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini  contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro  Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno  struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a  rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto  perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa  continuare il nostro colloquio - che generosamente, anche in  queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle  sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del  senso autentico del Rifiuto e delfEternità.   Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬  nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente  dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica.  Heidegger, Lowith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana  2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia    278     (Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che  tenta acutamente e coraggiosamente di porre la luna, indicata  dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo  compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante  volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi  (Vita e Pensiero 2013). Molto interessante e ricco di spunti  anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide.  Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno  (Mimesis 2012) si rivolge alla luna e al mio dito.   Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad  «arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli  può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e allora?!» (La  verità è un’avventura, GruppoAbele 2013). Allora, rispondo,  se non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità  non sia un’avventura e nemmeno che ogni affermazione  contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di  ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che  noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo  siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a  riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo  destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra  che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove  il «principio di non contraddizione» è la semplice volontà che  il mondo non sia contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è  vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può certo disinteressare  del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che  stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: «Sì,  compagno, mi contraddico, e allora?!».   Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro  Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della  natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli 2010). Scrive Carrera  che questo suo saggio fa parte di un trilogia incominciata con  La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino    279     (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche,  «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi  heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il  passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe  sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del  presente» (p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata  dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che  viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso  che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa  luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è  un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.    280     17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto   «Perché - mi domando, e domando a Severino - la tecnica  come capacità indefinita di realizzare scopi (capacità velata di  astratto e generico) sarebbe destinata a soverchiare la tecnica  della forza, che è immanente al diritto e che accompagna ogni  norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella  volontà di potenza è più potente di questa?» È la domanda  che Natalino Irti mi rivolge anche nel suo libro più recente  L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda,  prolunga la pluridecennale discussione tra noi due sul tema  della tecnica. E la prolunga in modo quanto mai felice,  innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me  «nella concordia discors del pensiero». Lo ringrazio di cuore.  Con altrettanta generosità l’eminente giurista rileva di quanto  si sia ridotto il suo sentirsi «discorde». Rimane però quella  domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui altre volte ho  risposto. Dev’esserci quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e  che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle  motivazioni che costituiscono l’organismo della risposta  (attendendo che Irti le consideri).   Il mio discorso sulla tecnica non indica uno stato di cose  già in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze):  all’interno delle diverse forme di tecnica è oggi in via di  formazione il progetto che ha lo scopo di aumentare senza  limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il  mondo. Anche ma non solo per questo vado scrivendo che la  tecnica, in quanto è tale progetto, è «destinata» a prevalere  sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La  «destinazione» si riferisce al futuro.) Questa capacità è «velata  di astratto e di generico» (come scrive Irti), ma solo nel senso  che oggi l’uomo non può conoscere concretamente e  specificamente le proprie capacità future. La sua volontà vuol    281     diventare «sempre più» potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti dalla Tradizione  all’agire umano vanno mostrando, soprattutto all’interno del  pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale.   «Volontà di potenza» e «tecnica» sono sinonimi; ma la  Tecnica che progetta Fincremento senza Limiti inviolabili  della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le  forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti e che  pertanto le si oppongono. Differisce da esse, spingendole  altrove, ma agendo al loro interno. Si chiamano economia,  politica, morale, diritto, arte, le stesse discipline scientifiche  (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le «tecniche» da esse  guidate (apparati industriali, militari, burocratici, sanitari,  scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora,  prevalentemente, una forma della Tradizione: pone come  Limiti inviolabili (e pertanto come «verità» indiscutibili e  «naturali») l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la  proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato  come dimensione che rende possibile il profitto e la sua  crescita, la concorrenza e, anche, il sistema di leggi che  garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè  che nelle società capitalistiche viene chiamato «diritto» tout  court.   Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella  tra la Tecnica e le altre forme di volontà di potenza sia la  contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica,  quella fisico-matematico-biologica, e le altre forme, tra cui il  diritto (la volontà capace di regolare altre volontà). E,  appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto  che l’altra. Sennonché, dico destinata a prevalere non quella  forma particolare (sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in  quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza  presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale    282     incremento come la norma suprema - la norma che è il più  radicale superamento delle Norme e Limiti imposti dalla  Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la testa di  quelle forme («astratto e generico»), e non è nemmeno la loro  semplice somma, ma tende a esser sempre più presente e  dominante in ognuna (e, certo, in modo più avanzato, nella  forma fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro  soggezione ai Limiti inviolabili che via via sono stati loro  imposti.   Nel diritto quei Limiti si incarnano nel cosiddetto «diritto  naturale». Che però tende a essere sempre più emarginato  dalla convinzione che il diritto sia «positivo», posto  storicamente dalle volontà vincenti; non, quindi, espressione  di una volontà che rispecchia una immodificabile «Legge  Naturale». Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero  Pianeta, sia pure in modi molto differenziati e spuri) vincente  è ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà capitalistica, ed  essa si impone come «la Legge», lasciando sullo sfondo, quasi  dimenticato, quel carattere «positivo» della legge che sta  soppiantando la pretesa del diritto capitalistico, di essere  «naturale». La «forza» e la capacità «coercitiva» sottolineate  da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica  separata  dalla volontà vincente, ma alla capacità di  quest’ultima di rendere operante la forza e il carattere  coercitivo della volontà giuridica. (La contrapposizione tra  potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo  economico è sottoposto al giudizio della magistratura - si  svolge completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che  tutela i valori dell’economia di mercato).   La volontà che progetta l’incremento indefinito della  potenza non è quindi, come invece Irti mi obbietta, «astratta  disponibilità, generica forza di raggiungere risultati»,  «indistinta e indefinita varietà degli scopi», «nome con    283     funzione riassuntiva» - mentre il diritto avrebbe il vantaggio  di essere «decisione» che impone certi scopi escludendone  altri (pp. 53-54). Le cose non stanno così.   Le decisioni del diritto sono le decisioni del capitale, o  dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta  in volta vincenti. Le volontà di potenza che hanno come  scopo la potenza di certuni e non di altri, di certe concezioni  del mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di  altre, non possono avere come scopo la crescita senza limiti  ed esclusioni della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo  reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il  capitalismo evita la produzione dei beni che, pur vantaggiosi  per l’uomo o l’ambiente, non avrebbero mercato, e alimenta  forse quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè  con la loro abbondanza e la caduta della domanda, non  avrebbe nulla da vendere. E in ognuno di questi casi vengono  ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza,  il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il superamento della  scarsità.)   Perché, dunque - riformulo così la domanda di Irti - la  Tecnica è destinata a prevalere sulle forme particolari di essa  nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per  il loro chiudersi nella loro particolarità, sia per Tesser ancora  soggette ai Limiti della Tradizione? E quindi: perché la  Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si  oppone nel senso ora indicato (visto che, nella misura in cui  sono invece il terreno in cui prende piede la Tecnica in  quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica  non prevale su di esse, emarginandole, ma se ne serve - o  prevale nel senso che quel progetto è lo scopo che regola i  loro scopi particolari)?   Rispondo così. 1) Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati) si presenta ancora come un mezzo, anzi come il mezzo più  potente di cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra  di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e,  soprattutto la volontà oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma  nella tecnica si sta facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in  quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre  ogni Limite «assoluto». 3) Il fondamento di questa negazione  è l’essenza - il «sottosuolo» essenziale - del pensiero filosofico  del nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere  sulle altre solo se rafforza sempre di più il mezzo tecnico di  cui dispone. 5) Tale rafforzamento è ulteriormente rafforzato  dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della  Tecnica di aumentare all’infinito la potenza - e tale progetto è  a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in  testa, di potenziare il mezzo di cui essa dispone. 6) Pertanto lo  scopo delle volontà dominanti si trasforma. Infatti,  riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo  esprime e sancisce - tende a non aver più come scopo  primario l’incremento del profitto, ma la sintesi tra tale  incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che  nella sintesi tende a occupare sempre più spazio rispetto a  queU’incremento. 7) In tal modo la tecnica, da mezzo, tende a  diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si  trasformano e la cui configurazione originaria tramonta. La  tecnica tende dunque a diventare lo scopo del capitalismo e  del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la  destinazione della tecnica al suo prevalere su di essi e al  dominio del mondo. 8) A questo punto si tratterebbe di  richiamare il senso autentico di tale «destinazione» (cfr. ad es.  E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi  1988, o Capitalismo senza futuro, Rizzoli).   Ma, dicevo all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione  della risposta. Pieno di debiti nei Loro confronti, non mi è concesso  nemmeno di esordire in modo originale. Perché anch’io,  come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo  incominciare con i ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo -  e, certo, mi è caro farlo.   Mi rivolgo innanzitutto al dipartimento di Filosofia,  all’università di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i  professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e poi c’è  l’appoggio finanziario dato a questa iniziativa dal professor  Luigi Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha  fatto piacere anche quella sorta di preconvegno, organizzato  dal professor Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari  dedicati ai miei scritti.   Il professor Ruggiu ha anche opportunamente sottolinea-to  il senso centrale di quanto è venuto fuori questa mattina, e  cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può  essere sembrato un discorso.... «algebrico», «astratto»,  «filosofico» (nel senso del formalismo filosofico), e le  implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione  politica. Qui davanti ho appunto l’amico professor Pietro  Barcellona e l’amico Natalino Irti, nei cui interventi questa  dimensione è emersa in modo più visibile.   Mi è capitato altre volte di essere oggetto di incontri come  questo, e mi sono sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi  festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di  festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i  festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro  come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è  chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio  discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa università  costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia  dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama  culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da  qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia  di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia  straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche  per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di  loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza  di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono  ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese.   Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un  abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia  con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo  nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo  sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben  note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei  professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e  di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino  tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto  un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo  convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista,  oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno,  fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato  dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i  miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del  dipartimento di filosofia.   Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi  sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata  dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei  rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può  avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di  una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di  rispondere.   Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così  come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con  una struttura sociale nella quale esistono forze politiche,  economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia,  America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi  -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale  nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere  questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad  esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di  filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia,  alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede  (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo  così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto  contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non  sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della  nostra fede.   Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con  estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che  terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al  contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra  civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno  sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che  vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti  caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà  dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo.  Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso  soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a  quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei  miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui  è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma  iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica.   Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si  fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così  insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e,  dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a  questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme  più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente.  Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il  permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in  un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla  prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa  prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.  Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del  sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto  dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo  prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato  coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è  venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la  coerentizzazione della Follia estrema.   Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le  capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo  massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità.   Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro  prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su  Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità.  Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande  indipendentemente dalla grandezza della negazione della  verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente  dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non  c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di  cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è  negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare    289     forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia  dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze  (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa  della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto  a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia  negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista  potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state  rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo  scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci  sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità.  Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore  esige la concretezza dell’errore.   Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due  giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione  dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia -  credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda  che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una  tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio  Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della  grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non  fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare  nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei  scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione  dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che  di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire  che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato  dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel  Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto  ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso  (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non  riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione  dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità  degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che  si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che  finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E  qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni  dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei  scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso  filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere  al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È  probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo,  quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che  sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma  alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto  tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio  contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo  capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo  scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo  mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui  non so dare ragione.   E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede,  cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con  verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È  nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza  della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo  tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la  proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase,  la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è  semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima),  ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della  verità.   Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso  filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin,  Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con  un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel  mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del  convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a  quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata  dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra  parte, con la relazione del professor Visentin.   Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni  concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni  sono molto generiche.   Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle  obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come  quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle  difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere,  esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di  impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria  del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la  situazione è diversa da quella che in campo scientifico si  produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di  discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta  «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del  sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È  un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa  straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un  certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti  senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento  incontrovertibile, come appunto accade per i postulati  dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali  postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può  escludere che la matematica, approfondendo il contenuto  semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della  contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in  questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura  originaria del destino», allora ci si muove impropriamente,       perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si  rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto  escludere una situazione concettuale in cui si parta da  postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È  chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in  base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come  immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si  deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori.  Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere,  cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a  mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto  diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è  l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è  impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale  fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo  da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora  l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire  dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal  chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire  di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti  partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono  da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che  con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di  questa base.   Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo:  chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi  rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive  come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa  cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si  risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione  («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama  assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume  come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra    293     quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di  ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura  originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il  riconoscimento che i differenti sono differenti - quella  differenza che è appunto il contenuto primario della struttura  originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è  un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria  (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se  la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire -  penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo  punto.   Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con  ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi  quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei  miei riguardi. Grazie!   Debbo tener presente, oltre alle considerazioni  estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese,  e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che  hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per  ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi.   A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e  parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli  chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione»,  rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il  significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia  univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco.  L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo  avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore  sottolineatura delle differenze di significato della parola  «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare  che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire  questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le  differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie  ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi:  perché le obbiezioni formali devono essere respinte?)   È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando  dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico  nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente  manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei  molti sensi dell’essere, non è il risultato di una  argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si  parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire»  è appunto la parola italiana con la quale traduciamo  phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge,  perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze  delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si  sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e,  se c’è, in Dio. Qualcosa di identico.   Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della  Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in  quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente  è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi  arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente.  Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro -  continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti,  è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità  di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non  riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze,  appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze.   Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che  si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che  Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il  concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il  concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce  pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra  di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del  Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno  bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è  perché le si considera appunto come enti che possono esser  nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione  spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche  qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è  interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle  o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è  la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare  qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime  pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la  tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una  tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare  significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in  Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa,  ma che a me non sembra che ci sia.   Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più  volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire  che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la  parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da  Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista  (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così  essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere  monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor  Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e  perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe  inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia  contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si  limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc.  Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene  emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi  di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di  Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori -  grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a  Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse  quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica.   Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla  discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare  l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il  rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper,  anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una  «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere.  Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna  Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non  vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i  battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio  hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita.  L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se  ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle  immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è  chiamata theorìa, che significa «contemplazione»,  «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze  che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,  «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si  prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche  nelle arti figurative, dunque.   Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del  male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra  altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle  «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e  profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si  vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le  uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne  vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il  male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra  dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica,  c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto  intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non  «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene.   Una mostra della rappresentazione visiva del male  dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una  mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare  diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le  dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro  la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante  perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità  dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo  riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella  suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado  errato.   Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna  «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure -  avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria  assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò  che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del  Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a  coloro a cui il dipinto si rivolgeva.   La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il  criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il  contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la  selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di  come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile  indicare il senso autentico dello sviluppo storico  dell’immagine?   In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato  Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il  cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto  del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra  opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione  mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come  scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne  e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che  si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava:  la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure,  prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza  cristiana dal male.   Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento  nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni,  anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per  celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per  celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque  della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento  dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del  rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la  celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto.   In questo processo, rimane pur sempre incombente il male  - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio  ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte,  ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed  efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi  all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla  potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto  cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra -  o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del  bene sul male.   Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura  del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto  soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e  non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come  mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La  quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione  figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel  Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il  dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può  esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera  d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la  potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la  dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che  prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano  figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato  dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è  inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del  pensiero filosofico del nostro tempo.   Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più  avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco,  sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore  artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la  fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini.  Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male  che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi  da esso.    302     2. Arte e tecnica   Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e  nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano  considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti  meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura  della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della  dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto  dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti  figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)  richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria  e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il  cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di  mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica  produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede  sempre più decisamente verso la produzione di una realtà  nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si  solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi  festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di  festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i  festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro  come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è  chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio  discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo    286    per la filosofia da parte di coloro che di questa università  costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia  dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama  culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da  qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia  di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia  straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche  per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di  loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza  di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono  ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese.   Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un  abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia  con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo  nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo  sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben  note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei  professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e  di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino  tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto  un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo  convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista,  oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno,  fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato  dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i  miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del  dipartimento di filosofia.   Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi  sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata  dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei  rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può  avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di  una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-    287     politici. Come eliminare questa impressione? Tento di  rispondere.   Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così  come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con  una struttura sociale nella quale esistono forze politiche,  economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia,  America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi  -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale  nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere  questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad  esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di  filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia,  alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede  (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo  così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto  contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non  sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della  nostra fede.   Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con  estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che  terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al  contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra  civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno  sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che  vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti  caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà  dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo.  Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso  soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a  quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei  miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui  è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma  iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica.   Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si  fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così  insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e,  dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a  questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme  più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente.  Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il  permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in  un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla  prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa  prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.  Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del  sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto  dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo  prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato  coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è  venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la  coerentizzazione della Follia estrema.   Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le  capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo  massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità.   Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro  prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su  Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità.  Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande  indipendentemente dalla grandezza della negazione della  verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente  dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non  c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di  cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è  negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia  dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze  (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa  della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto  a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia  negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista  potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state  rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo  scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci  sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità.  Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore  esige la concretezza dell’errore.   Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due  giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione  dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia -  credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda  che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una  tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio  Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della  grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non  fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare  nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei  scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione  dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che  di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire  che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato  dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel  Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto  ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso  (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non  riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione  dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità  degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che  si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che  finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E  qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni  dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei  scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso  filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere  al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È  probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo,  quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che  sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma  alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto  tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio  contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo  capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo  scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo  mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui  non so dare ragione.   E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede,  cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con  verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È  nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza  della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo  tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la  proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase,  la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è  semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima),  ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della  verità.   Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso  filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin,  Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con  un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel  mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del  convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a  quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata  dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra  parte, con la relazione del professor Visentin.   Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni  concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni  sono molto generiche.   Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle  obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come  quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle  difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere,  esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di  impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria  del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la  situazione è diversa da quella che in campo scientifico si  produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di  discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta  «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del  sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È  un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa  straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un  certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti  senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento  incontrovertibile, come appunto accade per i postulati  dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali  postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può  escludere che la matematica, approfondendo il contenuto  semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della  contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in  questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura  originaria del destino», allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si  rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto  escludere una situazione concettuale in cui si parta da  postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È  chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in  base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come  immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si  deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori.  Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere,  cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a  mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto  diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è  l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è  impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale  fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo  da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora  l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire  dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal  chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire  di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti  partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono  da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che  con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di  questa base.   Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo:  chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi  rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive  come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa  cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si  risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione  («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama  assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume  come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di  ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura  originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il  riconoscimento che i differenti sono differenti - quella  differenza che è appunto il contenuto primario della struttura  originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è  un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria  (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se  la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire -  penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo  punto.   Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con  ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi  quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei  miei riguardi. Grazie!   Debbo tener presente, oltre alle considerazioni  estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese,  e di Pagani ieri (ottima la sua relazione), che  hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per  ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi.   A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e  parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli  chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione»,  rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il  significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia  univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco.  L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo  avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore  sottolineatura delle differenze di significato della parola  «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare  che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire  questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le  differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie  ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi:  perché le obbiezioni formali devono essere respinte?)   È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando  dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico  nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente  manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei  molti sensi dell’essere, non è il risultato di una  argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si  parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire»  è appunto la parola italiana con la quale traduciamo  phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge,  perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze  delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si  sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e,  se c’è, in Dio. Qualcosa di identico.   Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della  Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in  quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente  è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi  arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente.  Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro -  continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti,  è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità  di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non  riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze,  appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze.   Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro  Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che  si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che  Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il  concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il  concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce  pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra  di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del  Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno  bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è  perché le si considera appunto come enti che possono esser  nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione  spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche  qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è  interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle  o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è  la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare  qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime  pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la  tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una  tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare  significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in  Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa,  ma che a me non sembra che ci sia.   Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più  volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire  che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la  parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da  Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista  (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così  essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere  monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor  Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e  perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe  inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia  contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si  limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc.  Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene  emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi  di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di  Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori -  grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a  Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse  quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica.   Mi fermo qui.  Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla  discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare  l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il  rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper,  anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una  «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere.  Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna  Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia.    297    Sezione terza   Postille alla sezione prima    298     Al capitolo I   1. La bellezza e il male   Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non  vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i  battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio  hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita.  L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se  ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle  immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è  chiamata theorìa, che significa «contemplazione»,  «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze  che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,  «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si  prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche  nelle arti figurative, dunque.   Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del  male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra  altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle  «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e  profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si  vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le  uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne  vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il  male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra  dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica,  c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto  intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non  «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene.   Una mostra della rappresentazione visiva del male  dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una  mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare  diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il    299     male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le  dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro  la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante  perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità  dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo  riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella  suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado  errato.   Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna  «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure -  avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria  assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò  che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del  Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a  coloro a cui il dipinto si rivolgeva.   La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il  criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il  contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la  selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di  come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile  indicare il senso autentico dello sviluppo storico  dell’immagine?   In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato  Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il  cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto  del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra  opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione  mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come  scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne  e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che  si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava:  la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico    300     dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure,  prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza  cristiana dal male.   Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento  nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni,  anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per  celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per  celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque  della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento  dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del  rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la  celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto.   In questo processo, rimane pur sempre incombente il male  - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio  ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte,  ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed  efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi  all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla  potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto  cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra -  o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del  bene sul male.   Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura  del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto  soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e  non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come  mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La  quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione  figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel  Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il  dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può  esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato    301     dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera  d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la  potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la  dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che  prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano  figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato  dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è  inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del  pensiero filosofico del nostro tempo.   Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più  avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco,  sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore  artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la  fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini.  Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male  che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi  da esso.    302     2. Arte e tecnica   Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e  nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano  considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti  meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura  della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della  dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto  dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti  figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)  richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria  e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il  cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di  mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica  produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede  sempre più decisamente verso la produzione di una realtà  nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si  solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a   diventare la realtà nuova che sostituisce la realtà angosciante  originaria, al di sopra della quale già si era sollevata  l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più  significativi - la tecnica guidata dalla scienza moderna pensa  già alla costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la  morte siano allontanate il più possibile. La tecnica stabilisce la  nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva  perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la  produzione che anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra  nuova e il nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il  vecchio cielo.   Ma la logica della scienza, che sta al fondamento della  tecnica, non è una logica della verità assoluta e  incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un  sapere ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla sofferenza e dalla morte, per quanto stupefacenti possano  essere i suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione  ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che  l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare  le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita  semianimale o addirittura nella propria completa estinzione.  La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è  ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a  farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza  può salvare necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla,  e che dunque la minaccia del nulla rimane sospesa su ogni  avanzamento tecnologico della liberazione dell’uomo dal  dolore e dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce  sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della vita,  si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte,  tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura  festiva che la tecnica sia riuscita a produrre. È a questo punto  che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume  dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di  sopra della realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che  con la tecnica sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e  salvifica della realtà originaria. È, questo, il pensiero di  Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità definitiva e  assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a  cui appartiene quel che Nietzsche chiama «morte di Dio») -  appare che nemmeno la tecnica ha la potenza di salvare con  necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora  la potenza dell’immagine poetica che canta l’impossibilità di  ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume  di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono -  quella forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo  contenuto, a salvare ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). A volte, certi essenti che chiamiamo «opere d’arte» stanno  in una relazione specifica con l’«infìnito». Se non nel senso  che essi «rappresentano senz’altro l’«infinito», nel senso che  qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la  tradizione filosofica intende per «infinito» non può essere  sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a  chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede.   D’altra parte, anche se in tale fede l’«infinito» può apparire  in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è  tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di ultimo, non  oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo  comune è disposto a parlare della «bellezza» di ciò che gli sta  dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune nomina come  può l’«infinito». Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di  costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei  Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede  (ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose,  inoltrepassabile, intoccabile.   Schelling, come Hegel, non parla di «fede», ma di una  «rappresentazione» che, sia pure «per riflesso», è verità che  essa abbia come contenuto l’«infinito», cioè Dio. Si tratta della  «verità» dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo  culmine ma anche al suo compimento.   Si può parlare di «arte contemporanea» prescindendo dalla  tendenza fondamentale del nostro tempo? Si può parlare di  un uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga  e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando?   Oggi il grande stormo del nostro tempo sta migrando verso  l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non  può che andare nella stesa direzione. Schelling è ancora un  grande amico di Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza. L’arte contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che  Nietzsche chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la  «materia» è senza «luce», il «reale» senza «ideale». Il  contenuto della «bellezza» si trasforma radicalmente. La  bellezza, ora, è innanzitutto, ma non unicamente, la capacità,  da parte dell’«opera d’arte», di suscitare in qualcuno la  convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del  mondo che è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne  consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile  bellezza da uomini «umili», «poveri di spirito», che però  questa volta non possono essere «beati» (o la cui beatitudine  può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui  vedono la propria infelicità, debolezza, nullità).   Il «tragico», la «frantumazione» dell’«ordine» e del «sacro»,  il «frammento» sono aspetti della «morte di Dio». Questa è la  «vertigine del moderno». Ma pensatori come Benjamin e  molti altri del tempo presente hanno molto da imparare da  Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa  di essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da  muovergli. Proprio per questo il nostro tempo è «tragico». Se  la negazione nietzschiana di Dio fosse oscillante, la speranza  nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità è  spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano.   In quanto tendenza fondamentale del nostro tempo, lo  stormo di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di  cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene presente che  anche la civiltà della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S.,  Oltrepassare, cit., cap. X).   Del tragico le élites si sono accorte da tempo; le masse  stanno accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati  di rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è  adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al cadavere di Dio,  cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo della morte di  Dio, la «bellezza» è la fede di qualcuno - ma è una fede in  espansione - per il quale il «tragico» è, appunto, il senso  ultimo del mondo e che crede che in certi essenti, detti «opere  d’arte», questo senso si manifesti.   Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano.  Migrano verso un tempo dove la Tecnica sostituisce Dio. I  due si assomigliano molto più di quanto di solito si creda. Ma  la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si  muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso la morte di  Dio - come lo stormo della tradizione volava verso la vita di  Dio. Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà  di dominare gli spazi.   Ma poi resta la questione di ciò che qui ci limitiamo a  chiamare «Aria» - che è libera da ogni volo e sta al di sopra  della vita e della morte di Dio.   Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i  modi in cui, all’interno dei voli, si è voluto andare oltre Dio e  gli dèi e si è pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla  terra come al suo cadavere.   È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica anche il Dio  suicida. Li accomuna la volontà di manomettere l’essere.  Nella nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra  dell’azione e della dimensione demiurgica crede pur sempre  nella loro esistenza. L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede  ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica.   L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire dell’eternità di  ogni essere. Appare allora, in questo apparire, che l’azione -  anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della  fede. Cioè non soltanto la «bellezza», ma anche Inesistenza»  dell’opera d’arte - ossia dell’opera che «fa essere le cose che  non sono» (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. Dice Leopardi che, nelle «opere di genio», «l’anima riceve  vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la  morte perpetua della cose e sua propria» ( Zibaldone, 261).  Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile  la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del  pensatore-poeta che ha aperto la strada all’intera cultura del  nostro tempo.   La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la  festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte.  L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si  identificano in essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più  tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano  religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra  soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni  che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle  visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema.   Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga  l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro  orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele  la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è  circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba  e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una  natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli  uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai  loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili.   Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per  lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile  compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice.  Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha  cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che  nei film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza,    309     incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con  cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita  air«anima».   Se non si guarda in questa seconda direzione, l’ultimo film  di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere,  sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli  precedenti. La strada biblica (nominata quasi all’inizio del  film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà  timore. Che poi è la strada di tutte le religioni. Infatti il timore  è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di  riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la  Potenza suprema - e il «Divino» è appunto questa Potenza.  Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio  dell’uomo; e poiché nulla può costringerla 1’accoglierlo è una  Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita» sia  questa alleanza. L’«anima» riceverebbe vita da questa alleanza.  L’intera tradizione dell’Occidente lo pensa.   Se l’«uomo» è l’essere che crediamo di conoscere, la fede  nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo  la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza  umana. La cultura europea ha messo in discussione Dio, ma  non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene  suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella  tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse  avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va  sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si  vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora  troppo confusa con la gestione capitalistica della tecnica.   Continuando a seguire questa linea interpretativa, che  conduce il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può  allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze  dai contenuti dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce,    310     sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene  indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità  americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una  rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo  in grado di pubblicare la traduzione di una difficile opera di  Martin Heidegger?   Il che - si potrebbe osservare tra parentesi - metterebbe in  luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger  ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato  di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di  venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti  al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si  può prendere un definitivo congedo. «Solo un Dio ci può  salvare», egli scrive - a differenza di pensatori radicali come  Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto,  proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a  trovare vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse  l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo.   Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche  morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità  della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del  padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono  quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta  del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo  dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e  tutti si amano.   Ma allora - vien fatto di dire - che la fede sia una lotta  continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato,  il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa  americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma  della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma,  più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si  ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma  esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però  parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed  enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi  ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e  sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’immagine  non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante,  cioè l’aspetto scontato del film.   Però l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non  rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime  l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere  festivo di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto  «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non  ha più importanza del fatto che i contenuti dell’antica  tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori  conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove  se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita,  dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma  come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo  l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte:  l’immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello  stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto.   E come il mito greco continua a salvare l’uomo evoluto  della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine  festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il  credente dell’Europa moderna soltanto quando anch’esso si  esprime nell’immagine festiva della Divina Commedia, nella  Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto  nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del  cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso,  L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» ( aedes  facere ): «costruisce la casa» dell’immagine festiva e salvifica. L’imperatore Giuliano, «l’apostata», si adopera perché tra il  popolo vengano diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia  non è altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non  meno assurdi delle «finzioni mostruose» del cristianesimo.  Che senso ha, allora, questa sua difesa del paganesimo? Scritto  nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della  tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004) aiuta a  rispondere.   Giuliano è filosofo autentico e grande imperatore. Spesso  danneggiato dagli estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia.  Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il  cristianesimo è uno dei maggiori fattori della crisi dell’impero  romano, la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i  popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una volontà politica;  non l’espressione di una fede religiosa. Per lui, sia il  cristianesimo sia il paganesimo sono «miti», cioè «storie false  in forma credibile». Però il mito pagano può ancora salvare  l’impero. In ogni mito - egli scrive - il «senso» è  «contraddittorio» (falso, «indegno»), mentre l’«espressione» o  è capace di mascherare la contraddizione del senso - e in  questo caso il mito ha come contenuto il divino, oppure,  come nella «poesia», l’espressione non si preoccupa di  nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora «bambino»  nel fisico o nella mente, può credere in esso. In entrambi i  casi, la contraddizione è mobilitata per conseguire «un fine  utile» o per «divertire» (Pascal parlerà di divertissement), per  allontanare cioè lo spettro della morte. Affinché l’impero viva,  al popolo bisogna nascondere la «verità»: che con la morte è  tutto finito. Kojève qualifica giustamente come  «straordinario» questo passo di Giuliano.    313     Kojève: uno dei maggiori interpreti di Hegel. Anzi, per lui  Hegel è «il» Filosofo oltre il quale non si può andare. E di  Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare  un «“hegeliano” ante litteram». Proprio così. (Per esempio  legge in Giuliano l’anticipazione del celebre tema hegeliano  del riconoscimento del signore da parte del servo.)   Ora, è notevole che lo «straordinario» discorso di Giuliano,  intorno alla contraddittorietà del contenuto del mito, per  Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio  perché il contenuto (il «senso») del mito, cristiano o pagano  che sia, è contraddittorio, proprio per questo esso è  inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il  problema fondamentale dell’interpretazione di Hegel è stato  ed è tuttora il rapporto tra questo pensatore e il «principio di  non contraddizione». Sono molti a ritenere incautamente  (Popper in prima fila) che Hegel sia pervenuto alla negazione  di questo principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera,  contraddittoria. Quale occasione migliore dello  «straordinario» discorso di Giuliano avrebbe avuto allora  Kojève per allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza  (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel la Verità) che il  discorso di Giuliano non sta in piedi, appunto perché  identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente.  Anche per questo silenzio Kojève è un grande interprete di  Hegel. I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la  disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del  metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e  nata per comandare; con l’impiego meditato, calcolato della  più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda  più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in  volta; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre  tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né  alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare  nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di  addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le  armi; infine con una manipolazione così abile della menzogna  più grossolana da ingannare persino la posterità e da  continuare a ingannarci.   Chi non riconoscerebbe questi tratti?»   Una pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi  1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940. Alla domanda  finale la Weil risponde che in quei tratti tutti possono  riconoscere la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è  una creazione specifica del popolo tedesco - come la  propaganda nazionalsocialista sosteneva -, ma qualcosa di  più profondo, cioè l’imitazione di un modello che va  rintracciato molto più indietro nella storia europea,  nell’Impero romano, appunto.   In Simone Weil questo giudizio sull’antica Roma - che si  estende al rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero  romano - è anche più pesante di quanto non appaia dal passo  riportato, ma non è arbitrario (si pensi ad esempio alla  condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno  storico come Jéròme Carcopino), o è arbitrario nella misura  in cui non spinge sino in fondo il proprio significato. Ma intanto va completato l’intreccio proposto dalla Weil:  rendendo esplicita una conseguenza - forse non  adeguatamente sottolineata dalfautrice - che discende, da un  lato, dal suo giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo  stato attuale del capitalismo.   Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la  tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale  privato, ma dal capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo  l’espressione di Marx, una «macchina burocratica e militare»,  che è presente sia nello Stato nazionalsocialista, sia nello Stato  sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt  influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun denominatore di  queste tre forze è infatti la tecnica - la disumanità della  tecnica che riduce a «funzione» della macchina statale  l’individuo umano. La conseguenza è che l’impero romano è  il modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera  direzione fondamentale della storia.   Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia  dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli Stati nazionali  moderni, Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla  stessa strada. «Per ulteriore disgrazia», scrive la Weil, a Roma  si afferma il cristianesimo, che eredita il Vecchio Testamento,  dove la disumanità verso i nemici vinti e il culto della forza «si  accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma»  soffocando ^ispirazione divina del cristianesimo».   Il giudizio su Roma di Simone Weil, dicevamo, non rende  esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe  potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non  mette tra parentesi la «virtù romana», ma mostra perché si  trovi unita, come egli dice, alla «durezza» e all’«atteggiamento  compostamente risoluto» dello spirito romano. Si tratta dello  spirito che assume lo Stato come scopo supremo e ultimo.    316     Tutto il resto è subordinato, a incominciare dalla stessa vita  familiare e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per  davvero questa affermazione, si comprende l’inevitabilità di  tutti gli aspetti negativi, denunciati da Simone Weil,  attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del  mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i Romani  sacrificano con «risolutezza» tutto al «prestigio». Ma se si va  più a fondo, il «prestigio» è l’aspetto assunto dallo Stato  presso le genti quando vale come scopo ultimo dell’esistenza.   Ciò non significa che questo spirito - la volontà di porre lo  Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze  opposte e potenti: significa che, nonostante le traversie a cui  Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo  anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di  imporsi perfino su quei barbari che stavano prevalendo ma  che a lungo, nella maggior parte dei casi, non hanno pensato  di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero  Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai mortali -, ma  hanno inteso diventarne essi la forza portante, e i loro capi  hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano  ad assumerel’Impero come scopo ultimo dell’esistenza. Come  si spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di Roma  (giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse  esercitato un’attrazione così potente?   Appunto alla volontà di potenza, da ultimo, ci si deve  dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito  abbia avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo  certamente stato la prima forma di volontà di potenza nella  storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la potenza  sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito  superiore alla somma delle loro forze. Lo Stato  (l’aggregazione), deve apparire quindi qualcosa di «divino».  Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere  subordinato. Sin dall’inizio la dimensione religiosa e quella  politica si fondono, sia pure con intensità diversa e con  diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere.   Se lo Stato si mostra ben presto come lo strumento più  efficace per avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza  sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto  uno strumento nelle mani dei singoli e pertanto qualcosa che  non può non risentire negativamente della loro impotenza. È  cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a  cui qualsiasi interesse e scopo particolare deve essere  sacrificato.   Lo spirito delle monarchie assolute dell’Oriente riesce a  sopportare a lungo la contraddizione per la quale il monarca è  un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non  individuale. Poi la contraddizione esplode, e la democrazia  greca tenta di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la  democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè  della coscienza che non solo non può identificare l’individuo  a ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito del  non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia  l’impossibilità che uno scopo finito, quale è lo Stato, possa  essere assunto come lo scopo supremo, e in questo senso  infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta  il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore  quando cresce lontana dalla radicalità della sapienza  filosofica. Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la  filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli strumenti di cui  egli si serve per sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi  come scopo ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.)   «I Romani» dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della  storia «sono solidamente orientati all’attività pratica», «ma    318     non riflettono teoricamente» su questo loro orientamento.  Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il  proprio oggetto, cioè Inattività pratica», come appunto  accade alla polis greca. E non la sapienza radicale della  filosofia, ma la sapienza del «diritto» rafforza la fede nello  Stato, appunto perché a Roma il diritto si sviluppa  esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della  convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e  contribuisce alla realizzazione di tale scopo.   Per i Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro  grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In  entrambi i casi si tratta però di porsi in rapporto al dolore e  alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare  ai Romani come la salvezza. Ma nella tragedia, che è grande  filosofia, i Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso  e indicando il senso che il rimedio può avere. L’anfiteatro  romano, invece, si limita a produrre realmente il dolore, e la  riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito  che è il godimento suscitato dalla sofferenza altrui. Qui, la  «risolutezza» romana raggiunge, insieme, il proprio apice  imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma)  e, insieme, la propria distruzione, che l’originaria e sobria  lontananza romana dalla radicalità della sapienza filosofica  aveva saputo evitare. Gl’ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà  che mancano ai tedeschi. Affetti da «eccessivo  individualismo», i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si  trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo  pericolo.   Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono  espressi da un severo critico della Germania del XX secolo,  ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf.  Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più  diffuso in Germania sino alla fine della seconda guerra  mondiale. Per Hitler i Tedeschi di quel tempo erano un  «armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività,  volontà di dominio e genialità del vero Ariano (un giudizio,  questo, ripetuto da Hitler poco prima di uccidersi), ma che  aveva anche il torto di essere «oggettivo», insensibile alla  prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di sopra  dell’«oggettività»), e dunque inferiore allo spirito «dialettico»  degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento», di sottovalutare  gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli Ebrei.   Chi ha letto Mein Kampf («La mia battaglia») non sta  sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo e interessante il modo  in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e  da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni psicosociali di Hitler.  Un’analisi del Mein Kampf, (Patron 2004).   All’enorme quantità di ricerche che da ogni punto di vista e  con risultati di grande rilievo sono state condotte sul nazismo  questo saggio aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein  Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia  sociale. In primo piano, l’analisi delle «corrispondenze» tra le  espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui  giudizi riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il  successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi più civili  del mondo.   Stando ai risultati di questo saggio di Capozza e Volpato è  già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia  «come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella  Ebraica», considerata come il prototipo della razza «aliena»  che ha di mira, alleandosi con i «bolscevichi», la distruzione  della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi  sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai  suoi occhi alcune qualità positive che costituiscono per i  Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il  pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per colpa degli  Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito  nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li  e farli diventare quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il  suo partito è unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo  capisce i problemi della classe operaia.   