Luigi Speranza -- Grice e Sebasmio: la ragione conversazionale della
classe romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sebasmio is a philosopher mentioned
on a list of philosophers belonging to the Roman aristocracy. SEBASMIO.
Luigi Speranza --Grice e Secondo: la ragione conversazionale della gnosi
romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a
gnostic who believes that the world is divided into light and darkness. Secondo.
Luigi Speranza -- Grice e Secondo: la ragione conversazionale del cinargo
romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Tacito. A Pythagorean, he
acquires the nickname on account of a vow of silence he takes. Although some
regard him as a Pythagorean, he appears to have led the life of the Cinargo.
Even Adriano can not get to break his vow – although S. may have provided
written answers to some of the philosophical questions Adriano poses.
Luii Speranza -- Grice e Selinunzio: la ragione conversazionale della
scuola di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Reggio). Filosofo
italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza --Grice e Sellio: la ragione conversazionale dell’allievo
di Filone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Sellio. Pupil of Filo
at Rome. Gaio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice e Sellio: la ragione conversazionale del
fratello – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Pupil of Filone at Rome – possibly Gaio Sellio’s
brother. Lucio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice Selvatico: la ragione conversazionale estense –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. Estense.
Luigi Speranza -- Grice e Semerari: la ragione
conversazionale e il principio del dialogo in Socrate – filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo Italiano.
Taranto, Puglia. Grice: “Whereas it would be considered in bad taste at Oxford,
the Italians pun on names – and there is an essay on the ‘seme’ of ‘semerari’
Witty!” -- Grice: “Perhaps Semerari is right and the philosopher MUST
metaphorise. What better title to an essay on Carabellese than ‘La sabbia e la
roccia”?” -- Grice: “I like Semerari: His ‘principio del dialogo in Socrate” is
reprinted in his invaluable collection on “Dialogo.”” – Grice: “In a way, we
may say that Calogero, Semerari, and myself, belong to the school of the
philosophy of conversation – not to mention Apel!”. Si laurea a Roma sotto CARABELLESE. Insegna a Bari. Collabora
ad Aut Aut, Critica storica, Giornale critico della filosofia italiana, Clizia,
Historica, Rivista di filosofia del diritto, Rivista di filosofia, Il pensiero,
Archivio di filosofia e altre riviste specialistiche. Fonda Paradigmi. Si
dedica per lo più a Spinoza, a Schelling, alla fenomenologia di Husserl e
Merleau-Ponty e al materialismo storico di Marx. Altri saggi: Lo spinozismo,Vecchi,
Trani; Storia e storicismo: saggio sul problema della storia in CARABELLESEC, Vecchi,
Trani; Storicismo e ontologismo, Lacaita, Manduria, Dialogo, storia, valori: studi
di filosofia, Ciranna, Siracusa; Interpretazione di Schelling, Libreria
scientifica, Napoli; Esistenzialismo
italiano (Grice: “This reminds me of parochial Warnock and his “English
philosophy,” or Sorley for that matter!” -- Cressati, Bari; “Questioni di etica,
Adriatica, Bari; Responsabilità e comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita,
Manduria; La filosofia come relazione, Quaderni di cultura, Sapri; Natale, Guerini,
Milano; “Scienza nuova e ragione, Lacaita, Manduria; S., Guerini, Milano; Da
Schelling a Merleau-Ponty; Cappelli, Bologna; La lotta per la scienza, Silva,
Milano; Valerio, premessa di Papi, Guerini, Milano, Spinoza, Marzorati, Milano;
Esperienze, Argalia, Urbino; La filosofia dell'esistenza in Kant, Adriatica,
Bari; Introduzione a Schelling” (Laterza,
Bari); Filosofia e potere (Dedalo, Bari); Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini.
Per un razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona; La scienza come problema: dai modelli teorici
alla produzione di tecnologie” (Donato, Bari); “Insecuritas. Tecniche e
paradigmi della salvezza, Spirali, Milano); “La sabbia e la roccia. L'ontologia
critica di CARABELLESE” (Dedalo, Bari); “Dentro la storiografia filosofica” (Dedalo,
Bari); Sartre. Teoria, scrittura, impegno” (Sud, Bari); Novecento filosofico
italiano. Situazioni e problemi, Guida, Napoli; “Scesi. Studi husserliani” (Dedalo,
Bari); Filosofia Guerini, Milano Confronti con Heidegger (Dedalo, Bari); La
filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, Frammenti di diario; l'anno di
Istanbul, Schena, Fasano. “La cosa stessa.” Seminari fenomenologici (Dedalo,
Bari); “Dommatismo e criticismo”, “Deduzione del diritto naturale” (Laterza,
Bari); Pensiero e narrazioni. Modelli di storiografia filosofica” (Dedalo, Bari);
Frammenti di diario; l'anno del Messico, Schena, Fasano); “Fenomenologia delle
relazioni, Palomar, Bari); “Ragione e storia. Studi in memoria” Tateo, Schena,
Fasano; Dalla materia alla coscienza.
Studi su Schelling in ricordo, Tatasciore, Guerini, Milano; ‘La certezza
incerta” Scritti su Semerari con due inediti dell'autore, S., Guerini, Milano; Ponzio,
Il significato della filosofia per S., in "BariSera", Niro, S.. Il
problema morale, Atheneum, Firenze, Silvestri, Il seme umanissimo della
filosofia. Sul pensiero di S. (Mimesis, Milano). Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per la
illuminata iniziativa del Prof. Antonio Corsano e con il consenso della Signora Irene Carabellese,
appassionata e vigile custode dell’opera
di uno dei più forti pensatori italiani del nostro secolo, l’Istituto di
Filosofia della Università di Bari ha promosso e realizzato, con questo volume,
la pubblicazione dei corsi organicamente
tenuti da Pantaleo Carabellese su La filosofia dell’esistenza in Kant, negli
anni accademici 1940-41, 1941-42, 1942-43,
presso la Università di Roma e mai editi finora. Nel piano delle ‘Opere Complete’ del
Carabellese, annunciato il 1948 ma non più portato a compimento (uscirono
soltanto i volumi Da Cartesio a Rosmini
e Critica del concreto), era previsto, coi numeri 16-18, un « Kant (in parte
inedito) ». Tale pubblicazione avrebbe dovuto comprendere unitariamente e il
volume del 1927, La filosofia di Kant.
L’idea teologica — frutto, con l’altro
libro del 1929, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, delle lezioni degli anni 1922-1925 alla Università
di Palermo — e i corsi romani del
1940-1943, La presente edizione è stata
condotta su un testo conservato nella
Biblioteca privata del Carabellese.e costituito da fogli dattiloscritti
relativi ai paragrafi 1-7 e 38-104 dell’opera e da un gruppo di bozze di stampa
corrispondenti ai paragrafi 8-37. Nel testo
sono riprodotte fedelmente le dispense autorizzate dei corsi svolti dal Carabellese, negli anni 1940-1943, quale
Ordinario di Storia della Filosofia
(Professore di Filosofia Teoretica a Palermo dal ’22 al ’25, il Carabellese ebbe la Cattedra di
Storia della Filosofia a Roma dal ’26 al
’43 e passò alla Cattedra di Teoretica il ’44,
quando subentrò al Gentile, occupandola sino alla morte avvenuta il 1948).
L’Autore non poté riesaminare, ai fini di una regolare pubblicazione, il
testo. Sono pertanto restate, qua e là, delle ripetizioni Vv
inevitabili, del resto, in un corso universitario che si è sviluppato, sul medesimo tema, per più anni di seguito.
Anche lo stile della esposizione, talora
un po’ trascurato, riflette la immediatezza e
quasi estemporaneità di un discorso al quale è mancato l’ultimo ritocco letterario. L’approntamento del volume per la stampa è
stato curato dalla Dr. Valeria Novielli,
che ha sottoposto il testo a un’attenta e paziente revisione, rendendone più
precisa la punteggiatura, emendandolo, nelle parti dattiloscritte, di numerose
sviste formali, controllando e rettificando tutte le citazioni. Con la Dr.
Novielli è doveroso ricordare i giovani,
che con lei hanno diviso la non lieve
fatica della correzione delle bozze: Teresa Angelillo, Teresa Massari,
Cosimo Tinelli e Anna Verzillo. *o
d*o* Nel presentare al pubblico questa
grossa e ardua opera kantiana del Carabellese, mi corre l'obbligo di accennare
brevemente al suo significato nel quadro
del pensiero teoretico e metodologicostoriografico dell'Autore, sì che quanti
vorranno studiarla o consultarla possano partire, nella lettura, col piede
giusto. Sulla formazione della
filosofia personale del Carabellese l’insegnamento di Kant ebbe influenza
decisiva. Carabellese considerò sempre
la sua ‘critica del concreto’ o * ontologismo critico’ il risultato di un
ripensamento profondo e ostinato della dottrina
kantiana. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica del concreto, che è del 1939, Carabellese
dichiarava esplicitamente che Kant gli «
fu d’aiuto » a scoprire la ‘critica del concreto’ e aggiungeva: « questa mi fu poi d’aiuto a
riscoprire Kant »!. Le suggestioni
ricevute da Kant per la scoperta e la strutturazione della ‘critica del concreto” così come il
ritorno a Kant attraverso tale critica
precisano il carattere di lettura teoretica, che rivelano gli scritti kantiani di Carabellese. Convinto che il Kant della corrente
tradizione storiografica, il Kant cioè raffigurato
quale punto di convergenza e di fusione di
razionalismo ed empirismo, fosse una falsificazione dell’autentico Kant e che, al contrario, la verità di Kant
fosse l’affermazione della
inesauribilità dell’ ‘essere’ o ‘cosa in sé’ rispetto alla na 1 CARABELLESE, Critica del concreto,
Firenze, 1948, Sansoni, p. XIX. tura,
Carabellese ricostruiva Kant assumendo a criterio d’interpretazione l’esigenze
proprie della ‘critica del concreto’: l’essere in sé (Dio, Oggetto, Idea) e l’essere in altro
(Io, Soggetto, Esistenza). Il volume del
1927 era dedicato appunto alla ‘idea teologica’ ed era concentrato nell’analisi del processo
onde Kant, pur nei limiti dogmatici e
realistici del suo criticismo, aveva posto la idea quale oggettività e ragione e, quindi, la schietta
idealità della ragione. Per intendere
correttamente la relazione dell’opera del ’27
con La filosofia dell’esistenza in Kant, è utile ascoltarne un
passo: « Per ora constatiamo che Kant ha
finalmente scoperto la natura
dell’oggettività nella sua distinzione dalla esistenza. L’oggettività è risultata la necessità e universalità di
coscienza: ciò che nei singoli pensanti c’è di identico (...). L’oggettività
dunque è universale astratto nella coscienza. Ecco la grande scoperta che Kant
ha fatto, ma non ha visto. È l'America,
che egli crede India (...). E con la
scoperta dell’oggettività, Kant ha scoperto anche l’esistenza nella sua distinzione dalla oggettività.
Infatti, l’oggettività, l’essere
identico della coscienza è astratto, perché ci sono le singolari qualificazioni
della coscienza nelle quali... ci è dato tutto ciò che di esistenziale può mai risultare » 2. Non
diversamente da Colombo che, credendo di
aver trovato una nuova via per raggiungere un
continente già noto, in realtà aveva scoperto un continente prima sconosciuto, anche Kant — pensava Carabellese
—, incamminatosi nella ricerca critica intorno alla conoscenza, era approdato,
senza rendersene adeguatamente conto, alla individuazione della dimensione
oggettiva o ideale della coscienza e alla sua distinzione dall’altra dimensione, che è la esistenza, la
soggettività. Questa 1‘ America’
scoperta ma non riconosciuta da Kant, che, « al di là di questa oggettività ed esistenza che ci
risultano e che costituiscono la coscienza », si intestardiva « ad ammettere
ancora una esistenza. che concretizza l’oggettività fuori della coscienza »
5. A giudizio di Carabellese, Kant,
impegnato a risolvere il problema capitale della filosofia moderna, quello
gnoseologico, aveva, di fatto, impostato
vin nuovo problema, il problema della coscienza
nella concretezza della sua struttura e delle sue esigenze trascendentali:
universalità e singolarità, oggettività e soggettività, idea ed 2 CARABELLESE, La filosofa di Kant. L'idea
teologica, Firenze, 1927, Vallecchi, pp.
166-167. 3 CARABELLESE, La filosofia di
Kant, cit., pp. 167-168. VII ì
esistenza, Dio e Io, ecc. Il ‘ vero’ Kant era ritrovato da Carabellese
nella ‘Dialettica Trascendentale’ della Critica della ragion pura, dove etano stati definiti i grandi temi
metafisici di Dio (idea teologica) e
della esistenza (idea cosmologica, idea psicologica). La improponibilità di quei temi in termini
conoscitivo-positivi, il loro eccedere
dai limiti della ‘ Estetica’ e dell’‘ Analitica’, che costituivano formalmente
il campo del ‘conoscibile’ e dello ‘scientifico’, davano a Carabellese la
conferma che, con Kant, era accaduto qualcosa di nuovo e di rivoluzionario.
nella storia della filosofia moderna, il passaggio di fatto, implicante un
rovesciamento prospettico, dalla
filosofia del conoscere alla filosofia della coscienza e del concreto, passaggio solo di fatto e non
ancora di diritto, ché Kant continuava a
restare impigliato nella logica della filosofia del conoscere, confondendo oggettività ed
esistenza, di cui pur aveva sentito la
distinzione a livello di coscienza comune e di sapere concreto. La filosofia di Kant « perciò
s’incentra nei tre problemi della
Dialettica, scrive Carabellese nella Prefazione all'opera, Di questi tre
problemi adunque noi faremo centro per
esporre criticamente il pensiero filosofico di Kant nella sua integrità,
prendendo ciascun problema dal momento in cui esso si formula nella mente
kantiana fino a quello in cui dal problema, risoluto o no, questa si libera. L’avvertimento
di quella che, per lui, era stata la più originale scoperta kantiana e,
insieme, dell’imzpasse logico in cui era
stata bloccata dalle contraddizioni della filosofia ‘storica’ di
Kant metteva nelle mani di Carabellese
il filo rosso del suo incontrarsi e
scontrarsi con Kant e fissava i termini e il metodo del suo discorso critico,
che si veniva organizzando nei modi di una lettura, come oggi si direbbe, ‘sintomale’, di Kant,
orientata a valorizzare, contro il Kant letterale, la sua scoperta critica
liberandone il contenuto dall’involucro
formale e linguistico della tradizione precriticistica, che ne distorceva il
senso e ne strozzava lo sviluppo. Prescindere da Kant oggi, in filosofia, è
fare opera nulla. Ora per una
determinazione di problemi che non prescinda da Kant, io credo che bisogna rifarsi dallo stesso
Kant senza trascurare quelle CARABELLESE, La filosofia di Kant che sono le
conquiste dal kantismo, e non dallo stesso Kant, già fatte. Rifarsi quindi da Kant combattendolo
nei suoi residui dogmatici. Ma per combatterlo appunto bisogna intenderlo nella
sua profondità, e per intenderlo bisogna
avere una concezione della realtà da
contrapporgli (concezione sia pure nata da Kant; che anzi deve esser nata da Kant), bisogna avere un
pensiero con cui indagarlo. Solo così si può fare la storia, sia essa della
filosofia che di una qualunque
determinata attività concreta dello spirito.
In tal modo, Carabellese progettava la sua lettura di Kant come controllo di una più vasta e generale
interpretazione del rapporto tra la
filosofia e la sua storia. La filosofia, voleva dire Carabellese, non nasce se non sul terreno dei
problemi maturati storicamente
(impossibilità di filosofare oggi prescindendo da Kant e dalla storia del kantismo). La filosofia,
nondimeno, non eredita passivamente
dalla propria storia (necessità di combattere Kant nel suo superstite dogmatismo). Anzi gli stessi
problemi proposti dalla storia non
possono essere compresi fino in fondo, nella loro verità, se non si sia in
grado di fare uso di un punto di vista diverso, andando al di là del giudizio
strettamente storico con un giudizio
teoretico (Kant non può essere combattuto, cioè proseguito e superato, se non
venga prima inteso, e non può essere
inteso, se non si sia in grado di opporgli un differente pensiero). Insomma, se la filosofia dipende dalla sua
storia, questa, dalla sua parte, è anche
condizionata e anticipata dalle opzioni teoretiche della filosofia. Il proposito di far emergere dall’interno
della dottrina kantiana ciò che appariva essere il suo contributo più originale
e importante, dando, per questa via,
espressione a quanto Kant aveva lasciato
inespresso, rendeva la indagine storiografica di Carabellese altamente
drammatica e rischiosa, provocava il mutuo coinvolgimento dello storico .e del
suo autore, al punto che il dovere di
capire l’autore finiva col coincidere col diritto di correggere, reimpostare o risolvere i problemi da lui
lasciati aperti, e sollecitava al salto al di là dei limiti della filologia,
quando ciò sembrava necessario alla
risolutiva espressione dell’inespresso. Lo stesso Carabellese era ben
consapevole di ciò e non fu certo un caso che,
introducendo il volume del ’29, difendesse il suo scrupolo filologico: «
M’auguro che l’amore della tesi non abbia mai forzato l’in- [CARABELLESE, La filosofia
di Kant] dagine storica ad una interpretazione che non sia quella voluta dalla intima coerenza logica dei pensatori
studiati. Certo ho messo in ciò la
massima cura. E perciò mi son sempre rifatto direttamente alla lettera stessa
dei loro scritti, perché i concetti risultassero sempre nella loro maggiore
possibile determinatezza. In definitiva,
ciò che principalmente importa a una ricerca quale Carabellese proponeva e perseguiva non è
tanto la relazione, che Kant ebbe con le
sue fonti e coi suoi contemporanei, quanto la
relazione che può instaurarsi tra Kant e i suoi successori e, soprattutto,
tra lui e noi nell’orizzonte della odierna problematica filosofica. Era questo il senso della contrapposizione a
un Kant morto, congelato nel linguaggio
delle sue opere, di un Kant vivo che, diceva Carabellese, « io voglio rivivere
e far rivivere, e col quale quindi io ho
bisogno di discutere scendendo nelle profondità del suo pensiero e analizzando questo sia nei suoi
germi nascosti, per i quali egli rivive
in noi che con lui discutiamo, sia nelle grossolanità esplicite dalle quali
egli non seppe e non poteva liberare la
sua costruzione, e di fronte alle quali quindi egli deve rinnegare se stesso e
darci ragione » ”. A questo punto può
essere interessante ricordare come un’analoga impostazione alla comprensione di
Kant dava, due anni dopo la uscita del
libro carabellesiano del ’27, ma in totale indipendenza da Carabellese, Martino
Heidegger con Kant e il problema della
metafisica. Non è questa la sede per istruire il confronto tra il Kant di Carabellese e il Kant di Heidegger
e illustrarne le differenze pur nella
comune ispirazione ‘ metafisica ’ dei due approcci®. Vale, piuttosto, la pena
di sottolineare la identità, nel metodo,
delle due letture, che risalta oggettivamente alla luce della seguente dichiarazione di Heidegger: « Un’
‘interpretazione ’, la quale si limiti a
ripetere ciò che Kant ha detto testualmente è
destinata in partenza a fallire il suo scopo, almeno finché il compito
di una vera interpretazione resti quello di rendere visibile proprio ciò che nella fondazione kantiana
traspare al di là delle CARABELLESE, Il problema della filosofia da Kant a
Fichte, Palermo, Trimarchi, CARABELLESE, La filosofia di Kant, Lo stesso
Carabellese volle precisare tali differenze in una lunga nota della Prefazione alla Il edizione della
Critica del concreto: cfr. Critica del concreto Xx
formule. È vero che Kant non è giunto a pronunciarsi direttamente in proposito, ma è anche vero che in ogni
conoscenza filosofica il fattore
determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì l’inespresso immediatamente suggerito dalle
enunciazioni esplicite. Così, l’intento
esplicito di questa ‘interpretazione’ della Critica della ragion pura era di rendere visibile il
contenuto decisivo dell’opera, tentando di porre in evidenza ciò che Kant ‘ha
voluto dire’. Nel seguire questo
procedimento, la nostra interpretazione
fa propria una massima che lo stesso Kant voleva veder applicata alla ‘interpretazione’ di opere filosofiche
(...). Naturalmente, per strappare a
quel che le parole dicono, quello che vogliono dire, ogni ‘ interpretazione’ deve necessariamente
usar loro violenza. Ma tale violenza non
può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione dev'essere mossa e
guidata dalla forza di un'idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù
di una tale idea, una ‘ interpretazione’
può osare l'impresa, ognora temeraria, di affidarsi al segreto impulso che agisce nell'intimo di
un’opera, per essere aiutata a penetrare
l’inespresso e forzata ad esprimerlo. È questa
una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando il proprio potere di
chiarificazione » °. Chi abbia presenti
i passi dianzi riferiti di Carabellese, ove si
parla di discesa nelle « profondità » del pensiero kantiano, di « germi nascosti », a cui fanno velo «
grossolanità esplicite », della «
concezione della realtà » da contrapporre a Kant per capirlo e della necessità « di avere un pensiero con
cui indagarlo », può rendersi conto di come Carabellese e Heidegger
concepissero, entrambi, il lavoro storiografico, in filosofia, fondamentalmente
come interpretazione, interpretazione da tentare come sforzo di esplicitazione
del senso profondo e intenzionale, restato nascosto, delle parole espressamente
dette. Di tale sforzo, la cui realizzazione può
anche comandare l’esercizio della violenza sulla filologia, il pre L 9
HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, tr. it, Milano, 1962, Silva, pp. 264-265. Nella Prefazione alla II
edizione dell'opera, che è del 1950,
così scriveva Heidegger: «C'è sempre chi si sente urtato dalle forzature che
riscontra nelle mie interpretazioni. Questo scritto potrà offrire buoni argomenti per un'accusa in tal senso.
Coloro che dedicano le loro ricerche
alla storia della filosofia hanno sempre il diritto di muovere quest'accusa a
chi tenta di aprire un dialogo fra pensatori. Un dialogo di pensiero obbedisce a leggi differenti,
rispetto ai metodi della filologia storica, legata a un suo compito preciso.
Più grave è, nel dialogo, il rischio di
fallire, più frequenti sono le mancanze. supposto è un'anticipazione teoretica
(non casuale, non arbitraria secondo
Heidegger, necessariamente derivata dal filosofo stesso del quale si fa la storia, secondo Carabellese),
capace di trasformare in parole chiare e
determinate la ‘intenzione’ del filosofo oscurata e contraddetta dal suo stesso discorso
storicamente esplicito. Secondo Carabellese, il compito della filosofia dopo
Kant, nella misura in cui Kant veniva
riconosciuto come ponte di passaggio
obbligato nella storia del pensiero moderno, era di andare avanti sulla strada di una ‘metafisica critica’, che
Kant aveva appunto dischiuso ma non
percorso. Sin dalla edizione, che cura, degli Scritti minori di Kant, il
Carabellese aveva fermamente battuto sul fatto che, a suo parere, il criticismo
kantiano non rappresenta la liquidazione
della metafisica, bensì la esigenza e
anche il modello, in qualche maniera delineato, di una sua nuova, ‘ critica ’, reimpostazione. « Nello sforzo
tenace e fortunato che Kant ha fatto per
rendersi conto esatto della possibilità della filosofia come metafisica, cioè come scienza, che ha
oggetti non dati dalla esperienza, si
possono distinguere due aspetti: quello per cui lo sforzo tende, diciamo così, ad individuare
con la maggiore possibile esattezza questi oggetti nella loro essenza, e
l’altro, che è come il riflesso di quel
primo, per cui lo sforzo torna continuamente a misurare se stesso » 1°,
L’errore di Kant, il suo limite storico, a giudizio di Carabellese, era
consistito nell’aver dimenticato che la
Critica, nel suo stesso programma, era destinata a fungere solo da propedeutica (‘prolegomeni ’) a ogni
futura metafisica e non poteva, perché
non doveva, elevare se stessa a filosofia. L’errore del pensiero postkantiano
era stato quello di non accorgersi
dell'errore kantiano e di aver assunto come ovvietà non più discutibile
né problematizzabile la presunta negazione kantiana della metafisica. Metafisica positivistica,
criticismo metafisico idealistico,
storicismo, attualismo, esistenzialismo, ecc. — tale era la convinzione
di Carabellese — erano tutti prodotti diversi di un medesimo perseverare
nell’errore di Kant: la confusione del problema
dell’oggetto della filosofia (il problema cosiddetto esterno) col KANT,
Scritti minori, a cura di P. Carabellese, muova ed., Scritti precritici, Bari, Laterza. problema del
rapporto della filosofia con se stessa (il problema cosiddetto ‘interno ’). Esauritosi nel mero
esercizio della Critica, finita col
diventare fine a se stessa, Kant fu costretto a occuparsi unicamente del problema ‘interno’ della
filosofia e non vide come la sua
soluzione sarebbe stata impossibile fino a quando non si fosse affrontato e formulato correttamente,
secondo le indicazioni della Critica, il
problema ‘esterno’. « Il problema che Kant impostò riguardo alla filosofia »,
scriveva il Carabellese il 1929, «e che
è sostanzialmente il problema di tutta la Critica, non fu quello della essenza, ma soltanto quello della
possibilità di essa. L'essenza della
filosofia come scienza era presupposta e dogmaticamente accettata. Perciò il
criticismo kantiano non è la piena posizione di
quello che abbiamo detto il problema interno della filosofia; ne è invece la posizione consentita da un preconcetto
essere intellettualistico » !. In altre
parole, Kant, nonostante la Critica, non seppe rinunciare al pregiudizio pre- e
anti-criticistico di un essere sussistente
al di fuori della coscienza e del soggetto e all’uno e all’altra contrapposto
e continuò a pensare la filosofia come uno dei modi, certamente il più fallimentare, di
raggiungere conoscitivamente questo essere. « Come Cartesio aprì quello delle
origini, Kant ha aperto soltanto il
problema della possibilità della conoscenza. E
tutti gli indirizzi post-kantiani, che di Kant veramente tengano conto,
cercano di rispondere a questa domanda, ma solo a questa. E a me paiono ora esauriti i tentativi per
darle una risposta. È ora di cambiar
aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A furia
di dimostrare la possibilità della conoscenza,
abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza di cui
vogliamo dimostrare la possibilità » 1.
La ragione principale della filosofia di Kant, alla luce della interpretazione carabellesiana,
stava proprio in quel bisogno di « cambiare aria », di conquistare « una nuova
dimensione dello spazio speculativo ».
Il che, per Carabellese, significava che
Kant aveva toccato il limite estremo dello gnoseologismo moderno, da un lato circoscrivendo, una volta per
tutte, l’area del conoscibile, di ciò che può essere ‘scienza’, e dall’altro
provando che filosofare non è conoscere.
li CARABELLESE, Il problema della filosofia CARABELLESE, Il problema della
filosofia Che cosa la filosofia potesse mai diventare, dopo essere stata affrancata da compiti di conoscenza — questo,
secondo Carabellese, era il problema
posto da Kant, che Kant non ebbe la forza di risolvere, in quanto lasciò che i
potenti strumenti della Critica restassero inceppati dallo stesso pregiudizio
realistico messo in crisi appunto dalla
Critica. Il pregiudizio restò ancora abbastanza saldo per la svista di Kant, che non si accorse della
grande scoperta ‘critica’ e ‘metafisica’, da lui fatta, dell'oggetto quale
universalità e necessità della coscienza e non più suo ‘al di là”. Proclamandola impossibile
come scienza, Kant mostrava di considerare la metafisica pur sempre come
‘scienza’. Per lui, gli ‘oggetti’ della
metafisica (Dio, anima, mondo) continuarono a valere come l’‘al di là’ della
coscienza, conoscitivamente
inattingibile. Eppure il senso della Critica spingeva a inglobare quegli
oggetti nella coscienza, a ‘ immanentizzarli’ non quali ‘ contenuti” bensì
quali ‘essere’ della coscienza, come la stessa coscienza nella sua originaria e necessaria struttura
!8, infine come l’apriori metafisico di ogni determinato e concreto sapere,
essere e fare. Dopo Kant, quindi, anzi
attraverso Kant, fare metafisica, fare cioè
filosofia e non soltanto propedeutica alla filosofia doveva voler
dire, per Carabellese, null’altro che
riflettere (riflettere, non conoscere),
sempre più a fondo, sulla coscienza comune, sulla struttura del concreto
essere/fare naturale e storico dell’uomo. Nello spirito, anche se contro la
lettera della Critica e contro la dominante tendenza del pensiero postkantiano,
Carabellese pensava tale struttura
immanente e trascendente allo stesso tempo: immanente, perché intrinseca al concreto, trascendente, perché
non esaurita né esauribile in alcuna determinazione del concreto (la
inesauribilità della kantiana ‘cosa in
sé’ rispetto al fenomeno o natura). Per rivalutare a pieno il kantismo bisogna
guardare anche «.. coscienza è il sapere insieme, noi molti soggetti, un
oggetto, nella unicità del quale
conveniamo » (CARABELLESE, La coscienza, nel vol. collettivo Filosofi italiani contemporanei,
Milano, 1946, Marzorati, p. 210).
Oggetto umico e noi molti soggetti insieme costituiscono, per
Carabellese, la struttura o essere della
coscienza. Fusi e, tuttavia, distinti nella sinteticità originaria della
coscienza, della coscienza l'oggezto è principio 0 fondamento e noi molti siamo i termini
esistenziali. Tutto ciò Carabellese
ricavava dalla Critica, ora direttamente ora mediandola storicamente,
ma sempre sostituendo all’abituale
lettura di Kant in chiave gnoseologistica
la interpretazione ‘metafisica’ ossia, nel linguaggio di Carabellese, ‘
ontocoscienzialistica '. questi oggetti
della ragione pura, non per tornare a ripetere la metafisica kantiana di noumeni sconosciuti e
inconoscibili e pur validi come
regolativi, ma per guardarli nel nuovo concetto di co- scienza maturatosi da Kant, e rivalutare così
di nuovo il presup- posto trascendentale
della esperienza. Del nuovo concetto di
coscienza, in cui venivano trasposti e semanticamente rigenerati i vecchi oggetti metafisici della ragione, La
filosofa di Kant. L'idea teologica e La
filosofia dell’esistenza in Kant furono la riflessione, tematizzandone l’una l’aspetto oggettivo
(Dio, Idea) e l’altra l’a- spetto
soggettivo (Io, Esistenza). Le due opere furono i due tempi di una medesima ricerca, i due momenti di una
medesima analisi e anche le due
direzioni diverse di una stessa polemica. Infatti, ambedue — come, del resto, tutti gli scritti
teorici e storici di Carabellese —
rappresentavano altrettante prese di posizione nei riguardi di quelle che Carabellese pensa
essere le conseguenze della mai denunciata svista di Kant e, più in generale, le manifestazioni estreme,
nel pensiero contempo- raneo, del non
ancora debellato realismo dogmatico. In partico- lare, il libro del ’27, attribuendo a Kant,
tradizionalmente fatto pas- sare per il
progenitore dell’idealismo moderno soggettivistico, la sco- perta della oggettività di coscienza, serviva
a Carabellese anche come arma di lotta
contro l’attualismo gentiliano — allora al culmine del suo successo storico —, che di
quell’idealismo si protestava l’esito
più coerente e rigoroso e che fu appunto il bersaglio permanente
della polemica filosofica di
Carabellese. Analogamente, La filosofia del-
l’esistenza in Kant, con il discutere la confusione kantiana di
esi- stenza e oggettività
realisticamente intesa, consentiva a Carabel-
lese di contrastare l’esistenzialismo, che in quegli anni si andava diffondendo anche in Italia, e di condannare
in esso la sopravvi- venza del
preconcetto realistico e dogmatico « che il singolare sia fuori dell’essere, e che l’essere sia al di
là della singolarità » !9 e,
soprattutto, l’errore teoretico di presupporre la esistenza senza chie- dersi che cosa mai essa sia, a quale esigenza
strutturale del nostro essere/fare
concreto essa risponda. Esula dal
compito assai limitato e modesto di questa introdu- zione l’esame critico della ricostruzione
carabellesiana della filo- 14 KANT,
Scritti minori, cit, p. VI. 15
CARABELLESE, L'esistenzialismo in Italia, in « Primato » 1943, p. 65. 16 V. segnatamente i paragrafi 3, 13, 43’ e
84 di questa opera. sofia di Kant.
Tale esame, ove fosse tentato, implicherebbe l’apertura della discussione sulla
generale metodologia storiografica del
Carabellese e, quindi, sulla sua posizione teoretica, che di quella metodologia è motivazione, supporto e guida.
A me premeva solo di dare al lettore
alcune indicazioni elementari e, a mio avviso, es- senziali per un suo primo orientamento
sull’impegno programmatico e sul
carattere di questa opera, indubbiamente originalissima e ri- gorosa, in una epoca che, forse, non è la più
favorevolmente di- sposta a comprendere
un lavoro storico condotto con la tecnica
usata da Carabellese e ad accettare un discorso teoretico redatto nel linguaggio che era proprio di
Carabellese. Il lettore vaglierà e
giudicherà per suo conto. Quali che siano, però, le conclusioni di ciascuno di noi, possiamo essere tutti sicuri
che la intera ricerca di Carabellese,
nella quale, in primo piano, si pone la sua lunga meditazione kantiana, è, per tutti noi, uno
stimolo potente a li- berarci dai
consunti schemi storiografici e a tirarci fuori dai luoghi comuni in cui la nostra intelligenza
filosofica può essersi impigrita.
GIUSEPPE SEMERARI Bari, 12
novembre 1969. Giuseppe Semerari. Semerari. Keywords: fascismo, Gentile,
neo-idealismo come intrinseccamente fascista, Croce, Vico, intersoggetivo,
io-tu, dialogo, dialogo autentico, comunita, valore comunitario, comunita
umana, vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semerari” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Semmola: I FONDAMENTI
DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE -- la ragione
conversazionale della filosofia come istituzione – la scuola di Napoli –
filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo napoletano.
Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I find it difficult to decide if
Semmola endorses formalism or informalism in his monumental “Logica.”” Grice: “While Ayer never liked
it, metaphysics is very popular in Italy, as Semmola’s monumental “Metafisica”
testifies.” Grice: “It’s good to see philosophy as an institution, in the
Italian way of using this word, as per Semmola, “Istituzione di Filosofia.” Uno dei più grandi esponenti della scuola napoletana.
Partecipa ai moti di Marigliano. Saggi: “Istituzioni di Filosofia,” “Logica,” “Metafisica”,
Biblioteca, Napoli. Mente divinatrice ardente spirito investigatore che nello
studio della natura morbosa dell'uomo produsse miracoli di arte e di scienza scolare
e presto emulo del suo gran più ai giovann conchiuse alla novità delle dottrine
una sapienza antica procacciandosi fama in patria e fuori di sommo maestro in
medicina ne rifulse lo ingegno incomparabile dalla cattedra nell'università
napoletana nelle accademie e negli ospedali nei consessi legislativi e nei
congressi scientifici nella parola negli scritti membro della commissione
legislativa riunita in Firenze principale autore di un codice sanitario
italiano inviato unico plenipotenziario alla conferenza sanitaria internazionale
di Vienna deputato e poi senatore nel patrio parlamento onorato due volte di
medaglia d'oro dal proprio governo per le cure ai colerosi da quello del
Brasile per la guarigione del suo imperatore Socio di gran numero di accademie
italiane e straniere Insignito di molti tra i maggiori gradi cavallereschi. Muore
nella fede catolica avita. Questo marmo per voce del comune Si fa eco della
pubblica solenne onoranza cittadina. Le spoglie mortali riposano nella cappella
mortuaria di famiglia ove le vollero la vedova ed i figliuoli a rendere vieppiù
paghi la loro pietà ed il riconoscente affetto. INSTITUTIONES PHILOSOPHICAE AUCTORE IN USUM SUORUM
AUDITORUM I CONCINNATÆ INSTITUTIONES METPAHYSICES. Napoli Micliaccio. Superiorum
permijfu y i PRÆCLARISSIMO VIRO CORRADINO marchiOni spectatissimo S. D. t
T l itterario operi, PrjBclarifllme Vir
jam jam (in publicam lucem prodeunti,
nihil majus, nihil honorificentius ab Au« ^ore fuo exoptari poteft, et fehcius accidere,
quam ut infigni aliquo nomina decoratum
emittatur. Jam vero nullum illufirius,
ac vere inclytum nomen, niii ^ quod Mentis prsfiantia, ingeniique 2 felicitate 'fit comparatum t quod dein integritate fumma, maxima lUe fapieQtia in graviflimis expediendis muneribus fit et >'perfe6lum, atque firmatum.* quod tandem
egregio animi candore, atque incorrupta religione fit numeris omnibus abfolutum.
Qui funt hujurce generis Viri, (funt
enitn vero admodum pauci) fummi. profefto funt, &, vere magni.* hi cum ceteris emmeant, fintque de Societate be-.
nemerentiffimi, jure ab omnibus fincere
colendi.* et cum xqui fint, atque idonei
rerum zftimatores, in 'eorum fententiam
libentiflime reliqui defcendunt, ut nec au-. dax obtre£latorum manus
alfurgere 'contendat. Solent et alia publicæ exiftimationis capita percenferi
:at cu 2 a proprio cujufque merito non
repetuntur, et fortunam, non jam virtutem comitem habent, natura fua et funt
nimis fiuxa, et eb omnibus, qoeis cor
fapit, parvi penduntur. Certe, qui ftulte hifce gloriantiir, haud recogitant Horatianum illud Ne cum forte fuas repetitum •venerit olim ''
Crex avium plumas, moveat cornicula
rtjum Furtivis nudata coloribus. Bene
homines intelligunt, quid inter adfcitum, et proprium decus interfit; et ut huic juftam, meritamque habent venerationem,
ita illud defpiciunt, et averfantur. Hinc fi qui fplendidis decepti_ nominibus
aliquem hujufmqdi Vmum honefti laboris fui patronum inconfulte deleeerint,
tantum abeft, ut bene rei fua! profpexerint,
ut potius in fe publicam hominum
tontemptionem ftultiffime concitent. Hsc quum ita fint, nemo proteao non
probabit, cur tantopere exoptaverim, ut meus ifte labor qualiscunque Tibi, Przclariifime Vir nuncuparetur | tantoque conceffo honore fummopere mi caudeam', atque triumphem. Nomen enira tuum tot tantifque de caufis illuftre,
at^ que cohfpicuum, eo profero
illujtriuf jure, meritoque celebratur,
quod mp*"* reliquorum hominum
fortem, non nmofis imaginibus referta atria, non. gia majorum facinora, fed tu*. Te virtutes
unice extulerunt. Tu apriraauiqu ætate
fori curriculum ingrelfus, tantum
ingenii acumine, legum fcientia, gravitate, pfobifque moribus ceteris
prsluxifti, ut inde aufpicium faaum fit, Te ad
‘grandia natum, quod dein-mox comprobavit eventus. Re quidem vera,
quum tot, tantarumque virtutum tuarum
fama diutius fori ambitu contineri non
potuerit, faftum eft, ut Ferdinanjjus providentiflimus ReXj nofter regiorum Hetruriæ
prasfidiorum AflTeflorem, et mox etiam
Auditorem in Teates, et Aquilæ
Tribunalibus deftinaverit. Qua vero in hiice muneribus (apientia,
integritatis, ac folida probitatis
argumenta praftiteris, ex eo plane
intelligi poteft, quod non multo poft
Neapolim fis revocatus,, et in fupremo
totius Regni Tribunali a fapientilTimo Principe Criminum Judex conftitutus.^Per
holce veluti gradus fellinatis honoribus
Te a fecretis Regni, Te Realis Camera
Sanfla Clara Confiliarium, Te ternum
Confiliarium, et fupremum Sa* erarum
Rationum Curatorem vidimus. Tn vero
omnibus hifce muneribus major, re
olfendilli, Urenuam in laborando alTiduitatem tuam nec fene6lute remitti,
nec negotiis opprimi pofle. Hinc illa eadem
Regis Sapientia, qua Tibi probe cognito tanta demandaverat, ad majora
protinus_ extulit. Te fibi a fecretis in Ecclefiafticis, et Sacri Patrimonii
rebus afllimiit,ut in ampliori theatro collocatus clarius enitefceres. Qua duo
graviffima omnium onera ira per Te adminiftras, ut et Principi probanffima procuratio tua femper
extiterit, et reliquis omnibus admiratione digniffima. Tot, tantaqua dignitates
cura honorum continuatione habita, eo
Tibi majori funt Ihudi, quod certum eft,
non gloria Majorum, non aliena ope, non
caco /orruna 'impetu, non externis fubfidiis, fed tuis virtutibus, et fapientiflimo 'Regis Cbnfilio efle • confequutmn.vin
hac tua tam multiplici, tara iolida
honorum, 8c gloria fegete nihil fane
erat, quod operi meo melius potuiffem optare, nifi ut tuo nomine fuperbum, tua
claritate decoratum, patrocinio tuo
tutum in manus hominum prodiret. Voti
compos effe6lus, reliquum nunc eft^ ut
Te facilitatis in me tua non poenitear, potiffimum cum Adolefcentium edu~ationr,
cui tantopere, 8c fine intermif[ione ftudes, fit illud infcriptum'; et ego 3e tanta in me indulgentia gratias. agam immortales. Sis latus, et Te Deus virutum
omnium exemplar fofpitet femper, ic pro
publico hujus Regni bono in avum 'ervet
incolumem. I I IN UNIVERSAM METAPHYSICAM PRAEFATIO. I. Icet MET^mSICES nomen forte olim fuifle
cufum videa*|h e W tur; tamen facultati, quam elucidandam fufcipimus,
apprime 51 ^ confonum cflfc, nemo
profecto ambiget. Si enimPhyfices
nomine a Græco vocabulo Sutrii tPhyJis, quod naturam fignificat, rerum
fenlibilium pertractatio infignita fuit ; jure
Metaphyfica dicenda erat, (itrei Titr puur ^ (cientia nimirum fupra
Naturam, facultas illa, quæ res a
materia (ecretas, neque fenfibiles rimatur, abftractionis et ratiocinii ope. II. Equidem, cum noftræ naturæ
conditione fiat, ut prima; rerum omnium
notiones e lenfibilibus, et materia concretis exordiantur, tum gradatim progrediendo ad infenfibilia
afeendamus, et fecreta a materia;
ordinis ratio poftularc videtur, ut nullus Metaphyftces T^erxXva\\2i
adeat, nifi Phyficis cognitionibus antea
inftructus. Atqui Majores noftri contrarium tenuere iter ; qui mos, poftquam ad nos ulqiie devenit, veluti
lacer fuit, et religiofe fcrvatus ; quantum enim icio, nemo hactenus illum adgredi «ft aufus, five id nimia antiquitatis veneratione faftum
llr, five ex animi imbecillitate, five
alia quacumque ex caulfa. Nolim rectas licet sententias no-» •vitate in alicujus cadere offenfionem ;
quilibet jure A uta a Jn Unlverf. Metapb. utatur fuo, &,
quam libuerit, fequatur fcmitam. At
illud faltem indigitare ex munere meo duxi,
ut difcant Tyrones planum, et magis profuturum emetiri, quem alias
lalebrolum experiri folent, ftudiorum
curriculum. Quæ fupra fenfibilia adfcendunt, et a materiali compage funt
fecreta, diverfa (refpicere poffunt,
atque ideo non immerito hinc Metafhyfices partitionem defumemus. Nempe,
quas fola mentis abftractionc
affequuntur, fi quidem generales rerum omnium proprietates
fpectant, Ontosophia, prima fcilicet
Metaphysices parte, continentur, Quæ
vero fpectant Mundum in genere, atque ideo extra fenfuum aciem conftituta
folius ratiocinii vi agnofei poflunt, alteram
ejufdem partem conftituunt, quam Cofmolagiam dicimus. Sunt vero quæ fuapte natura ab
omni materijB concretione funt fejuncta,
Mens fcilicet humana, et Deus, duafque
alias fiftunt ejufdem facultatis partes,
Pfycologiam fcilicet, et Theologiam Naturalem. Poftrema tandem pars
hominis relationes erga Deum, feipfum,
fuique fimiles expendens, quæ inde
fequantur officia monet, morumque præcepta
decernit tum artem edocet re6fe vitam inftituendi-, ut felicitatem confequamur
j* eaque Jus natura y ifthæc Ethica nuncupari confuevit. Quinque itaque
partibus Metapbyftca continetur, quarum priores quattior modo vobis exhibeo, Adolefcentes optimi,
no» exuccas, nec vanis, garrulifque
fubtilitatibus fcatentes, Icd doctrinis, quæ veram redolent fapientiam,
refertas. Has partim quidem collectas, partim mihi in meis meditationibus
fponte veluti fua Pnefatle 3 fua
occurrchtcs, elucubrare, et ingenio veftro,
quantum cognovi adcomodare fategi. Poftremain vero partem, favente Deo, mox ut otium ^
8c vires fuppetent, adjiciam. IV. Ex ipfa objecti explanatione, quam
modo breviter profcquuti fumus, abunde
quifque intelligit, quanta fit hujufce facultatis, quam per, quam pro^ ba, ac JubaHa mediocris ingenii cultura
trihua's, quam afiiduis, atque
providentiffimis curis Praclarijftmi, ac beneficentifftmi Nolani olim
%4nti~ flitis, mox vero,
benemereniifftmi Panormitani */irA chiepijccpi, ac Sicilia Prafidis
probatiffimi PHl~ LIPPI LOPEZ^Y ROYO in
eodem Nolano Se• minario ‘ alumnus excepi. Equidem fi quid in litteris y In morum difciptma profeci y'
libenti ac grato y/fnimd, ncc non
ingenuo pudore fateor^ me Ei acceptum
referre. Vale. \ jit ea pofita ponatur
etiam id, cujus ed ratio sufficiens,
fecus rurfum infufiiciens foret : quippe
præter illam rationem aliud quidpiam
modo requireretur ad ponendum illud, quod noa dum ed politum. NIHIL ejl fine fufficlenti
ratione. Hnjufcc principii indubia
veritas cuilibet fponte fua occurrere autumamus. Si quis vero demondrationem
requirat ex principio contradictionis facile
eruemus. Sane infit enti A quasvis affectio N præter effentiam, ita nempe ut
Contradictoria affectio — N, vcl alia
quavis diverfa M eidem ineffe poffit. Ex
duabus contradictoriis affe6lionibus N, et N, quas feorfim in eodem Ente ineffe poffunt, nec non 'ex diverfis N, et M
in eodem Ente asque poffibilibus, vel
aded fufficiens ratio cur altera infit,
vel non. Si primum, addruitur propofiti principii veritas.Si fecundum, A 4 quia
8 ONtOSOPHIA. quia contradictoriæ
affectiones N, et N, nec non diverfx N,
&T'M lint in Ente A cx hypothefi seque pofTibiJes, vel utraque, vel
neutra infidere deberet: par enim eft
pro utraque ratio Sed utrumque eft contra hypotefim. Quare fi enti A infidet affectio N, cum, ejus
infpecta natura, ex sequo infidere
poiTet vel contradi£ioria affectio — N, vel alia qusevis M, id aliqua ratione, et quidem fufficienti, fieri oportet.
Nihil ergo eft abfque fufficienti ratione.
Hujufce principii veritatem quam maxime commendat illa in omnium animis
ingenita prurigo quærendi femper cw hoc} cur illud} a qua numquam conquiefeimus, nifi
fufficiens hujus, et illius ratio non
occurrat. Eft hxc fine dubio tacita
qusedam naturx vox, nihil effe fine
fufficienti ratione. . §. lo.Ex diftis liquet, nullum dari, nec dari poffe furum Cafum. Puri cafus nomine
intel-ligitur eventus, cujus nulla fit fufficiens ratio. Equidem hujufmodi notio nullo prorfus
pa£fo concipi poteft, et ex iliis eft,
quæ omni humanæ rationi pugnant. Quod fi quandoque plura cafu, et fortuna fieri
dicuntur, id ex eo eft, quod cauffas p
rationefque, e quibus illa continuo, et certo
nexu pendent, minime pervidemus. Prop/er
ohfcuritatem y fapienter Tullius ^q. *Acad. l. 2. ignorationemque cauffn^ tum fortuna efficit multa improvifa, nec opinata^
et Juvenalis Sat. lo. fed te Nos facimus
Fortuna Deam, Coeloque locamus. Nempe,
ne noftram ignorantiam fateamur,
malumus fortuna inania verba proferre,
et ita nosmet-. p ipfos deludenfcs,
ignorantiæ noflr* acquiefcere. Inveftigatio fane
cauflarum, et rationum mentis aciem
exigit, et improbum laborem. Hinccft, ut
qui minus ingenio valent, vel funt laboris
magis impatientes, plurima cafui, et fortunæ tribuant, quæ acutiores, et laborioft per
fuas rationes, et caulTas facile
expediunt. II. SufRcientes rerum
rationes invefligare proprium eft
Philofophi. Nam ut inquit Genuen» iis „
populus renun phænomenis efl contentus/
„ philofophus in rerum cauflas, et principia in„ quire debet, quod
egregie vocant Platonici „ mundum
intelligibilem, et populo ignotum „
vedigare. Qua Philofopbia nihil validius eil,
„ atque^ efficacius cum ad vitam pacate ducen-,, dam t um quoque ad
reipublicx tranquillU „ tatem. /frop. Xy
II. El. Met. par. prior, II. Caveant
vero Tyrones I. ne aniles reputent fabulas omnia, quorum incomperta ed,vel impervia fufficiens ratio. Meminerimus
imbecillitatis nodra;, et ingenue fateamur, innumera ciTe, quorum rationes neque perfpeximus ha6lenus,
neque in sevum comperiemus. Ecquis
hactenus novit cur Magnes ferrum trahit ? cur Gymnotus, non eseteri pifees, clectricitate
polleat? cur Jovi quatuor fatellites, non plures, neque pauciores fint conceffi, tum feptem Saturno,
nullus Marti, unus Telluri ? &c. Recogitemus vetus illud ac lapiens
Epicharmi decretum „ Nervos ede fapientia:, nihil temere cre„ dere „ fed neque
oblivifcamur nimis temerarium, immo dultum ede, rerum veritates ex xnodulo. nodro metiri. Itaque nihil gratis
aderendum, aut gratis affirmanti concedendum * at ubi prxfto fint exteriora momenta, quibus aliquid
fuperftruitur, hajc prius difeutienda funt,
ne illud pertinaciter negantes temeritatis notam merito incurramus, et veritati fponte
contradicere velle videamur. II- Haud
putent Tyrones fufficientes rationes,
quibus Cauflfæ ad agendum determinantur femper ipfis cauffis extrinfecus
quærendas effie, quum pluries queant
effe internæ. id quod præfertim de
agentibus libero arbitrio pr*ditis di£lum velim. Qua de re animadvertant, quod
licet ultro fatendum fit, fapientis elTe nihil agere, nihil deliberare, nifi ex
omnium, quæ occurrere poffiunt, rationum
calCulo : haud tamen putandum eft, has. rationes veram, et internam fufheientiam
continere, qua liberarum cauflarum
indeclinabilem live flagitent, flve extorqueant aflenfum. Equidem fl ita res fe haberet (
id quod vifum efl Leibnitianis ), cauflæ
illæ nequaquam liberæ dici poflent. In ipfa natura cauffarum liberarum, five in
ipfo earum libero arbitrio ratio fufficiens continetur, cur fe cieant, determinentque, quin ulla requiratur alia
ratio. Externæ rationes, fi qux adfunt,
fuam sufficientiam ex ipfo libero arbitrio confequuntur, fi quidem confequuntur. Sapienter Cicero
de Fato c. I. Motus enim vohntarius tam
naturam in feipfo continet, ut fit in
nofira potefiatty nokifque pareat / nec id fine caujfa, ejus enim rei caujfa ipfa natura eji.De Ejfenfia ^ et Attrthuus,
.Xj.y^Uamlibet nobis notam rem acutius per»
'V^/ luftrare velimus, notio Menti obveriabitur plurcs conceptus
complectens/ cumque nihil fit abfque
fufficienti ratione, mo« nemur hinc
totidem veluti realitatibus rem ipfam conflare, feu totidem didinctis notis.
Has duplicis ede generis, nofcimus ; aliæ
Tiquidem perpetuo res fuas comitantur,
aliæ non item : abeunt enim, pereuntque
ipfa tamen re perma» nente, queis aliæ
fuccedunt, atque aliæ, vel primæ iterum
redeunt. Deinde notarum, quæ res
perpetuo comitantur, quædam videntur veluti primæ, quarum nempe fufficiens
ratio nequit ab aliis derivari ; et hæ appellantur profrie.tates rei
ejfentiales. Aliæ, quæ ci primis fluere
videntur, et in ipfis habere lufficientem.
rationem, attributa dicuntur. Notæ vero rem non comitantes perpetuo, fed quæ continuo abeunt,
et queis aliæ fuccedunt, mox vel numquam rediturz, modificationes, affeQiones.,
qua. litates, vel tandem accidentia
folent nuncupari. Indivifibilis complexus omnium proprietatum edfentialium, quæ
rei cuique infunt, dicitur ejufdem rei E(fentia ^dc quandoque etiam Uatura, licet minus proprie. Effentia igitur
inliar unius coniideraiu^ venit, cui fcilicet nihil addi poted, nihil demi,
quin ipfa res pereat j et alia atque
alia continuo fiat: atque adeo notio eflentix pendet ab adsquata cognitione
omeciei, et generis notione minime ingrediuntur ^ inter ie diferiminentur, facile intelligitur,
efsentias ctmeretas magis compoliras
efse, abftra^las autem fimpHciofres; feu,
quod idem eft, primas plurium proprietatum else 'complexiones, fecundas
autenx pauciorum.. qualis a nobis concipitur, conftituit- Hæc me.
i rito fecernenda eft ab eflentia reali
• quippe ip. Reales rerum dTentias omnes
ad unam nos latere, aut faltem certo non
conftare, ultro ' fateri debemus. Ecquis
enim completam ullius rei notionem fibi
comparaffe contendet ? Qui reddi
poffumus tuti vel in ipfis magis obviis rebus nullam ruperefle adhuc latentem
proprieta* tem ? Confer, quæ in Logica
diximus. Deinde ea ipfa, quæ nolfe
putamus, non funt nifi mentis noflræ phænomena,
pendentia quidem ab objectis externis utpote renfuum fibras irritantibus ; fed quæ nulla prorfus ratione patefaciunt,
quid intrinfecus ipfa fint objecta
externa * qua de re alibi opportunius.