Cioè «Hitler» scrivono le autrici «suscitava antisemitismo  non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei Tedeschi,  «ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una  importante dimensione di confronto: coesione, solidarietà,  omogeneità»: «una dimensione in cui non si vuole essere  inferiori». Tanto che le autrici possono concludere che Hitler,  «capace di raffinate intuizioni sull’uomo sociale, per  diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i  processi previsti dalle teorie psicosociali».   A loro avviso il testo «è basato su tre idee»: «darwinismo  sociale» («lotta eterna tra forti e deboli», «selezione naturale»,  «spazio vitale» ecc.), «principio etnocentrico» (al centro  dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio  «della personalità» (l’individuo superiore guida «la massa    321     stupida e incapace»). Qui vorrei rilevare che quei tre principi  appartengono (in modo filosoficamente ingenuo) a una  grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai  due ultimi secoli della storia dell’Occidente. Quelli della  «morte di Dio». Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No;  la «morte di Dio» è la figlia legittima, inevitabile, della «vita di  Dio». E invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al  senso essenziale e non si sappia mettere in questione la  «creatività» e la «volontà di potenza» dell’uomo ariano e non  ariano che sia.    322     Al capitolo III   8. Piazza della Loggia   Trentanni fa c’era molta incomprensione per quanto stava  accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni  dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero  inadeguate le interpretazioni fornite delle massime autorità  della politica e della cultura. Il presidente della repubblica  Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto  responsabile dell’eccidio, era «morto per sempre il 25 aprile  1945» e che di esso non sopravvivevano che «squallide  minoranze». Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si  trattava soltanto di rendere più efficienti polizia e  magistratura. C’era anche, però, chi sosteneva la necessità di  adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui  senso veniva peraltro lasciato nel buio -, ripristinando magari  la pena di morte. Il giorno dopo la strage di Piazza della  Loggia Alberto Moravia scriveva sul «Corriere della Sera» che  gli esponenti del fascismo erano soltanto dei «razionalizzatori  per lo più inconsci e quasi sempre imbecilli delle proprie  private tare».   Nel suo insieme, questo modo di prendere posizione  rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben  altro dietro le «squallide minoranze» o gli «imbecilli» che  razionalizzavano «le proprie tare private». C’era il problema  dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i  consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista  democratica del governo - e, questo, all’interno di una  situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati  Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non avrebbe mai  consentito che al governo, in Italia, ci andassero i comunisti.   Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America,  Kissinger non solo minacciò il ritiro delle truppe americane    323     dal nostro continente qualora gli alleati europei non si fossero  allineati agli Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di  petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo pesante ingerenza  degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è importante  ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la  sfera di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe  poi rimproverato gli Stati Uniti di non aver «salvato» l’Itaha  dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la  minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa, che a sua  volta, e a maggior ragione, doveva essere «salvata» dal  comuniSmo.   Negli anni Settanta ho dedicato una considerevole  attenzione alle connessioni tra terrorismo e situazione politica  internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi 1979, Rizzoli  2002) ne è la testimonianza. Ma solo un poco alla volta è  maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici  esecrandi, che a prima vista sembravano solo esplosioni di  una ottusa brutalità, erano invece espressioni di quella dura  vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la  sopravvivenza e i privilegi in un mondo sempre più  pericoloso. Il terrorismo che ha portato a episodi come quello  di Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla  semplice dimensione defl’immoralità, per uscire dalla quale  basta qualche pia intenzione delle anime belle. Un discorso  analogo vale anche oggi.   Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano  degli anni Settanta è un nano. Che però ha alle spalle una  forza enormemente più gigantesca di quella del Pei: il sistema  democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di  fronte alla possibilità di una conquista democratica del potere  da parte del comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei  risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che  avrebbero consentito il ripristino autoritario della legalità e,    324     con la messa al bando del Pei, l’eliminazione del pericolo  comunista. Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di  reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito  illegalmente alla «provocazione fascista» non è stato per  amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato,  ha capito che alla legalità e al carattere democratico del  proprio operato era legata la propria sopravvivenza; e  dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque  di non dovere prendere il potere in Italia. A quel tempo,  scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato quando non  fosse più stato un partito comunista.    325     9. Tasse e amnistia   L’aumento della criminalità in Italia è, come si suol dire, un  «fatto». Dunque non solo in città come Brescia - dove il tasso  di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei  fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento  caritativo della Chiesa nei confronti degli immigrati non è  l’unico dei fattori da tener presenti nella discussione di questo  problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante.   Dico questo, per l’analogia, apparentemente paradossale,  che sussiste tra il problema delle tasse degli Italiani e il  problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti  delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal centro-sinistra  del secondo governo Prodi e, direi, soprattutto e fortemente  dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle  decise sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione.  Ed ecco quanto intendo rilevare.   È molto probabile che, come a suo tempo aveva rilevato  l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente  governo di centro-destra in tema di tassazione avesse favorito  e incrementato la propensione degli Italiani all’evasione  fiscale. Quando l’«autorità» sembra andare incontro alle  nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a  rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata  un’«autorità», e accade appunto che comportamenti  televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza sul  piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a  imitarli.   Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il  problema fiscale e l’amnistia carceraria che ha rimesso in  strada anche persone il cui primo pensiero è stato di  riprendere l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non  aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati    326     extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente  ragionamento.   Come è molto probabile che il clima prodotto dalla politica  fiscale dei governi di centro-destra abbia favorito  l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il  clima determinato dall’amnistia carceraria abbia prodotto un  clima che ha portato la gente a credere che l’«autorità»  guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto  civile e penale, un clima che quindi ha in qualche modo  favorito ed esteso la propensione per quella diversa forma di  delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine.   Inevitabile che chi ha subito questa forma di suggestione,  determinata dall’amnistia, siano stati soprattutto gli  immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio  perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza  avvertire - come invece possono farlo coloro che in quel  Paese son nati - la presenza e il carattere bene o male  vincolante delle leggi in esso in vigore.   Nel caso dell’amnistia la suggestione è stata ancora  maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non  solo dalle forze politiche al governo, ma anche da  quell’«autorità» della Chiesa, che nel mondo può certo  vantare un’autorità maggiore delle forze politiche italiane.   L’amnistia ha creato un’immagine pubblica del legame tra  legalità e carità, che ha allentato il timore di trasgredire la  legge.   Pensando a questo e ad altri ordini di problemi avevo detto  alla svelta, in un’intervista rilasciata al «Corriere», che mi  risultavano «incomprensibili» certi atteggiamenti caritativi  della Chiesa bresciana. Si parlava dei delitti commessi a  Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla  Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito,    327     rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le  proprie ricchezze.   Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai popoli ricchi di  dare tutte le loro ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può  seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di  sembrare sublimemente folle. Tenta come può di seguire  Gesù: con le forme tradizionali della carità. Le quali, per un  verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si  riversano, quando possono, alfinterno dei rapporti civili  presenti nei singoli Stati e diventano opere assistenziali di  vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata  appunto l’amnistia in Italia. Che certamente non è l’unica  responsabile dell’aumento della criminalità nel nostro Paese,  ma che, altrettanto certamente, responsabile è.  Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto - non è  innocente. Tanto più importante quanto più simula le forme  della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello  sfogo delle proprie frustrazioni, che altrimenti indirizzato le  procurerebbe gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la  squadra in cui ci si identifica vinca e che la vittoria non sia  ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa  incontrollabile.   Nelle società povere Finsoddifazione finisce col  trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno  motivi per essere insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei  valori tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a  ogni altra. Ed è ormai un luogo comune rilevare che i mass  media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel  modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è  violenza, che acquista mille volti, l’imitazione del modello  violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e  moltiplicata. I violenti si sentono pertanto ripagati di molte  delle loro frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione  che si esiste solo se si è in televisione. C’è sempre stato  qualcosa di analogo. La violenza è una forma di potenza (o  addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è  pubblicamente riconosciuta. Non esiste un sovrano o un dio  la cui potenza non sia stata o non sia pubblicamente  riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non  ci si sente in qualche modo potenti o violenti e se quindi non  ci si rende il più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di  massa del nostro tempo sono la forma più potente di  riconoscimento pubblico e quindi di produzione della  potenza e della violenza. Alla messa in scena del progressivo  disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento  di ogni regola di convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che   10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo  homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a essere lupi gli  uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli Stati danno agli  individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la  ragione e la civiltà contro l’istinto e l’egoismo individuale! E  anche di questa belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione  di massa danno continua notizia alla gente, dando la  maggiore visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In  Italia è tempo di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che  come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione  fiscale, così gli indulti e le amnistie della sinistra  incrementano la violenza del crimine. Ma la gran ventura, che  riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi  della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è   11 guado che dai valori del passato conduce al futuro. Ravaioli: La crescita produttiva continua a essere  l’obbiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da  economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di  conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale,  che so, al bar, in treno, al mercato; dato come una  indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede...  A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei chiederle che ne  pensa: è d’altronde un avvio perfettamente calzante col  discorso che ci proponiamo. Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di  cosa ovvia è in buona parte dovuto all’ignoranza. Sono  decenni che si va intravedendo l’equazione tra crescita  economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro  checondivisibile l’auspicio di una crescita indefinita.   R. Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza  consapevole delle conseguenze negative della crescita?   S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di  una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel  mondo dell’intrapresa capitalistica - la forma ormai  pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va  rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata (anche  se poi si fa ben poco per controllarla).   R. Non si direbbe proprio...   S. Sì invece. Vent’anni fa, quando Lei scrisse quel suo bel  libro che interpellava numerosi economisti a proposito del  problema dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati  affermava che quello del rapporto tra produzione economica  ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti  sono molto più cauti... e anche le dichiarazioni dei politici  sono diverse da venti o trent’anni. R. In pratica però non fanno che invocare crescita, senza  nemmeno nominarne i rischi...   S. Be’, in periodo di crisi economica, di fronte al pericolo  immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla  necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il  problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la  dimensione strategica. R. E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che  inconfondibilmente denunciano la pericolosità della  crescita... Dal Golfo del Messico a Fukushima... per citarne  solo un paio dei più gravi e che hanno avuto massima  risonanza.  S. Certo. Ma, facendo un passo avanti, vorrei precisare che  prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa  capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, ma  alla gestione economico-politica della tecnica... Non sono  disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica  della scienza e della tecnica... Sono disfatte, cioè, del  capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di  tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente).   R. La mia impressione però è che quanti insistono a  invocare crescita continuino a ignorare che tutto quanto  vediamo, tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che  dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non  dilatabili a richiesta. Questa realtà in sostanza viene  «rimossa». I grandi industriali che si confrontano a Davos,  Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema...  Automobili, barche, indumenti, mobili, computer... tutto  quanto esce dalle loro fabbriche... di che cosa credono che  siano «fatti»?   S. Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di  preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso  sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima  preoccupazione è tappare la falla... Poi si pensa al luogo dove  approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non  pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso  diventa inutile tappare le falle... Si verificano allora tutti i  comportamenti che lei giustamente rileva.   R. Scusi, non vorrei aver capito male... La sua è una  giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco  o tanto, è responsabile dell’economia mondiale?   S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver  occhi che per i problemi immediati, ignorando quelli  fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però  una mancanza di consapevolezza che ha incominciato a  incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima.  Sebbene ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte  politiche...   R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento  dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato  dagli anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato  completamente ignorato.   S. Ecco, forse su quel «completamente» si può non essere  d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al  Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli  Americani della necessità e convenienza di una crescita  economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in  qualche modo anche Obama ha fatto propria...   R. Però nessuno di quelli «che contano» sembra rendersi  conto che la crescita produttiva attualmente perseguita - che  è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di  fatto col sistema capitalistico. Anche celebri economisti (vedi  Stiglitz, Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno)    333     riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non  accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione  il capitalismo.   S. Sono pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la  situazione... Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo  conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una  politica economica meno «produttivistica» significherebbe  mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano  militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina...  Nella situazione attuale, rinunciare alla crescita, cioè alla  potenza economica, significa essere sopraffatti... E sembra  difficile anche rinunciare alla base economica richiesta  dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto  spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare  decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un  problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là  dove si è consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge  la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione  di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi...  con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda  finché sarà possibile.   R. Certo. Tutto questo che lei dice corrisponde a una  lettura intelligente e del tutto esatta della realtà. Mi domando  però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una  natura devastata - in misura già oggi forse irrecuperabile - da  un agire economico fondato su una crescita produttiva che  non prevede limiti.   S. È da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare  cinico - l’intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali:  «Dovreste mettervi in discussione». Le grandi potenze non  cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa  che va contro i loro interessi... Ce la vede lei una Cina che    334     rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tète-  à-tète attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto  dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai anche in Europa  la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E  continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non  basta quello che sta succedendo: solo un disastro di  proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere  l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo  radicale...   R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla  storia?   S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi  immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità, ancora più  perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in  quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche  l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè  dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il  capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo  agire, assumerà come scopo non più l’incremento del profitto  ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più  capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando  avanti così, cioè volendo avere come scopo il profitto,  distrugge la terra, la propria «base naturale», e quindi sé  stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra,  e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso.  In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del  tramonto del capitalismo.   R. Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere.  Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane - sembrano aver  definitivamente rinunciato all’idea di superare il capitalismo.  Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non  hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso  ecologico sono soprattutto le classi più povere... Ma no,  anche le sinistre sono allineate sull’invocazione della crescita,  di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari:  ciò che certo è comprensibile, anzi necessario, ma che forse  potrebbe non limitarsi (come per lo più sostanzialmente  accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari  tentare di spingere lo sguardo un po’ più lontano: dopotutto  la globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se  non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina...   S. Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di  qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo,  delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è  che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al  capitalismo... Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo  sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma anche i  totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le  religioni e ogni «visione del mondo» e «ideologia»... - si sono  illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che  cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte  quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio  la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del profitto  privato, oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la  sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto  riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità,  cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che il socialismo è  quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di  controllare la macchina tecnologico-statale-militare-  burocratico-finanziaria ecc.. L’«individuo» - come il  «capitalista» - si illude di poter controllare l’apparato  tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione...   R. Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i  possibili. S. Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico,  essendo diventato la condizione della sopravvivenza  dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa  esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica  della produzione - è destinato a diventare la dimensione che  va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei  confronti di tutte le forze che vogliono servirsene.  Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi  «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li  persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare,  da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra  mondiale, democrazia, religione, e ogni «ideologia» e «visione  del mondo», ogni movimento e processo sociale diventano  qualcosa di subordinato, diventano essi un mezzo per  realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è  insieme l’incremento indefinito di tale potenza... Perciò  spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà  delle forze che capiranno che non ci si può più servire della  tecnica... La grande politica è la crisi della politica che vuole  servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove,  dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze  in campo che ho menzionato - saranno costrette a rinunciare  ai propri scopi e diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si  serve. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o  «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo  diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la  cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto  umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come essere  tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma  neanche remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà  destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà  renderlo alle forze che ancora si servono di essa ma che sono  forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la  tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi come scopo...  E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa  funzione stia dando prove quanto meno discutibili...   S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova  di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il modo, ad  esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali  nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione  capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la  pericolosità di quel tipo di centrali. (Debbo però aggiungere -  ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica  destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o  scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza  della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale  dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire  dell’uomo.)   R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le più avanzate e  intelligenti, le più utili persino, finiscono per essere nei  confronti dell’equilibrio ecologico «naturale» delle continue  aggressioni, o quanto meno delle minacce...   S. Di nuovo rispondo di no, e che è la volontà di profitto a  rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni  tecno-scientifiche.   R. Ma non è la volontà di profitto a generare, o almeno a  favorire, la creazione di tecniche?   S. Sì, le ha favorite (e in qualche caso generate), ma allo  scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è  destinato al tramonto.   R. Resta però il fatto che molti istituti scientifici, anche di  largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi  potentati economici... E questo in qualche misura significa    338     condizionarli...   S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza  globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi  inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda  conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine,  condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la  tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi...   R. Si diceva che le sinistre - a parte l’impegno per la difesa  del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che  diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo  ben più ampio di quello che hanno le sinistre oggi...  Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era  l’ Internazionale... Tentare di guardare un po’ più lontano...  Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non  potrebbe portare a una proposta alternativa?   S. Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non  si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì,  come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si  sente dire a proposito dei problemi più importanti: «Non è  questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica».  È un piccolo indizio del processo dove le soluzioni tecniche  prevalgono su quelle politiche e «ideologiche».   R. Mi riesce difficile seguirla... la tecnica viene solitamente  vista come uno strumento usato dal capitalismo...   S. Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico  vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il  servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si  liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla  quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal  capitale.   R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla  tecnica. S. Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla.   R. Una tecnica che - insisto - porta alla devastazione della  terra...   S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì.  Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi  che devastando la terra devasta sé stesso (e cambiando rotta,  cioè scopo, si distruggerà egualmente).   R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce  contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò  esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre?  Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no?   S. Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica  qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle  mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un  movimento che procede per conto proprio, guidando e  animando la volontà così come, si sa, la struttura del capitale  domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva  appunto che i singoli capitalisti sono le prime vittime del  capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica  prende il posto del capitale.   R. Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in  qualche modo, come dire... operante e avvertibile? Oppure si  tratta per ora soltanto di un’ipotesi filosofica?   S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel  modo adeguato (e dunque non «soltanto» ipotetico) di fare  filosofia. Per essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente  operante e avvertibile.   R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un suo recente  articolo, apparso sul «Corriere della Sera», al modo in cui il  Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio dal  Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle  logiche e ai «valori» del capitalismo, possa muovere una critica, e magari una messa in crisi della cultura dominante? È  qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio  quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di  Cochabamba, un gruppo di «campesinos» lanciò uno slogan  che diceva: «Non si tratta di cambiare il clima, bisogna  cambiare il sistema»; aprendo un orizzonte enormemente più  ampio di tutte le altre «parole d’ordine» correnti, che  insistevano soprattutto sui mutamenti climatici, e di fatto  denunciando un rapporto Nord-Sud che per mille aspetti  ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le  impone. È solo un episodio, ma non crede che proprio da  questi mondi potrebbero partire spinte decisive alla messa in  crisi delle logiche politiche dominanti?   S. Be’, il fatto che questi popoli vadano riproducendo il  modello occidentale dimostra che l’Occidente ha raggiunto la  prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al  dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo l’itinerario  compiuto dall’Occidente... L’autentico «cambiamento di  sistema» è quella destinazione.   R. Professore, certo è incapacità mia di seguirla fino in  fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di  scrivere, in libri dedicati appunto alle questioni ambientali, su  questo crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi  della natura... Spesso citando quello straordinario libro,  firmato dal grande biologo americano Stephen J. Gould, che  si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica  dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una impossibile  sfida alla natura. Nella quale peraltro sempre è evidente il  senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse...  tutti sempre vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è  colpa... E lo è la scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad  Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato  il frutto dell’albero del sapere. S. Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a  proporre spunti estremamente interessanti.   Quando parlo in termini «positivi» della tecnica, ne parlo  nel senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più  radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non intendo affatto fare  l’apologià della tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia,  vanno progressivamente facendosi più rigorosi e coerenti...  Pensi al discorso di Freud, che la religione è quella follia -  grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le  forme di follia dell’individuo... Nella tecnica l’errore è  destinato a diventare massimamente rigoroso. L’errore nasce  con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire  perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti né le altre forme  della sapienza umana. È vano combattere e incolpare  Prometeo, «che ha dato tutte le tecniche ai mortali», con  strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il  capitalismo, il marxismo, il cristianesimo, l’islam, il  totalitarismo, la democrazia ecc. sono forme deboli di tecnica.  Ma con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È  la forma più radicale dell’errore. Che però sembra la forza più  potente.  R. Una volta ancora non posso non apprezzare il suo  pensiero... Non riesco però a non domandarmi se non ci sia  nulla da fare, o per accelerare questo processo portandolo a  una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la  distruttività. Sono tante ormai le persone che si preoccupano  per il futuro di un mondo per mille versi sempre più  problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani,  consapevoli e impegnati... A tutti costoro che cosa si  sentirebbe di consigliare?   S. La ringrazio. Per ora siamo gettati nell’errore; ma  proprio per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché  parlavo prima della «grande politica». Per praticarla è  necessario incominciare a guardare in faccia il senso  essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della   volontà di potenza: il senso del fare. Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul «manifesto» nel luglio 2011. Al capitolo V   12. Non veritas, sed auctoritas facit legem-   Per considerare il rapporto tra «processo» e «tecnica» si  può certo rimanere alFinterno della specializzazione  giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione  Patteggiamento che non riflette sul senso della  specializzazione? Si vive in una nave - la si vive come nave -  quando non si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E  d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è  ancora alFinterno di essa? (Si profila così un’antinomia, che  può essere il sintomo del carattere contraddittorio della  specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto,  peraltro fondamentale, del discorso.   La tecnica riguarda il «processo» in relazione, innanzitutto,  ai limiti entro i quali le competenze tecnico-scientifiche  devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il  compimento delle procedure giudiziarie. In questo caso, le  competenze tecniche (mediche, psicologico-psichiatriche,  chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da  mezzo - per quello scopo che è la conduzione e il  compimento del «processo.   A sua volta, il «processo» stesso, come fatto giuridico, è  scomponibile in un momento tecnico-strumentale e in un  momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento  tecnico-strumentale è, ad esempio, la formazione dei  magistrati, e in genere, dell’organico, e il modo in cui sono  formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo  scopo è la verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai  casi intorno a cui verte il processo.   Ma, daccapo, lo scopo di una società non è quello di  verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge  «viga». Affinché viga è necessario verificare se ciò avvenga. E questo significa che la verifica giuridica si dispone a sua volta  come strumento, come mezzo per la realizzazione di quello  scopo che è il «regno della legge» nella società.   Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente  indicato, dove lo scopo si dispone come strumento di uno  scopo superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda  il concetto stesso di «legge», sottoposto a una profonda  trasformazione, dove l’atteggiamento giusnaturalistico,  proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto  dall’atteggiamento giuridico che è proprio del diritto positivo.  E, anche qui, si tratterà di comprendere l’ultima sezione di  questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua  volta destinato a diventare, da scopo della verifica giudiziaria,  mezzo, cioè strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui  dominio il pianeta sta procedendo.   A partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione  occidentale, in cui il giusnaturalismo si inscrive, non  auctoritas, sed veritasfacit legem. La «verità» è il fondamento,  il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato dalla natura  delle cose; e la verità è il luogo in cui tale natura mostra il  proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i  millenni del mito, un senso inaudito della Verità: la Verità  come sapere incontrovertibile che mostra, manifesta (e  pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere,  un contenuto che sta e appunto per questo è chiamato  epistéme ( epi-stéme ). La Verità mostra l’ordine immutabile al  quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua  alle leggi che si fondano sulla Verità che il sapere filosofico ha  portato alla luce e alla quale si commisura la stessa rivelazione  cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato  (e l’individuo) è misurato dalla sua adeguazione alla verità, in  quanto principio ispiratore della legge. Il valore della legge  non è dato dalla pura forza, ossia da un auctoritas che sia pura forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità.   Ma dopo questa grande epoca della civiltà occidentale,  dove verità e legge formano una unità indissolubile, si fa  innanzi con sempre maggior forza il principio opposto, per la  prima volta enunciato da Hobbes: non veritas, sed auctoritas  facit legem. È il principio del diritto positivo, che acquista il  proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal  contesto in cui viene formulato nella filosofìa di Hobbes - in  una filosofia cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il  senso di fondo che il pensiero greco ha conferito alla «verità».   La transizione dal giusnaturalismo al prevalere del diritto  positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio  emergente del grandioso processo storico-critico, in cui la  tradizione dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e  pertanto dall’agire umano, e soprattutto e fondamentalmente  dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Poiché il diritto  positivo non si fonda su alcuna «Verità» assoluta, ed è  positivo perché «pone» ciò che la volontà sociale dominante  (del sovrano, dell’eletto rato, di una oligarchia economico-  politica) vuole di volta in volta come legge, il processo  giudiziario che si sviluppa alfinterno di questa forma di legge  è compatibile con qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di  natura democratica o no.   D’altra parte, la transizione al positivismo giuridico è  analoga a quella che conduce dalle varie forme di  totalitarismo alla democrazia del nostro tempo, che definisce  sé stessa come semplice «procedura», che di per sé non  propone o impone alcuna «Verità» assoluta ai cittadini ed è  pertanto compatibile con qualsiasi contenuto sollevato al  rango di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa  radicalmente fondata - e inevitabile, all’interno della storia  dell’Occidente - l’affermazione che non veritas, sed auctoritas  facit legem.   Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo  giuridico e alla democrazia sono aspetti particolari - e molti  altri potrebbero essere menzionati - conduce al di là delle  forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno  che Nietzsche ha chiamato «morte di Dio» - sì che il  passaggio dal giusnaturalismo al positivismo giuridico è la  morte di Dio in ambito giuridico -, è la morte della forma  assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel  fenomeno è grandioso, non solo per le sue proporzioni, cioè  per il suo aver investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire  tradizionali, ma anche perché si presenta secondo una  inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V), per la quale tale  fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni  da parte della società e dei suoi membri. Solo cogliendo il  senso di questa inevitabilità si può comprendere che oggi  l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi  verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il  modo in cui all’interno di essa viene realizzato e praticato il  diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è  l’inevitabilità del tragico; ma non le si possono voltare le  spalle per il semplice fatto che non va incontro a certe nostre  aspirazioni.  L’espressione «dietrologia» è screditata. Ma può essere un  sinonimo del concetto scientifico d’ipotesi: l’ipotesi esplora ciò che «sta al di sotto» di quanto si manifesta  comunemente o immediatamente. Al di là del senso  screditato della dietrologia, l’ipotesi scientifica ha cioè un  carattere essenzialmente «dietrologico». Nemmeno quel tipo  di disciplina scientifica che è il diritto può evitare di  formulare ipotesi, ossia di andare al di là di ciò che  comunemente appare e che viene chiamato «il fatto».   Gli estimatori del «fatto» - anche tra i non giuristi -  collocano spesso l’attività giuridica in un ambito improprio;  cioè la considerano come la dimensione all’interno della quale  «il fatto» riceverebbe uno dei più validi e autentici  riconoscimenti della sua importanza e del suo carattere  decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Popper, per la quale la  struttura del processo giudiziario è il modello dell’attività  scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi  di Nietzsche, che non esistono «fatti», ma solo  «interpretazioni». Ma tale corollario significa che alla base  della scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale  circostanza rispecchia la struttura del processo giudiziario, sì  che quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i  «fatti» sono posti al di sopra di tutto, come fondamenti  indiscutibili - è inteso invece come il luogo che si fonda su  «interpretazioni» rivedibili e falsificabili.   Gli estimatori dei «fatti», che vedono nell’attività giuridica  la più autentica valorizzazione dell ’infallibilità dei «fatti», non  si rendono conto che la scienza riconosce ormai senza  complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne  il senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che  sussiste tra procedura scientifica e procedura giudiziaria. L’analogia può essere così espressa: il sistema delle leggi  scientifiche viene commisurato a un insieme di elementi che  non sono «fatti», ma «interpretazioni» di fatti; cioè risultati di  decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di  assumere come base (o come fatti) del sapere scientifico, in  modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo  giuridico il sistema delle leggi viene applicato non a «fatti»  incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un  gruppo qualificato di assumere un insieme di eventi come  qualcosa di effettivamente accaduto. Il «veramente» accaduto  è inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere  qualcosa come il veramente accaduto. Anche per questo  motivo la storia di un popolo non può essere ricostruita in  sede giudiziaria, appurando i «fatti».   Comunque, anche questa crisi della verità del «fatto»  appartiene al processo, a cui prima ci si è rivolti, che conduce  al tramonto inevitabile della tradizione e della tradizione  giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il  «giudice» è colui che «mostra con autorità» la Verità -  «giudice» essendo parola composta da ius e dalla forma  congetturale dix, riconducibile alla radice indoeuropea deic,  che indica appunto il «mostrare»; sì che l’autorità del giudice  gli deriva dal suo rapporto con la verità.   È aH’interno della transizione inevitabile di cui stiamo  parlando - cioè dalla vita alla morte della Verità e di Dio -  che assume un significato particolarmente rilevante anche il  tema della «corruzione» della società italiana e del  conseguente conflitto tra magistratura e potere politico. In  base a una logica diversa da quella che intende «appurare i  fatti», cioè in base alla logica dell’interpretazione, è possibile  affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata  combattuta una lotta mortale tra capitalismo e socialismo  reale, una lotta senza esclusione di colpi. Una situazione, questa, che, ovviamente, ha costretto ognuno dei due  antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle  proprie forme di offesa e di difesa. Anche le società  democratiche, dunque, sono state costrette, per evitare il  suicidio, ad adottare questa strategia. Le democrazie  parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non  democratico, giacché «democrazia» e «trasparenza» (e  dunque quella trasparenza che avrebbe messo la democrazia  nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza  democratica è il carattere pubblico delle decisioni essenziali di  una società; e la democrazia, per sopravvivere, non poteva  rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il  socialismo reale.   Ma questo clima di non trasparenza, di occultamento e di  privatizzazione delle decisioni essenziali delle società  democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire  la corruzione. L’illegalità di alto profilo politico, cioè la  necessità che per sopravvivere la democrazia agisse in modo  non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè  la corruzione per ottenere vantaggi privati, che ha  accompagnato gli anni della guerra fredda (che si è  prolungata sino ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il  conflitto tra politica e magistratura) soprattutto in Paesi come  l’Italia, più esposti al pericolo comunista sia per la loro  posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti  politici che in tali Paesi erano guidati dall’Unione Sovietica.   La fine di quel gigantesco fenomeno che è stato il  socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al  tramonto della tradizione occidentale - non ha lasciato il  vuoto: sul terreno ha lasciato un gigantesco cadavere, con il  quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già,  più di una quindicina d’anni fa, ben prima cioè che  esplodessero i disordini nelle ex repubbliche dell’Urss. (Infinitamente più complessi di quelli, pur consistenti, che si  devono fare quando un capofamiglia autoritario se ne va  all’altro mondo.)   Durante e dopo la «guerra fredda» c’è stato qualcuno che,  pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e  qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio personale da  azioni illegali, ha combattuto il comuniSmo. È stata cioè di  alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata  costretta a praticare per combattere il comuniSmo e per la  quale la democrazia si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto  di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più  sicuro, dal punto di vista anticomunista, il sistema mafioso  che non i partiti della sinistra italiana.) Anche la «corruzione»  italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi  dell’Occidente democratico) è dunque una conseguenza della  morte inevitabile della verità, del diritto naturale, di Dio. Da  un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto  consapevolmente in contraddizione con sé stesso; dall’altro  lato, ha sopportato l’immoralità privata come tributo da  pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi  questi due lati si costituiscono perché, a differenza degli Stati  totalitari, o «etici», del fascismo, del nazionalsocialismo, del  socialismo reale (che sono una versione secolarizzata e  distorta del divino), la democrazia non crede più  nell’esistenza di una «Verità» che regoli la vita sociale e  individuale e che non possa essere in alcun modo violata.  Come il giusnaturalismo sta al positivismo giuridico, così lo  Stato totalitario, persuaso di possedere la Verità e di dover  adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la  Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé  indifferente alla verità o falsità dei contenuti.   Lo stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si  presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un dilemma.Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o,  meglio, il capitalismo, in quanto unito alla democrazia  parlamentare. Esso ha vinto il nemico mortale. È una forza  che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al  controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non  può tener conto, in quanto giuridico, della situazione storica  eccezionale in cui il capitalismo democratico è venuto a  trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto  fino in fondo, il capitalismo italiano (e non solo) vedrebbe  minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la  seconda guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha  evitato che la burocrazia fascista - che in quanto funzionale  allo Stato fascista aveva agito in condizioni di illegalità - fosse  incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di  incriminare chi aveva perso; non, come invece è il caso della  democrazia capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e  ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità funzionale  alla vittoria. Come incriminare certi nodi cruciali dell’assetto  capitalistico vincente, operando con criteri giuridici che si  fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì   Ma, dall’altro lato, non può essere dimenticata la situazione  drammatica del giudice consapevole della propria funzione,  perché a sua volta egli è e si sente obbligato a procedere  contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che sino  a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si  prenderanno le decisioni richieste per operare una chiara  distinzione tra illegalità di alto profilo politico e illegalità di  basso profilo, si perderà anche di vista che lo scontro attuale  tra politica e magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben  più profonda - che tuttavia non è qualcosa di statico, ma è in  evoluzione, come ora proverò a precisare, ossia si trova  anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto quanto si muove lungo di esso. S. inizia queste riflessioni mostrando una sequenza  dove ciò che dapprima si pone come scopo, diventa in seguito  mezzo e strumento. Si era detto che nella tradizione  occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla  preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla  Verità, è lo scopo della vita sociale e individuale. Ma la Verità  tramonta. Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che  sono entrambi «positivi». Ogni sapere e ogni azione ormai  sono «positivi» - o è in quanto «positivi» che essi guidano la  storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire  tradizionale tentano ancora di adeguare alla verità.   Ogni grande forza oggi ancora in vita (sia essa una forza  della tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto  addio) ha questo tratto comune: di servirsi della tecnica.  Ognuna intende servirsi della tecnica, che è lo strumento più  potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la  dimensione giuridica intendono servirsi della tecnica. Ma la  tecnica guidata dalla scienza moderna è destinata a diventare,  essa, lo scopo di tutte queste forze.   Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la  conflittualità che contrappone le une alle altre: dopo il  socialismo reale, il capitalismo, la democrazia, il  cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di  umanesimo laico, e la stessa ideologia scientistico-tecnicistica  (che non è più capace delle altre forze di cogliere l’essenza  autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un  principio di cui spesso ci si dimentica, e cioè che lo scopo di  un’azione determina e stabilisce il senso e la configurazione di  essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa  era, se viene ad assumere uno scopo diverso da quello che  inizialmente la definiva e stabiliva. Un diritto, o una democrazia, che si pongono come scopo della tecnica sono  qualcosa di essenzialmente diverso da un diritto, o da una  democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si  costituiscono come mezzi per la realizzazione di tale scopo.   Una situazione conflittuale, come quella che sussiste tra le  forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri  non solo al potenziamento crescente dello strumento - la  tecnica - di cui si serve per imporre i propri scopi su quelli  antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento  ottimale di tale strumento. Altrimenti soccombe. Ma quando  ha di mira i due tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla  strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori,  ha assunto come scopo la potenza dello strumento che  dovrebbe realizzarli. Anche senza avvedersene, tende a uno  scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando  qualcosa di diverso da ciò che essa crede di essere. Andiamo  verso un tempo in cui non saranno più la democrazia e il  diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua  configurazione autentica, a servirsi, se ciò varrà ad accrescere  la sua potenza, della democrazia e del dir itto.   I due avversari che oggi si combattono - dimensione  politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al  dilemma che sopra abbiamo considerato, sono pertanto  destinati a riconfigurare il loro conflitto in relazione alla  circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia,  cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma tra mezzi che  hanno lo stesso scopo: il potenziamento crescente della  tecnica - di una tecnica che non è la tecnica che intesa in  senso tecnicistico, scientistico, riduttivistico, merita di essere  soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a  dare sempre più ascolto alla voce essenziale del pensiero che  porta al tramonto la tradizione dell’Occidente. Mostrando la  morte di Dio e della «verità» tale pensiero mostra l’assenza di ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma  suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico-  tecnologico: la forma di volontà di potenza a cui va già  sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza  apparsa lungo la storia della terra.   (Dopo di che sarà la volontà di potenza a dover dar conto  di sé - giacché le considerazioni che ho sviluppato non  intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima  parola.)    356     15. Tecnica e pluralità delle tecniche 1   La gente si accorge che le leggi difendono spesso gli  interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se  vogliono sembrare «giuste». Però la gente crede ancora che ne  sono fatte e se ne potrebbero fare di buone. Nelle scienze  giuridiche tradizionali, «buone» e «giuste» sono innanzitutto  quelle che rispecchiano la «natura» dell’uomo: leggi, appunto,  del «diritto naturale», per il quale la «natura» dell’uomo  rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del  mondo, immutabile e inviolabile, portato alla luce dal  pensiero filosofico sin dall’inizio della nostra civiltà e poi  interpretato dal cristianesimo.   Da uno-due secoli questa concezione giuridica è  profondamente in crisi (sebbene non sia ancora morta). Si  pensa cioè che non esista alcun diritto «naturale» e che ogni  legge esprima un «diritto positivo», «posto», «imposto» dalla  libera volontà dell’uomo. Anche alla radice di questa crisi si  trova la filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della «morte  di Dio» e la conseguente morte di ogni «natura» che, in  qualsiasi campo, intenda rispecchiare l’Ordinamento vero e  divino della realtà. Anche il diritto (come la democrazia)  diventa pertanto semplice «procedura» in cui può essere  immesso qualsiasi contenuto - quello delle democrazie  parlamentari, del capitalismo, del nazionalsocialismo, del  socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola  criminalità. (La procedura correttamente praticata può anche  sopprimere sé stessa.) Che una forza si imponga sulle altre  non dipende dalla sua «verità», ma, appunto, dalla sua forza.   Con Natalino Irti, eminente giurista di grande e rara  apertura filosofica, discuto da tempo questi problemi. Un  nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio  pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha pubblicato in seguito il    357    volume Nichilismo giuridico (Laterza 2004), sul quale tra i  temi centrali figura una consistente ripresa della discussione  avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e  stima che anche in queste pagine mostra nei miei riguardi -  anche se mi sembrava di aver già risposto a quanto egli mi  obbietta.   D’accordo con me, sostiene che il diritto, ridotto a  procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui  «l’essenza tecnica del diritto» abbia già, di fatto, del tutto  eliminato ogni «diritto naturale» e ogni Ordinamento vero e  divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato  sopravvive. Anche se è una foglia secca attaccata al ramo il  punto è che può persino credere di stare alla guida del mondo  - si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria  di Bush alle elezioni americane del 2004. Per questo, da parte  mia, si parla di una «tendenza» che, certo inevitabilmente,  conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto  conduce alla civiltà della tecnica -, ma che ancora deve fare i  conti con la sopravvivenza di fatto del passato.   Per Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica  «almeno» il capitalismo e le «discipline fisiche e naturali».  Non allunga l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio,  delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del  comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati del  comportamento umano non si può ancora dire che siano già  tecnica. Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio  perché intende servirsi anch’esso, in quanto si serve, della  tecnica, ne differisce. Non sono già tecnica: stanno  diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi  della tecnica come mezzo, sono infatti sempre più costrette ad  assumere come scopo non più i valori che esse perseguono,  ma l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la  quale è pertanto destinata a diventare il loro scopo. Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che  «la tecnica si scompone nella pluralità delle tecniche», in  modo che la tecnica a cui io penserei si svuoterebbe di ogni  contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico  che la tecnica non mira «a uno scopo specifico e escludente»,  ma all’incremento indefinito della potenza, intendo che la  tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa)  tende a far sì che gli scopi da essa realizzati non impediscano  la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza  disponibile. Ad esempio tende a far sì che la produzione di  farmaci che arricchiscono certe industrie non impedisca la  produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili  alla sopravvivenza di intere popolazioni; o che le istanze  ecologiche siano soddisfatte evitando la catastrofe economica;  o che le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non  si limitino a vicenda. Irti vede solo lo scontro (il cui esito  sarebbe imprevedibile) tra le forze che ormai sono già  tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e  di contro alle tecniche specifiche, come «astratta» capacità di  produzione. Io gli rispondo che non ho mai pensato a una  tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme  meno potenti della tecnica e la tecnica moderna, cioè tra le  forze del passato - fra cui il «diritto naturale» - che ancora  tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi  (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile tendenza di questi  apparati a farsi strada e a diventare essi gli scopi di quelle  forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino  perché è la forza oggi più potente, ed è la più potente perché  avverte sempre più la voce della filosofia. Tale voce dice che  davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna  «natura» da rispettare.   Con ciò non si intende negare la presenza di qualsiasi  forma di limite. Infatti, la tecnica si dà limiti che, pur non essendo espressione del diritto naturale, sono espressione del  diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto  positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica,  nell’età della dominazione del senso autentico della tecnica  nemmeno il diritto positivo può essere lo scopo che si serve  della tecnica come mezzo, limitandone pertanto la potenza.  Anche il diritto positivo è cioè destinato a diventare un mezzo  che rende possibile il maggior incremento possibile della  potenza tecnica. Il diritto positivo, peraltro, sa di non essere  una «verità» necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor  meno della «Verità» della tradizione può avere la pretesa di  porsi come scopo del potenziamento dell’apparato scientifico-  tecnologico. In latino «uccidere» si dice anche mactare. Noi diciamo  «mattanza». In spagnolo «uccidere» si dice appunto matar.  Ma la parola latina mactus significa «ingrandito»,  «rafforzato», «innalzato», «glorificato». Ha la stessa radice di  magnus («grande»): la radice indoeuropea magh, che è  presente anche nel greco mechané («strumento»). Una sorta  di etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come  magis auctus, cioè «reso ancora più grande e più ricco». Su  mactus si forma il verbo mactare, che significa appunto  «ingrandire», «aumentare», «glorificare», «innalzare», e anche  «onorare», «placare»; ed è parola specifica del linguaggio dei  riti, soprattutto di quello del sacrificio. Mactare sposta allora  la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis,  «rafforzare» il dio con le viscere delle vittime del sacrifìcio),  allo strumento del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora  anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a mactare deum,  compare mactare victimam. In qualche modo il linguaggio  nasconde la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel  proprio opposto. Ma dai recessi dove il linguaggio costruisce  le apparenze da cui sono guidati i mortali si deve risalire ben  più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore  i mortali. Essi sono appunto coloro che «vedono» le  trasformazioni, cioè la morte delle forme. Fame e sazietà,  freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e  svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e  morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta,  roccia. Non appena il mortale si afferra a qualcosa, fuori o  dentro di sé, le cose gli diventano altro da quello che sono.  L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque  l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia evocando come  rimedio la forza più potente e rendendosela amica: la forza  del dio. Agli occhi del popolo greco questo processo    361     incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose,  eventi, stati incominciano a trasformarsi in  quell’assolutamente altro che è il nulla. Al culmine della storia  dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la  tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il rimedio efficace  contro l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel  divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui  si ha fede che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa  non è, e infine si ha fede che le cose - gli essenti le cose che  non sono un nulla - siano nulla.   Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che  l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento  umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo offre al Dio sé  stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in  lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé,  ed è quindi immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che  nella vicenda terrena son divenute cose morte. Anche in  questo secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi  dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede al Dio la propria  eternità e immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide,  dunque - sia come Dio religioso sia come quel Dio  tecnologico - che permane al di sopra del tempo degli  individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per  sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando  Feuerbach mette in tensione la sentenza di Moleschott: der  Mensch ist, was er isst («l’uomo è ciò che egli mangia») con  Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche «Dio è  ciò che egli mangia») il nesso tra ontologia e nutrimento - e  tra nutrimento, sacrificio e annientamento - non ha più nulla  di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio  cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più importanti in  questa direzione e che insieme si porta al di là dell’ontologia  da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il «diventare Dio» esprime in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale  divenire è infatti un «sacrificarsi» al Dio. Hegel pensa che  nella religione lo «Spirito assoluto» veda sé come Altro, ceda  sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa  tesi hegeliana pensando che è l’«Uomo» a cedere sé stesso al  Dio. In entrambi i casi il Dio consuma l’essere dello «Spirito  assoluto» e dell’«Uomo». E anche Hegel e Feuerbach fondano  l’alienazione dello «Spirito» e dell’«Uomo» sulla fede nel  divenir altro.   