Hinc quæ in Scholis definiri folent Effentiæ, notiones rerum fpeflant, non res ipfas. Cum ergo noflræ notiones,
pr*fertira fubfiantiarum, numquam fint
adæquatæ, tum varient quamplurimum pene pro numero mentium; facile intelligitur, quantopere in hominibus
effentiæ rerum notionales fint tum inter fe diverfæ, quum a realibus diferepent.
7 iai»» GAP. II. De variis Entium generibus, ^.lO.^^Um Entis notio tum rebus, quæ
actu exiftunt,;tum quæ non exiftunt
quidem, at exiftere pofsunt,ex sequo
conveniat; hinc P“ Entis vocabulum
emphatice a Platonicis ufurpar tum w.^rOSOPHIA. IS prima, 5 c gcneraliffima Entis divifio cfl:
in Ens Icu exiflens ^ et potentiale ^
leu pojjihite» zi. Ens actuale vel ita
exiftit, ut tota fuat exiftentiæ ratio
fufficiens in fua efsentia contineatur, feu ut ejus exiftentia in Iu* cfscntiæ conceptu includatur, et Ens a fe, feu Ens neceffarium
appellatur. Hujuimodi eft foius Deus.
Vel exiftendi fufficiens ratio in altero Ente continetur, et Ens alio
dicitur, leu Ens cow-.'Hujufmodi funt przter Deum cætera quavis Entia - Utriusque entis caracteres
alibi opportunius expendendos rejicio, ^.22. Quiecumque hujus Mundi Entia contemplari
velimus, innumeris ea mutationum viciffltudinibus perpetuo obnoxia efse
deprehendimus : interim in tanta
pereuntium, ac fe invicem fuccedentium mutationum ferie, Entia illa adhuc perdurare intelliguntur. Merito hinc
conficimus, tot tantifuue mutationibus
aliquid perdurabile fubftare, cujus
diverfæ fmt modificationes quotquot excipit mutationes. Porro primum illud fubjectum perdurabile, ac modificabile
Subjlantia dicitur. Quod vero hujufce fubjecti modificatio efi, et concipitur,
Modus appellatur. astum legimus, pro eo
fcHIcet, quod ærernum eft, et perfeflilTimum ; hinc res facias non entia ^ fed
entium umiras iidein appellarunt. Hajc equidem loquendi ratio fublimior elt, et
vere philofophica ; Deus enim eft Ens
abfolutiflimum omnes entitatis rationes in fe uno coniple« 5 lens. Quis ex factis Scripturis
illam hauftam no» dixerit ! fane Exod.
III. v. 14. Ipfe Deus, quis efset,
fcifcitanti Moyfi refpondens, dis it: Ego Jam, qui fum. Primam fubftantiæ
notionem ex entium contigentium
contemplatione mentibus noftris
informamus : hinc eft, quod fubftantiam concipiamus tamquam fubjectum
aliquod primum perdurabile ac modificabile. Cæterum nequit hxc fubdantiaz notio ex azquo aptari Enti
necefsario, nempe Deo, cui nullas inelsc
pofsunt modificationes. Deinde animadvertendum notionem fub* ftantias mox traditam penitus abftractam efse: nullibi fiquidem reperire eft ejufmodi
fubjectum, quod nullas actu
modificationes habeat. Quot quot
exiftunt, funt undique determinata, et fin»
gularia ; univerfalia, qucd fxpe dictum eft, non 1 'unt nili Mentis noftræ abftractioncs. Cum
fubftantia primum fit fubjectum &c.
^.2a.quodvis aliud fubjectum, cui infit,& inhxreat, excludit,-( ipfa enim fibifubftat, et fubjc6tum eft quarumvis modificationum, quas ei obtingere
pofsunt) non vero excludit quodvis aliud
fibi externum fubjectum, in quo fola infit fufficicns ratio fuas
exiftentias. Quid enim implicat fubftantiam principium fuas cxiftentijc extrinfecus
habere, interim vero ipfam fibi 1'ubftare„quin indigeat eidem principio
inhzrerc ad inftar modificationum ? Ex,
gr. decora Palladis forma, quam faxo
infCliTp|am miramur, lui principium feu fufticientem exiftentias rationem
ab artifice petit ; at interim faxo, non
artifici inhsrret. Qui ergo fubllantia ab externo principio fufticientem fuas exiftentias rationem petens
eidem principio inhasrere debet? porro ad differentiam modificationum ipfa fibi
fubftare nihil vetat - f S' Dio»: V t/ E contrario MqM nequeunt Jpfi fibi; fubdare, feci neceflTario natura fua
alicui Subjc£lo inhærere debent. Operæ
pretium eft heic expendere impiam non minus, ac abfurdam Subftantiæ deii* Ditionem, quam Benedictis Spinoza ex fuo
je« cinore c^mpo^’uit. Verfutus Homo
pantheifti* eam molem flfuere contendens,
definitionum, theorematum, ac
corollariorum exteriori appa« ratu
Geometrarum morem mentitus eB,utLe«, Cot
ibus facile poffet illudere. Quare hanc præfniiit Subflantiæ definitionem : per
Subjiantiar» ^intdligo id j quod in fe
eji ^ et per fe- concipi’* tur ; tum
explicationem fubdit. hoc efl, id, cujus
conceptus non indiget conceptu alterius rei f
s quo formari debeat. ^ I. Verbis
illis quod in fe efl duplex fubjicl
poteft fenfus : i. quod in Je efl, nempe a fe% quamlibet excludens externam caufam, a
qua producatur; a. in fe efl ^ nempe
flbi ipfum Jubflaty quodvis intriniecum
SubjeCum, cui in« hæreat, excludens,
contra id quod proprie Modorum efi. Hic fecundus Subfiantiæ conceptus» verus efl, fed nihil Pantheifmo, cui
fludet B Spi (a) Nemo mihi calumniam inferat eo, quod in
au» guflilKnio Eucarifti* Sacramento,
permanentibus panis et vini
accidentibus, fide Divina tenendum fit, nullum re. manere panis, et vini fubjeflum. Nam, quos
vulpo mo» dos, et accidentia in hoc Ven.
Sacramento appellamus, >ro meris
habeo adparentiis, et phsnomenis. Nen^,
leficiente fubftantia panis', et vini, Divina virrute fup.,Ienrur in
fenfibus noAris illz ezdem impreffiones, ou^
ierent a reali panis, et vini TubHantia. Hinc profe^Q (l, ut ilU fe^biles reprxfentationes oobis
occiuraot. Spinoza, favet. Primus, cui foli pantheifticam molem inzdificare fatagit, falfus e(l, qui neque
ab ipfo Spinoza, neque a quovis ejus Af*
Iccla ha£lenus e(l demonfiratus.
ir.
Neque minus fallax e(l explicatio definitionis ab eodem allata. ( inquit )
concep» tus non indiget conceptu
alterius rei, a 'quo foy mari queat, Si,
conceptum Subfiantt^e prafcindi poffe a
quovis alio conceptu, ultro coBtedimus \
fi vero intelligat, Sub/iant'ee cotf
eeptum neceffario a-fs excludere conceptum alterius rei, a qua ipfa
Subflantiq producatur, feu in qua in/it
fu-fficiens ratio, princprum fue
exijientia, et id gratis afferenti in zvutti
negabimus. Tnterim ex allata poenitenda definitione illa fua oracula
depromit catus Homo. Unicam in Mundo Subflantiam extare. Hanc unicam Subjlt.rt
'am ejfe Deum.’ Hujus deinde modificationes ejfe quotquot in Univerfo
cernimus f^c. Sed hac de re fuo
loco. 27. Ut poflibilis notio fiatuatur,
quot non repugnare dicuntur prznotanda
funt. Ea non mepugnare dicimus, quz
fimul effe polfunt. Ex. gr. Triangulum
zquifaterum, Subfiantia cogitans &c.
non repugnare dicuntur, quippe triangulum
*^cinn zqualitate laterum confiftere potefi : SubfWntia cum cogitatione,
tanquam ejus pro« p^ietate. ' 28. E contrario, quæ fimuI effe
nequeunt, ep quod unum eorum alterum
excludat, et atnbo fimul fe mutuo
deleant, e4 repugnare dicuntur: ex. gr. Circulus quadratus. nam notio circuli
notioneni quadrati excludit, et ambas
limuU. simul-fc mutuo delent. zp. Pojfibile dicitur quidquid in fui essentia nullam includit repugnantiam, quodque
ade& concipi potcft. £x.gr.Mons
aureus; triangulum -æquilaterum. E
contrario ImpojjibUe dicitur quidquid in
fui edentia repugnantiam involvit,
quodque adeo concipi nequit ^ cujusmodi ed circulus quadratus, qo- Pojftbilis notio diligenter
difcriminanda cfl a notione probabilis.
Poffibilitas enim fpe£lat ipfam entis naturam/ Pxobabi^itas vero refpicit
rationum momenta,jqjuibus,;|Mens ad affirmandum aliquid, vel negandum^
^movetur; feu indicat datum Mentis
judicaatis.de exidentia, natura,
proprietatibus &c. Entis. Hinc Probabilitas locum.habet in exidentibus,
poflibilibus, • infipoffibilibus
&c. 31. Notio pdJifibills, pofitiva
ed ; sidit enim aliquid Menti
contempianti.-£ contrario notio
Impojfibilis ed negativa, non enim fidit Menti aliquod ens, fed duo exhibet entia, quz fe mutuo
delent, adeoque aon ens, feu nibil. 32.
Poffibilium numerus faltem duplus ed
numero impoflibilium. ImpofUbile enim coalefcit ex duobus, vel pluribus
inter fe pugnan. tibus: d hæc fingula
fecernamus, feorfim non -pugnabunt,
adeoque erunt Ungula feorfim poflibilia. Numerus igitur poffibilium, ad
minus im poffibilium humero duplus ed^ .
fmpoffibilinm duo datui folent genera
Alia enim funt intrinfecus, et abfolute talia ^ alia vero nonnifi
extrinfecus^ et hypothetice. Primi generis funt quotquot contradi£Uonem in B 4
/ voi- Yolvunt, de quibus ^.zp.ySc hxc metaphyjice int« ^olTibilia quandoque etiam dicuntur.
Secundi generis funt, quæ nullam quidem
in i'ui elTen> tia repugnantiam
continent, pugnant vero ex> trinfecis
quibusdam hypothesibus / ex.gr. prop*
ter imbecillitatem cauflæ producentis, propter conditiones loci, temporis, &c. aliafque
adpofi* tas circumftantias, Huc fpectant,
quæ phy fiet impoffibilia appellantur,
quippe quæ phyficis Mundi legibus*
pugnant. Ex.gr. Lunam eccliplim pati
extra oppofitionem cum Sole, hipotetibice
eft impolsibrie^in! hypothefi nempe, quod Mundi curllis jfrxfi'
confuetas leges cosmologicas pergat : flammam.in ære libero deorium
dirigi: Virum obliteratum, et rudem
acute, &. erudite de rebus
di^cilibus difputare &c., 34. Ad Jiypotheticam impoffibilitatem ad cedit,
quæ moralis nuncupatur. Illa nimirum
moraiiter impoffibilia' vocare confuevimus, quæ intrinfecus infpefta. funt quidem poflibilia,
non'nifi tambn raro, admodum difficulter effici
queunt. Ex. gr. diuturna culpæ declinatio ia
xnediis, et maximis periculis. Diligenter advertant Tyrones, quandoque
in communi fermone fimpliciter impoffibilia appellari*, quæ folum moraiiter ' funt impoffibilia / idque
potiilimum recolant in facrorum Librorum k£lione, ne in abfurdas incidant
Sententias. 35. Sunt qui aliud
impoffibilium moralium genus agnofeunt, idque Dei refpectu * definiunt nempe Ea efle, qux in fui natura.
infpc£la, funt quidem poffibilia,at fieri pugnant 'Divinæ perfecti 0 imæ Naturas. £x* gr.
mentiri in-. af inquiunt, cfl: quidem intrinfecus poflibile,
at Deo impoflibile moraliter, quia fummæ
ejus Veracitati pugnat ; fimiliter fe
habet innoxium aternis addicere flammis,
quod ejus Juflitiais op« ponatur. Sed hi
parum penficulate hoc impoffibilium genus introducunt, cum revera ad im« pohfibilia abfoluta fpectent. Sane quid
magis contradictorium, quam
ju(litia,& iniuftitia, veritas et mendacium &c. ? porro in nifee, quæ vocantur moraliter impollibilia, collifio
continetur inter juilitiam, veritatem, fanctitatem &c., qux in quavis Divina actione
abfolute, et cITentialiter elucere
debent, et inter injuditiam,
iniquitatem, mendacium &c., quz eidem confociari ponuntur. Quæ ergo
moraliter impoffibitia dicuntur, funt
reapfc impolEbi lia mtr/w/ecMj, et fibfolute. Merito Divus Anfelmus.*
quodvis minimum inconveniens efl Deo
impojjibile, Sed juvat hic expendere quorumdam
fententiam, qui poffibiie definiunt, omne id quod a Deo effici potefl. Iftorum fententia, nulla ed quærenda intrinfeca pofdbilitas in
Ente, Ibla extrinfeca poffibilitas ex
Divinæ Potentias menfura ed attendenda. Verum
qui ita philofophantur, (i recte de Deo
fapiuot, nulla dari impoffibilia Divinse
Potentiæ refpectu datuant oportet' fecus
enim, fi aliquid per ipfura Deum impoiTibile agnofeunt, totam fimul evertunt Divinam Omnipotentiam.
Sane, fi podibile idcirco ed pofilbile,
quia a Deo edici poted, erit a pari
impoffibile, idcirco impodibile, quia a Deo eddei nequit. Quare, fi Deus omnipotens habetur,
nihil pro impoflibili ftatui poteft. Quod
fi c(l aliquid impoffibile, id nonnifi Divinæ Potentiæ defectu
impoffibile eft, atque adeo Dei Potentia
non infinita. Hæc perfpecte vidit
Cartefius, qui propterea nihil Divinæ Potentiæ refpectu impoffibile effe affirmavit 38. At nihil efle in fe, 8f fui natura impoffibile, omnem evertit humanam rationem,
et ad Pyrronifmum deflectit Ex. gr. Triangulum
rotundum, Circulus quadratus &c.
quippe tam clare perfpicimus naturam, notio, nemque trianguli corrumpere, 8 c excludere naturam,
et notionem rotunditatis, et viciffim,
ut de hoc vel minimum dubitare, idem fit
ac humanæ rationi valedicere, et in Pyrronicorum caftra coin migrare. Dantur
ergo intrinfecus impoffibilia, fui nempe infpecta natura. Quare, quæ funt
poffibilia, hujufmodi funt pariter
intrinfecus, et fui natura. Sed inquies
; Si funt aliqua intrinfecus, 8 c natura fua impoffibilia, hæc neque per Divinam” Virtutem effici pofTunt -quf ergo
erit Deus omnipotens? Sed facilis
eftrefponfio: Quod nequeat Deus efficere
quæ funt intrinfecus impofi i fibilia,
id non ex imbecillitate, et virtutis defectu, fed ex ipfius efi impoffibilis
incapacitate, eo quod ejus componentia per fui naturam fe mutuo excludant. Horum componentium repugnantia
cohibenda foret, atque delenda, ut pofTet,
quod eft impoffibile, fieri; nempe delenda, vel mutanda ipfa ejus componentia. Sed modo, quod inde coalefceret, fieret intrinfecus
poffibile, Sc omnino aliud ab eo,. quod impoffibile ponebatur. Sane 51. adverti
muf Impofftbtle nfeo efle Ens, fcd Nihil,
et negatio cujuslibet Entitatis. Qui
ccgo Divini Potentiæ impoffibiiia fubtrahit, nihil fubtrahit ; cdque
Divina Potentia femper infinita, quia
omnia et Ungula» quæ iunt Entia,
attingit. De Relationibus Entium. Singula Entia ne dutn abfolute^Sc ir$, trinfecusy qualia nempe funt in feiplis,
confiderari queunt ; fed et etigm.relative,
6 c extrittfecus, qualia nempi^^ aliorum refpeftu ' concipiuntur. Quid abfolute, et intrinfecus
fint quævis Entia » negatum mortalibus
noffe; quippe intimas eorum effentias penitus latere totius Philofophiæ
decurfus edocebit. Confer quæ diximus
-ip. Reflat igitur jllas Entium' proprietates elucubremus quæ ex eorum ad invicem’
collatione elucefcunt. Has nomine re,
lationum continentur. Quæ hujus funt loci ad tres clafles referri pofle videntur • ad
relationes nimirum I. fimilitudinis :
II. coexijlentia : III. dependentia. De
Relattonibus Simii ItuiUnis, ^ fw/ 7 w appellantur Entia, quibus una, aut Mplures proprietates, qualitatesve ex communi
iniidere concipiuntur. Eft ergo Similitudo
proprietatum in abflracto confideratarum complexus, per quas Entia
dicuntur fimilia. E contrario diJJimUia dicuntur Entia, quibus una, vel plures proprietates,
qualitatesve ex communi non irteffe concipiuntuV. Ex quo facile intelligitur, quid
dijfimilitudinis nomine veniat^ 0.“° plures funt proprietates, quibus Entia convenire deprehenduntur, eo major
in eis elucet /imilitudo : minor, quo
funt pauciores. Ex. gr. fi plures conferam figuras, quæ
triangula appellantur, fimiies ftatim appellabo: de communi enim habent, ut tribus
lateribus claudantur, tribusque angulis
gaudeant. Si vero animadvertam ejufmodi
effe illa triangula, ut communem quoque
habeant laterum rationem, proprius
fimilia vocabo. Ex Entium fimilitudine rationem de« fumimus, qua in determinatas clades illa re digamus. Cum enim hujus Mundi Entium tanta
lit multitudo, ut nequeant fingula Mente di,
iUncte complecti, ea ad certas clades redigere confuevimus : ita nimirum, ut quæ determinatani
inter fe fimilitudinem habere concipimus, ad unicam revocemus cladem, et ad alteram
clafiem rejiciamus,, quas aliam determinatam fimilitudinem exhibent. Deinde,
cum Entium ad eamdem claflem rejectorum
alia, atque alia intenfiorem, fen
peculiarem inter fe fimilitudinem habere
deprehendimus j numerofiorem illam claffem in alias minores redigimus. tum
primam Genus, has fpecies appellamus.
Ex.^r. Infinitas figuras tribus
conclufas lateribus ad unam Claffem revocamus, et triangulorum nomine infignimus
: tum animadvertentes ex hifce figuris quafdam majorem inter fe
fimilitudinem habere, puta quod alia
fingula latera inter fe æqualia habeant,
alia duo tantum, alia finguJa latera inæqualia/ ampliflimam triangulorum classem
in tres alias minores tribuimus, quarum altera triangula scquilatera, altera
ifofcclia, altera tandem fcalena complectatur. Nihil vetat Entia, quæ fub
aliquo rcfpectu fimilia funt, et vocantur,
fub alio diflimilia efle, et appellari.
Sic triangula, quæ modo pro figuris
fimilibus habui ob communem proprietatem trium laterum, et angulorum,
diffimiles mox appellabo, fi animadvertam non æquales angulos habere, neque
eam. dem laterum rationem Quare
intelligitur, ^ntium Genera, et Species,
ex cujufque Mente conflitui pofle, ut ita Entium Claflis,quas Uni Species eft, Alteri fit Genus plures minores
clafles, feu fpecies complectens. 4ec
effe fuura, in aliis atque aliis temporum,
-Jocorum &c. circumftarrtiis immutatum, feu non aliud habere, idem appellamus. Confidit
ergo identitas numerica in Unitate t»
boc effe Entis in aliis, atque aliis
temporum, locorum &c.circumftantiis pofiti. 52.
Triplex vero ed Identitas numerica,
metaphyftca fcilicet, phyjica ^ et moratis. ldentisas metapby/ica prædicatur
de Ente, in quo nulla, vel ne minima,
mutatio accidit. Soli Deo idhæc
identitas convenit. Identitas phyjica tribuitur Enti cujus quidem qualitates mutationem Subierunt,
led ejus elfentialia attributa immutata
permanent. Mentibus, et Materiie idhæc con^venit iden. *> \ titas,, - -.
Identitas tandem moralis confidit in unitate dnis, cui varia media.diriguntur,
tum in perfeveranti ad idem habitudine..
Sic Lupus gregi druens infidias, tum
Vigilum fugiens mi^ nas, idem moraliter
lupus ed / non emendatus «nim fugit, et ed
redire paratus Vigilibus fomno correptis.
53. Animadvertendum ed, vocabulum
quandoque minus proprie in communi vitæ confuetudine ufurpari - -l^es
enim eadem perfeverare vulgo cenfetur, licet- ejus locU alia, atque alia incontinenter iuccedat,!! tamen idhxc
fuc cef- ccflio fenfibus noftris non pateat. Ita 'flumen planta, animal eadem hodie dicuntur efle,
qux decem retro annis ; id quod proprie
verum efle nequit.• fiemo noflrum idem
ejl in /eneBute, gui fuit Juvenis.* nemo
efl mane y qui fuit pri^ eiie. Corpora
noftra rapiuntur fluminum more. Sen.
epifl. 58. 54. Triplici expoflte
Identitati § 50. et 5 1. triplex
opponitur diflin6IiOy numerica yjpecificaf
8 c generica. Primam tribuimus Entibus fu b eadem fpecie complexis/
alteram Entibus ad di« verfas fpecies
fpectantibus, fed quz 'fub eodem' genere
continentur * tertiam tandem Entibus ad
diverfa genera relatis. Patet, adeo folam.
Identitatem numericam efle cujusvis diflinctionis nefeiam. Identitatem
vero fpecificam cum numerica
diflin6Iione Identitatem genericant cum diflin6Iione fpeciflea optime copulari.
Rurfus diflinctio alia efl realis, aliar
formalis. Primim tribuimus rebus, quæ in feip« fis, et nemine adhuc cogitante funt diflin£læ. Quod n harum una alterius flt modus, appellant; qualis efl diflinctio inter
corpus, &. fuam flguram.Secundam
vero prædicamus de re^ bus, quæ in
feipHs quidem unum, funt, fed quæ,
diverfls mentis conceptibus complectuntur, ip& rei natura, quæ multiplex efl fuifleientera
ratio* nem fubmihiflrante. Hujufmddi
efl' diflinctio, quam ponimus
intellectum inter, et libertatemr
Mentis, Quod fi diverfi ejufdem rei conceptus nodt ex ejus natura, fed ex libidine intellectus
ab*t definitione, genere 'ticinpc ^ 8c difFcren-’ tia conftaot.'" ’ 1 : 5 p. Triplici cxpofit* compofitioni
triplex opponitur sJmpIicitks.liimirum
physice jfimplex di. citur Ens, quod pluribus
realiter difiin^is. ca* ret; hujusmodi
ex- gr. Mens cft humana. Hanc abfolutam
simplititatem efie, vari nominis nemo
non videt.,Metapbysioe vero simplex.yt
cujus eiTentia haud confiat ‘ pluribus' attributis, formaiiter difiin6Hs.* hanc fimplicitatsm
Deot convenire arbitror ^ quidquid
contra' Scotistx fentiant. Logice tandem
simplex dicitur, cujuS) conceptus non
coidlat genere, et differentia.tr hanc
fimplioitatem de Geo prsedtcari pbfieplu* :
ritni autumant.-* : ,^.^o.Perdiligenter animadvertaritTyrones, phyfice
Compofita non nifi cx plfffice, et abfolute.
fimplicibus elementis
confieri ”,i Sane, cujusvis. Compofiti
elementa vel funt compofita, vellunt abfolute. iimplicia. Sit hoc fecundum,
con* liftit afferti veritas. Si primum,
hujufrnodi) elementa, quia compofita,
aliis elementis con-' A ari debent. De
hifce fecundis elementis iterum qusBTO, funt ne compofita, an vere^ bc,
ab-, folMe fimplicia Pquorfum evadat
dilemma iftud per fe patet ; nempe, vcl
progreffum compofitionum in infinitum comminilci debemus, vel exiftentiarn vere, et abfolute fimplicium elernentorum
confiteri. At progreffus compofitiojnum in infinitum abfque fimplicibus
elementis fecum ipfe pugnat ; in hoc
quippe progrdfu' oecturrunt perpetuo
compofi^ fine componentibus Quæ ftint itaque phy/icc Compofita, ex vtre, et absolute fimplicibus elementis
conflari debent. » • !' • I ^.6i. Ex
qiR) facile- deduoi poteft,- quamlibet
fingularetn Subftantiam Sub/eflum^.effe pbyftca fimplex. Nam
' -• > Subflantiarum
qualitates^ etfi e^dnOL liflt generis )
vel fpeciei, aliat tamen aliis prJt*
ilant,* moles tnfiniy ta
reputahitQr. ia.formica. Elephantis.rnoics
magnitudineita' animakuli a P. Francifco de JL.a> nir obfervati, ideo ' ’j i nfinities infinita
rrfpectu prædicti ianimalculi.r.Rurius (phse«
nuy cujus diameter iGt.. intervallum t Saturni, a Sole /.infinita haberi potefi''
refpectU'i|Tclluris atque adeoi
infinities infinita, refpecta.jElephaOr
feu. InfinUttm ftcundi ordinlti dt iofinuies •infinifies infinita reCpectu laudati pdmiitn
ajoi« malculin, tertii W/‘»/x.4'.Hujus^ modi comparationes longius proivehi pofifunt
: ^et itaque : dari pluces, immo
infinitos Infinitorum'.relativorum. ordine» Porro;, in ferie infinitorum Infinitum, -infensioris, onfinis
tfi,in•finite parvum refpectu Infinitr ondinis fuperioris\ quod propterea
appellatur it^nittfimumySc
iafinittfintde. Poffibilis proinde, efi Scabies Infi> natefitBalium.y InfinitoiUoi ex utraque
parte in. infinitum producta,. • ; !: '
»> Quantitates reales.) qux fint.
abfolute 4t)fwitæ' repugnant,;;
Quantitas enim nihil,. eft.«Itud quam plurium.* quæ funt eadem, c6l* lectio «. Sed qujacittnque pofita^hujufmodi
colJectione, fempcr.tui»las adjici poteft; Perrnovara wo tUnitatis adjectionem Bd augumentum. Quantitas
ergo natura fd» talis efl, ut..perpetuo augeri poflit. Sed quod perpetuo
augftri poteft, perpetuo limites habet,
(qjippe quodvis augumentumi fupponit (Imilem defectum antecedentem, adeoque
limitem )/& quod perpetuo limites habet, infinitum efle repugnat. Quantitas
ergo, quas fit actu infinita, repugnat. Ad
rem fapienter Mosbemlus Syjlem. intel.Cud.
feSi.
I. cap. 5. 24. ». a. de numero, qui
fpecies eft quantitatis, fic habet. Sciunt omnes
numerum i» fe nihil effe, fed sd ires,.y.r. >.':r^
i •.infinitusf id quod implicat.Nulla
ergo dari potefi extensio v^e.contanua *
8 c’ quam vulgo concipimus talem, pro
phænomeno haberi debet. Sed de hac re - copiosius io Cosmo-, • > - ' i, • -
*. • logia. Peculiaris, ac detcrrninatus modus, quo res infiar totius confiderata aliis flmul
coexiftentibus coexiftit, dicitur ejus /ocus ; fitus vero appellatur peculiaris, aC determinatus'
modus, 'quo rei partes præcipuæ aliis llmul coe« xiftentibus cnexiflunt. Si de libro A quæram ubi eft ? profefto locum flagito.
Refponfum, quod petitioni pratflabitur,
efit hujufm^i; Liber A eft' in tali bibliothfeci ordine, ferici primus,
fecundus &c.. Si rurfufti interrogem, qud
litu } refpondebitur, reBus\ invcrfus &c. Primum refponlum innuit determinat^um modum\
quo Jiber ’A aliis fimul coexiftentibus
coexilTit.Secundum vero refponfum"'^innuit determinatum modum, quo libri partes J^quæ præcipu'e iii
ipfq notantur, adjacentibus coexiflunt.'Quandoque tamen in communi fcrmonc fitus, æque accipitur
ac locus. i V ' 81. Locus, ut modo
definivimus ^ realh quidem eft, fed
relativus, non ahfolutus.’Philofophi, qui pro fpatio vacuo rerum, omnium receptaculo communi pugnant, præter ‘
locum relativum, alium abfolutum
agnofeunt. Ex horum nempe fententia lodjs cujufque rei abfc^ lutus eft illa fpatii vacui pars, quæ ab ipfa
re occupatur. Nos vero qui fpatium
vacuum abfolutum pro imaginario habemus 78.
folum locum relativum admittimus, et fpatii nomine intelligimus Ibcoruth omnium collectionem
« 'Hoc fenlu ipatium^reale quidem eft, sed relativum, non ablblufum, ut ita
ablatis rebus Jocatis, nihil reale
amplius remaneat ; ' fcd^ fpatium, E.
contrario in expcctationis ftatu, vel tædii,,vel
cujusvis doloris? breve clapfum tempus admodum longum videtur. (a) Sane in,. ^
• ' hi 00 Hic illud Poetæ obtindt:
mifero longa, ff Itci Luvis, hifcc cafibus Animus raorjc, tædii, doloris
impatiens, e molefta fenlatione fe fubtrahere continuo conatur* at irritis
conaminibus, moleftia perpetuo recurrit.
Adeft itaque
velut interior colluctatio, et continuus
conflictus mentis, et doloris. Continuu^i
hicce conflictus loco eft continuæ
fucceflionis, longum fluxifle tempus, exhibet.
Quæ cum ita Gnt, continu is erroribus obnoxii elfemus, fertempus ex
noftrarum cogitationum, fenlationumque
ferie dimetiri vellemus. Hinc factum eft, ut tutiorem regulam, c^rtiulqus medium dimetiendi temporis fit quæsitum.
Kihil huic fcopo opportunius vifum eft
motu æquabili: oam licet quamplurimæ sint in Muhdo, luccefsivorum feries, hæ tamen,
quia æquabili continuitate carentia, ad
rem non videntur. Atqui nullibi forsitan rejjerire eft hujufmodi motum, qui sit vere æquabilis
: conversiones attamen Solis circa
Tellurem ad fenfum faltem videntur æquabiles.
Ipfa itaque velut fuadente Natura, pro
certa temporis mem fura, ad hujufmodi'
conversionum fericra ‘devenimus.* tum singulas conversiones in partes minorem tribuimus, per motum artificialiter
paratum, menfurabiles, Illas diximus dies natura* les, harum partes horas denominavimus :
tum lingulas horas in minutiores, æquales
partes tribuendo, mirtutortm cudimus.denominationem
ad eas indicandas. §.8p. Ens pluribus
continua ferie fibi fuccedentibus coexiftens, durare dicitur : eft proinde Duratio continu^ jTcu permanens eatis exi
sten. . flentia, qua pluribus in continua ferie
flbi^ fuccedentibus coexiftit, aut
faltcm coexiftere per fe aptum eft, po.
Duratio itaque non efl quid ab ipfa* rc
durante rcaliter diftin£lum, neque quid ab-‘
iblutum, fed relativum; est nempe ipsius rei coexidentia ad plura
fu^lsiva, sive hasc realia fuerint, sive
tantum imaginaria. 5^r. Duratio cum Tempore confundi non debet : hujus notio in atquabili rerum
luc. cefsionc consiftit ; illa e contraria
in permanenti Entis, quod immutatum, et immobile concipitur, exiftentia. Fingamus unicum
Ens existere, et in eodem flatu perpetuo
manens nulli obnoxium mutationi : modo
nullum fo. rct reale tempus / adefl vero
realis duratio, quæ fat intelligi ex eo
potefl, quod Ens per fe aptum efl
coexiflere fuccefsivorum feriei. Triplex diflingui debet duratio. Vel enim interminata c(l, et inHnita,
principio nempe carens, et fine, et dicitur
^eteynhas. Hasc non nifi foli Deo convenit. Vel duratio finita,
feu terminata efl ex utraque parte, nempe principio, 8 c fine clauditur,
diciturque fimpliciter duratio. Ha;c durationis fpecies optime tempore
menfurari potefl. Cum enim tempus in æquabili,
et continua entium fucceffioæ confiflat, ex quantitate fucceffionis, cui Ens aliquod coexiflit, hujus durationem certo
determinare licet ; nec non unius durationem, cum alterius duratione, conferre.
'Duratio limplex omnibus naturalibus
productionibus convenit. Tertia tandem durationis fpccies,, •. vum bi^ :.
vum dititap y 'eflque illa j qiuap, initium qi;idem habet'V' attfine*
careti. Hstt ad Materiam et Mentes
fpectat, neque poicft tfcrnpore me«n
furari,) etfi. djus initium tempori alicui^ veniat * >. / '•, • 'V r^ifl . r..'.: C..ruUbf
f ;,.i >.i,i. De relationibus
dependentitr, i*ii de Cauffif », *
" ‘i ;• I •». > Efr qiMcpiam ab
alta pendsre dicjtur.j 'X^‘ li huic infit quævis alterius
ratio^.,* ifth^’verb unius ad alteram
relatio dspenden^ tia nomine. indicator.
Ex. gri! Jiorologiijrnqtqs ab tappenfo
pondere, vel ab intus -in,clufo,..elai
firo ptfwrfefe I dicitur, quia pondus lappenruin., vel elaftrtrm rationem co.ntinei)t, cur in
hpto^ logio motus-fiat. ‘ r«., *. Via, &c. Hujufmodi Cauffa remota, et media^ ta dicitur. E contrario proxima, et immediata ^ laudit, quam inter. et effectum nuHa
interce^ dit alia: hujufmodi in adducto
exemplo eff organicæ plantarum flructuræ
insita. 1^. 'XI2. Si Cauffa proxima, 8c
immediata de*, lerminationem fubeat ab
intermedia præcedente, ^fimiliter iflhsc ab alta, Sc ita porro; Cauf* fm ftt^ordinata ^dicuntur t 8t connexam
ferieiit i^nflituere. Hujus feriei prima
appellatur, quasnulli przcedenn fubordi natur, cztene vero in« tcnriedise mediata nuncupantur. CauflTz in
ferrem fubordiaata t]vSm6^ di ' funt vel
effentiather, vd æcidentaliter. £/•
fentialiter fubordinat» dicuntur, fi fubfcquen* |iuax actiones a præcedentibus fint excitz,
dc M . P i2eterminat«. ^ccidentaliter vero
fubordinatv appellaotur, 11 fubfequentes
a prascedentibus ia fola exifleotia
peodeaat, noo item in agendd. 1I4>
De GmdSs ba^ potiflimum tenenda funt-
'• I. Ex nihilo nihil fi*. Nullum Jioc*
antiquius axiomate in pbysicis, atque cofmologi. cis facultatibus « magifque receptum
communi Philolophorum confenOone. Sed
rectus e)us £enfus Qoo ab omnibus zque acceptus. Ita pmrro antelligaat Tyrones c,IQibHnm nequit effe
net tMuffa effieient, isrc materialis^
nee formatis^ ««. fue finalis ulliur
roi, Sane nihilo nulls, funt
proprietates, alias non effet nihil ; fi nulle proprietates nihilo
conveniunt, nulla caufialitadd Ipecica
tribui poteft^*, • 215«. Plures e
Veteribus ita intelligendum autumabant,
ut cuilibet productioni præcedens
fubjectum, tanquam materialis caufia, ftatuenduna «tlTet. Hinc «ternum Cahos, e quo omnia ortum
haberent illi imaginabantur, et. crcatioi
nem ex nihilo, ex nullo nempe prascedei^ fiib* jecto, impofiibilem decernebant. De fenfii
axioip^ mati a nobis tributo, nihil efi
quod dubitq^ mus, fi indubium cfi
contradictionis principium; at vero
fenfus ab hujurmodi hominibut excogitatus nulli certo principio efi
fuperexftructus. Creattonem ex nihilo in
CofmolQgia vindicabimus ; illud tantummodo heic monemus, gratis iupponere Adverfarios, omne quod fit,,ex
ali^ quo præcedente fub jecto fieri
debere. Certe
mp/ tus ell aliquid : interim contjnuo
experimur, ipos varios motus de noyo in
corporibus foln D 4 . voluntate producere jecto, tanquam ex.cauifa
naateria-li r repeti. Ecquid^ ergoavetabit,hGau(Tam inii* alita efficacitate prarditara' fola
•voluntate 4 ^ubftantias dt- nihilo condere? Certe nihil vetat, ficuti ex noto effectuum diferimine par
diferimen inter Cauffa? ponere, ita ex cognito Cauffarum diferimine, funile
dilcrimen inter effe» xtus iptereffe
pofle, decernere. Id quod contra xos
dictum fit, qui incogitanter allato exemplo
objici, pofle putant, morum efle qualitatem, non fubdantiam 4 cum contra iubiiantiæ
fint illæ, de quibus' quæflio vertitur,
utrum ex nihite creari' peffint'.’ - ^.11 d. II. Omnis Cauffit debet effe prhr
fuo effe. Siu. Sane Effectus exiftentiam
luam tfonfequi» lur ab actione Caufsæ
efficientis. Itaque efftetus natura fua
'cfl pofterior Caufla. «.•* e ^.117.
'Duplicem diflinguunt Philofophi priol
ritatemiif natura nimirum, et temporis • Cuni Calilsa tempore prafcedit effectum, hanc
dicunt ^iifitatem temporis. Si vero '
nullo prorfus tvrtpore Cairlia fuum
pra?cedit effectum ^ feu iiumquam
Caufsa’fuo effectu fejuncta «xtitit^
modo nonnifi prioritate naturæ, feu ordinis gaudeti. Hæc naturæi'-priorit.s
in eo coniiftit, quod effectus fuam
rationem, fuumque princi*. pium- e
caufsa petens‘ fine caufsa exifteotiam
conftquiunequit : deinde in noftrarum idearum ofrdinc, taulfæ conceptus notionem effectus
neceffario antecedit. • «. III. potefl effe cauffa efficiens
fui fpfitis. Revera, cui tribuemus
caulsalitstein » rei non adhuc productæ,
vel rei )»m -effectæ? Non prjmuni,
quippe res ^^on adhuc exiffens nihil {
agere, poteff 114. Non fecundum, canf faiitas'qiiip|X præcedere debet, non
fubfequi effectim; Quare Nthil poteft
elTe cauisa efficiens fui ipfms. .. tiip- IV; Nequeunt duo Entia fibi mutuo
effe eduffa ef^eientts, Sit primo -A
caufsa efficiens B. 'A ‘erga:eft prius,
B pofterius. i.i($.Sit xnoda B taufsa
efficieii& -A,. Erit A pofteriuss B.
anterius'; idem ergo A erit anterhis ffmuiy
posterius ^B,‘i(f quod implicat. Igitur &Cv ' «xoi Vi^ j^Uqmd efi in effe&U y 'debet
efi
fe^ht>:eayffai^^9^yfofttttdite0‘'.y vei eminenten-J i2oa^ ^ tineeii f^rinutite^' OM " res iir ‘
altera ^ ‘ dicitur, fi illa irt hac
continetur fecunduui ifusm ooncre^ tam:
effentiam ' ita formaliter * contineri in fii*
rnihe* dicimus futuræ •pI&ntai-^rndinTenta feri* cum in bombycis vifceribus &c. 'Eminenter
vc* fo ^ wtuaiiter ^ B nonnifi
virtus," et poten«^ tia '
fufficrehs.aUieri' iniit ^condendi aliam &qui9 exv dnodrit mdtum femaiiter in Anima,
quas xllURl fiia ioluntate^ pradneip,-
contineri ? equi^ defn folarViitus,
&' ponnfia> motum; produceiid. di
«iniiieff a^titBse pofitis^ifffaliquid eft' in
fectu V quod'"non fft 'iii (C^ifa, r» aliquid vel^ efi mt alia caufla, vel ex nihilo. Hoc
fecuifi «iuin r^giiAt t ^ 4 « Si' primum,
effectus it* ei^ non cx utiich, fed-«ex
duabus cauffisfociis, et confiftit veritas effati. IX f; -VI? Series 'omffdtium
fuberdhtatarum^ q[MæU*dque ea fit,
abfque ulla Cauffa prthha, et indeptn4ertti ^ muino tepugnat, etfi in
infinitam J.1 produB/t concipi velit. In
hac infinita fcrie qua* vis Cauffa cft
cffe£Ius przcedcntis. Qui ergo fiatuit
infinitam fcriem caulTarum fubordinata*
rum abiqæ ulla prima Cau(Ta,8c independente, ponit infinitum numerum effe£luum -j- i
ab* fi^ue ulla caufla; id quod
evidentiflime pugnat. •§ iiz. Sed lubet Tyronibus,
rerum mathematicarum fiudiofis, id ipfum alias exponere. In ierie
caulTarum fubordinata rum, quziibet Cauf*
fa determinatur a præcedente five ad exifiendum, five ad operandum 112. Nulla ergo caufia continet in fe ipfa fufficientem
rationem fux exifientiæ, vel a£Iioni$ :
adeoque nulla cauf* ! fa fufficientem,
et adæquatam continet ratioæft | cau (Tz
pofierioris. Itaque przdi6Ia feries in infinitum protenfa, e(l feries cauflarum
ejus natu- i rz, et conditionis, ut in
earum fingulis metum adfit nihil in
ordine ad determinatam exiilen* ; tiam
cauffarum pofieriorum. Summa autem om> |
nium nihilorum, utcumque numero infinitorum j efi nihil. Jamdiu enim confiitit, illud Guidonis
Grandi, ut ut fummi Geometræ, paralo*
gifmura fuiffe, quo, ex expreffione feriei paral* klz ortz per divifioncra ~, intulit,
fummam infinitorum zero effe revera
squalem dimidio» Series ergo illa, ut ut
infinita, omni caret fuf. ficienti, Sc
adzquata ratione ad exifiendum, nifi ab Ente extra ipfam pofito, zterno, et a quovis alio independenti ad exifientiam
deter* minetur. irq. Contra Atheos hoc pofitum ell theo rema delirantes, omnia in Mundo pendere
[ab infinita cauffarum contingentium
fcrie per im* JDca* p- :: --J. SP nienfam aternitatem produfta ; quafi nempe, quo longius, remotiufquc produ£tam imaginemur
hanc commentitiam, fetiera, minus opus
fit Caufla prima, et independente. At contrarium Tana exigit Ratio. Rem exemplo illuftrabimus, quo Atheorum dementia magis pateat.. Supponamus
ferream catenam ab alto derivantem horizonti normalem,quam, fi lubet, in
infinitum produ£tam imaginemur.
Contendat vero aliquis, catenam iftam,
immane quantum ponderanteral nullo
fulcro indigere, ne deorfum tota ^uat *
fed hujufmodi pofitionem perpetuo ex feipla fervare poffe, hoc herculeo a-rgumento.
Primus, Sc infimus catenæ annulus, '^.e
ruat, detinetur a fecundo, nec ullo
indiget fulcro,* hic fecun» dus, quin et
ipfe fulcro indigeat, detinetur a tertio,
et ita deinceps in infinitum. Igitur tota catena, quin indigeat fulcro extra
iplam pofito, perfe verare ex fe fola poteft in illa poutione. Profeao ita
delirantem, non adducis rationibus, fed praftito quam citiflime elleboro, curare fatageremus.' En typus delirantium pariter
Atheorum, qui feriem caufsarum fubordinatarum infinitam abfque ulla prima
Caufsa, et independente
comminifeuntur. Una eademque res p 9
te!} /tmuf ejfe Caujfa finalk, et effeBus.
Eflfeaus nimirum non adhuc obtentus, fed
mente præcognitus,» volitus, ipfam movet
ad agendum, ut cfFe6Ium confequatur.
Finis, irquiebant Scholaftici, ns
intentione prior ^ in exeqttntione po/lerior, iEger, ut fanitatem confequatur, pharmacis
utitur ab amico Medico præfcriptis. H«ic
fauitas eft finis, qui in pharmacorum ufu intenditur, et quam pofthac xger coniequetur j eadem vero
fa« nitas eft Caufsa asgrum movens, ac
determinans ad pharmaca adhibenda contra
fuafioncs guftus, et oeconomiæ. Infcite
itaque Spinoza decrevit Etif. p. p. app,
ad prop. ^6. Omnes cau fas finales, nihil, ntfi humana ejfe commenta: hanc
de fine dbiirinam naturam omnem evertere
nam id, quod revera caufa eft, ut
effeSum confideraty et contra : deinde
id, quod natura prius eft, facit pofterius. Nempe non diPtinxit Spinoza
in« ter eflfe£fura in actuali ftatu
conftitutum, et eumd^T.on ftatu ideali,
feu in intelligentia Caulsæ efficientis
comprehenfum. IZ5* Priufquam hinc
abeamus, celeberrimam qiteftionem, de qua acriter Philofophi jam inde a Cartelii tempore decertarunt, paucis
expendere juvat. Qjue vulgo dicuntur cauffa fecund(e-, feu atuffa creata, funt
ne revera cauffa efficientes } gaudent
ne infitts viribus, queis age» re
Valeant, agant} Jfn ne' junt tantum oc»
cafiones, cur Deus per ipfas, et in ipfis ftm» mediate agat, eofqua moliatur effeBus quos
0 vtrtbus creatarum caufjarum promanare
putamus? Jz6. Primum negant Cartefiani,
ftatuuntque creatas cauPsas omni prorPus agendi vi dcftitutas / nihil adeo
ipPas agere, fed Deum omnia operari fecundum generales a fe conftitutas leges pro variis illarum occafionibus,
nempe juxta illasmet leges, quas vulgo
natur* dicimus. Impingat globus A in alium B* hic protrudetur, ilPe vero vel
lentius perget, vel quiefcct, vel refle6lctur juxta Phyficæ leges. Ex *' 6i
Cartefianorutn fentcntia truditur globus' B' non motu, &. aftione irruentis globi A, fed
immediate a Deo, qui, juxta generales a Te fancitas leges, "pro occafione
irruentis globi A,' alium B propellit :
tum idem globus A occurrens in- globum B, etiam immediata Dei actione
retardatur, ad quietem adigitur, vel reflectitur ; non ex reactione, vel
elafticitate corporis percufli. Pariter non ignis pyrio pulveri applicatus, illum in flammam agit ' fed ‘ex
oc>» calione admoti ignis, Deus
pyrium pulverem inflammat • tum ex
occaftonc conflagrantis pulveris, pilam e tormento' expellit, et pe^ parabolicam
femitani ducit j qua in parietes impingente,' iterum liac'*occafione ipfe Deus
parietes disjicit; rurfu?, ex ^occafione corruentium* parietum, fubftantert hominem perimit. Ita
de cæteris quibufciimque aliis’*. Neque
corpus humanum aliquid ih 'animam agit, neque anima in corpus / Deus lingulas in anima
adfectiones gignit, quas e corpore
prodire putamus, fingui lolque motus in
corpore juxta animæ voluntatem’. Non moror Malebranchii opinionem ulterius
pergentis, de qua alibi opportunius. •
^ lay. Cartefianorum sententiam ' longius, quam par erat, prolequuti fumus, quippe
illam cxpofuifse, confutafse reor - Sane
communem illa hominum fenlum,
rationemque evertit. Tu ne, inquiet
Cartehanus, præjudicia pro ratione
obtrucljs } Perbelle | ii tara conflantem, univerfalemque hominum, turi^
philofophantium, cum naturali rationis
ductu judicantium, fententiam,
pnejudicii et falfitatis arguere velimus, o felices CartefKini, queis
unice bonus fenfus, 8c recta ratio
ceffit ! Deinde, fi vel tantisper Advcrfariis demus fententiam, quam tuentur,
quan« tum ab Idtaltsmo ( putidum
profecto delirantiun^ fomnium ) diftabimus? Unde corporum noftrorum, totiufque Mundi exiftentiam
ultra rcfcicmus ? Sane in hoc fyftemate
^ cum nihil inter fe agant entia creata,
fed omnia agat Deus, pronum erit
fupponerc, nihil exiftcrc» aliud præter
me, et iplum Deum. {a) ^ iiS. (o) Corporet Mundi exiftentiam noa aliunde,
quam ex Mentis noArz fenfationibus
nofcimus. Si has fenfationes non ex
aiAione circumflantium, et ptementium corpo-‘
rum, fed ex Dei immediata adione fieri ponamus, nullum dein fupererit
argumentum, quo contra Idealiflas Mundi
exiflentiam vindicemus. Quod enim Occaflonaliflac fubdunt, fenfaticnes ex
occafione circumflantium corporum a Deo Mentibus imprimi, quas numcuam infet-.
ret nullis eircumexiftentibus corporibus, nimis leve eft, ^ et hypotheticum, e quo Idealifla facili
negorio fe expediet i ita enim regerere poteft. Unde rejctvifii corpor0 extare * tum, juxta horum circumjltiniium
varias occafiones, Mentem varias ex a&ionh Dsi Jati Jenfationesi Equidem de nofiris jenfationibus nulli
dubitamus^ fed inquirenda tantum
occurrit, quanam fit noftrarum fenfatienum eaujfa. Has ego ex immediata Dei
aSione ref eto, quin quidpiam aliud extftere agnofcams quippe * illum fat
potentem,^ Jdpientem ejje intelligo, qui ideaiis mundi fpeSaculum et /dat, et valeat
menti mex exhibere, ProfeBo nec hilum
prnfiat, aliquem realem mundum
comminifci, qui et nihil ad meas fenfationes
conferre poteft, quo nullimode Deus indiget, quominus idealem^ mundum
menti mea reprafentet. Quare fi nofti,
haud Deum decere, entia multiplicare fine wceffitate, UT fuos adfequatur fines;
praclare me gero, dum nihil prater me,
et ipfum Deum extare fentie, Neque. . t%S. Sed quibus tandem -argumentis Cartefiani
hanc fuam conficere rentur opinationem?
Duo præcipua adferam, nam cætera (lomachum cient. L Nequit omnino iiitelligi quomodo entia
cneata jn fe agant, quidv^ fit illud, quod
cjc uno tranfit in aliud, li. In idea rpiritus non elucet profecto conceptus vis corporum
motricis. ' lap- I. At in primo
uberiorem Logicæ peritum in Adverfariis
eli, quod defideres. Nem iuvabit Occaiionaliftafn reponere, idealifmum
cum Divina Boniute pugnare; nempe in ea fentenfia Deas grande Mundi
rpc6laculutn Menti tam vivide repra^fentando,
ut omnes proclives Hmus, et quali cogamur ad Ivniiis xealis mundi exillentiam adftmendam, nos
profefto illuderet, fi nuilns exificret mundus ; Non,.inquam, id Occafionaliflas
juvat ; ita enim merito refumere poteli Idealifta, fiiamqu.* cauisam conficere.
Pape ! Ei tu adeo vecors, et audart, qui Deo tuos errores., ac deliria adjudicas
\ eccur judicium tuum, me tibi exemptum prmbertte, haud cohibes l certe quas
vividas fenf asiones te fati ajfeveras,
et corporum extjlentiam, ut dicis, faseri quafi jubentes, et ego patiar s illud
reliquum efl, ut ratione teipfum
cohibeas, et ab errore fetves immuitem, ficmti ratione didicifti et alios
plurimos profligate : ut ecce, te tua vi brachium, ac totum movere corpus,
hujus mundi corpora invicem inter fe agere, colores corporibus inharere &c.
Si hos errores Japienter rejicere Jategifti, neque unquam Deo adjudicandos agnovifii,
quippe ratione duce profligantur, ita pariter eadem duce ratione veterem dedi f
ce errorem, et prajudicatam expunge fententi emr, realem nempe mundum exi
flere: tuaque ofcitationi, aic infcitia
tribuas, nonDeo,q iod iu eam dementiam
defcendifli: Itaque cum adeo facilisfit,
ac brevis ab Occafionalifmo ad Idealifmum defcenfus, eadem cenibra ambx
lignanda; filat fententia:, fcilicet inter
furentium deliramenta reponenck. Nempe hsec duo • fececoenda cr fuimus, uno conceptu complexis, emereant, compofita dicuntur, Earum
notiones, quippe quæ frequenter in tota
Philofophia occurrunt, feorfim heic exponere, operæ pretiuna duxi. Sunt autem hujusmodi Ordo, Bonitas
-, Perfecto, Pulchritudo. ' • Plurium Entium five coexiftentium;, (Ive fe confequentium ita' connexa feries.,
ut iibique eadem ratio deprehendatur in
'modo, quo juxta fe collocantur, aut fc'
invicem excipiunt, ordinata dicitur J ejufque abftraftum appellatur Ordo. Confiftit itaque' in fimiJitudine,
qua plura' Entia juxta'-(e collocantur,
aut fe confequuntur. Si fecus illa. fe> habeant, ita nempe fint Cohftituta, ut nulla- in eis
eluceat fimilitudo five in coexiftendo five ip fibi invicem fuccedendo, inordinata, leu eonfufa
dicuntur. Exemplum fumatis ex- bibliotheca.