Tuttavia, in gran parte delle immagini del divino lo  svuotamento dell’uomo che si aliena in Dio rispecchia lo  svuotamento del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo.  Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un  divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la salvezza  dell’uomo, che sta al centro del messaggio cristiano, sta al  centro dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del  mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto dal  sacrificio dove la vittima è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo)  che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima,  all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra il Dio e l’uomo,  dove il Dio è il Tremendum la cui inflessibilità non lascia  vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve  farsi largo e abbattere la divina barriera inflessibile, ossia deve  uccidere il Dio - giacché abbattendo la barriera e facendo  sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando  Dio nell’«al di là» e infine negandone l’esistenza) l’uomo  uccide il Dio originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S.,  L’intima mano, Adelphi). Particolarmente interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello  del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco Totaro. Qui  rispondo brevemente solo ad alcune delle obbiezioni sollevate  (Cfr. gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004  all’università di Macerata).   Riprendendo un problema già sollevato in quel libro,  Vitiello osserva che la volontà, che nella  dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto,  «non vuole al modo del precedente volere», e quindi ciò che  ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso. L’interpretazione  dell’eterno ritorno data in quel libro non riuscirebbe quindi a  mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno  si rispondeva anticipatamente a questa obbiezione (p. 258)  dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno  dell’assolutamente identico, appunto perché un qualcosa  differisce dal ritorno di tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche  fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende  posizione rispetto a questa fondazione, ma si limita a indicare  l’assurdo che scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia,  per Nietzsche tale necessità sussiste nel senso che è necessario  che ciò che nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico  sia la totalità del contenuto voluto (la totalità che dunque è  «finita»), ma non la forma del contenuto, cioè il ritornare di  esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma,  ossia Inattività» del volere cresca all’infinito. E poiché  nemmeno ogni nuova ripetizione può costituirsi come un  «così fu», cioè come un passato immutabile e indipendente  dalla volontà, è necessario che ogni nuova ripetizione sia essa  stessa eternamente ritornante e ripetuta, eternamente  rivoluta: «l’attività è eterna», scrive Nietzsche. Il contenuto  ritorna eternamente, assolutamente identico; la forma cresce all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a  ritornare, aH’infinito, e in questo senso «eternamente» essa  stessa.)   La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto  con L’anello del ritorno riguarda la tesi, fondamentale anche  in questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del  divenire - inteso come venire dal non essere e ritornarvi, da  parte degli enti - è l’evidenza suprema, la suprema verità.  Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio  sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due  secoli (e Nietzsche è tra i pochi abitatori di tale sottosuolo)  non intende essere un semplice scetticismo, relativismo,  prospettivismo, ma intende essere anch’esso verità  assolutamente incontrovertibile, ossia intende anch’esso  come verità assolutamente incontrovertibile ciò che per  l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la  verità assolutamente e originariamente incontrovertibile:  l’esistenza, appunto, del divenire, inteso nel modo indicato (e  una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una  verità assolutamente incontrovertibile è una forma di  scetticismo). Anche per Nietzsche la «rappresentazione» del  divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che  anche per Nietzsche ogni rappresentazione, quindi anche la  rappresentazione del divenire, è «la posizione di un  permanente» cioè «una inevitabile fissazione del divenire»,  una negazione di esso, «un andare controcorrente rispetto al  flusso del divenire». Sennonché - rispondo -, se per  Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico-  morali hanno questo carattere, non tutte le rappresentazioni  lo hanno: per lo meno non l’ha quella rappresentazione che è  la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se  qualsiasi conoscere avesse quel carattere, questa teoria non  potrebbe nemmeno rappresentarsi il divenire come tale, cioè come quel «flusso» che viene «fissato», negato da quel primo  tipo di rappresentazioni «controcorrente». È indubbio che in  quella teoria il divenire è e appare come divenire, ossia è  identico a sé e quindi permanente; ma se questa identità e  permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno  divenire e, questa volta sì, il divenire sarebbe negato e fissato  nel suo non esser divenire.   Come ho già detto altre volte, a partire da L’anello del  ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta  da questo libro ha la straordinaria potenza (insieme a pochi  altri abitatori del sottosuolo essenziale del pensiero filosofico  degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso  dell’essere che guida la tradizione metafisico-morale  dell’Occidente. Ammesso e non concesso che questa  interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché  violerebbe le proprie regole, bisognerebbe dire che allora  (modestia invita, ma inevitabilmente, quella straordinaria  potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne  L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il «mio»  discorso filosofico dà anche una o due mani affinché il  pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli  compete - lasciandolo poi al suo destino, che è quello di  essere la forma più coerente della follia estrema del divenir  altro. Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che  stanno al suo passo) non mostrano questa coerenza e potenza.   Restando ad esempio nell’ambito del convegno a cui ci  stiamo riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive  che per Nietzsche «Dio è impensabile perché non consente  all’uomo di poter “sperare” di far suo tutto il mondo». Ma -  osservo - questo discorso non intimorisce Dio, che,  rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a  fare a meno di queste sue speranze, come appunto incomincia  ad accadere col Dio veterotestamentario, che a W’erimus sicut dii - in cui si esprime la «speranza» del primo uomo di far  tutto suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè cacciandolo  dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale  speranza - o sulle varie forme di «prospettivismo» - per far  morire Dio è ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno  ha invece la potenza di farlo morire per davvero.   (Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha  nulla a che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte  al principio di non contraddizione, ma, come in Hegel, è una  critica del modo inadeguato di intendere tale principio, è  sufficiente pensare l’espressione «l’eterno ritorno dell’uguale»  - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è  richiamato, ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna  «ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione»,  scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una cosa può essere  identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non  è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di  tutte le cose.) Si parla di «governi tecnici» e di «tecnocrazia». Ma il senso  conferito oggi a questi termini è essenzialmente diverso dalla  più profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una  volta) inviterei a riflettere. I «governi tecnici» - ad esempio  quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il  governo costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono  soltanto epifenomeni di quella dimensione: così come  l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono  soltanto un epifenomeno della «morte di Dio» a cui si rivolge  il pensiero filosofico del nostro tempo.   Dal punto di vista etimologico, «tecnocrazia» significa,  certamente, «il kratos (il potere) alla tecnica». Ma per lo più  questo termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o  di una deprecazione: di un esortare verso la realizzazione o di  rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno  realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più  indietro di Veblen o Spengler: si può arrivare agli inizi  dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di  necessità, di doverosità, di opportunità di dare il potere alla  tecnica.   Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi  riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui si invita, un  progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il  carattere di una descrizione, di una constatazione - che  peraltro si trova su di un piano ulteriore, e se si vuole  «astratto» rispetto a quello su cui di solito la riflessione  «fenomenologica» si mantiene (un’affermazione, questa, che  sottintende quell’elogio dell’«astratto» che Hegel invita a  condividere).   Nonostante abbia l’apparenza di un tema specialistico, il  discorso sulla «tecnocrazia negli anni Trenta» coinvolge qualcosa di profondamente essenziale, che travalica i confini  geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a  presentare, addirittura, un carattere planetario e a costituire  una svolta in cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e  dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la «dimensione  tecnica», di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la  tecnica appare come destinata al dominio del pianeta. La  descrizione e constatazione di cui prima si è detto è  descrizione di una destinazione, cioè di una necessità. Si tratta  di capire in che senso queste affermazioni non siano  un’esagerazione arbitraria e incomprensibile, e in che senso la  tecnocrazia negli anni Trenta possa coinvolgere una  destinazione di questa portata.   Natalino Irti ha parlato dell’importanza di Ugo Spirito in  relazione alla situazione italiana di quel tempo. Ma prima e  alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni  Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le  riserve che si possono avanzare sul piano politico) non solo si  riferisce a una forma culturale che spesso vien guardata con  sospetto - cioè la filosofia -, ma anche perché si può dire che  la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il  pensiero di Gentile (e in generale la filosofia italiana). Ignora,  però, ciò che essa ha di più decisivo ed essenziale.   Non solo: può sembrare anche molto strano che, a  proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli di Giovanni  Gentile, visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche  quello di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla  scienza e alla tecnica e quindi estraneo al nuovo clima  culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa  prospettiva è completamente fuori strada.   Si incominci a rilevare che, sebbene ignorato, il pensiero di  Gentile afferma ciò che nel nostro tempo è affermato, si può    369     dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che  non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva  al di là del mondo umano. Solo che, quasi sempre, questa  affermazione non è altro che un dogma, un presupposto che  vien dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede,  qualcosa che sta diventando senso comune; laddove il  pensiero gentiliano (insieme a pochissime altre posizioni  filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione.  «Rigorosa», nel senso che è la più coerente al fondamento che  è comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo  alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa  che invece affermano l’esistenza di una Realtà immutabile e  «divina», ma anche alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale  fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il  trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al  non essere, sia l’evidenza più indiscutibile e originaria.  Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto.   A questo punto, ciò che passa inosservato - per chi non sa  scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero di Gentile - è che  la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di  ogni Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte  all’azione dell’uomo e quindi a quella forma dell’agire umano,  che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della  tecnica.   Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare  tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla  condizione che sappia ascoltare e capire la potenza  concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a  dare potenza reale alla volontà di potenza della scienza e della  tecnica. Appunto per questo vado ripetendo che solo  apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma  di filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la  filosofia di Gentile. Il fascismo infatti, come ogni regime politico totalitario è uno degli Immutabili di cui il pensiero  gentiliano ha mostrato l’essenziale impossibilità.  L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a  prevalere sulla veglia, ma dal quale è inevitabile che prima o  poi ci si risvegli.   Della fondazione gentiliana di questa impossibilità si può  dare qui solo qualche cenno, formulandola in modo che possa  venire alla luce la configurazione che è comune a tale  fondazione e a quella operata dai pochi altri abitatori del  sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e  Leopardi).   Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che  quindi sarebbe una realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al  di là della nostra esperienza, cioè del nostro pensiero,  indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha  mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il divenire delle cose, il  loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella «serietà»  che invece gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e  suprema. Innanzitutto, se esistesse un Dio in cui ogni cosa è  già contenuta prima ancora di essere prodotta o creata, allora  l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo,  sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe «serietà». Ma  l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità  fondamentale (è, questa, la suprema certezza dell’Occidente,  quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna  realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina, esistente al  di là dell’esperienza umana.   Si può riproporre così questo tratto decisivo della coscienza  contemporanea: sulla base della convinzione originaria che,  evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo  delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la  cultura occidentale, ma anche delle stesse opere e istituzioni dell’Occidente, sulla base dunque della convinzione che le  cose del mondo umano oscillano tra l’essere e il nulla, è  impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile,  divino, perché esso, precontenendo tutte le cose, avrebbe già  riempito tutti gli «spazi vuoti» che sono richiesti dal divenire,  ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli  antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa  alle cose quando ancora non sono e quando non sono più. Un  Dio immutabile («pieno», «satollo», dice Nietzsche) e quindi  una verità assoluta in cui questo Dio sia eretto sono la Legge  alla quale sia il futuro sia il passato più lontani devono  adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più  rimanere un nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge,  cioè diventano qualche cosa di positivo, un essere.   Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della  coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la  distruzione di ogni Limite (Legge) all’agire dell’uomo e quindi  all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite.  La legittima quindi - essendo essa l’agire che di fatto è il più  potente nel mondo contemporaneo - a subordinare al  proprio scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose,  economiche, giuridiche ecc.) che invece intendono servirsi  della tecnica per realizzarli. Col compiersi di tale  subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano.   Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente, la  giustificazione di queste affermazioni (rinviando ai miei  scritti per il suo senso concreto).   Ci si rivolga innanzitutto a un concetto che pur essendo  ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va  però esplorato al di là delle prestazioni da esso offerte in quei  campi. Mi riferisco al concetto di mezzo e di scopo.   Lo scopo di un’azione determina il modo in cui essa si costituisce: ne determina il senso e l’essenza. Se si decide di  uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa  decisione fa sì che si compiano certe azioni e non altre,  diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di  rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione.  Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia, l’azione cambia, è  un’altra azione anche se in certi casi si può credere che sia  rimasta la stessa.   La tecnica guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui  si servono o si sono servite tutte le forze dominanti  (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e  altri regimi totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per  realizzare i loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo  sugli scopi delle altre, un mondo capitalistico, democratico,  comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo:  non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica.   Il teorema sul quale va richiamata l’attenzione è che le  forme di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la  tecnica moderna è il mezzo insostituibile, sono costrette ad  assumere come scopo lo scopo che è proprio della tecnica,  mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi  del loro nuovo scopo.   Le forze che si servono della tecnica sono infatti tra loro  conflittuali. Il capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia  di tipo classico sia procedurale), la democrazia procedurale  con il cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col  comuniSmo ecc. La democrazia intende porre dei limiti alla  volontà di profitto privato; questa volontà non vuol farsi  limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del  «bene comune»; il cristianesimo e la Chiesa cattolica in  particolare riconoscono al capitalismo il suo essere un mezzo  di produzione della ricchezza più efficace dell’economia pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo  ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il «bene  comune».   In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze  antagoniste assumano come scopo uno scopo diverso da  quello che le definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e  cioè mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo  di non assumere come scopo ultimo l’incremento indefinito  del profitto privato, che invece deve essere soltanto un mezzo  per realizzare il «bene comune», essa sollecita il capitalismo a  non esser più capitalismo. (E questo va detto anche  riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il  capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione di distruggerlo e  intende differenziare il proprio all’agire marxista-comunista,  senza peraltro riuscirvi.)   Nella conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui  tutte si servono per prevalere sulle altre è oggi la tecnica: la  tecnica, intesa in senso, per così dire, «trascendentale», cioè  come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare,  burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano  razionalmente mezzi in vista della produzione di scopi tra  loro non conflittuali.   Ma, dato il rapporto conflittuale tra le forze dominanti,  ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è  costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa si  serve, ossia la frazione dell’apparato scientifico-tecnologico da  essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è  crescente perché è continuamente alimentata dalla situazione  conflittuale.   Questa crescita toglie spazio, dunque, allo scopo iniziale di  ognuna di tali forze; lo scopo di ognuna di esse viene cioè  sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale  resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo per la  realizzazione del nuovo scopo. Ad esempio, se lo scopo è un  mondo capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le  resistenze opposte dalle altre forze, è necessario che il  capitalismo potenzi le possibilità tecnologiche di cui esso  dispone; ma incrementando questo potenziamento è  necessario che il capitalismo assuma come scopo non più  soltanto l’incremento del profitto, ma l’incremento del  potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si  diceva che quando la Chiesa esorta il capitalismo ad assumere  come scopo il «bene comune» essa distrugge il capitalismo,  così ora va detto che, quando l’area dello scopo del  capitalismo a un certo punto viene completamente invasa dal  potenziamento (promosso dal capitalismo stesso)  dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo  - appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da  cui è definito, il capitalismo non è più capitalismo (anche se si  continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è  trasformato). E non più capitalismo anche quando l’area dello  scopo capitalistico è anche solo parzialmente invasa.   Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va  ripetuto anche in relazione a ogni altra forza oggi dominante.  Le forze che non potenziano il proprio mezzo tecno-  scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che  prevalgono perché tale potenziamento l’hanno operato.   Tuttavia il rovesciamento del rapporto tra tecnica e forze  che se ne servono per realizzare i loro scopi dipende da una  condizione decisiva.   Sino a che gli scopi di queste forze sono da esse vissuti  come imposti da una «Verità» immutabile e assoluta, esse  eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento    375     da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare  piuttosto che piegarsi e la forza vincente della tecnica sarà  giudicata illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante,  tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E  comunque, anche se non giungeranno a farsi spezzare, quelle  forze renderanno il più possibile difficile il prevalere della  tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve  oltrepassare, i valori della «Verità» in cui esse credono.  (Limiti che non sono soltanto etico-religiosi, ma anche di  carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il  capitalismo, oltre a porre come «Verità» assoluta e come  Limiti inviolabili la proprietà privata e la libertà di intrapresa,  proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere  venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto  conveniente, anche se sono indispensabili alla sopravvivenza  degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il  capitalismo vuol sopravvivere.)   Ma oggi la fiducia nell’esistenza della «Verità» va  tramontando. Questo è il clima che, procedendo  dall’Occidente, sta diventando planetario - destinato com’è a  travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo  nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione Sovietica i sacrifici  richiesti ai cittadini potevano essere sopportati quando era  più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una «Verità»  assoluta e che quindi la produzione tecnico-economica della  ricchezza dovesse innanzitutto servire alla promozione e  difesa di tale «Verità» e non alla riduzione di quei sacrifici.  Ma, quando questa convinzione è venuta meno, è venuta  meno, oltre alla disponibilità dei cittadini al sacrificio  richiesto per realizzare la «società giusta» e senza classi, anche  la disponibilità dell’apparato tecno-scientifico a essere il  mezzo per tale realizzazione.)   Ora, il fuoco sotto la cenere del progressivo allontanamento delle masse dalla «Verità», divina o terrena, è  il sottosuolo filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato  da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche),  dove - si è richiamato - si mostra Yimpossibilità di ogni  Immutabile, quindi di ogni «Verità» immutabile, di ogni  inviolabile Limite all’agire delfuomo e pertanto all’agire  tecnico. E tale impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle  forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano  l’adeguazione dell’agire alla «Verità» immutabile, che ora (ma  ancora, per lo più, sotto la cenere) si palesa come un sogno.  La coscienza che l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora  di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del  sottosuolo, e quindi tende a essere ancora una fede  nell ’inesistenza degli Immutabili e nella «morte di Dio»; ma,  nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale  fede, in questa misura la subordinazione della tradizione  dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è inevitabile.   Si può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento  per il quale il potenziamento della tecnica diventa lo scopo  delle forze che intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto  tra capitalismo e tecnica - il capitalismo essendo ancora,  nonostante la sua crisi profonda, la più potente delle forze che  dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata  la produzione dei beni di consumo e della ricchezza. A un  aspetto soltanto di tale rapporto qui si farà cenno.   Non può esistere capitalismo senza perpetuazione della  scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente  disponibile non è merce, non è vendibile, nessuno è  interessato a produrlo o ad acquistarlo. E il capitalismo,  essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si  serve della tecnica per produrre merce.   D’altra parte la tecnica, proprio in quanto mezzo, ha un proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito  della capacità di realizzare scopi. Questo scopo non è  escludente - a differenza degli scopi delle forze che si servono  della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo  capace di realizzare gli scopi tra loro conflittuali perseguiti da  tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un mondo  capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del  cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo ecc.)   Ora, se per sopravvivere il capitalismo deve perpetuare la  scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha  peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito  della potenza, ossia della capacità di realizzare scopi -, va ora  rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica  Veliminazione progressiva della scarsità. La situazione è cioè  quella di un padrone che si serve di un servo il cui scopo è  l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo  (la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone.  Nella dialettica di servo e padrone, Hegel mostra appunto che  la storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono  acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di  quelle del padrone; elaborano tecniche e conoscenze  scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella  potenza scientifico-tecnologica che finisce per rovesciare, il  rapporto feudale servo-padrone.   Ma, anche qui, il servo può rovesciare il padrone solo se  non crede più che egli sia il portatore della «Verità» - solo se  la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la  perpetuazione della scarsità delle merci, sia la «vera» e  insuperabile condizione umana. La contraddizione in cui  consiste il rapporto fra forze che si servono della tecnica e  tecnica si acuisce e diventa estrema quando cioè viene in luce  che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non  hanno una «Verità» assoluta. E a portare alla luce la morte    378     della «Verità» e di Dio non può essere la scienza o la tecnica  (che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva filosofia)  ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così  come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella  morte e il principio che tutto ciò che si può fare sia lecito  farlo.)   Non ci si può dunque limitare alfawertimento che la  tecnica non ha limiti. Il sapere che dà questo avvertimento è  innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in  quanto mostra che è sul fondamento di ciò in cui da ultimo  credono sia gli stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è  su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da  ultimo sia la tecnica sia i difensori dei Limiti all’agire  dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire.   Lo si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le  cose possono essere smosse, controllate, prodotte, create e  distrutte. Per la prima volta il pensiero greco intende la  creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la  distruzione come annientamento. Pensando per la prima  volta l’«essere» e il «niente» conferisce un senso «ontologico»  al creare e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la  storia dell’Occidente si crede che l’agire sia creare e  distruggere in senso ontologico. Se non credesse in questo  senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente  non esisterebbe: non esisterebbe, in esso, azione (umana o  divina o della natura), quindi non esisterebbe nemmeno  azione tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel  senso ontologico dell’agire anche quando sono convinte di  non aver nulla a che vedere con l’«essere» e il «niente».   Nel suo senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto,  da parte della tecnica, della voce del sottosuolo filosofico del  nostro tempo - della voce che, sul fondamento della convinzione che l’agire esiste secondo il senso ontologico  evocato dall’Occidente, fa sentire l’impossibilità dell’esistenza  di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la  forma radicale dell’agire. Nella misura in cui la tecnica dà  ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che  ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia  l’incremento indefinito della potenza, è destinato al dominio  del mondo, cioè a presentarsi come lo scopo delle forze che  ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo  di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di  quel sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta  non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si  è già rilevato, il problema centrale del nostro tempo: dove sta  andando il mondo?   Ma, ora, si aggiungeranno soltanto alcune sottolineature e  alcune precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti  si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la  dominazione della tecnica. (E comunque, si ripeta, non si  tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di  osservare dove è destinato ad andare. È patetico voler dire ai  popoli quello che devono fare: si tratta invece di capire che  cosa sono destinati a valere e a fare.)   Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a  che vedere con la concezione scientifico-tecnicistica della  tecnica (e tanto meno con i «governi tecnici di cui oggi si  parla). Mostrando l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il  sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la  volontà di potenza della tecnica e il suo oltrepassamento di  ogni limite, ma li rende possibili. Se non si sa di avere in  mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince.  