132? Et quoniam fimilitudoi, quam ordinerp dicimus Entibus præter
effentiam.convenit, ex aliqua 'profecto ratione pendere debet. E Ratio ifthcc ' Printifimn ordinis dicitur et PROPOSITIO ENUNTIANS communem illam
rationem, ieu fimiliiiadioem, qua Entia
co^xiftere iil» debeat, vel fe confequi conformiter>huic principio, Rtgulo
ordinis appellatur. Ex. gr. Principium ordinis in bibliotheca cft :| Lilrros
od comparandam eruditionem aptos in
promptu ba~ here. Regula vero ordinis
eft hujufmodi : J^ihri ejufdem argumenti Jimul componantur. igg. Atqui communis illa ratio, qua plura entia juxta le collocari debent, vel
fe confequi,ot ordo^io eis eluceat,
potell eife liBiplex, vel compofita. Hinc vel fimplex, vel compoHta eft ordinis regula, et ejufmodi pariter
Ordo iple. In præcedenti exemplo limplex
pro bibliotheca eft >6rdo, tum ordinis regula. Compofitus vero ^it, fi ifihaK compofita regula
obfervetur ; jLihri ejufdem argumenti, /mgutSf ty retatis fimui collocentur. %• hibetur. Sub Bonitatis abfoluta nomine
venit quidquid reale in quovis Ente
concipitur; ejus nempe edentia, fingulæquæ
proprietates. Huic opponitur Malum
abfolutum, quod confidit in deficientia
cujufvis realitatk in Ente : id quod, ut
patet, nunquam fieri poted. Ipfe concep*
tus entis, ed conceptus alicujus realitatis : nui* ' lun^ Eoa fua edentia expoliari unquam poted. £ 2 Sufboc itaque fenfu fingulia Euubua
ahqua re/a./ua iis tant.m.ribm.ur ^ olinrum ablolutam bonitatem con et peteciunt,
vel confervare, et perlervani, ^ v immediate, five medtate. E rela»;™» te]ligi potell, Mundi nomine intelligendum clTe Syftema Entium tum permanentium
^ cum fucceffivorum continuo nexu iater
fe conjugatorum f quodque ad aliud Jimil e fyftema minime pertineat,
' Entium permanentium nexus eorum refpicit fitum, feu coexiftentiam, et ex
CJauffis finalibus repetendus eft,*> feu ex fine, ad quem refpcxit Qui primo Mundum
fabricatus efl, et unum Ens ad aliud
ordinavit. Ita ex. gr. Tellus in ea
difiantia a Sole locata efi eamque
orbitam conficit, qua nec nimio ardo* fe
metalla fundantur, vegetabilia, 8c animantia
enecentur* nec nimio frigore rigelcant omnia, rurfumque pereant pjus viventia; fed
ejufmodi in lingularum tempeftatum
vicifiitudinibus tem* peraturæ 'limites
'perpetuo ferventur, qui et vegetantium,& animalium oeconomix
conveniant. ^ p. Entium vero
fucceflivorum nexus tempus fpectat, firque per CaulTas eificientes y internofei
vero poteft, quoties fubfequentis exiilentiæ fufficiens ratio in Entis
antecedentis actione continetur.
Hujufmodi ex.gr. efi nexus, qui inter
fructus, et flores plantæ intercedit,
tum ille, quem hos inter, et fuccos ab organica planta ftructura,
ejufque peculiari phyfi elaboratos,
nofeimus. IO- Mundi ergo in genere
Eflentia pra?cipue confiflit in peculiari illo nexu, quo tum Entia permanentia, cum fucceflfiva inter fe
vinciuntur : iiquidem ex ^variato nexu alius atque alius prodiret Mundus, licet Entia inter fe
connexa eadem eflent. Ex. gr. fint A B C O
&c. N &c. ’fuis tandem limitibus concludi illam debere, quQS ultra progredi nequeat,
Nemo ambigere jpfbteft ^ Prima illa
componentia, ex quorum coagmentatione
corpus phyficum primo conftituitur, quxque ex aliorum nexu non funt conflata,
Elementa corporum dicuntur r tum ipfa
hxc elementa Mater'ut mundana nOmine veniunt. (a) De hifce elementis,
quzremus I. funt ne extenfa, vel
inextenla ? IX. similia, an diflimilia
? ACorpoYum Eltmtnta funt nt tnttnja, vet inext$nfa} 1 T^Ifcrcpantcs
Philofophorum fenteaI J tlx ad duas QafTes, quod ad rem prxfentero attinet, referende videntur. Alii
fiquidem corporum elementa vere fimplicia ponunt . ( 4 ) ElementoFum nomen diveifo plane Icnfu
a Cbemi. cis ufurpatur. Defignant
niminvn quafdam materiales fubfiantias (
non fenfu metaphfSco, fed vulgari fumunr
fubflantijE nomen, vide ont. §/ 6i. ), omnino fimilarec, cum in fui toto, tum in fingblis partibus,
quasque nulla artis, naturzque vi
confiat, ^folvi in alias diverfas fpeciei. Has folent appellare etiam
fn6ftaHti4$s fimpUees ; tum qwque prima
carporum componentia. Vide quantum obiant notiones Metaphyficonun, et Cheroicorun tidan Vocabulo labjeAc ! So nunt, et inextenfa.• E. contrario alii
extenft habent, et figurata. : • i I. In prima chfCc veteres Cunt Z*»onifl/e\ qui corporum* elementa punBa dixerunt fimplicia,
et mathematica. At rifu a Sapientioribus excepta.hac lententia, ZerWt/ur, Vir
equidem lummi 'ingenii, Monades dixit, fubftantias nempe vere flmplices, et omnino
inexten* ias, natur^ fua aftivas, Ic
diffimiles. Tum poliremus omnium Bofcovikhts inextenforum elementorum et ipfe
Patronus punBa appellavit non
mathematica, ut Zcnoniflas, fed realia ; quas
viribus per vices attractricibus, et expultricibus juxta certas, et determinatas ad invicem
diflantias gaudeant. Quid interfit difcriminis has im
ter Icntentias, probe advertant Tyrones. II. Ad alteram claflem fpe£lant veteres
De» mocritki, tum Epicurei, ^|.l' '. '
nere toitdem numero, quot idiomata funt, in quibus Jingulis omnes ejujdem idiomatts voces
re» •perirentur^ qua quittem numero
admodum pauca effent, difcrimine illo
ingenti tot tam variorum librorum
redaSio ad 'illud ufque adeo mitius di»
/crimen, quod contineretur lexicis illis, haberetur in vocibus ipfa
Icxica conjiituentibus. %^t inquijitione
promota facile adverteret, omnes il. las
tam varias voces conflare ex 24 tantummo
do diversis litteris, difcrimen aliquod inter fe habentibus in duBu linearum, quibus formantur,
quarum combinatio diverfa pareret omnes
illas voces tam varias, ut earum combinatio libros efformaret ufque adeo
magis a fe invicem di f crepantes. Et
ille quidem si aliud quodcumque sine microfcopio examen inflitueret,
nullum aliud inveniret magis adhuc
simile elementorum genus, ex quibus
diverfa ratione combinatis orirentur ipfa littera ; at microfcopio arrepto metueretur
utique illam ipfam litterarum compositionem e punBts illis rotundis prorfus
homogtneis, quorum fola diverfa positio, ac dijlributio litteras exhiberet.
Deinde pp. ita concludit. Mac mihi quadam imago videtur effe eorum, qua
cernimus in natura. T am multi,
tam •varii illi libri corpora funt, et qua
ad diverfa pertinent regna, funt tamquam diverjis con/cripta linguis. Horum
quidem chemka analysis principia quadam
invenit minus inter /e difformia, quam fint libri, nimirum voces. Ha tamen ipfa
inter /e habent difcrimen aliquod, ut
tam multas oleorum, terrarum, /alium /pedes eruit chemica analysis e diversis corporibus.
Ultertus analysis harum veluti vocum j litteras mi^ nus adhuc inter Je difformes inveniret, et ulsi» mo jUxta theoriam meam deveniret ad
homoge^ nea punBulay qua ut illi circuli
nigri litteras ^ ita ipfa diverfas
diverjorum corporum particulas per jolam
difpesitlonem diverjam efformarent :
ufque adeo analogia ex ipfa natura consideratiem ne derivata non ad difformitatem, fed
confor» mitatem. elementorum nos ducit. ^5. Re quidem vera/ conflat inter Philofophos,
diverfas ac multiplices qualitates, quas
vulgo corporibus tribuimus, nihil elTe ali>
ud, quam noflrarum renfationum phænomena * non vero fimiles entitates corporibus revera
in« hxrentcs: id quod et in Logica
monuimus, tum in Psychologia copiolius
edocebimus. Rurfus condat, varias in
mente gigni lenfationcs ex diverfo
corporum in fenfus incurrentium ta£lu,
feu ex eorum diverfa in fenfus no{lro^ a6lione. Atqui ex diverfo elementorum corpora conftituentium
nexu, et pofitione ad invicem., op« time
intelligitur, diverfas in elementis noftros
fenfus conflantibus motiones cieri, quin et ele/• reriKX • licet rem alias ^explicarent,
commentiti formarum lubftantialium theori* infiftcntes. Et diftis patet, omnium
qu* in corporibus infunt, vel ineffe poflunt fufficientem rationem ex intima ipforum elementorum natura
pendere, nec non cx diverfo elementorum,
ouo invicem copulantur, nexu. Cum vero inter ^ \ Phi
Erii elementa innumeros diverfos
nexus, innumerasque varias inter fe pofiriones fubire queant 5 attamen quantum
ex chemica corporum analyC haflenus datum ell
nofse, videtur faltem telluris noftrs refpedu, hanc eis 1* a fupremo Conditore legem impofifam, ut
nonnifi triginta tres primitivas combinationes, qus fint fpecifice diverfe, fubire queant. Sicuti nempe punftula
illa nigricantia, de quibus §. 24., e quorum varia pofitione caraderes efticl pofsent, hanc debent fervare
legem pro Boftro alphabeto, et feriptura,
ut nonnifi in 24.. combinariones abeant I Sane nonnifi 35* m^erialia cqmpofita
haftenus novimus, qu* fingula fibi femper fimilaria, et homogenea,
nullo arris, et natura; molimine in alia
diverfi generis abire confiitit. Hujufmodi fnnt lux ^ caloricum, fluidum
eUQricum, oxygenium, hydrogentumy
gezotum, ( quod ab aljis accuratius nitrogenium appellatur ) carbonium,
fulphur, phofphorum., quinque terra f
ftptemdecim metalla, foda^ et fotajfa. Cætera corpora funt combinationes
fecundaria; ; nempe mixtiones, modi ficationes, vel tandem intimæ compofitiones
prodictarum 5?. conibinationum primariarum. Ita ex. gr. Aqua et «ft intima corapofitio hydrogenii, oxygenii,
et calorici. Acidum fulpburicum eft
intima combinatio fulphuris,oxygenii, et calarici &c. Philofophos conveniat,
ab ciTentia aufpicandam cfle
fufficicntem rationem omnium, quat in qua>
vis re infunt, vel ineflc poffunt i 6. ont. • per fe liquet, corporum effentiam in elementorum
fimplicium natura, et vario inter fe nexu
reponendam effe. At quis elementorum naturam, variofque ipforum nexus plane perfpectos habere
præfumet ? Corporum itaque eflentia pro incomperta habenda, et verba efFutiiflc
quotquot contrarium audacter prxdicarunt. y De
Legibus cofmologicis • •\ • «•
28. T Egum cofmologicarum nomine veni^ unt certæ quædam naturales, '
ac infitæ determinationes virium materiæ,
juxta quas et elementa, et corpora hifce
conflata perpetuo in fe invicem agunt; tum gignuntur in Mundo omnia, pereunt, moventur, modificantur,
et quibus Univerfi ordo continetur. (a)
Hæ genericis quibufdam propofltionibus efferuntur, quarum præcipuas heic
exponemus. zg. Corporum elementa
viribus per vices attrahentibus,
repellentibus pro va^ riis a fe
dijlantiis gaudent ^ quibus in fe mutue
agen (d) Vis motrix in horologio
certam habet determinationem ex ipfa horologii mechanica ftruftura, qua determinatos
motus, et non alios, in indicibus gignit : ita
vires elementorum infitas habent, ac cettas agendi determinationes, a
quibus, ne iulum quidem, recute pof fwt V
agentia in fensibiles, et extenfas moles concrefcunt - ( 1 Nifi enim hujufmodi viribus gauderent, quam facile corpora ex illis cotrfiata di
flbl verentur, linde Univerfi moics in informe Cfaaos quam fubito abiret,^ Gaudent vero viribus
at. trahentibus in majoribus didantiis,
repellenti* bus in minimis. Primis fe
>mutuo, petunt ad acceffum, ne
fingula i diffluant, &*, dilabantur :
fecundis vetatur intima eorum penetratio, ne fcilicpt eorum millena non majus occupent Ipatium,
^uam unum : id quod li folis attrahentibus vjf ibus. gauderent, extemplo » et neceflario
fieret. Cura
inter liraites harum virium cqrporuna
elementa funt conftituta, conquiefeunt, et cohærent. Itaque hac lege mathematicus elementorum
contactus / vetatur, &..fimul efficitur,
ut coeuntibus illis ad minimas, &. inobfervabi^ les ; diffmtias, extenfa, et phyficc continua
moles noftris fenfibus objiciatur. • Has autemt vires pro variis elementorum diftantiis pluries
mutari, ut ita attractrices abeant in expultrices, et vicissim, diverfa corporum 'denfitas,
tumidi-' veflb col^oefionis vis -exigunt
; id quod in Phy,fica uberius exponemus.•,
30. jLEX. II. \Singula Univirsi corpora
Junt' antitfpa. > r
^aatitypiam intelligimus vim illam, qua
corpus, quodvis alteri naturaliter refiftit, ne eumde,m occupet locum
;feu ne unius materies cum alterius materie intime immifeeatur. Hanc legem
elfe cofrnologicam ex eo patet, quod antirypia e corporibi^. eorumque
clerflcntis fublata, fingula ad unum indivifibi le punctum redigerentur, et Univerfi
moles illico evanelceret, 31. Hæc
fecunda lex corollarium eft pra;cedentis. Etenim elementa j ubi ad minimas pervenere
tliftantias, fe mutuo repellunt, et ita ^ ut
decrclcentibus ultra quemvis adfignabilem limitem diikntiis, e
contrario, creicant fimiliter vires repellentes. Hinc profecto fieri d-bet,
ut elementorum compenetratio fit
naturaliter impolfibilis. Quavis polita extrinieca vi corpui ad corpus apprimente, unius elementa ad alterius
elementa apprimentur, Sc quandoque utraque proprius accedent • at id nonnili ad
determinatas ufque diftantias: quippe his ad infinitum delcrelcentibus,
fimiliter augebuntur vires fingulorum
repellentes. Singula Universi corpora
funt inertia. Cum dicimus
corpora effe inertia \ intelligimus nulla gaudere vi, qua fponte fua e
quiete ad motum, et viciffim e motu ad
quietem, vel^ ex una motus directione,
Sc gradu celeritatis, ad aliam directionem, vel celeritatis gradum, tranleant.
Si adeo 'fnoventur, nunquam, ni fi ob
externas caulfas actionem, e motu luo
dcfiftunt • fi vtro quiefciint, quietem perpetuo iervanf, donec imprefla extrinlecus vi
moveri cogantur, Sane abique inci tia
omnis mundanus corporum ordo, vel Iponte
fua, vel minima quavis vi deleri poflet. Singula Univerfi corpora inertia else,
quotidiana ^ edocet experientia. De
corporibus quidem quielcentibus, gg.
Newtoniani vocabulo inertiie alium
prsBtcr expofitum, fubdunt lenfum* vis nempe, qua corpora five quiefcentia, live mota externis
renituntur caullis iplorum ftatum live quietis, five motus perturbare
conanfibus. Hac vi, ipfi inquiunt, fit,
ut quarumlibet caudarum externas a6iioni
aqualis femper refpondeat, et contraria
rratlio. Hujus equidem effati
veritatem fingula motus phænomena tedatam faciunt, ut de ca nullatenus dubitare liceat. Atqui
non quod in materia illam comminiftamur
vim, ut prasfat* veritatis rationem
reddamus. Nimi* rum mufuis elementorum
viribus repellentibus, quibus corpora ad
mutuum, et mathematicum contactum
devenire vetantur 2p. ; optime
intelligitur, corpus quodvis in aliud incurrens, • ubi ad eam pervenerit vicinitatem, in qua
vires elementorum repulfivx fe exerunt, hilce
viribus urgere, et propellere illud in quod incurrit, unde flatus
mutatio in illo neceffano iuboriatur.
Similiter, cum repulfivæ vires elc men quic perpetuo quietem fervant, donec 'aliqua
extrinfecus illata vi deturbentur,
nullum forfitan movebunt scrupulum Tyrones 3 non item de corporibus ad motum
aftis, qua: ad quietem alia citius, alia
tardius £ua veluti fponte redigi obfervantur. Atqui fedulum ii fi infiituatit
examen, deprehendent, corpora femel mota non fua iponte, fed' externis obfiaculis,in qua; continuo
incurrunt, a motu defifiere, et ad quietem redici. Sane, quo adcuratius illa removentur, eo diutius in iuo perdurant
motu ; ex quo faris inrelligi datur i
quod fi omnia adeuratimme removeri
pofscnt obftacula, perpetuo corpora in luo perdurarent motu. Sed de his-
opportunius in Phyfica. mentorum
corporis in quod fit incurfio, æque fe
exerant contra incurrentis elementa, pariter
in iftius motu mutatio fieri debet, et quidem in adverfam plagam. Eli autem una,
cademque virium lex in omnibus elementis.
duantam ergo (latus mutationem fubit corpus, in quod fit incurfio, ex repellentibus viribus
incurrentis • tantam fimiliter patitur
hoc alterum ex viribus repellentibus prioris : nempe Uniuf aBioni iC^ualis femper efl, et contraria alterius
reaUiio. 34 Sed quajrent Tyroncs^Qui
funt inertia Univerfi corpora, fi horum elementa activa vi attractionis, et repulfionis prasdita
diximus? zg. Activa quidem funt
corporum elementa, fed ejufmodi naturas eft eorum vis, ut ex'trinfccus fe
exerat, non intrinfecus ; (eu ut ronnifi
acce(Tum, et rcceffum in extra pofita
elementa juxta determinatam diftantiam moliatur. Nullum elementum hac vi
ad motum fe unquam determinabit ^ ab
externo principio urgeri, et determinari
debet, ut directionem, et celeritatem
alTumat. Num ne omnes magnetem inertem fenfu lupra expolito 3 -. diciniDs ?
attamen alterum magnetem juxta certam
viciniam, determinatumque (itum agitat, dum et ipfe viciflfim agitatur, ad accelTum vel recelTum
mutuo fe determinantes. Itaque elementa, etfi vi motricc prædita,- funt tamen
inertia, utpote qux nequeunt fponte faa ex motu
ad quietem, et e contrario, a quiete ad motum determinari; (ed
determinanda neceffario lunt ab aliis
elementis in certa difiantia pofitis, vel ab alia quavis Cauffa. Singula
Univerii corpora et magna, et parva
gravitate pollent. Gravitatis nomine
intelligitur vis, qua corpora ad datum punctum, quod ''appel latur, tendunt.
Ita corpora terreflria gravia dicimus, quia fibi relicta ad Telluris centrum
di, riguntur retenta autem conantur delcendcre vi fuse
mairx proportionali, premuntque dcorfum corpora, quibus incumbunt • Id ipfum
di, cendum de corporibus in' Luna,
Saturno, Jove 8 rc. exiftentibus,* tendunt nimirum, et conantur ad Lunæ,.Saturni,‘
Jovis &c. centra. Sane nullum
hactenus corpus conftitit, quod
gravitate fuse maflse proportionali non fuerit præditum (A). Nifi ita fe res haberet,
corpora terreflria ex -ipfius TeMuris
vertigine, vel ex quovis alio impulfu,
per immenfa vagarentur fpatia, neque
reciderent in Tellurem • Hinc Tellus
brevi, ex diflbciatis perpetuo corporibus,
minueretur, ac tandem evanefceret. Idem de Jove, Marte, Luna &c. dicendum.
Itaque Mundus in Chaos abiret corporum
undequaque pergentium. . ^ ^ 3 ^* (rf) Ita quidem ad aniuATim res fe
haberet, fi Telluris figura fphierica
foret :. cum autem oftenfum fit a Recentioribiis Phylicls et Mathematicis,
Telluris figuram fpha:toldalem efse, elevaram nempe fub atquatore, et deprelfain
fub polis; id nonhifi quamproxime l«cum habere
potest. Sed alibi opportune hasc expediemus. (^) Lux, caloricum fluidum eleSiricum nullum
ha61 errus prxbuere gravitatis fpecimen J fed temere hinc quis colligeret, isthjc fluida omnino efse
gravitatis expertia., ' Sed et magna
Mundi corpora vl gra*^ vitatis 'fua
petere centra indubium eft. Nempe in
noftro Syftemate Iblari Planeta? primarii S'ol«m petunt; et lecundarii
primarios. Ira Luna Tellurem, Jovis,
Saturni, et Urani 1'atcllitcs, Jovem
ipfum, Saturnum, et Uranum vi gravitatis refpiciunt. Tum Mercurius, Venus, Tellus, Mars, Juppiter, Siiturnus, XJranus,
aliaque 'ingentia Corpora 'in Solem tendunt. Nifi enim^ yi, gravitatis continuo erga lua
ccntr.i Ibllicitarentur, nequirent curvas orbitas deleribere; Ijquidcm corpora curvas de[cribentia
continuo a rectilinca directione,
deflectunt, id qucKllbonte fua, line conamine gravitatis, nequeunt tfri. ccre. §. ^ 2. qy. Fit nempe tnotus curviliiieus, ut
Pby-' fici docent, ex conjugatione
duarum virium, quarum altera lingiilis
momentis recta lirgct corpus per
tangentem curva:, quam deferibit j
altera Vero indelinenter idetij lollicitat ad aliquod punctum in curvæ
area comprehenfum. Hauc'recundam v\vx\.
centripetam dixere ; primam vero tangentialem^, qox fi motus initio conlidcrari velit, proj e^ i uni s fibi vin
dicat, quippe quæ per projectionem corpori
invprefla intellegitur, ab externa Caulla. Cum atitem Secundarii erga Primarios, et Primarii erga Solem ita cieantur, ut arq^s delcribant
temporibus prop^ortlonales y hinc norunt Phyfici, v.im ce'nh-ipetnm indelinenter Planctas
Ibllicijantem ad Primarios dirigi, fi de Secunc|ariis loquamiir, ad Solem vero fi de Primariis. Ambigi
proinde non potefi gravitatem ad fingula.!
no. peditur, cogiturque fingulis momentis erga
iilud immobile punilum torqueri. Uaibus nempe viribus modo aj»I- > rur corpus, vi imprefsa projedionis, qu$ per
cur tangentem fe exerlt ^ et vi qua ad
immobile punitum per diftentam funem '
continuo retinetur. Hic fecunda vis ’
typus est et rniago iiljus,..quam ia Planetis dicimas ) vim gravitatis. ^,
eoharent, frve' intime fommifcentur, aliis^ V^ ' ro non item. Eft vero duplex affinitas, aggregationU^
nimirum, Sc compo/ttionis. Prima co*
haslioniem particularum ^fimiJari-um molitur, ex qua totum emergit undique homogeneum. Secunda
intimam parit unionem particularum diverfæ fpeciei, ex qua. totum efficitur
tertise fpeciei' omnino divcriæ, quin
tamen particulæ iUæ ob hanc unionem, lua
le exuant natura, ali^mque dijverfam
fubeant.Ita ex. gr. Aqua aquæ cohæret
'affivitate, aggregationis, Acidum
fulphurieuna magnefiæ intime unitur affinitate cOmpositidHIs y' 8 c,cottl\itu‘n folphatum
magnefia, ( vulgo sai/anglicanum
),qii'vn acidum lulphuricurri, 8c m.ignefia naturæ lubeant mutationem* Si enim ^prsditio.iolphato. in aqua diluto
potaf» fam fupereffundas, ex prævalenti
affinitate potaifam inter ^ Sc acidum lulphuricum, mox fiet folphatum potaffiK, ( valgo tortarum
vitriolatum ), et reftiiUidtur magnefia.
Porro 'utramque affinitatem ad leges
cofmologicas fpc6lare, nihil efl quod dubitemus. Sine affinitate
aggregationis omnia corpora ffimilaria diffiol verentur, ipla adeo
univerfi moles. Sine affinitate com
politionis innumeras deficerent rerum
fpecies diverfas.* et omnia, quantum ex.
chemica analyfi 'hactenus, noffie datum? eft» faltem refpectu Telluris noftras,
ad triginta tres fpecies* materialium, combinationum redigerentur j et hasc ipfa, fublata
aggregationis affinitate, informem.-folutamque
molem exhiberent. Vires tandem vegetationis, . s lot
animalixationis fexta cofmolo^ica lege con-* tiitentur.
' Plantarum vegetatio foHs affinitatis viribus nequit expediri ; funt enim pjahf* corpora
A’cre • ' organica, viventia, et feipifa
ex femine reprodu* centia. In, viribus affinitatis,
aliifque 'fupra ex-* ^ politis, hon
inteffigitur fufficiens ratio' nec ve- ' ^ •.
getajionis, nec reproductionis plantatum ex femine. Similiter dicas de
animantibus, in quibus pra?ter vim affinitatis, 6c vegetationis, alia ' agnolicenda efl, t:^\xx: animalt 9 :ationis
nomine infignitur. Vires de quibus
hactenus haud exiflimandæ funt totidem di- •
ftincta: vires materiei iniit», fed totidem determinationes unius,
ejufdemquc viis. Ncfnirumvis ' a ftlmmo
Conditore materiei, elargita ejufmQcli,eft'effiqta, et intrinfecus comparata,
ut multi- '' ' plices modi^caliones ipfa
fuapte natura- fuheat.juxta diverfas circumllantias, et occaliones. '. Cum porro intimam hujufce vis. naturam minime
calleamus ; hinfc haud perfpicientes, qui
unica illa vis tot diverfas jdetermi nationes affumat, facile nobis
fuademus, has. totideni diftin£Iarum virium efic caracteres. Atqui funt totidem fpccies, fcu. formæ, feu
modificationes, .unius,.ejuldemque vis ex jpfa ejus natura,flu» entes. Sicuti qx. gr. vis ipotrix in
horologio.^plurimas fubiens modificationes ex mechanica horologii ftructura, multiplices gignit, ac
diverlos effectus puta hofarum, et.minutorum
oftenfiones, phalium lunæ, dierum hebdomedæ, • &c., quos infeienter profecto ex totidem
viri G 3 bus, leu clateribus quis repcttrer. Vis tamen mjii-^ntionis nequit ioii materiei tribui,
fcd potifiimum repetenda,eft. ab aiia fubfiantia ^ alius generis,, qua: materiei copulata illam
modificat,^ agit, ^ evehit ad ipeciem
animalem. ' >,,..,, Jllr De Mu fidi,
Materia crigir7e. * ^ 7" E te res
on^nes, quotquot de Mundi V origiite'
philolophati l’unt,li folos ’ excipias
Habreos KeVelationis lumine edo£los,
Mundi materiam' xternam, improduQam, " in» dependentem, a le ipl'a, et natura,fua
exiftentem poiuerunt. ('’ Epicurus, qui duplicem atomi* tribuit motum, rectilineum nempe ex
naturali * atomorum pondere 'derivantem,
et declinationi? alterum. 'Per inane'
fpatium "concurfantes atomi duobus
hifce motibiis in varias,*congeftjE 'for' mas niundum geriuere.Fere’ hanc ipfam
fententiami jam obfoletam in fcenam feproduxit nuperus Auctor anonymus’impii'
Syflmatis natura y qui ex «ternx, '& improductee- materiætiatura, ac
viribus (ut ipfe inquit ) fæcundiflimis,
Mundi machinationem, omniumque rerum feriem auf picatur. ' 4 ^. Orientales hanc coluere fententiam
; Deum aternum nempe, et actuofum
principiuni æternam materiem undique
pervadere, Sc cum ci intime commifccri.
Hinc iners materia to G 4, lius d :
tius ordinatilTimi mundi, Hngularumque proH^ 'ctionutn fascunda fit parens. At
Xenophanes eleaticæ fectæ inftitutor
abfurdam hanc fentelJtiam abfurdiorem reddidit, ftatueos unicam in Mundo exiflere iubffantiam asternam,
immuta, 'bilem, immpbilcm^ tura unica?
hujus rub/lantise diverfas^ effe
modificationes quotquot diftincta,
&’diverla Entia cernimus. Hoc paradoxon arripuit Benedictus Spinoza,
quod geometrica methodo exponere -fibi fuafit. Docuit itaque upi-cara effe
lubfiantiam actuofam, fimpHcem, in„divif]bilcra*f et infinitis prasditam
attributis, quam tum Deum, cum materiam,
appellat » De'indtf ex duobus ejus effentialibus attributis, infinita nempe
cogitatione, et infinita extenfione
omnia effe 0nfiata. Nimirum interna- unicas hujus rubfiantia? actuofi^ate; Sc natura;
neceffitate, in varias, diverfarque evolvitur modifiqata^ nes tum estt^nfio, tum cogitatio:
ExtenO^s ^modificationn funt quas
appellamur corpora, cot • gitationis
vero, quas funt entia cogitantia ^ $iicUti'..cera, quas.li interna vi agitari
ponatur, -io, vatias abeundo
modificationes, varia poteff. figilla exhibere. Abfurdiffima haBc fententia Pan-
ttbifams audit, quippe ^uz confundit Deum
cum Univerfo.. Xns aliquod aternum natura fud neceffititte ' exi
flere ^ indubie demonflratur\ tum ejus '
pracipui carActeres expenduntur. . ' r- » $• * aliquod 'aternum exiflere, ^ quU dem fua necejfitate natura j, inter primas veritates qua: fponte fua cuiHbet ?- Equidem hæc veritas adeo per fe conat, ut ii
ipli, qui de Divinitate peflime fenerunt, nec negare aufi fint. In
determinanda natura hujufmodj Entis
ajterni hallucinati funt, vel ex cordis
malitia aberravere / fed aliquid
aJtcrnum exiftere, omnes convenire oportuit. Nec leriem cauffarum in infinitum commimlcuntur,
et ipli fuifmet doctrinis aliquid æternum
exifiere revincuntur. Sane hi creationem ex nihilo impoffibilem ftatuentes,
nomine feriei caulTarum in infinitum
nihil aliud intelJigere poflTunt, quam infinitam feriem generationum, et corruptionum.
Materia igitur, qu» iubje£furn efi harum
generationum, Sc corruptionum in infinitum, aiterna efl, Sc improdu-cta.
Coguntur itaque aliquid atternum, et improductum fateri. Atqui caracteres
hujusmodi Entis, quod' æternum e/l ^.55. II. j&wr, quod, fua
ruttura-.necejfitate exiflit, omnibus 'pofftbillbus realitatibus., ftU perjekfionibus
gaudere debet, et quidem ipja fui natlurd feu effe infinite, per feBum'
extenfive, ut inquiunt, intensive. Id
quoque cuilibet ingenue philofophanti'^ evidentiflimum- eft, quippe-
nihiLnobilius, nihil excellentias ifta,natura
excogitari poteft. At juvat metaphyficai^i demonftrationcm adferre. In Ente natur* fu* neceffitate exj (lente..
• ’ ' nulla nec efle, nec concipi potcft.ratio
eccur aliquam a fe excludat entitatem, feu perfectionem. Nulla Entitas concidi
ullo pacto. po* teli, qus natura fua
litpitem expofcat, Se quam tranfilicndo
fiat non Entitas^ vel cfetrimentum
aliquod ptiatur. Riirfus nulla veri nominis, et pura Entitas alteri puræ Entitati repugnare.
poteft,,,- earaque fe excludere. Igitur fi Ens
naturæ tfuæ neceffitate actu non cft infinite perfectum;, 8 c inten/ive,
nihil vetat per fici in infinitum poffe. At oftenfum eft præc efle intrinlecus impoflibile, Ens
natura; fuæ neceffitate exiftens perfici
pofie. Igitur
de- ' bet actu effe infinite perfectum
extenfive, inten/ive, » 54. Cum inter nobis notas. perfectiones præcipue emineant Sapientia, Bonitas, Patentia,
quin hifce gaudeat Ens «ternum, ambigi
nulliraode potcft, atque adeo effe beatiffimum. III. £«r fua natura neceffitate
exl/leht debet ejfe pbyjlce fimplex. Ens
quodvis, compofitum eft natura fpa mutabile : eft enim intrinfecus poffibile,
fimplicia componentia alium, atque alium
nexum affumere poflfe, unde. Ens
compofitum, quod inde conflatur, fiat plane diverfum. Sed Ens fu« naturæ neceffitate exiftens
eft intrinlecus immptabile 51. Quare Ens
naturæ fuæ neceffitate exiftens debet effe
phyficc fimplex. Deinde Ens phyfice corapolifum pendet a componentibus.
Sed quod,fu«. aaturac neceffitate
exiftit cft^ independens • igitur Ens naturæ fuæ neceffitate e:nfteDs debet effe
phyficc iimplex. /»
materia originem inqdiritur^ eamque ex nihilo
conditam vi, &" potentia fupte>ni Na'minis inviæ df”^onJlratur. > • 5 ^* Entis «terni, fu* neceflt X tate naturæ
exiftentis expendimus caracteres ; hos
modo materiæ referamus, ut pateat, fi
pro huiufmodi Ente haberi queat : Bru-'
ta materies, muItiplex'^, generationum, et cor* ruptionum fe mutuo, et perpetuo
excipientium, fubjectum, obftipa, iners,
innumeris obruta defectibus, natur* fu* neceifitate exiftit, atque adeo immutabilis eft, unica et fimplex-,
perfe- o ctiffima beatiflima, infinita
fapientia, potentia, ^ bonitate pr*dita. Quid ! Cujus, h*c talia componendo ^ Mens non horret, Sc immanibus
non refugit abfurdis ?, Quisquis equidem, ut ut levem rationis particulam
fortitus eft, vcl ipfo primo obtutu
agnofeit, ifth*c e genere cffe circulorum quadratorum, tringulopum rotandorum. Materies igitur, 'ex qua
Mimdus 'hic- ' ce coalefcit,, nequit
e(Te Ens *ternum,. natura fu*
neceffitatc'exiftens, et improductum.
57. Quare furentem hic potiuf infaniam,
an fummam impudentiam demirer, nefeib, Au- ' ctoris anonymi Svflematit natura, nihil
fef-. futire dpbitat, materiam exiftere
necelfario,-ipfam fu*, exiftenti* fufficientem continere ratio- nem. Certe ex
Petro Baylio ipfi non furpecto Auctore
edifeere potuiffet exiflentintn necejfariam, ce« r D 'convenire pojfe fulfflanthe ( kilicet
materui, de'qua fermo eft ), qits
catcroqmn' onitfia efl \ et »>ieiique prentitur defeSibus, et imperfitiionibus, id efl quod evertit evidentijftmam 'notionem,
nimirum Ent abjolute indspendens, et aternum,
effe debere infinite perfeSium.Difi. hifl. art.Epicur. liem. T. '.,
58. Sed quibus tandem rationibus fuader»
^utat profanus homo’, materiam neceiTario exiftcre, ipfam* Tuæ cxiftentiæ
fufficientcm rariorem continere ? Supponendo rnatcriam ( ha;c ha- 1 bet ) produElam y aut creatam ab Ente ab
ipfet dijiinilo^ ipfaque ma^is incognito,
oportet Jentper dicere, hujufmodi Enf, quodcumjue tandem' fit^ neceffarium jtffe, feu in fe continere
ca' dinem, eoncentum, quibus furrima et pulcKet*rima
Univerfi harmotiia, flabilis et ornatifTiina magnificentia cbhtinetut, nequit
latis admirari; Omnia fummo confilib, fummaque ratione ftatuta deprehendet /
fingula tum maxima, cum minima, numero,
pondete, et menfura conflare, ultra quam
intelligentiflimus quisque adlcqui
potefl, quam facile intelliget. Quum
itaque omnium quz funt, vel fiunt, nihil fi* ne fufficienti ratione fit vel fiat, •
prohuiri eft intelligere tyitam, tamque
rhirabilem machinationerh j non atomorum.iiullo confilio, nullaque ratione
pergentium opiiS effe, fcd Mentis ^
lumma fapientia, fummaque ratibhe utentis * tiic e^o rion tnirey, elegantiisime Tulhus fi
Tu de nat. Deor. c. 27. effe queitiqudm,
qui (jbi perfuadeat ^corpora quadam
foilda, atque indruidua, vi et gravitate feni, mundumque effici ornatifftmum, et pulcherrimum ex eorum cor
porum concurfione fortuita^ Hoc qui exiftimat fie• fi poiuijfe , non intelligo,
cur non idem putet, fi innumerabilei
unius et viginii forma literarum vel
durea, vel qualeslibet, altqUo conjiciatur,
poffe ex his in terram exuffis apnales Ennii, ut deinceps poffint, effici ‘ quod nejcio,
anne in uno quidam verfu poffit tantum
valere fortuna. 6^. Sed ajunt in poffibilibus
atomorum combinationibus, hape, qua priefenS Mundus conflatur, contineri. Quid
ergo mirum’, atomos per immenfam æternitatem
hac et illæ concurfantes -, tandem aliquando in prafentem conformationem
deveniffe ?, §. ^ 4. 'Non heic
?qu4ritur j utrubi in possibilibus atomorum combinationibiis, -hæc, qat* præfens mundus conflatur, contineatur.
Nifi enim contineretur, hiud præfens
Mupdus condi potuiflet. S^;d illud
inq^uirimus, an przfens atomorum conformatio, per cafum et fortqnam, ut Democrito placuit, fit poflibilis ; vel. per
ipfa« rum- atomorum naturale pondus,
vfrefque, ut Epicuro adrifit. Et sane primo vellem,
fedoceret Democritus, vel quisvis ejus
fectator, quid fi. bi velit hujufmodi
Cafus\ 8 z., qua du ce, atomorum facta efl concurfio ? Equidem me non intelligeVe fateor, fatenturqu^ omnes',
queis cor fapit,* iifcilicet verba funt inania', quibus 'nulla iubeft. notio. Tum atomos Jeternas
natur* lu* vi exiftentes abfque lege
vagari, et in-, vicem concurCari, fecum
ipfum pugnat. Siquidem h* atomi' nonnifi ingenitis viribus, et naturæ fu neceflitate
cieri poffunt, fi - quidem moventur.
Deinde cum nulla omnium Iit origo, tum par natura, et.neceflitas, iingula' eadem
directione, et celeritate profecto concurrere
debent. Quid vero five
n\onftruofi, five ordinati moliri queant atomi commetoi directione, et celeritate percit*, equidem non video. At"qui
plura in hoc adfpecpabili ‘Mundo funt centra, circa qu* magna revolvuntur
corpora :'tum> horum. fingula totidem
funt centra minorum corporum : nec non
vegetantium., et animantium elementa diverfis motibus cientur / finguJi tandem
hi motus certis, fummoqUe confilio
ftatutis legibus perficiuntur. Non ergo cafu j et fortuna, neq^ue c*ca nattr* fu* neceffitate’
in ordixiatiflimum fyftema coalefcere
potuerunt ^ H 2 Sa ilapienter Cicero de nat. Deot. c. a, »nim hunc hominem dixerit, qut cum tam
certos eali motus, tam^ ratoi aflrorum
ordines, tamqut ’ om§^a inter Je
conjiexd f apta viderit, neget in his
uUam inejfe rationem ^ eaque cafu fieri di* . eat ^ qua quanto eonfiiio
gerantur , nullo eotfiUi affequi
pofiumus ? ^5. Hujus argumenti t-obur
optime per* fpexi^ Epicurus, quod
effugere fibi fuafit duplicem atomis tribuendo morurh j fectiilneurrl unum fcx. proprio, et naturali pondere
derivantem ^ declinationis alterum (c) Hifce viribus* perfeverabunt quidem Pt
anet a iif fufs orbitis, fed nioturn
ipchqara rrfinitpe ppj^tergnt.* Yi;
Neyvt, Ppif nat. Sch. geq,,. n ^
hacjeiius e^^pofutrous jabunde patet, nonnifi futnmi. et intelligentiffirrti Numinis confilio, ?tqiie potentia brutam
matc^ri^m in elegantiffirtium ordinem ' congeri potuiffe, 8c prjefenteni
ordinatitemurn Mundum conftitui Scilicet ille ipfe n^ateriaj Conditor omnipotens
eft. Abundi rapientiffunus Molitor, et Artifex • - ‘, ^ >
Spinosa Syflema abfurdorum et contradi&ionur^ effe.cumti/urri, ojtettditur. d8. I. T^TNicam in Mundo dari fubftantiam
fimplicem, et individuam caput eft
ipinoziani fyftematis. Id vero adeo
falfum eft, quam certum innumera efle corpora^ 3c hæe extenfa efte, et jdividua. Sane sive
extcnfio pro fnbftantia. habeatur j ftve.pro fubftantiæ attributo, five pro
ph^nomeno e plurium fubftantiarum
coexiftentia derivante ( id quod) nobis
arridet ), certe corpora non funt unica, et fimplex fubftantiaj fed.tot» fubftantiarum
con-,. geries,, quot funt partes
realiter diftinctaz in quas phyfice
refolvuntur, ''vel,refoIvi tandem
poflunt, • Juxta SpinoKatn,
fubftantia hujus Mundi.uriica eft, et fimplex,
quæ tamen inter cætera oftentialia
attributa extenfipne fit prædita. Porro
extenfionis natura fimplicitati opponitur,
id quod norunt Omnes : tum, eflentialia attributa -non funt quid a rei
efientia, et fubftan • > t • tia quot
in decifi? habuimu? mpojjihih ejfe j
/intui ejfe, et no» ejfe. ’, Sicuti unicæ, et fimplicis fubftan*' tia utpote extenfe diyerfæ funt modificatione? Vni verfi corpora, ita ejufdem fu.bftantjæ
utpote cogitantis diverfse fupt ippdificationes, quot ppyimus Entia, cogitantia, Facile
intelligunt H 4 / Ty («) QuO. tempore
cer® frustum fpsrica ex. gr. - figura ptsdirum agnofeirnua, cubica, conica, vel
alia quavis llmul affici adeo ration; repugnat, ac unitatem efse mil- > lenarium : proinde fi 'quandoque plures
intueamur diftinT ftas diverfafque
figuras, protinus nulli dubitamus, totideni
dfftinftis, diyerfifque fubjedis, leu fubftantiis illas adjudicare, ,. Ty/ones.hoc fecundum* ejufdem fiufuris cflTc, ac illud primum, quod pra:c. cxpofuimus. Itaque prselertim "vero Unica, eademque
fubftantia cogitans Igjta erit et triflis ; volens et nolens idem : amore et odio idem fimul profequens objectum ; approbans et reprobans &c. Hxbreus ira mq^us, et Spinozas cultri
ictum infers, ipfe idem eft Spinoza ciolo-r
rem^-^perferens, et fanguinem ex vulnere emittens. ' • 71. V, Tandem, ne diuturniori mora in hoc abfurdiffimo confutando fydemate
aliquid honoris eidem tribuere videamur,
in memoriam revocemus, materiam, feu
fubftarttiam hujus Univerfi, fubjectum e0'e infinitarum viciffitudinum, perpetuam 'gerere feriem 'generationum, et corruptionum,
perpetuis prtmi collifionibus, et op»
pofitis agitari viribus. Nil profecto ea vilius et deterius, ut ita omnes Philofophi
veteres prope nihilum eam pplucrint. At eamdem divi'na conflate natura,
perfectiffima, ik. immutabif Ii Spinoza
edocere audet. Tegatur Bayliu? erit.
art. Spind?a i \. De neau omnium Mundi Caujfarum ^ ^ effe6luum : ubi de Fato Juxta Philofophorum
placita dijjferitur. "VTIhil in Mundo cafu, et fortuna ' J.\| fieri, nec immo fieri poflTe, in» ter primas cosmologicas veritates
reponendum efle, Nemo, cui cor fapit,
ambigere poteft. Omnia fane fuis
fufficientibus rationibus, cauffarumque nexu contineri debent, fi ex nihilo
• nihil fieri pofle conflat, nihiique
cfie fine fufficienti ratione. Confer ont." 10. Sapienter Tullius nat. Deor. 1. i. c. 4. E/l enim
ad^ mirabilis qutedam continuatio,
fericfque rerum, ut alifB ex aliis nexa,
et omnes inter Je apta,,, ^ colligataque
videantur. Cujulmodi vero fit hif '
Cauflaru'^, et effectuum nexus, expendere modo juvat ; tum Philofophorum
de f^atp fenteq», tias ad incudem
revocare. Dt nexu omnium.Mundi CauJfarunj, et effectuum. * /^Uotquot Cauflas in
Mundo noviy mus., ad duplicenv cladem recen fend* funt ; aliai fiquidem cogitatione
( ad intimum confeientite fenfum appello j ^ ali% fola VI raotrice agunt •, (
quotidia* nat njB id edocent
obfervationes ). Atqui^, confcien tia teftante, cogitatio eft actio ipii
cogitanti rei immanens • motus vero,
experientia edocente, eft U'an(iens. Drverfi ergo generis, diverlis-;, que
naturæ habendæ fu n{ Cauflæ cogitatione, et CauflTæ vi motricc agentes, Equidem
alibi opportunius oftendemus
cogitationem non polTe motu abfolvi,
adeoque Cauffas fola vi motrice præditas
non pofte cogitationem parere, Curn ergo,in
Mundo motum, et cogitationem agno,
fcamus,' duas diverfi generi? cauflas popere co» gimur,
75, CqufTæ fola vi motrice agentes ad
materiam Ipectaiit, At materiam fiputi vi rno* trice’ præditam, ita.& inertem efte, fuo
loco oftendimus §. Quotquot. er^Q e
materia? viribus gignuntur, juxta
earumdem virium mo* tricium legem
efficiuntur, neque Jili^S ac pro->
deunt, fiuntque, per materije vjres fieri, ac prodire poflTunt, Revera hujiifmodi lex,
quat^ tumque tandem ea fif, certa eft,
ac determina-» ta live enim has vires e
materi^ finu, na« tura emanare putemus,
et erjt earum lex certa 3? determinata,
ficuti certa. v determinata, ^ ex feipfa
immutabilis eft materias natura ; fiv?
ex Conditoris arbitrio illas vireq materias contingehter convenientes
inditas, effe prbitremur, Sc neque modo
poferit materia ex feipfa ilH? exui, vel
eaffiem ne minimum quidem m^difi’ care j
quippe qua fubjectum mere paffivuna
nullis agitur aliis viribus, præter quas Condi-» tor indidit. Materia igitur fuarum virium
le-» gem, ac naturam perpetug feqwi
debet, neq^uq . >, ii3 vel minimum
reniti potefl : atque adeo quotquot ex ea gignutur, fiuntque, nequeunt aliter
gigni, ac fieri, q 6. Quff cum ita Cnt,
facile perfpicitur, quod pofita pro
quovis tempore determinata, ac certa
elementorum coexillentia, quod deinde'
gignitur, phyfica neceflitate ( a.virium motricii um lege, et e materiie inertia derivante )
c procedenti rerum llatu tale genitum
eft, neque alias gigni poterat. Hoc
autem quod modo ge. nitum efi:, undique
determinatum eft tum reIpectu elementorum quibus conflatur, cum reIpectu loci,
et temporis, feu refpectu ad nexu rn, et politionem coterorum corporum, quibus
fti-^ patur. Qiiare quod fecundo hinc,
gignetur, rurlus certum erit, ac determinatum, et phyfice neceflarium, ficuti certa et determinata eft
corpot um mutua complexio, horum materiæ flatus, et nexus nec non phyfice
neceflaria vi. rium motricium lex. Et
ita deinceps in con. fequentibus
generationibus - Nimirum quivis
elementorum materiæ flatus gravidus eft lubfcquentis, neque hic alias
prodire, per miateriæ. vires poteft, ac
revera prodU : ut adeo, fi quis«^ vires
ipfas, earumque legem adoquate nofceret,
tutn «elementorum numerum, eorumque.pro quo-, vis tempore coejiiftentiam calleret, et ad
calculum adducere fciret-, is fingulos confequentes effectus," ac futuros eventus in
anteceffum edifferere poffet. Cum ex dictis quævis 'generatio phy^. fica neceflitate c præcedenti corporum",
et materiæ ftatu pendeat, nec non virium motricium le
V» ,\ lege; fi cogitatione ad Mundi uique
prlm^rcll^ afcenclamus, facile nobis
(uaclebimus, Unl-vtrfum, reJpeBu ad
folam materiam habito, nihil e[pt aliud,
'quam eertum ordinem neceffariant Jet
viem cauffanan, effectum, perpetuo, ac nsi cejfarto fe Cdnfrquentlum ^ Hiec aurem feries haud gutanda eff abfolute neccfiaiia, ut ita non potuerit alia
effe, ab ea qua: modo efi:, aut femel incæpta abfolu* te nequeat modo, vel in pofierum,
commuta^ ri/ vel perturbari. Cum enim quælibet
genera* tio, fiatufque materiei pendeat
o prascedenti, 8 $ rurlus hic ab alio
antecedenti, et ita porro i nequeamus
nutem in hoc progreffu ad infinitum
afeendere, confiUerc tandem debeiVius in aliqiia Caufia^extramundana asterna, vi «fuaj natura
exi* ftente, ctiju* imperio, et voluntate.Materies
primum nexum, primamque conformationem fufeaperit. Series itaque ^ et ordo
Caudarum qtfali^ modo exifiit, non
abfoiuta neccffitate exiflh ^ Je4
tantur,} hypothetica, cx hypothefi n?mpe, quocj * Cauffa illa extramundana talis fiuie feriei
exordia fua iibera voiuntafg conceiferit, et non alia, ^eis omnino diygrfe confequuta fuifiet Cauffarum,
effectuiimque feries. Id rurfus intelligi datur ex co, quod- neque materies
improducta eft. et æterna; vi nempe 'fuz naturas non
exiftit 5utr 2 Equc in fe mutuo agere, queant j,hinc eft, ut
altera alteram quamlæpc- modificet, ut
ita rerum fe* ries, ac complexio, quts
modo in Vniverjo pergit, aliqua Jaltpn fui parte diverfa ab ea sit, qi4‘^ pergeret, fl nihil in fe mutuo Cauffte
ilLt' agerent, atque infiuerent. Sane v^. 8i. Humanos Animos non ceeea libidine, abique ulla omnino fufficienti ratione
feiplos / cie. il 6.
tierc, et ad agendum determinare, intimus cori« Icientiæ lenius abunde edocet. Fon-pis
nempe rerum, quas ali^iiam boni, vel
mafi fpeciem exhibent^ ad ^t^eiulUM
excitantur, atque alii ciuntur. b«
formas, quibus animus afficitur, a
corporis fenfibilitatf, et temperaftiento, l'enluum valetudine > et tiatura
objefforum- fenfus percellentium»
pendent. Tum confilium rationis, quo actio vel non actio decernitur, ex praScedenti animi flatu |,feu habitibus, et ideis adhuc pendet ^ habituS vero, et idcifi ex corporis,
fenluumque temperamento’, et circumllantium objectorum actione rurfus
conflituuntur, vel modificantur. Cum pofro corpOris fenfibilitas, et temperamentum,
lenfuUm valetudo, et circimvftantiuni
objectorum natura e necelfariis Mundi
Cauffis pendeaht j liquet inter ipfas Hominum æfioheS, et phyficum Mundi
ordinem nexum aliquem interefTe ^ 8»; Hic autem nexus, quod fedulo animadvertatur
velim, et multiplex efle potefl, eo quod
multiplices lunt cauffas,* quas in nos agere poffunt » et nullus eft indeclinabilis,
ac necefiarius.* id quod intimus
confeientiæ fenlus, et noflraram actionum experientia lat lu« culenter ollendunt k Sane formis rerum non rapitur
animus, utcumque percellatur etfi validioribus formis animus concitatus ad
agendum, non cogi fe luculenter
animadvertit, et adhuc retinere
facultatem deliberandi,_quin immo a
facta deliberatione, et ab ipfa jam fufeepta ^actione d^fiftehdi, et aliam ‘quamlibet
edendi. Merito Tullius tuse. p^.l. i. Ck
23. Sentit ani. - / mus tif,kttts' fe y idque dum fentlty illud i jt*a
non aliena moveri. Accedit,, quod
quandoque datuttt pecullatem nexum Ivuraanas inter actiones, et fenfationcs
ofrinino abhimpimus nulla alia ratione perciti, quam ut noftratn ' experiamur libertatem ; mus contra id quod temporis, rumqUe circumflantij^, et ipfaS fenfationes
exigere videntur. Datur itaque nexus inter hominum actiones phy/icunt Mundi
ordinem, fed efusmodi, ui illum
moderari, fleflere^ determinate i abturnptre ^ tutn iterum tejlituere pro arbitrio pojjimus 4 \ t 85.