Di qui (anche di qui) il carattere radicalmente «pratico» del  pensiero filosofico, ossia di ciò che è il più «astratto».  L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte della tecnica, è un processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci della  superficie. La voce autentica dice che il vero tramonto degli  Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda  impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso  ontologico del divenire che ormai ovunque è considerato  come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al  carattere «pratico» del sottosuolo filosofico, non alla  «praticità» del sapere matematico (o fisico-matematico) che  sta al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo  secondo carattere è il fattore per il quale la tecnica ha più  potenza di altre forze. Tale maggior potenza è però una  situazione storica contingente, perché se accadesse  nuovamente che pregando si muovano le montagne e le si  muovano più di quanto la tecno-scienza riesca a muoverle,  allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma  quella pregante, destinata dunque essa al dominio del mondo  (e, certamente, diversa da quella che si rivolge alfimmutabile  «Verità» di un Dio).   Se la dimensione economica - la più potente delle forze che  si servono della tecno-scienza - domina ormai la politica e le  strutture statuali (si pensi al peso che grava su di esse in forza  della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia  che sta per essere oltrepassata dalla tecnica. Non nel senso che  non esisterà più economia, ma nel senso che, mentre per il  capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta  andando verso un tempo in cui il capitale servirà per  incrementare la potenza tecnica.   E l’uomo? Molte, le voci che accusano la tecnica di essere  disumanizzante. Ma che cos’è l’«uomo» nella cultura  occidentale, ormai planetaria? Al di sotto delle molteplici  definizioni dell’esser uomo agisce un tratto a esse comune - e  decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente,  capace di organizzare mezzi, in vista della produzione di scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo  centro. Il mistico è infatti il supertecnico: apre le braccia alla  suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi  invadere da essa, di poter essere estremamente più potente  deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma la definizione dell’uomo come centro cosciente di  forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di  scopi, è la definizione stessa della tecnica. E allora non si  dovrà forse dire che la tecnica è Yinveramento massimo  dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria  essenza più profonda, così come, nel tempo che precede la  morte di Dio, è nella potenza, ossia nella tecnica divina che  l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso?   Anche Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo,  perché l’uomo, che da principio chiede a Dio di salvarlo, poi  si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto  salvaguardata la potenza del Salvatore, perché se Dio diventa  un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza,  allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento  di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo si rivolge alla  tecnica per essere salvato, e dopo averla assunta come mezzo  nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa  salvato solo se egli non assume come scopo la propria  salvezza ma il potenziamento dello strumento salvifico, allora  egli trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E  lo trova e lo vive solo se la tecnica si è posta in ascolto del  sottosuolo essenziale del nostro tempo.   La discrasia tra tecnica e uomo - la disumanizzazione  dell’esistenza da parte della tecnica - riguarda quindi le  diverse concezioni «ideologiche» dell’esser uomo, cioè l’uomo  cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il  tratto essenziale che è a esse sotteso. Tale tratto dice che l’uomo è azione, prassi, volontà cosciente e convinta di avere  la capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da  nulla, essenti e, da essenti, nulla.   L’uomo «ideologico» viene certamente «messo da parte»  dalla tecnica autentica, che ascolta il sottosuolo. La tecnica  non ha come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma  quel potenziamento indefinito di sé stessa che peraltro dà  all’uomo più benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe  se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è «messo da  parte» non come tratto comune ai diversi modi «ideologici»  di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo «ideologico»  che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della  potenza tecnica. Anche la scienza e la tecnica sono  «ideologie», cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le  ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che  conferisce loro l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero  pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica  verità incontrovertibile.   A questo punto è possibile intrawedere Yinizio del sentiero  che conduce a un Sottosuolo essenzialmente più profondo di  quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale  inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro  tempo, la tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto  perché in questa unione si nega l’esistenza non di ogni verità,  ma di ogni «Verità» immutabile che stia al di là di ciò che nel  sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire  del divino, dell’uomo, della natura, cioè l’oscillazione delle  cose tra il loro non essere e il loro essere, per la prima volta  evocata dal pensiero filosofico greco.   Del carattere «pratico» della filosofia che abita il sottosuolo  del nostro tempo, si è già detto. Ma quella evocazione ha un  carattere «pratico» ancora più decisivo, perché solo se si crede nella disponibilità delle cose al loro oscillare tra il non essere e  l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che  è l’agire in senso «ontologico». L’evocazione greca di tale  senso è il luogo nel quale soltanto è potuta e potrà crescere  l’intera storia dell’Occidente.   Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità  incontrovertibile di quel luogo, perché tale convinzione è  verità incontrovertibile?   Questa domanda suona assolutamente strana. Non è forse  ovvio, e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le  cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde  tempo a prenderla in considerazione?   È inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando  all’interno del luogo che da tale domanda è messo in  discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di  quel luogo?  Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza   Se spesso gli storici del pensiero filosofico vedono gli alberi  - come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa  una critica che si possa muovere all’imponente e poderosa  ricerca di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle  aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati  Boringhieri 2002). Egli mostra come il pensiero di Nietzsche  sia potentemente unitario e come in esso le variazioni non  siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto  tempo prima che lo si capisse - e non è che oggi tutti  l’abbiano capito. Sono d’accordo con Losurdo anche  nell’individuazione del tratto o «elemento» che determina il  carattere unitario del pensiero di Nietzsche.   Egli considera Nietzsche «filosofo totus politicus», ma  questa espressione non riduce il suo pensiero alla dimensione  specialistica della «politica»: all’opposto, intende «“salvare” il  filosofo nella sua interezza», cioè nella sua volontà di  «abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità» e nel  suo «assillo di intervenire attivamente su di essa» (p. 900).  «Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in  profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia  militante della rivoluzione e della modernità, è possibile  cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna  coerenza» ( Ibid .). Losurdo scorge che per Nietzsche la  «modernità» e la «rivoluzione» hanno un inizio lontanissimo  nella storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da  ultimo, il loro avversario autentico, al di sotto delle sue  molteplici forme, è l’«innocenza del divenire» - quella in cui  forse vive il più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella  quale intende consapevolmente abitare il superuomo  annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando,  liberato da ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni «colpa» che  gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle Leggi vere e divine.   Il quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e  pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la  rappresentazione è concreta - ossia non è un semplice dipinto  -, quando riesce a mostrare la forza del lottatore, cioè la sua  effettiva capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene  al ristretto gruppo dei grandi lottatori che riescono a  distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera  tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai  pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel che è di  Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa, che  esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione  storica.   Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che  a essa si sono esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger.  Ma qui sarebbe modestia fuori luogo se non mi riferissi anche  a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere -  anche perché la scansione meno convincente del suo libro è  proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema  deH’eterno ritorno nel «Nietzsche totus politicus» che lotta per  la salvaguardia dell’innocenza del divenire.   Losurdo, giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche  intende sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha  posto al di sopra di tutte le proprie dottrine quella dell’eterno  ritorno. Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso  dovuto e che, anche lui, si ritragga dal problema. Che certo, è  gigantesco: il divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un  ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina  non è una stranezza, ma, come Nietzsche stesso asserisce, è  quella «nuova conoscenza» che è «necessità» suprema,  innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta asserirlo: bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha  potentemente mostrato, mostrando l’implicazione  «necessaria» tra divenire e eterno ritorno. Anche lo storico ha  il compito di non nascondere tale potenza.   Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo  verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi  sono anche straordinari scrittori e, tra chi li legge, si crede che  accostandosi al linguaggio letterario si abbia in mano il suo  senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano  «tesi», dominati dalla convinzione che ogni tentativo di  discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E  invece c’è filosofia solo quando le «tesi» sono radicalmente  discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe continuare a  lungo.   Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a riconsiderare  («Corsera», 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno  alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri  «hanno a che fare» con le loro «conseguenze»; ad esempio il  Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con l’Unione  Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo.  Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che  fare sia con l’azzurro del cielo sia con la putrefazione dei  cadaveri, Canfora richiama il «fatto» che in Nietzsche i valori  dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo)  sono rifiutati. E il «fatto» c’è indubbiamente.   Tuttavia questi valori - che in parte sono anche cristiani -  hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze, tra le  quali le crociate, il periodo del «terrore» durante la  rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il  comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è  stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente, nemmeno i  nemici del «superuomo» di Nietzsche. È però necessario che si capisca perché Nietzsche abbia  questi nemici. Non si può affermare che egli è un «ribelle  aristocratico» (Canfora riprende l’espressione dal libro di  Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il  nostro calzolaio vota per questo o quell’uomo politico (con  tutto il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale  fondamento filosofico abbia condotto Nietzsche a  quell’atteggiamento. Egli si ribella all’intera tradizione  occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo,  ripeto da tempo, che si facciano o si siano fatti sforzi  consistenti in tale direzione.   Heidegger ha sostenuto che Nietzsche è rigoroso come  Aristotele. Sono d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia.  In Nietzsche, si crede, «c’è tutto e il suo contrario». Un  eminente illogico. (Anche Leopardi è stato trattato come un  dilettante che andava compitando la filosofìa. Il «fatto» è che  quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il nostro calzolaio si  contraddicesse come spesso si crede che Nietzsche si sia  contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel  suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che giustamente è assunto da  Canfora come affidabile punto di riferimento nel problema-  Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche:  «Per quel che concerne la logica, quale migliore propedeutica  si potrebbe consigliare di questo immaginario antihegeliano  per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema  degli opposti?».   La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla base del  «superuomo» appartiene al significato essenziale dello stesso  pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la  cultura) contemporanea. (A tale significato appartiene anche  quel Gramsci che incautamente «sardonico» riconduceva il  «superuomo» di Nietzsche al conte di Montecristo e ai  «romanzi di appendice».) Nietzsche rifiuta i valori dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che muore. Ma,  soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la  «morte di Dio». Rawls, Hegel, Kant   John Rawls è molto conosciuto in Italia per iniziativa  meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano  Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una  teoria della giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e nel 2004 le  sue Lezioni di storia della filosofia morale, apparse negli Stati  Uniti nel 2000.   Sono una gradita sorpresa soprattutto per l’ampia e  approfondita attenzione che dedicano a grandi figure della  filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto  Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia,  osserva giustamente Veca nella «Nota all’edizione italiana»,  «non abituale nella tradizione che per mera convenzione  possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e  l’insegnamento di Rawls si situano».   Lo stesso Rawls riconosce «le radici kantiane di Una teoria  della giustizia», ma queste Lezioni si spingono sino ad  affermare che lo stesso Hegel è «un liberale riformista  moderatamente progressista», che si muove lungo quella linea  del «liberalismo della libertà» che da Kant (senza escludere  J.S. Mill) giunge a Una teoria della giustizia.   Rawls può sostenerlo, perché è convinto che «buona parte  della filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da  sola», cioè indipendentemente dal suo fondamento  metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è molto da discutere,  anche perché è poi lo stesso Rawls a coinvolgere quel  fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di  Hegel.   È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte  più ampia e centrale di queste Lezioni, dedicata a Kant. Il  gesto essenziale di Kant consiste infatti nel porre la filosofia  morale e politica come, appunto, una dimensione indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica.  Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in  italiano da Edizioni di Comunità è intitolato Vindipendenza  della teoria morale.   Non sembra tuttavia che Rawls risolva il problema relativo  alla genesi del teorema del primato della ragion pratica. In  Kant questo teorema presuppone la critica del sapere  metafisico. Se questa critica cade, cade anche quel teorema.  Ad esempio non si potrà più dire che 1’esistenza di Dio,  f immortalità delfanima, la libertà sono «postulati della  ragion pratica» e non verità metafìsiche.   Ma Fidealismo classico - Schelling, e Hegel in particolare -  ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da  ultimo contraddittori che stanno alla base del rifiuto kantiano  del pensiero metafìsico. Questa convinzione delfidealismo  non è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da  parte perché sembra trovarsi in contrasto col sapere  scientifico.   Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di problemi. E  questo può essere il limite (del tutto comprensibile) di questo  suo magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le  grandi forme del pensiero filosofico.Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola  idea: il tempo è reale.» Lo afferma Leszek Kolakowski  alfinizio del suo studio del 1985: Bergson (Palomar dialoghi  2005, che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato  soprattutto alla storia critica del cristianesimo e del  marxismo). Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione  «il tempo è reale» «non suona particolarmente illuminante,  originale o stimolante», essa è invece il «nucleo» di «una  visione del mondo del tutto nuova», perché «dire che il tempo  è reale equivale a dire che il futuro assolutamente non esiste»  - e questa tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme  di pensiero che credono in una qualche forma di  anticipazione del futuro. In questa pagina Kolakowski si  riferisce al determinismo e alla fisica, ma sa bene che per  Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente  e immutabile è un modo di affermare l’anticipabilità del  futuro.   L’implicazione tra realtà del tempo e assoluta inesistenza  del futuro è indubbiamente decisiva, come appunto ritiene  Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione  dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa sull’esigenza di  prendere sul serio il senso del tempo, non è solo di Bergson,  bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo.  Non a caso Gentile parla di «serietà della storia»: la storia è  «seria», e va presa sul serio, precisamente nel senso che essa  non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della  tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla radice di questa  volontà di «serietà»? Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la  straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione  platonica dell’«idea», la quale è il prototipo di ogni volontà di  anticipare il futuro, negando la «serietà» del divenire e del tempo.   Nel suo testamento Bergson, ebreo, scrive che si  sarebbe convertito al cattolicesimo se non avesse visto  «l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo  sul mondo». Un gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il  Sant’Uffizio aveva messo le opere di Bergson all’indice dei  libri proibiti e Kolakowski ricorda che «tutti i principali  filosofi tomisti francesi», con Maritain in testa, «pensavano  fosse Loro dovere combattere la dottrina bergsoniana». E  Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto  riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson e dottrina ufficiale  della Chiesa. Alla fine della sua vita Bergson si è sentito  cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in  sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di  un agire, soprattutto per il quale il futuro è del tutto  inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche),  che solo dopo aver agito può scoprire dove è arrivato e che  cosa ha prodotto: una negazione radicale, questa, del Dio  della tradizione cristiana.   Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il  cristianesimo del futuro dovrà dare sempre più ascolto al  pensiero che tien ferma la «serietà» del tempo. In questo  processo (dove tramonta la forma tradizionale del  cristianesimo), dopo la consonanza tra il movimento cattolico  del «modernismo» e la filosofia di Bergson, quest’ultima,  insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo,  sembra destinata - ma non certo nel futuro prossimo - ad  attrarre nuovamente su di sé l’attenzione della cultura  cristiana. Non vi sono tesi somme», ossia «principi», «verità eterne»  che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere  questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche  del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la  filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione  dell’uomo, dunque anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo,  la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di  essere, oltre che potente, assolutamente vera.   La frase riportata all’inizio è contenuta nei Contributi alla  filosofia (Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra  il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi).  Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto a  Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del  pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare,  appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma » e di ogni verità  eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano  delle “verità eterne” potrà essere concesso come dimostrato  solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per  tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita,  continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie».  Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che  l’uomo (l’«Esserci») è eterno - eterno non semplicemente  immortale -, sarà solo una fantasticheria parlare di «verità  eterne».   Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l’uomo (come ogni  cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non  potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti  coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e agito da  quando, all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il  senso del tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui  l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la    394     convinzione più profonda e scontata anche presso la gente  comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita  di tempo.   Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i  miei scritti l’hanno aumentato di molto, mostrando invece  che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è  infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad  ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che  non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose:  situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi,  ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e  invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e  lo scomparire degli eterni. E la «necessità» che ogni cosa sia  eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella  «prova» dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà  mai esser data.   Dall’inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato «la  domanda dell’Essere» ( Seinsfrage ). La domanda - che  continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa  mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L’«Essere»  non è l’«ente», non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle,  pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice  tuttavia che «è» e che «è» questo e quest’altro. Qual è il senso  di questo «è» - ecco la «domanda dell’Essere» -, da cui tutto  in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è  stata, per Heidegger, riflessione sul senso dell’«ente», ossia è  stata «pensiero metafisico», e ha quindi velato la «domanda  dell’Essere», pur dando vita alla storia dell’Occidente.   Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni  asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo  è una «tesi somma», una «verità assoluta». Essa è «storica».  Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il    395     «superuomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei  Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la  capacità di costituirsi come l’autentica «domanda dell’Essere»,  ma solo il carattere di «pensiero transitorio», che «ai fini della  comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il  tracciato del pensiero metafìsico», e i cui «sforzi» «saranno un  giorno superflui e ricadranno nell’accidentale» (p. 419).   In una conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine  della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà  che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna  azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica  dell’epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica», e  che «il suo compito ha solo un carattere preparatorio e  nient’affatto fondante», giacché «gli basta risvegliare una  disponibilità dell’uomo per una possibilità, i cui tratti restano  oscuri e il cui avvenire incerto».   Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono  affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione  di una «falsa modestia», giacché quell’oscurità e incertezza,  quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel  carattere preparatorio e non fondante non sono per lui  semplici caratteri della scrittura dell’individuo Heidegger, ma  sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’«Essere» stesso si  vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo stesso si può dire di  quella «superfluità» e «accidentalità» che nei Contributi  Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono  pertanto grandi prove di una filosofìa che vorrebbe  allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo  tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma  insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute  alle carenze di un certo individuo, ma sono le difficoltà in cui  le cose stesse si trovano. Ma queste non sono «tesi somme»? Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro  suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano  andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger  sia lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell’«ultimo Dio»  («Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie  rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui l’«Essere» -  «vibrando», «oscillando» - si appropria del mondo.  Heidegger intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e  il timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza  cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e  ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le cose non sono eterni.  Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del  «creare», è essenzialmente «metafìsico». («Quanto è lontano  da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori,  perché di costoro ha bisogno la sua essenza?») Ma - dico -  nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è  eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E dell’«Essere stesso»  Heidegger esclude che sia eterno. L’«Essere» stesso è  «storico».   Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime  forse la follia estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è  (appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente?  Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non è come la  domanda di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da  sempre data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende  possibile ogni domanda.  Fenomenologia e libertà   La «distruzione» della tradizione filosofica occidentale,  compiuta da Heidegger, non ha un significato semplicemente  negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad  Aristotele. Piuttosto egli intende portare alla luce la  dimensione implicita che rende possibile il loro esplicito dire.  In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro,  ahimè così antico da essere stato la mia tesi di laurea,  composta negli ultimi anni Quaranta, discussa nel 1950 e in  quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi nel 1994,  insieme ad altri miei scritti di quel tempo, col titolo Heidegger  e la metafisica).   Ricordo queste cose per un certo e spero scusabile  compiacimento da me provato leggendo l’imponente lavoro  del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger.  Fenomenologia della libertà, il melangolo 2007), che si muove  sostanzialmente nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma  che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali.   Non intendo ovviamente confrontare l’esperienza filosofica  di un ragazzo con il lavoro maturo di uno studioso di grande  serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno  la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a Figai,  tra l’altro, che il suo modo di intendere la «distruzione»  dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe  ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse richiamato quegli  avvertimenti quanto mai sintomatici e abbastanza frequenti  di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli  dichiara che la propria indagine «fenomenologica» non  pregiudica in alcun modo la soluzione dei grandi problemi  della metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una  vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di Dio - i  problemi, appunto, che ricevono le prime grandi risposte positive dalla metafisica di Platone e di Aristotele. E in effetti  un’indagine che si propone come «fenomenologia» non può  dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre  la dimensione fenomenologica, ossia alla dimensione che, con  qualche approssimazione, si può identificare  nell’«esperienza».   È invece più difficile convincersi della tesi che Figai intende  rendere più visibile e che è indicata dal sottotitolo del suo  libro: «Fenomenologia della libertà». Sono d’accordo  sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’«essere»  («ontologia») e sul senso della «libertà» in Heidegger. Ma  Figai si dice convinto che «la filosofia di Heidegger dia modo  di ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo».  Cosa che a me non sembra, perché se il senso ontologico della  libertà significa da ultimo la finitezza e contingenza delle cose  e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che  sarebbe potuto non essere), allora tale contingenza dei  contenuti mondani è pienamente affermata già da Platone e  Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso  di Heidegger, a qualcosa che, come dice Figai, «la si sarebbe  potuta compiere in modo diverso» (p. 411). Ma allora, come  Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea  trascendentale della libertà - dice Kant - «non contiene nulla  di derivato dall’esperienza» ossia non è un contenuto  «fenomenologico»), e pertanto rimane aperto il problema, che  né Heidegger né il suo interprete hanno affrontato: quello di  mostrare quale sia il fondamento deU’affermazione che è il  contenuto di tale idea è anche qualcosa di «realmente»  esistente.    399     24. La «mente» come parte   Nella «biolinguistica» di Noam Chomsky il linguaggio è  considerato come un aspetto particolarmente significativo  della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto  «si inquadra ragionevolmente nella psicologia e, più in  generale, nella biologia umana». Esplorazioni in questo  campo, da lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi  orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il  Saggiatore).   Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole  «mente» e «linguaggio» «senza una valenza metafisica». Così  attento al significato delle parole, egli non dice nulla sul  significato della parola «metafisica»; ma è chiaro che il suo  intento è di considerare la «mente» e il «linguaggio» «come  oggetti naturali» - senza però addossarsi l’onere di escludere  ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il  linguaggio.   E, a prima vista, il proposito sembra del tutto legittimo.  Analogamente, come può essere illegittimo l’intento di  considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal  punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non  intenda escludere la comprensione estetico-musicologica e  nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo  stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può ammaestrarci,  intorno alla mente, molto di più di tutte le informazioni che  intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica.   Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la  filosofia e la metafisica si insinuano nella dimensione  scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il  corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky,  «uno dei domini empirici» analizzati dalla scienza. Anche la  mente è una parte della totalità dei «domini empirici», ossia della totalità dell’esperienza. Ma, come la parola «metafisica»,  così l’espressione «totalità dell’esperienza» - o dei «domini  empirici» - non riceve alcun chiarimento esplicito da parte di  Chomsky. O, meglio, riceve un chiarimento implicito che  rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli  vorrebbe tenersi lontano.   Intendo dire che una certa metafisica (ben lontana dal  mostrarsi come inoppugnabile) è presente proprio nel  concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza.   Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha «basi  assolutamente certe» (pur essendo affidabile e applicabile alla  «realtà»), perché «i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci  saranno per sempre celati». Il che significa che l’indagine  scientifica si chiude prudentemente in sé - lasciando fuori di  sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la  metafisica della cosa in sé: quella «cosa in sé» kantiana,  rispetto alla quale non solo la dimensione della mente non  può essere altro che una parte, ma la stessa totalità  dell’esperienza (che potrebbe essere la definizione più ampia  del «mentale» in campo scientifico) si riduce a essere una  parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri  motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove la res cogitans ha  altro al di fuori di sé, è il motivo più profondo. Come tanti  altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il  carattere profondamente metafisico dell’affermazione  dell’esistenza della «cosa in sé». L’«anima» come totalità e come parte di ciò che appare   «L’anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta ónta pós  estin. Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b,  21. «Gli enti» (ta ónta ) non significa «una certa parte degli  enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: pànta ta  ónta. L’anima è «in certo modo» (pós) la totalità degli enti.  «In certo modo» dalla tradizione aristotelico-scolastica a  Brentano e alla fenomenologia questa espressione è intesa  come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli  enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente»  dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il  cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro  rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi,  apparire. Si interpreta: l’anima è «intenzionalmente» tutti gli  enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono  innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero  greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la  totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e  quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia  onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via  manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme:  che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma la  totalità si manifesta come processo, sviluppo, «generazione»  degli enti del mondo.   E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via  via manifestantisi) l’anima non è un ente particolare  appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non  possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso  sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che  l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa  forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che  tale affermazione è insieme l’apparire in cui l’anima ha come    402     contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto sé  stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma  come l’apparire della loro totalità.   L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca,  problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni  progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di  ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni  e indagini che si rivolgono aU’«anima» («coscienza», «mente»,  «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli  enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione,  scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è  uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per  millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle  forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua  volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del  loro apparire, gli enti esistano in sé stessi, cioè  indipendentemente dal loro apparire e dunque dall’anima in  quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento  di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella  evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato  di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella  in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come  oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni  altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta  inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero.   In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni  altra teoria che considerano l’anima come parte - e  innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal  loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro  da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio  sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la  storia del pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata  pensata come phàinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come    403     atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità  degli enti che vanno via via mostrandosi).   Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si osservi che  il «metodo sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine  che pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché  dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta  le spalle al senso fondamentale dell’«anima» per dedicare ogni  sua attenzione all’«anima» come ente particolare. E se oggi si  rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che  anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di  ogni attività teorica e pratica dell’uomo.   Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come  apparire della totalità degli enti, la intende come parte della  totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del  conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma questa identità  è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a  questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell’anima di  conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»),  dall’altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti  (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due  capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di  conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto  ed essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla  potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza  (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e  differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che  hanno la capacità di apparire -, l’anima è una parte della  totalità degli enti.   L’anima diventa parte anche quando l’apparire della  totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona»,  «soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il  «pensare» è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la  filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa  prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e  che tale produttore sia un «io», una «persona», un «soggetto».  (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale  soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il  cervello, la materia.)   «È manifesto che è quest’uomo singolo a pensare» -  manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma  nel De unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso.  Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il  pensante (Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego  (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale  appartiene gran parte della cultura non solo filosofica -  peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche,  Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale  prospettiva, l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la  materia, il cervello) sono parti della totalità che appare.  Vintelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è  manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte di questo  campo - ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo  punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di  questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un’indicazione  sommaria.   Se in quella prospettiva «io penso» significa «io sono  produttore del pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso  come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del  pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua  volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io  penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno  esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono  appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che  l’io ha di essi.    405     Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che  l’apparire degli enti appare a me - appunto perché «a me»  non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a  me»; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa  dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic  in indefinitum.   In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa,  in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un  albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e  se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire  «a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è  l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me» determina un  progressus in indefinitum.   Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene  indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono  più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un  apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare  alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per  la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me».   Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello  pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si  intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono  - è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non  è presente la contraddizione che invece compete alla  prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante.   Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho  considerato in altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del  riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è  cioè Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo  a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non  c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello,  non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale    406     c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa  nega ciò che essa stessa afferma: nega quella mente e quel  mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà   di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul tema «Tecnica e processo»;  tenutosi a Venezia il 27 febbraio 2004, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004.   *   ” Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto. Rielaborazione dell’intervento alla tavola rotonda «La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe  Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi. Al capitolo VI    26. Essere e nulla   Già nel capitolo IV de La struttura originaria - dunque più  di cinquantanni fa - avevo indicato quanto occorre per  rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state  rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta  «l’aporetica del nulla». Questa aporetica, sin da Platone,  consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è  qualcosa che appare e di cui il linguaggio parla  continuamente, sì che il nulla non è il nulla.   La radice di quelle obbiezioni è il pensiero che, sin  dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino  e su questa base isola le cose della terra (le molteplici  determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò  che è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento  isolante si riflette, appunto, nel modo in cui l’Occidente pensa  il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con  Parmenide - col Parmenide quale è interpretato nella  tradizione platonico-aristotelico-hegeliana.   E alcuni miei critici - Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro  Visentin - sono giunti, attraverso l’esperienza del mio  discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva  originaria di Parmenide - del Parmenide, appunto, che è  presente in quella tradizione e per il quale, al di fuori della  «verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo  intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto dóxa,  opinione, illusione, «nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬  essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso,  «essere» significa, come per Parmenide, soltanto «essere»,  senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In  questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle  differenze che costituiscono il mondo naturale e umano, sono appunto il contenuto dell’opinione.   Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni  sviluppate da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per  criticare il contenuto dei miei scritti - considerazioni che  formano a loro volta un sottoinsieme della totalità delle  differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità  (assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in  modi diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o  addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur  interessanti e articolate riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la  morte, Bibliopola 2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il  neoparmenidismo italiano, Bibliopolis 2011, p. 402, nota).   La struttura originaria della verità è l’apparire  dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è.  L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere  implica infatti che qualcosa non sia ciò che esso è: implica  (con Parmenide) che le differenze siano esplicitamente poste  come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia  dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal  nulla e vi ritorna, siano implicitamente poste - esse, che non  sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il  segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo.   Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si  distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono  nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento.  Anche quando intende essere la negazione più radicale della  separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -,  l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa  nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come  originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è  destinata al fallimento. Ogni differenza del mondo - cioè ogni  essente, o significato - è cioè destinata a esser pensata e vissuta    409     come un nulla - anche quando si ritiene che un Dio eterno  possa salvare il mondo dal nulla.   Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli  essenti determina il modo in cui esso pensa e vive la presenza  del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un  significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in  quelle pagine, tra il «contraddittorio», o  r«autocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la  «contraddizione», che invece non è un nulla, in queste pagine  si precisa - IV, 6 - che «il significato “nulla” è un significato  autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un  «significato contraddicentesi», appunto. Affermando  l’esistenza di quel «significato autocontraddittorio» (cioè  contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che  l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la  contraddizione è (e che la contraddizione sia non è  impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un  «fondamento», cfr. ad esempio Fondamento della  contraddizione, Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è  sempre richiamata l’attenzione). I due momenti  contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il  «positivo significare» del nulla, ossia il suo essere nulla e  l’ apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e  assenza di significato del nulla che è positivamente  significante. Da un lato, il positivo significare di ciò che,  dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e  significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste  tematiche nello scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi).   Questi due lati o momenti sono originariamente e  necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè  Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere  dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i due momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come  separati, l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come  significante, ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un  essente. Se i due momenti vengono separati, è inevitabile che  il positivo significare del nulla (il primo momento) si  ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel  significato che è il contenuto di quel positivo significare -, sì  che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione  che il nulla è un essente.   Questo esito differisce essenzialmente dal significato  autentico del nulla, ossia dal nulla come significato  contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché,  in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia  non è un essente (e appunto per questo il significato nulla  contraddice quell’essente che è la positività del proprio  significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del  significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare  che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che  l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di  nulla e di essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del  nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è  definitivamente legato all’assurdo.   L’isolamento-separazione conduce all’essenza del  nichilismo, costringendola ad affermare che gli essenti sono  nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora  l’atteggiamento isolante a costringere l’essenza del nichilismo  ad affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente.  Con la differenza (rilevata da Nicoletta Cusano in Capire  Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel  primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere  identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo  caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si  inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo, e  propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a  quel mio discorso (la forma presente ad esempio negli scritti  di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla  luce il proprio identificare il nulla a un essente e intende  questa identificazione come inevitabile (ossia come  inevitabilità della negazione della struttura originaria della  verità).   D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di  tale identificazione - ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in  cui appunto consiste Tessere del nulla - solo in quanto,  dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa  essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non  si potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla  e di essere è una contraddizione che secondo alcuni miei  critici inficerebbe la struttura originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge  non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la  logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia  perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza  della separazione che, in questo caso, crede di poter  prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del  suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale  significato, proprio perché si presenta, non può che apparire  come Tesser un essente da parte del nulla.   Pertanto, che il nulla sia «significante» non significa che il  nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto  sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al  nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare  o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In  quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo  stesso esser essente), il significare del nulla appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto  essa appare nella struttura originaria della verità. E che il  nulla sia un «significato» non significa che il nulla sia  qualcosa di «passivo» rispetto all’attività significante  dell’essere, giacché anche questo essere un che di «significato»  appartiene a quella totalità.   Si aggiunga la seguente annotazione in rapporto al modo in  cui Heidegger intende il problema del «Niente» (soprattutto  in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate  Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di  mostrare che il Niente non è un ente, ma non è «nemmeno  mai ciò che è soltanto nullo»: il «soltanto nullo» relativamente  al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser  contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di  contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza  Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di  quella in cui si dà per scontata la contrapposizione tra «ciò  che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il  «Niente» (che poi è per lui l’«Essere» stesso) non è «nemmeno  mai ciò che è soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva  al «soltanto nullo»: la funzione di determinare la dimensione  che include sia l’ente, sia il «Niente» (l’«Essere»).   In tal modo, tutte le connotazioni del «soltanto nullo» da  cui Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e  tutte le aporie che il «soltanto nullo» solleva, ma che  Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di  sollevarsi al senso autentico del Niente, ritornano in  circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite e  risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma  Heidegger non lo rileva), per la quale ogni considerazione  intorno al nulla fa del nulla un «qualcosa», ossia un ente;  l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni  «apparentemente acute. È probabile, stando all’andamento del testo, che per  Heidegger sia solo «apparentemente acuta» anche  l’osservazione, da lui richiamata che «se il Niente è niente [e  qui il Niente è il «soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora  non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente  e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere  nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa  osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e  lasciare infine da parte, ritorna in circolazione nello stesso  discorso di Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto  assume il Niente, inteso come il «soltanto nullo», come  essenziale per poter affermare che il Niente, autenticamente  inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso) non è il nihil  «soltanto nullo», come d’altronde Heidegger ha sempre  affermato nei suoi scritti. Un libro   Nella «successione» dei miei scritti, Destino della Necessità  (cit.) sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era  presentato un quarto di secolo prima; apre i problemi che il  filone primario degli scritti successivi intende risolvere.   Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di  ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di «necessità» gli uomini  parlano da millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino  della Necessità «si fa innanzi» il senso innegabile della  Necessità. Esso sta : nessuna forza può scuoterlo. La parola  «de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel  linguaggio che quel senso «si fa innanzi», venendo a mostrarsi  nel destino, cioè in sé stesso in quanto luogo che accoglie  anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità  dell’esser sé di ogni essente.   L’esser sé: il non esser altro e tanto meno quelfaltro che è il  nulla: l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a  esser altro e quell’assolutamente altro che è il nulla: la  necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo,  storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il  venire dal nulla e il ritornarvi, ma l’incominciare ad apparire  e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino,  da parte degli eterni (quindi anche di quell’eterno che è il  linguaggio - e anche il linguaggio che testimonia il destino).   Da sempre e per sempre il destino è l’essenza dell’uomo.  Ma non testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è  alienazione della verità. Nel suo stato attuale, ossia nella  forma finita del destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il  destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione  più ampia, è l’isolamento della terra dal destino.   Destino della Necessità rende radicale tutto questo, perché  Essenza del nichilismo (Adelphi) lascia ancora aperto il problema relativo alla Necessità o non-  Necessità del sopraggiungere e del modo in cui  sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino  consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma  gli eterni sarebbero potuti non sopraggiungere in quel  cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che  appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità  autentica implica anche la Necessità del sopraggiungere e del  modo in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del  destino.   La contingenza degli eventi e la libertà della volontà  appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia alla  persuasione che Tessente in quanto essente sia un esser stato e  un tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato  essenzialmente diverso da quello che le è stato via via  assegnato. Non è una potenza che determini liberamente  l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la  fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole  l’impossibile, non sapendolo, ma essendo anche fede di  ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole.  La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna, si  manifesta anche nel modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il  terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del  mondo) ( Destino della Necessità). Al di  fuori dell’alienazione della terra isolata, la «volontà» autentica  e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà  dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno).  Nella sua forma infinita il destino è l’eterno oltrepassamento  di ogni contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo «inconscio»  più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è l’infinito.   Ma Destino della Necessità apre, insieme, i problemi  fondamentali degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del  libro ci si chiede innanzitutto: «Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a  percorrere? È destinata alla solitudine [all’isolamento dal  destino] o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti  successivi (soprattutto La Gloria, Oltrepassare, La morte e la  terra, citt.) mostrano la destinazione della terra a questo  oltrepassamento e le sue decisive implicazioni. Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano  terribili gli impulsi più profondi dell’uomo. Ma già Sofocle,  millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè «il più  temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere.  Hemingway concepiva la sincerità come il supremo  comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura,  che non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente.  Quindi il suo non era soltanto cinismo, esibizione della  propria malvagità. Spesso si confonde la bontà con la conformità degli istinti  alle consuetudini sociali. Li si nasconde perché è difficile che  siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta «innocenza»  dei bambini o la mansuetudine delle pecore - anche della  quale si può peraltro dubitare come si dubita di  quell’innocenza. Hemingway impara che il piacere della vita è  inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è guerra, dice  l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire che non c’è bontà  che non sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi.  E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia, la morte che  l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli altri e in lui  stesso.   L’uomo buono - soprattutto il santo - non è chi sia privo  di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse  privo, sarebbe appunto l’innocente o il mansueto  quadrupede. Forse per questo i veramente buoni e i santi  sono spesso insopportabili. La loro indole è terribile. Sono  buoni e santi perché, lottando contro di essa, la vincono. Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la loro  natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo,  devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo lui,  riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può  essere un sintomo.   Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è  presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità.  Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i «valori  supremi» della tradizione occidentale siano morti - e che  uccidere gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile  -, gli restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il  desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto  di malvagio c’era anche in lui e di cui egli godeva. Ci si può  spiegare come alla fine non sia più riuscito a sopportare la  vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa  che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino  significa che essi restano distrutti, annientati. Lo stesso  Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del  nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano  che l’annientamento più nefando sia quello di cui son vittime  essi stessi.   Eppure, per quanto potente sia la riflessione di Nietzsche -  e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non ne raggiunge il  fondo. Le «guerre di annientamento» del XX secolo sono la  conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle  origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei  Greci. Si tratta della persuasione che gli esseri possano esser  stati e possano ridiventare niente; ossia che gli esseri possano  esser non essere, cioè nulla. Il culmine dell’errore, qui, si  unisce al culmine dell’orrore - anche se questa persuasione  domina ormai l’intero pianeta.   Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era  quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio tornerà a essere un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che un  tempo siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte  al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era  ancora nulla e un tempo in cui tornerà a esserlo. Qui la  sordità è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla  semplice debolezza della mente umana.   Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi  di annientare un qualsiasi essere, se non fossero convinti che  l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta  diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il  culmine della follia non è forse pensare che l’essere è il nulla?  E «nichilismo» non è forse, innanzitutto, pensare che l’essere  è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono  esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la  storia dell’Occidente?   Nietzsche afferma che «Fannichilimento mediante la mano  asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è  Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero dei Greci che  non solo asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le  distruzioni estreme compiute dalla mano dell’Occidente - la  più civile delle civiltà -, che ormai è la mano del pianeta. Emanuele Severino. Severino. Keywords: velino, velia, parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino, Parmenide il velino, divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Severino” – The Swimming-Pool Library. Severino.

 

No comments:

Post a Comment