Sicuti humanz actioneS^cum neceffarlis Mundi cauffis connectuntur, ita materialium,
Cb* necBfJariarum Mundi cauffarum series
in aliqua sui parte, perturbari, nioderari, et fieBi pote/i Cauffarum 'liberarum labitu, O'
providentia. Cum enim omne id, quod materialium cauffarum viribus gignitur pro
quovis tempoVe, e ftatu prxcedenti
pendcat ^ *] 6. ftatum autem harum
materialium cauffarum perturbare, & cOmmutare perfajpc valeant Caulis liberæ fuO confilio, et providentia pro
peculiati faltem locO, et tempore ; quin, fimiliter futuri confequentcs
effectus prafepediri, perturbari, et commutari poffint, nemo^profecto non intelligit. Ita fulmen, quod neceffatiis Mundi
cauffis e nubibus excuUum regium palatium labefactaret, ibique degentes ertccatet,
humana poteff providentia avertere, fi
Opportunos adhibeat conductores 4 Agrum
a i .puta, cum agi' loci, obiecto
tis • 'dOSMpLOremum NinSm res omnes
zterna, et immutabili • lege,
nullios^ei {labita ratione, dccrevrfle docent; neque proptercSf qui^pian\
a/nobis libere fulcipi pb^e. Tertia
cJaflis illos complectitur, Djeum
fapienter, quidem-. verum.fataliter ac
necefliirjo re» omnes' hujuS Univerfi dilpo • fuilTe fentiunt, Sc ex hac-,
conffitutione omnia quotquot {in Mundo 6
unt, neceflaria et perpetua ferre,
proficifci. At quia fati AflTertoresv divtfrfas,. quo 'quifque fuarVi fentehtiam conft^i-liret,
femitas freflerunt i klcirco hon pigeat prxcipuas' .exponere, jc evekere ‘
vv. •- 'De Fat^i Democrifiip • ' ' • ^.87. Democritus (, e ‘quo fetura quod demoeritkum
dicitur nomen fufcepit) nihil aliud.'
prxfer innumeras^ atomos ihcreatas, Don fuerunt 'confequut*, hinc negatum drju ; nempee collapfi ftmt, . • -I '.
> ac • f. ac
diflbluti finguli ijli veteres Mundi. Pofiremus tandem omnium emerfit hic
adfpeflabilis, et iple poft* fæcula diffblvendus. In hac
itaque. •fententia% cum nihil præter
brutam niateriam neceffitate fuæ natura?
percitam exiftat/ 'omniaque fingularia Mundi entia neceflariæ fint illius modificationes, immite, et indeclinabile
fatum. omnia agere perfpicuum e!l. Hoc
fatum, quod, phy ficum alii appellant, definiri potefl ; Neceffaria, et bruta
feriys omnium Mundi cauffarum, • atque
effe£luum e natura, Sc neceffitate bciitæ
materia; -manans.,. ! • Monftruofe
hujus fententiæ refutatio longa non
indiget oratione* cfl ea quippe con» geftus abfurdorum. Nequit materia effe
increata /e^.II.Nequeunt fola; materiz vires ex ejys 'finu emanantes ouklinatiflimam, et riun-^ quam fatis admirandam Mundi compagem moliri.
et feq. III. Praster maieriam aliæ alius, nalurte fubflantia; cogitatione,
&• libero, arbitrio prxditæ exi'lunt..79.
et feq. 8p. Equidem hujus ffntentia;
abfurditatem Epicurus, atomorum
cacteroquin feftatpr, agnovit ex’ ea
parte, qu* humanam lædit libertatem,Quare illam emendare conatus’, atomis
tribuit declinationis, motum, qui nec
certo tempore, . nec- cerfa loci regione eveniret : ita nimirum abfoluta, et indeclinabilis neceffitas a
Democrito* indufta abrumpi opinabatur. Hanc rationem ( declinationem fcilicet atomorum )
Epicurus induxit ad tam rem, ne Ji
femper atomus gra - ' vitate ferretur
natural'i ac neceffaria ^ nihil liheram pohis effet, cum' ita moveretur animus,
ut atO" >morum motu. cogereturvTuUiuti de' f^to
c. 10. At quain vaBum, et inficetiira,fit
’ hujufmo 4 i effugium, nemo non videt.
Cdnfulatur 6 $. 1 ^ ' De Spot(orum-Fato
y.,« ' '>» •..... Fatum Sfoicorutn vulgo 'definitur,
"ine* Juftabilis, ’ac.neceffaria
rernn* omnium’ lefies.ex ne^efTaria,& immutabili -Dei voluntate •edo»
' ftituta v. fiuc ulla, ad hutftanam
libertatctn accomodatione., ' ‘ ". ' §• pi- Quid fati homine,fibi
voJue'rint- 5 foi^ ci, res eft
perobfcura adeo: quam «nequiverint
haflenus Eruditi extricare ; id quod- partim ib' lit« bujus Se£la
diirentiohi, partim' locUtionir bus
nefeio quid poetici, et erophatici continentibus tribuendutfi videtur..Te«erzfignificatioriem,
Itaque futurorum eventuum præfagia in
ftcllfs contineri, dicendum » . §• 91- quam, futile ifiud.fit, nemo non
' videt. Sane non minus infeite, quam
arrogan*. . ter cogitari potuit I. Deum caslefiia figna, nonntJfiris propriis
commodis infervienda condidiffe. II. Cum confequi non valeamus quam utilitatem illa queant nobis afferre,
temere,^ incogitanter*colligitur,ad
prafignificandos futuros eventus confiitufa/& difpofita fuilTc.Num- • ne pluri maraim^ rerum ad ipfam tellyrem,no^am
pertinentium, quasque proprius nos fpectar^ putandæ fuiit, fines jiro^ynios
minus ex. Plo-. I. ij 5
ploratos- habemus? Certe quilibet fans Mentis libenter affirmabit, plurima npftram
Ip^Ure utilitatem, pofle,. quin
refciamus modum, ratiorfemqtie calleamus. IU Atqui lunt P^netas totidem incolarum fedes non lecus ac
Tellus iioftra, qjji omnes circa Sokm,
tanquan^ commune centrum, torquentur 5.
Sunt ve-. ro inerrantia fidcra totidem
Soles, nempe centra filorum Syftematum planetanpru.m tbid. Sid de his in phyficis opportunitls, et copiolius. " oS. Q.uarn vero fatuum, atqye commentitium
putandum lit iid ^ ^, oftendunt. I..
Nulla phyfica vi hominum Animt
cngi-poffunt ; folis illi percientur formis, nettipe boni, raalique
notionibus; tum neque iftis rapiuntur,
nec indeclinahiliter Heauntur 79. et 8z.
II. ^ quam lepida \ enim ef^, ^ ' fe
puto ntft pueroi, qui ad globos i Hos terraqueosy aut igneos hac ferio
referant. Omnem ve- • • ro leptditatem
Juperat, quod, infani ampoflores
prcedicant, quum ingenium nojlroritm animarftium Artetis,Tnuri, Leonis, Capri, atque id
egenus altorum calejltbus
conjlellationibus, attribuunt Cui. Calum, Plancta, Stella fixa vel mediocriter
nota fuerrnt qtiam ifibac perridkula, ac
putida videri debent. Ego vero nefcio, cur marmorefs fignts •, quibus aut
homines, aut animantia ars humana
exprimit, non. fimilher mores nofirosf
aut brutorum animantium tribuamus}' uint.Gen. el. metaph. tom. i. SchoU prop. iSp. Atqui in fnajodbus ‘Univerfi corporibus univ^faJem, et mutuam vim agnovimus, qu* gravitat/onis vulgo dicitur! Hac equidem invicem Jntcr /e' agere queunt, et generati^um
feries', quas fingula illa geftant,
invicem modificare.* f atemur
uniyerfalem. 'gravitatiobem corporum '
Umv^rfi ; fed nihil iftha»c fententiie adverfariorum favet, quin immo
eam evertit. I. Hjec vis corporum efi,
et in corpora diffunditur / fpiritus nullo pafto attingere poteft. II.
Novimus' Illam fequi maiTariim jlireaam,
et diftantiarum duplicatam inver/am
rationem ; fit profero hmc, ut fi
Solem,& Lunam exceperis, cztc. rorum
planetarum nulla cenfenda fit in Tellurem a6lib.*quid porro inerrantium
fiderum? (4») De i («) Soleni &. luminis emiflione, et vi
attraftionis in 1 ellurem ^^gendo quam
maxime tprreftres genorationes,
corruptionefqiJe mqderari, res ell, qua omni dubio caret. oimile regimen
Lun* attribuerunt Majores poliri, De ‘Fato pantbeiflkq. ')•
100, Fatum panfheifticum, fivc Spinozifti» cum eft tcrum omnium neceflaria, et immutabilis
feries ex ipfa-Dei natura per eflcntiajera
emanationerfi neceffario prqfluens, Nempe hu'jufce fati
aiT^rtorCs^^micam exiftere fubftantiam
ponunt,- quapi Deum "appellant, sujus innume» » raj fiint modificationes quotquot Entia Mundum^confiituunt
; ‘has’ vero modificationes, ca rum ut 'adeo fuerint lunarium’ phafiitm
diligentiflfimi pbferva-' tores : tum
Gomeras, rrialorum' colluviem in Tellurem fiV» pfjefagtentes, fiv%
afTefent;ps,-habebant, metuebantquie
'cane pe)us, angue.. At ex Kecentioribos 'plures utrarnque feritentiam, prayudicii
redarguentes ^ ludibrio. V exceperunt.
Quid, fentiam libere edifseram, I..
Qui' lunarem influxiun abfolute inter præibdicia amandarunt, fatis animum non intendifse.
videntur in rnaris, aflus, qui Lunie
motui circa Tellurem a.d amuflim,
refpondentes, ex'ejiifdem attraftione in aquas ufque maris protenfd,,
einni procul dubio repetendi. videntur.
Quod fi ita fe 'haber, non video '«ccur ipfius l!uns vi ne-. queat
terreftris atmoiphiera; alternas’ pari viclfiitudines.Cum vero e ftatu ^ et conftitujione
atmofphaiftE pluri, muin modificari
queant, qu£E in nofira Tellure fiunt ptodufliones, prpfeflo prono veluti alveo
fluit, Lunas, vim. phyfiers
produflionious aliqpid conferre pofse. Revera
ærrefirem afmofphteram hmx vjjn peffenrifcere ex teorolqgicis obfervationibus Gl. Virorum
Abbatis Frlfii,• et Thoaldl, aftronomias Prpfe.fsoris Patavini
conftitit ; ut 'adeo nondifi ex
prsjudicio fententia luparis influxus
abfolute inter ptiejilQicla recenfita videatui'. Deinde, etfi me tniniinfe lateat, Lun$ plena» lucem
cauftico fpeciilo coi- ' lectam nullam
in mobiliffimo thermometfo mutationem
afiS»rr&, tamen hgud confedum videtur, lucepi e Luna ih '. '. T-el
e / iigS. '
rumque feriem ex 'ejufdern.unitæ fubftantije na- ' tur^ effentialiter et neceflTario fluere. •
V-ide. 46. Hujufce fcediffimæ* labis
parentem -faciunt Xenophanem Eleaticæ
IcftjB Principem, quam. de- • Tellurem
repercufsani nibvegerantiiim, et anlnianfium cecononliæ pri/lare pofse : nam
rhermometrum nonnili r«/or/c/ liberi aclionem ollendere, et metiu poteft; at novimus,
lucem aliud onmino efse a calorico, et jaluHmum.conferre vegetantium/, et aniluantium
phyli, ac' fedenus credidimus. Nolim'
vero quis cx diclis inierat, me lunaris influxus patronum eximium, referatque
inter -adverlie immoderanrioris -fenrentix tautories. Ecquis, cui cor ;l'apir, calculo luo probabit-,. qua:
eflutire folent infani et 'inficeri honiines ex fingulis.Luns.quadraturis, terreftrium phænomenorum vel vicilfitudines,
yel pri-fagia fumerttes Quam fego ‘Luna: adiofjeih in Tellurem, agnofeo,
generalis prorfus, et liaruta fua indeterminata, nec non una.eft, et qmdem
minima ex innume-. ris caiilfis in.
Tellure hofpitantibus, *qu3E prsfertim in’
calculo' lingularium phxnorænorum afsumenaa: perpetuo occurrunt. ' • ^ ' . II..Quod vero Cometas
fpeflat, nuMus certa,’ riifi excors pavebit hæp corpora per oblongas ali ypfes
incedentia, nec ab iis quidquam, boni, inalive iperabit, nietlietque. • Fieri
autem quandoque pofse, ut in laudatum influxus fyftema aliquis eorum, adeenseri
mereatur, ultro fateor. Etenim fieri
poteft i. ut aliquis eorum longa
infignitus *cauda,fuam trajiciens orbitam in Telluris vici; nia verfetur-; ex quo ‘fiet, ut mutuis
attra6lionibus eoJnm armofphxrx turbentur. Dudum fane Aflfbnomis c(^- • ftitif-Saturni farellites’ab ‘artraflione
Jovis in conjunflione^posirl, in fuis rurbari motibus, et vicIUJm. Ita ex vijrinia Comets tiflbari poterit Telluris
muJP adeo nihil addere heic putemus, 'ne
rem a£l»m reagere videamur.' . G A R
De Naturali y C* Supernaturali
Ua*vis mutatio quæ cuilil^t rei
continoere 'poteft, IT ex principio,
fi. rei interno manat, a^io appel
; ipii. latnr ; e contrario pajpo dicitur, G a
principio eidem externo Gat, nempe ' ex
principio alteri Enti infito ; illud
vero princi^um, e qiio a£lio manat,
nun^ciipatur. Singula fpc6Wbi!is Mundi Entia continuas fubire mutationes,
equidem cuique conftat. Quare Gmplices
hujus rnundi fubGantize’ ejufmodi offe debent., ut in fuis occurftbus, et. Gbus pati /jueant, et agere ; *feu patiendi
potentia præditas eflfie debent, et principiq aliquo aftivo’, fcu vi gaudere. Non moror
quidquid in contrarium* ^afferunt
OccaConaliftæ. fecundæ hujus theorematis
parti. Vide Ont. feq. Cerre Univerfurrj
Philofophd nuHis præjudiciis præoccupato in fingulis fuis partibus perpetua
objicit a6livitatis argumenta ; atque, adeof»..
dubitare nullo • pafto fas ell,* ejus ' ftamina^vi . aai.
X . • e oportet
aliqua pottat cx fequentibus
conditionibus. T Nullam ede in > •
univerfa natura caudam tanta vi. prjBditain. qua! illi effectui producendo potis sit • If.
Sal- '*' • ' ' tem in’ dato cafu
hujufmoldi.caudam defeqidc. - III.
Effectum illum ede contra notas natu ra^ Te-, 1 ges
/ IV. pr*ter notum, eonfuetumquc orqi nem.
Nam cum rerilm naturat cert». liat ac detcrmii • * ! natæ, certafque fingulæ fequantur l^ges^ a
qui- ^ bus ne hilum.quidem dehifcere
poflunt-; quo- • -> ties una., aut
altera ex, dictis conditiomb.s in ' •
dato effectu occurrat, certi.erimus ad iiniverfam naturam illum haud
pertinere. Q_iiare ite* I rum patet^
fedula opus ede indagine, et accurata rerum naturali.um.notitia ubi decernendum
• fit de naturali, Si fupernaturaLi...
MuJra; qaian- • doque infanum Vulgus
inter •fupernaturalia ad'. ! '. ceni rum hujus mundi vires cohiberi pofTe,
quin fuos edant effectus, nil vetat :
ipfa fane experientia perpetuo edocet, contrariarum cauffarum incurfibus vires collidi, ut ita vel effjctus
earum præpediantur, vel omninp alii confequantur. Quare, quin etiam intrjnfecus
fubftantiatiarum "Vircs deleantur, coerceri illas pofTe a Cauffa extra naturam univerfam pofjta', ne
fuos gignant effectus, intrinfecus eft
poflibile. In hac porro hypothcG
effectuum confequutio plane contraria effet confueto nptur* ordini. Quare
iterum conficitur, miracula intrinfecus effe
poflibilia. Quod vero
adextrinfecam miraculorum polfibilitatem
adtinet, ille tantum negare eam poteft,
qui prxter materiam nll aliud exiflere
fiulte præfumit, cujufmodi funt Spinoza, et Athei csteri. Simulæ vero, recta cogente ratione
popimus, præter Ipectabilem mundum
Mentem effe æternam ipfius Mundi Opificem, infinitam, omnipotentem, pleno et fummo
jure in res a fe creatas præditam, nihil
dubitare poffumus, hujus vi, et actione
innumeros edi poffe effectus et contra,
et fupra Naturæ ordirem. Luce igitur meridiana clarius elucefcit cum interna, tum externa miraculorum poflibilitas.
Sed audiamus Rouifpjum adverfariis, quibufeum agimus, non furpectom certe
auctoi ctorem, 3. ^crlt. dt la Montaignt. fe. tejl ne Deus miracula efficere ^ idefl
poteft ne legibus ab ipfo ftatutis derogare ? H^e qutefiio ferto pertrahat» impia foret, nisi »ffet
abfurda. " M'. honoris, ei, qui silam negative
folveret, flagris tribueretur ‘ Jatis
effiet inter infanientes eum concludere.
Re quidem vera, Ecquis unquam inficias
ivit, Deum pofjfe miracula perpatrare ?
oportebat Htebreum effe, ut qiutreretur, an Deus pojfet in. defetSo menfam ‘parate, 118. Atqui, quam futilia fint, ridicu la, quæ
contra miraculorum poflibilitatem objiciunt profani homines, operæ pretium eft
expendere. I. Inquiunt, nfiracula Dei op[)onuntur irrtmutabilitati : qui enimODeus immutabilis
confiflerct, fi naturæ ordinejn 3 fe fiatutum mutaret? Accedit quod majeftatis deminutio
cft, et confcffio erroris mutanda
feciflTe. II. Miraculum eft legum
mathematicarum, divinarum, immutabilium,
æternarum violatio; quare miraculum
expreffam involvit contradictionem.
irp. Sed facilis ad hæc refponfio. I. Sicuti Deus æterno fuse fapientix
confilio, æternoque fuse voluntatis decreto natur* ordinem fancivitj ita eodem
conftituit, pro certo futuro tempore
peculiarem jn aliqua univerf* naturas
parte ordinis mutationem* inducere. Summa equidem providentia, Sc
numquam fatis laudanda ! ut nimirum
fopiti mortalium Animi, eventuum
infolcntia commoti/ tum eauffarum naturalium' impotentiam animadvertentes, quæ
Supremum Numen confilia panderet,
venerabundi adorare moneantur.‘^Hinc patet, miracula nedum nihil Divinæ
immutabilitati Occurrere, fed infuper Divinart Sapientiam, Majeftatem, ac
Bonitatem iuminopere commendare. K 2 / %,; rumquc feriem ex 'eju(dern.unica» fubftantia»
na- * tur^ effentialiter et neccffario
fluere. • V-ide 4(5. Hujufcc fcedilfimæ*
labis parentem 'faciunt Xenophanem
Eleaticæ dcAæ Principem, quam. deTellurem repercufsani
nil*vegerantiuin,'& animantium cs(Jononli pri/iare pofse : nam
titermDmetrnm nonnili cjiImici liberi aclionem oHendere, et metiu potefl; at novimus,
lucem aliud omnino efse a calorico, et jalutimum jCon*'erre vegetantium/, et animantiuni phyli,
ac *liadenus credidimus. Nolim* vero
quis cx dictis inferat, me lunaris influxus patronuni eidmium, referatque inter
• adverfte immoderantioris fententix fautores. Ecquis, cui cor ;lapit, calculo fuo probabit-,, qua:
efiutire folent in-. fani et inficeti
honiines ex fingulis.Lunie quadraturis,
terreflrium phanomenorupi vel viciflitudines,,yel priefagia fumerttes ? Quam fegd *Lunuf acteo nihil addere heic putemus, 'ne a£lam
rea» gere videamur.' Dff Naturali, O* Supernaturali... ^.loz./^Ua^vis mutatio quæ cuilibet rei \Lr contingere ‘poteft, iT ex principio. • ipfi, rei interno manat, appel lator ; e
contrario pajfto dicitur, (i a principio
eidem externo fiat, nempe 'ex principio alteri Enti infito ; illud vero princij^um, 'e qilo
aftio manat, ^I^?/■z'K^M
nur.cUpat^r.^ 103. Singula fpcfWbiHs
Mundi Enjia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat. Quare fimplices hujus rnundi fubfiantia:'
ejufmodi effe debent., ut in fuis occurfibus, et iocurfibus pati /queant, et sgere
; *feu patiendi^ potentia praidit® effe debent, et.principiej aliquo a£livo\ fcu vi gaudere. Non moror
quidquid In contrarium*.afferunt
Occafionaliftæ. fecund* hujus
theorematis parti. Vide Om. i- 5 * 5 ^
feq. Certe Univerfurt? Philofophd nuHis praijudiciis prazoccupato in
fihgulis fuis partibus perpetua objici|t adfivitatis argumenta ; atque adeof dubitare nullo* pa^o fas eft,* ejus '
ftamina*vi aai. aftiva prodita cfle. Principium aQivum Enti
internum cum patiendi potentia
copulatum, /dicitur *ejufdem ’Entis :natura. Ita ex. gr.matufa planftB eft ‘principium ;feu' vis. a£tiva planta! intimam
fuam fubftatitiam pervadetis, qua vjget,
efflorefeit, fru6lus* gerit' &c., et
patiendi potentia, qua fubditur aflionl'
'extcrnaru'hi caulfarum, puta lucis, æris,
&c. Natura gen&rattm, ubi quid
sit naturale edocetur. • ‘ i'T\Uoniam Univerfum inftar totius • confideratur complcftcntis omoia, . et fingula entia : pronum eft, ex naturis fingiriorum Entium notionem
effingere uoiverfalis cujufoiam naturæ
per omnia fufæ', &* 'Univerfum-
percientis. Hæc itaque''notio ( quod
perdiligenter aniifnadvertatur velim ), nihil re. apfe e(l- aliud, nifi generica quædam
a6Iivitatis notjo ex
a£li\itate‘fingularium* mundi entium
mentis abflractione comparata Tta, quam dicimus' plantæ, animalis
&c..naturam \ neque 'eft ani^a quædim
fingutaris, et per fe con. ftans,
plancam, animal 5 cc. pervadens, et veluti fufa per ifth*c entia compolitaj fed
eft activjtas, qir$ conflatur ex activitatibus fe invicem modificantibus. fingul 9 rum fimplicium
fubftantia^rum, quæ p/antam,. animal &c; coiiftituunt. '9 $. io 5.* jatn * Aterq qaamgluribus non fat cau- C
(autis*^ a ^propriæ imaginationis illufiohe ab* reptis, univerfalis natur* nqrfiine non
idolum ^ noQræ ræntis intelligendum efle
placuit, fed* fubftantiam a fingulis
mundanis rebus prorlus diftinctam, per fe conftantem, intime, omnia pervadentem, &' Univcrlum percientem,
Hanc principium Hylarcbicum, t/frcheitra.Mundi,
£»* ihelechiam y. Animam dcniqu*
mundanam appel*. læunt. Nimirum
Philofophi iiU Mundum^ veluti iogens Animal habuerunt ex Anima, et corpore conftantem ex ejus Anima fingu» las* fieri, quas obfertramus, rerum
generationes, atque corruptiones. -Sed*
in.definienda.hac. Natura, feu anima mundana ipfi ejus Patroni, in diverfas abiere lertteittias. Fuerunt qui
com.-. mentiti* anvm* genus mveiligantes
ufque adeo Hallucinati Vunt, ut eam Deum
ipfum elfe de* finierint, ut ita Deus
fit Mundi MenS, et J^lundus Corpus Dei. Hos ji Paotheiftis aflidere firmes, profecto non falleris. At Cudworthqs,
doctiffimus equidem Vir, univerfali namr*Sc '
ipfc favens, genitricem et fi^rit^err, hanc appellavit, elque id muneris
a fuo Conditore coinmiffum ftatuit, ut materi* difpofitionem,-tcm. perationem, et gubernationem fataliter moliatur.*
tum#ordine, et ratione omnia.gerere iftam
genitricem naturam pofuit, ipfam vero, confilio, ratione, et intelligenfia
carere. S^d nihil folidi protuliffe
vifus eft Cl,. Vir, quo hanc ' • •..
fuam .(a) In Dijfertatione de natura
genitrice^ qua: legitur poft cap' j*
Syji. intel. fuam conftabiliret feiitentiam. ' Mofhe-. inius /Vi ^otis /toc? fit,, > ' • IG7.
Quotidiana edocemur experientia Ungularum rerum generationes, et corruptione? lub (hi^rminafis quibufdam, ac'
conflantibus coqditioriibus fieri, nec
non determinato quodam, ac cti^flanti modo. Determinatus hicce modus, rerum fiunt generatidnes atque corruptionesf,
determinatæ iftæ &. conflantes, qux
requiruntur, cOnditiones, id. funt, quod Ordinem natura appellamus / ^.cdnfequuti^nejja
rerum, juxta hunc ordinem evenidVitium,
natura curjum dicimus. Cum nulkis fit
Ordo abfque ordini» • regula ^, 0«f.,
proniftn 'efl intelligere, da ri regulas' -leu normas quafdam, jucra quas
Yi* res Entium’ hujus muntii' perpetuo.agant.
Equidem, fi nullæ hujulnfddi flatura; ' forent norrnas a'Supremo CoYidinore nUllus confiflere
pofle.t ordo.’, Icd Chaos perpetuum
regnaret. Hz
norm»,^eu ordinis r$gn'!z leyts rfatura ' a^jpellantur.ninc quivi^S effectus a
naturjs, leu viribus . Cauffarum ad'
hocce Univerfum lpectantiun> -, et juxta
•'præfatas leges Agentium editus, wj-/»r mitlam peperiffe ^miratur y ts
'qucmodo, equa pariat y aut omnino
quomodo natura par -, tttm animantium^
faciat, ignorat, Sed quod crebro (a)
L?'^?tur De*'a,Pira. Memoria /ulla
pioggia della Mt!7ma caduta /« Sicilia, yidesis Ablh Dominicum Tata. PioggiA dt
pietre mvvenuta nellji cartipagna Santst,.
r
X ( bvo vldety non miratur, cur
fiat ^ nefcit: ' quod ante non indit ^
id fi evenerit often*um ejje cenfet.
Secundum, quod ad miraculi notionem
requiro, eft infolentia/ nempe non quofvis etFe£tus fuperhatiiriles
miracula appellare folemus, Ced qui ob
ir/olentiam, five ratione temporis,
(ive adjunft iioim, extra omnem alias notum ordinem vagantur, et in
admirationem rapiunt fpeftatorem.Ex.
gr.. ita nemo miraculum appellabit animæ rationalis creationem et infulionem in humanum corpu,'^ jam organizatum in
matris utero degens, licet omnes
fateantur eflfectum hunc fupernaturalem
effc. 114; Graviflima licet folutu
facillima heie occurrit quæftio de
miraculorum po/Iibilirate, quampravæ
mentis Philofophi impio conlilio
exiufeitarunt. Hi nimirum non veritatis amore, fed revelatæ Religionis
livqre perciti, nihil- ex jecinore fuo decernere dubitant, veri nominis
miracula impoffibilia effe; quæque mitacula appellantur, phænomena naturalia
elfe cen-’ fenda, ex ignotarum caulTarum
naturalium concurfu genita. Longa equidem non indigemus ‘oratione, quo ifthæc
lalcivientia ingenia confringa- • ' mus.
Sane I. Subftantiarum hujus Mundi vires
finitas efle tum intenlitate, cum extenfione, extra omnem dubitationis
aleam pofitum efl. Qua,^ re infiniti
Innt effectus intrinfecus poffibiles
quos naturales fubftantiarum hujus Mundi vi! res attingere non poffunt. Porro ad
hujufmod* effectuum genus- miracula
fpectant. Miraculo ergo funt intrinfcchs
poffibilia. II. ' Subfiantia- * • ' ^
ru^m • •. . f.- 14gulas adcurate, non perfpexiffe leges
; fed peculiares aliquas et ignotas leges notis hactenus adverfari haud poffe,
nihil dubitare poflfumus. Qiiz cum ita fint, concedimus quandoque incerta futura elTe noflra de
miracu. lis judicia, adeoque cordatum
Virunr haud przcipitem hac de re fe gerere debere, immo animis fjepe pendere
fummum effe confilium j at alias tam
clare patere miracula autumamus, 8c in
ipfps veluti oculos fponte fua incurrere, ut
excors fit oporteat, qui de iis fuum velit judicium cohibere, et irftcr
ftupidps adcenfendus. Ut ecce fi Sol
hominis obtemperans voci e fuo ciirfu
defiftat, neque occumbere feftinet. Si ma.
ris aquæ ex hominis imperio fcindantur, et con> tra naturalis aquilibrii legem ftantes
liberum, iter fugienti populo per imum
fundum præbeant,: fi hominis cadaver
molle 8c jam fætens in vitam fanum et integrum
revocetur abfque ullo omnino apparatu, l’ed fola jubentis voce ; fi mare procellis, Sc tempeftate jactatum quiefcat
illico et indomabilem, qua furebat, iram
deponens, ridentem adfumat
tranquillitatem.* 8c innumera hujufmodi,
quibus Sacra: redundant paginae. Si
quandoque in mundo miraculum >
^^*^fi'^i'um, eflfectuumque feries, quæ poft.
hac lequetur, alia erit ab ea, qux futura fuiffet, miraculo non patrato.
Nam omnia, qu* in mundo fiunt, contexte,
connexeque fiunt, et singula, qu« confequuntur ex præcedentibus determinantur
Si itaque in hujufmodi connexa rerum ferie aliquid novi ingrediatur, quod fcllicct
non fit ex ipfa fcrie, nova huic adcedet" determinatio » qua equidem citra
!T\iraculum caruiffet. Subfequens ergo
ferici |>ars propter novam fufeeptam
determinationem non poterit alia non
efle ab ea, quæ citra' miraculum futura erat. «v lai. Si itaque miraculo perpatrato fubfequens
rerum feries eadem, ac qua; citra mira^
culupii fuiffet, pergere debeat j nonnifi novo miraculo reftitui poteft. Sane res, quæ miracuio
mutatæ fuerunt, alios atque alios natura fua
edid iffent effectus, alia»^ poflmodum feriern con %quentium conflitu^imt ; hæc ut deleatur, ^cipfque loco reffituatur Hia prior feries,
nifi novo ^llfaculo fieri“ non poteft. ^0 Juvabit, ^uæ mox diximus, ^exemplo ab
horologia petito', illuftrare. Sifigulæ,
qu^ in horologio fiunt mutationes’ ex mech,a-' nica partium ftructura, et politione
fiuunt^tum connrxai funt inter fe, et continua''
ferie fiunt, ut adeo, earum curfus hujus
Mundi curfui conferri merito poffit. Ponamus.minutorum' indicem a fitu, quem
hoc momento obtinet, aliquot minutis retorqueri : id ab ipfa mechanica horologii structura fieri quideni pugns^,
nihil vero vCTat, ab extefna caufia
fieri. Deinde retorto eum in modum minutorum indice, et horarius index proportionali ter retorquebitur, alia^que fient interius mutationes. l*ofthac-
minutorum', et horarumr fignattones pro quovis
tempore diverfæ omnino confequentiK*, ac fi nulla fact^ fuiffet in utroque incfice
^mutatio •. Qiiod fi reftituenda fit
prior otriufque indicis poil. 1 poGtionum feries pro quovis tempore, illa
Icilfcet eadem,.qu* confequtura erat nulla fafta indicum retorfione, iterum ab
externa cauifa impellendi funt indices, et ad eam politionem con(lituendi) quam
modo fponte fua obtinuilTerit, fi
horologio fibi rclifto', nulla unquam extrinfecus illata fuiflct mutatio. Ita
miraculum in mundo fieri et intrinfecus,
et cxtrinfecus pofr fibile eft IIJ*,Sed
mirapulo patrato confequentium eventuum
feries diverfa occurret ^b ea', qiiz
citra miraculum fuilfet izt. Hzc itaque
fi reftituenda fit, pariter per miraculum nova rebus inducenda efi mutatio,
ut eadem, et eodem ordine redeat rerum
feries, qux per primum miraculum deleta'
fuit. Fi»!s CofmihgU» I pAo, p-^-^ f-^-1 r^-n r^ r^ '-^ r-^ ff.W/KfiW
rit 7. et 8., nec non fenfationum phænomena in noftra non furtt poteftate 18. Quod
ad fecundum fpectat, fenfationes non
funt im mifliones qualitatum ex objettis externis in ‘ animam adeuntium iz.Sc ig., neque Mens in fuis fenfationibus- mere paffive fe habet
^ Sed de hac re copioiius fuo loco. Qua sit [edes principii fensitiva
facultate praditi. 22. '["'Ibrarum irritatio in organis
fenforiis X excitata a quavis externa
CauiTa, nifi ad cerebrum ufque
propagetur, nullam in Anima lenlationem
gignit. Pridem do experientiam - Sane obtruncetur nervus, vel fortiter
ligamento comprimatur • quavis producta
irritatione infra fectionem, vel ligamen, nihil anima experietur^ illico
tamen fenfationem patietur, five ligamen
relaxetur, five irritatio ultra nervi
fectionem inferatur. Quare principium fentiens, feu Anima non ubivis in corpore
refidet, et in quolibet organo fenlorio,
led in cerebro, cx quo fuam originem nervi aj^fpicantur. > ', 23. At dua! heic occurrunt qua»ftiones 1. Quænam eft illa cerebri pars hac prærogativa
c£bteris præftans, ut ad eam fint deferendæ fingulæ fcnfuum irritationes, quo
in Anima fenfationes^ant ? hanc cerebri partem, commune ftnjorium, et Animæ fedem dixerunt. Qut fenfuum irritationes ex intimis corporis
partibus ad cerebrum, vel potius ad commune fenforium deducuntur ? §. 24. Quod ad primam adtinet, nulla cerebri
pars pro communi Animæ fenforio flatui
poffe videtur. Ut enim aliqua hujufmodi cenferi queat, illud prius
conflare debe^, lingulos’ nervos, quot quot per fingulas cor poris partes migrant, et lon^e lateque diffunduntur,
ex ea primam originem ducere.-Al nullam
cerebri partem hu>ufmodi effe \ recen»
tiflime conftitit ex obfervationibus fumma fagacitate ab Ab. Toffoli
captis, {tom. Xlll- opujcoii fcelti [ulle feien^e, e Julle »Arti. ) Olfactorii
nimirum in duo priora cerebri Ventricula
pergunt. Guftatorii ad tertium. Acuftici e corporibus ftriatis labuntur.
Optici e corpore calJofb emergunt.
Somniavit ergo Cartefius cum Anim* federa in glandula pineali locavit :
quippe ex pineali glandula nec unus nervus originem ducit’. 'Idem de Digby
dicendum, qui ex glandula pineali in
feptum lucidum animx fe. dem tranftulit.
Neque adfentimur CJ. De la Peyronie, aliifque in corpore xallojo anima*
fedem conftituentibus licet enim hinc
emergant aliqui nervi, veluti optici, non omnes tamen. l6. Quo fecunda! qua*ftioni facerent
fatis, Cdduxerunt Nonnulli exemplum
chordarum, qux altera fui extremitate
perculf*, illico alteri, extremitati motum fuum tribuunt ; at non fatis penficulate, Sane tremor in unam chordse extremitatem
illatus, ad extremitatem alteram illico’
propagatur, fi tenfa illa fuerit, et in
xjfcillando libera, ab omni fcilicet externo impedimento expedita. At neutrum de nervis
dici potefl:, nullam tenfionem
habentibus, et in lui ductu undique
irretitis. Alii vero nervos ha. bent
veluti totidem tubulos; quos purior, ac
fubtilior fanguinis p&rs, qpam Jluidum nerveum, et 5c fpiritus animales vocant, perpetuo implet, ac pervadit. In hac porro hypothefi
inquiunt, nequit nervus, nervulu/que
contingi, quin aliquatenus prematur ; neque potejl^ ullatenus premi, quin ob
dijlensionern fpiritus contentus' urgeatur, neque jpiritus il/e sic urgeri ^
quin pellat ^ feu potius repellat vicinum inflantem, ac pari ratione advcnientetn ex cerebro • neque
ijle porro repelli, quin tota ferie ob'
repletionem, continuitatemque compulfa,
fpiritus exi flens ad ipfam originem
nervi, nervulique in cerebrum quasi
resiliat- Verba lunt Caffendi phyf, f.
membr. 1. 1. 6. c. 1. Hujus explicationis exemplum ex tremulis æris
undis Ionum deferentibus e corpore fonoro ad aures, facile eft defumere. Atqui
hujulmodi fententia licet comjnuni voto
veluti cæteris verofimilior excepta Iit,
Iblida tamen caret demonftratione. Hac interea utemur, donec melior non
occurrerit. GAP. (a) Nuperus Audior Thouriy in
dIfsertatione'Lugdur)enfi Accademiie
exhibita, in qua qusftionem exiendir, utrum
atmol'pha:ra eledricitas aiiquid in hunianum\ corpus influat &c.
novum hac de re lyflema propofuit. Utraque, afserit, eledricitas, pofsttva nempe et negativa
ifeorfmi in cerebro hofpitarur.
Siibflantia corticalis puta pofitivam continet eledricitatem, negativam vero
medullaris fubflantia. Utraque habet
luos condudores, nervos 1'cilicet, quorum alii politiva; eleflrlcitari
inferviunt, alii vero negativ*. Hi ex extremis corporis partibus eleilricitatem
deferunt ad cerebrum ; illi vero ex cerebro ad
mufculos, et ad extreouis partes. SenfatioiTes Menris fiunt ex appulfu
ad cerebrum eledricitatis, quam nervi
negativa eledricitati inlerxientes a corporibus in lenfus incurrentibus rapiunt, ocleruntque ad
cerebrum. \iotus ve De Memoria.
I j^. 27. Uotidiana experientia
edocemur, Mentem etiam remotis objectis, quibus afficitur, adhuc fibi prxlentem
retinere poffe illorum ideam,. feu notionem. Hujusmodi Mentis actus coram reti-
I nendi ideas, notionesve objectorum,
etiam il» lis remotis ac absentibus,
vocabulo contemplationis y^ockio duce, defignamus. 2g. Rursus experientia pat.efacir,
Mentem persæpe occafione externæ cauflæ,
persæpe suo veluti arbitratu, et imperio,
antehabitas, con. sepultasque ideas,
notionesve revocare. Hunc mentis actum,
reminlfcientlam appellamus. Eadem
experientia novimus, Mentem antehabituS
ideas fibi recurrentes ut plurimum
recognofeere,• scilicet animadvertere, illas ideas notiooesque haud elTc recentes, sed jam
dlim habuiflTe. Hanc anima: conscientiam,
seu anim.i.ivcr;ionem, recognitionis vocabulo exprimimus. qo. Tres modo rccenfitos Ment;s actus vulgo
Memoria nomine complectimur. Itaque Me.
mo vero mufculares cientur ab
ele^trlcirate, quam Anima in mufculos
immittit per nervos pofitivs eleflricitati d-'dinatos. Atqui clariffimus Au6lor
in præfata difsertatione ar^qumentum
ouidem fui ingenii præbet, non vero fui fyfiemaris. Ipfemet videtur iftud
proponere pro imaginationis fpecimine ad rem perdifficilem, fi fuperis pbcfet, c:cp!ic aridam.morla ell illa Anima: lacultas,
qiia retinet-, revocatque antehabitas
ideas, ac recognofcit veteres effe. N •
- ^De Contemplatione . *]A yCOtus ab
externis objectis in no-, J.VX ftri^
fenfibus exciti, et ad cerebri fibras perducti Animam diverfimode 'modificant,
live repræfeiitationem aliquam ( quam
dicimus ideam ) five affectionem ( quam notionem appellamus,.),.ingerendo..
j^Quare pronum cft intelligerc, fibrarum cerebri commotionem eo ufque perdurare debere, quo illa notiq,
vel reprasfentatio Animam occupat. Animaie
itaque contemplatio' ex continuatione
motionum in cerebri fibris efi repetenda/ atque adeo ad fentiendi facultatem
fpectat. At continuatio motionum in cerebri fibris duplici ex- cauffa fieri
poteft. 'Vel enim, fortior, et vehementior
illata eft, concuflio in' fenfuum fibras
ab externis objectis, et modo cerebri fibræ vehementius commotæ in eadem fufcepta
commotione, etiam citra Animæ impc-'
rium, diutius perfeverabunt. Hinc fiet, ut ea-'
dem idea vel notio Mentem five lubentem, five invitam occupabit, et qtfidem
vivide. Vel' fibræ leniter commotæ, ad
quietem mox fu a' fponte redirent, quo
cafu paullatim evanefeeret ‘ idea, et notio
; et modo ut in inchoata com-^ motione,
illæ perdurent, Mentis quoddam velu-* M
ti '• ' ti conamen adhibemus : hoc conamiiw fibras in inchoata commotione veluti foventur,
con^ fervantur; atque hinc confervatur,
et perdurat idea, et notio coram Mente. Vis,
quas in plura difcerpitur, languefcit ; at in unum colkcta potior efficitur. Quare facile jntelligimus, eccur ad
contempla* tionem faciliorem,
diuturnioremqne confequen> dam,Mens ne ab aliis ideis, et prasiertim
fe«« iationibus perturbetur, cavere
debeamus. • r . MI. • •, > *
f » De Remintfcientia t 34*
'I 'AIfficillima occurrit de reminifcientia inquifitio-. Hanc ineptiffime ^videntur -Metaphyfici vetcreS perlequuti
fuilTe ; quasfierunt enim.* quo abeunt^
receduntqite ideat nothnefve, cum ab
earum contem^atione Mens feriatur ? In ^nima ne, vel in cerebro confepediuntur ad
sAnima imperium rediturai Ecquid funt
confepuita idea ? Hiice quasftionibus ineptas re* fponiiones fuppeditantes, illud quah fuadere
vel* Jent, penes Animam promptuarium
eife, in quo ideæ conferventur iterum
educendæ ex ejus imperio, quoties opportunum eflfe judicat, vel ex alia quavis caulfa. Audiant hi Ciceronem CICERONE
(vedasi) egregie cos increpantem',*Qjiid igitur ? utrum capasitatem. aliquam in
xAnimo putamus ejfe, quo tan~ quam in
aliquod vas^ea^ qua meminimus infun~
dantur} %Abfurditm id quidem: qui enim fundus^ aut qua talis «Animi figura intelligi poteft
? aut > quæ tanta 't/fnimo capacitas? %4n imprirnt qua fi ceram, »^nimum putamus, et memoriam ejff
fi' gnatarum rerum. in Mente vejligium ?
Qua pofi funt verborum qua^ rerum ipfarum
ejfe vejligia? \ tufc. qq. /. I. c.
25. 35. Ut frbi cavcanf Tyrones ‘ab
hifce abi furdis opinionibus, fufficiat
recolere, ideas, notioncfve nihil effe aliud, quam Animæ modifi« catioiies ex fibrarum cerebri commotionibus
genitæ j ut ita ficuti fibris ad, quietem redeunti-* bus, ftatim illæ Animæ modificationes
definunt, ita et ideæ, notionefve omnino
evanefcunt. Cum ergo quæritur, quo
abeunt-, receduntque ideæ, cum ab earum
contemplatione Mens feriatur, optimum
refponfum erit/ evanefcunt. Ubi confepeliuntur hi Anima ne, vel ip cerebro ?
Nullibi.* nam ab Anima cui inerant, evanuere.
Ecquid funt confepultæ ideæ ? Nihil. De Recognitione. A Memoriam proprie
fpectat, quod jt\. dicimus idearum
recognitionem^ Si enim veteres ideas.Menti
recurrentes percipiamus, minime vero nobis confcii fimus, ilJas veteres effe, nempe eafdem quas olim percepimus,
reiterata ifthæc five notio five perceptio ad
memoriam nonnifi improprie referetur. Licet reminifcienti* cauffam incom
pertam adhuc habeamus, recognitionis tamen idearum facilem explicationem
exhibere autumamus. Duo funt principia*,
ex quibus illam deriva, mus. r. Interior
experientia, qua a teneris unguiculis novimus diferimen quoddSm inter ideas,
notionefve Menti recurrentes ex reminifeientia, et ideas notionefve actuali
fenfationc in Animam incurrentes. Licet
enim verbis non poffct explicari diferimen' iftud, interiori tamen fenfu difeimus, alior prorfus modo Mentem affici
Cx fenfatione objectorum prsfentium, ac ab
5 deis notionibufve eorumdem abfentium. Videtur hoc diferimen in eo
|»ofitum, quod fenfatio Animam vividius, ac veluti intime afficiat* € contrario leviter commoveant ideæ, notionefve
objectorum ''ubfentium, et quafi a longe ei
exhibeantur. Lex ilia adfociatibnis idearum, qua fit, ut una recurrente idea, vel notione,
fi. mul recurrant Menti una vel plures
aliæ, quo. cunque tandem modo, priori
adfociatæ. Sane recurrat Menti idea, vel notio
objecti cujufvis j five id fiat ex interiori quavis cauffa, five ex
externæ caufTæ actione. Vel in hujus
\idea: recurfu excitantur in Mente ideæ
ei adfociatæ ex priori fenfatione, vel non. *Si primqtn • ejuidem objecti idea in duplici
illitarum ferie Menti obverfabitur ; in ferie lci*icet præfentium circumftantiarum temporis, loci, aliorumque objectorum^ adftantium, et fenfus percellentium, et in ferie idearum fociarum
ex veteri fenfatione, qua; per
reminifcientiam refiaurantur. G,m ergo altera feries, ab altera interiori lehfu dignofcatur prasc. n. i.,
facile eft recognofcere, objectum, quod
modo Menti occurrit, alias quoque
occurri Ife. 45. Si vero ex alicujus
ideæ recurfu ( quacumque ex caufla hic
fiat ), nullæ excitantur ideas focix temporis, loci &c., nulla fit recognitio, vel incerta admodum, et obfcura, fi nimirum obfcure, et confufe fuerint excitatæ
ideæ focis. Experientiam appello. Hinc efi,
quod fi hanc recognitionem claram, et difiinctam reddere qusrimus,
conamur veteres circumftantias loci, temporis, perfonarum &c. revocare, vel
ut alter commemoret, flagitamus. Hs ides
Mentem redeuntes lege adfociationis
veluti ftipantur illam, cujus recognitionem qu*. rebamus, ficque ipfa recognitio redit.
Eadem eft explicatio recognitionis
idearum reflexione genitarum. De Facultate attendendi, et reflectendi. 4^. "A ^^Entem a vividis, claHfquc
five J.VX (enfationibus, five ideis
veluti pertrahi, atque occupari; nec non
iifdem libenter cedere, et conquiefeere, quilibet intimo fuo confeienti* fenfu edocetur. Atqui et interiori experientia non minus conftat Mentem facultate
pollere vividis etiam, clarifqUe five fenfatlonihus, five ideis obnitendi,
quominus iis afficiatur, feque'
convertendi ad alias five ideas, fjve
fenfationes etiam remiffiores, et hifcc elicito veluti conamine intenfius
vacandi. 47. Iflud Mentis elicitum
veluti conamen, ^uo ipfa fe determinat,
ac defigit in peculia, ri aliqua five
fenfatione five idea perfequenda,
attentio nuncupatur; et attendendi facultas illa'met Animæ vis, e qua
illud conamen procedit. Attentionis
vero translatio, quam feientes, et prudentes efficimus ex uno in aliud
fucceffive objectum, vel ex una in aliam
ejufdcm obje. cti partem, reflexio
dicitur. Facultas adeo refleBendi illamet efl facultas quam attendendi dicimus, quatenus, nobis animadvertentibus,
ac volentibus ^ plura fucceffive
perluftrat objecta % ex uno ad aliud
rimandum pergit, reditque ad alterum. 48. Attendendi facultas alia putanda efl
a facultate featiendi, etfi hanc
perpetuo comitem ha. r ; r : tar
;;::tatem ad illam reflectendi revocandam eflc. 54. ~RATIOCINARI dicimur, cum idearum A puta et C convenientiam, vel repugnantiam, vel quamvis aliam relationem intuitive
non percipientes, iJIam deprehendere
fatagimus per ioterpofitionem medi* ideæ
B. Media porro hæc idea nonni/i ex
reflexione', et analyfi primarum idearum
A& C Menti occurrit. Hæc enim me«
dia idea, vel una efl ex limplicibus, quæ in compofifis ideis A et B continantur • vel
ejulmodi eft, ut dum alteram -puta A tontinet, ipfa tamen in altera B contineatur ex quo inferimus
«tiam A in B contineri. Alterutro modo
res fe habeat, evidens efl, Mentem fuam ratiocinationem nonnili
reflexione abfolvere. Facultas generalium idearum nexam, 2^ relationem clare pervidendi, Ratio communiter
appellatur. Hoc fane fenfu Tullius de ofF.
1. i. hoc vocabulum ulurpavit. Homo enim^ quod rationis eji particeps, per quam confequentia
ctrnrt, caujfas rerum videt, earum progrefjus, et quafi antecejjiones non ignorat, Jimilitudines
compa^ rat, rebujque pr' Huc’ IpeAant '
Ciceronis CICERONE (vedasi) verba /. 2. di divinat. Sanguinem piutffe ’ [enatui renunciatum eji
clatratum fitniiufn fluxi^^e /anguine :
deorum fudaffe fimulacra atque h(ec ;« lallo plura, ^ majora videntur ti^ mer^il^us ' eadem non tam animadvertuntur tn
pace. '
byterum qutmdam Rejiltutum nomine lauJat 'n fuo tempore, viventem, qui, et fponte fua, et
aly amicis rogatus adeo fe e fenfibus
evocabat, •Ut non folum coram loquentes
non audiret, led neque punctiones, neque
inuftiones fuo cor* pori illatas
lentiret, nifi cum ab alienatione Mentis
ad fe iterum redib?kt. ^ ^ §. 67.
Tandem cum imaginatio ex facili ^
cerebri irritabilitate dependeat,.confequitur, illam ex mutato corporis, et cerebri ftatu obtundi
polle, nec non obtufam revivifeere. Id cum ex pluribus
fieri queat cauffis, tum pras, cipue ex
state, cibo, potuque plurimum pendet. At haud prstereufidum eft, morbofa aliqua
cauffa fieri quandoque, ut imaginatio, et memoria alias obtufa, et difficilis', vivida
fiat, ac facilis ex inducta' in cerebri
fibris fenfibilitate, feu irritabilitate' majori. Nempe,, quas cerebri fibrs’ olim agitats propter
craffiorem; conftitutionem, parvam aut
nullam mobilita tem fulcipientes, minus apt* erant quominus veterem commotionem renovarent^ modo mobiliores,
fenfibilioresque effects, illam diftin-^
cte queunt renovare ; adeoque, qus olim obtufa difficilis, vel nulla
fubjbat Menti imagi-, natio, et memoria,
clara fiet, facilis, et promota. Hinc ftupendi prorfus phsnomeni rationem'
depromere facile poffumus, eccur nempe
Rudes, et illiterati homines febri et delirio correpti plura quandoque
loquantur erudite, et irllomate antehac
iplis prorfus iirtomperto; tum hsc
iterum ignorant, fi > N 3 • >
^ /
I rio reliquuntur. » 6S.
Ad vim imaginationis Mpjierum prægnantium referunt Nonnulli monflruofos et informes,
quos illæ edunt quandoque partus, tum
partuum infolentes macufas. Sed nolim ^
ego quidquam de hac re decernere.
e I — i ^ I I. (Adolefcens quem Prarceptor ;nihil
untjuam edocere poruir, quique nec callebat, ut vulgo dicitur, adjungere
adieAivum fubjedlivo, pofl aliquot dies febris
jnalignx, latine loquebatur, nil hsfitans; dodrinas antehac fibi ignotas
recitabant, ideafque quibus eatenus
caruerat, egregie edilarebaf. Medici», fepten. r. i. p« 88. Huart ( !*.«»»« «fcj’£/pr/>j)Ruflicum
memorat bardum, qui ^lirio correptus, eloquenrlflimus evaflt: nec non quemdam famplum, qui craflillima: licet
minervz, et ideis vacuus, morbo tamen
laborans, cordatioris politicas eruditus apparuit. Erafmus italum cognovit,
qut in morbi acce^onibus germanicum
idioma, quod nunquam didicerat, loquebatur. Ac.. Hzc phænomena, et alia huiufmodi quamplura imperite, A
olcitanter inter miracula, rejicerentur,
vel magicos efferus. Sola fibrarum cerebri difpofitio vi mOrbi mutata hos omnes
producit effedus. Nempe imprefliones olim habitie, at debiles, quominus
fentibilem gignerent efi^tiun in cerebri
fibris pamm mobilibus, novam majoremque vim nancifcuntur fibra
irritabiliori, ac mobiliori per morbum efledfaj
iienti pondus^quod machins rubiginofs adplicitum nullam in ea motum ciet, extenmlo tamen eamdem in
morum agit, f! rubigitie TOlita fuerit,
ejufque axes ex inunco #!fO mobiliores
emciaotur. De Facultate appetendi, ejufque ' obje^o '. ubi de dffedibus fummatim. De Facultate appetendi j ejufque ob/eSle. 6 p. ^^Uique ad intimum fuas confcicntiæ fenfum attendenti fequentia liquent. I.
Animus ex quavis Tibi objecta boni,
malivi fpecie agitatur * neinpb erga objectum quod bonum cenlet incJinationem nilum vei
^ invitus experitur/ 'e contrario,
declinationem a malo, et veluti renifum
quemdam ad ei ob« fidendum. Illa Animi inclinatio,'& veluti nifus ad bonum ", appetitionis nomine
defignatur / Sc contra averfatio dicitur
Animi declinatio, æ renifu^ a malo
^ II. Quo majus Menti objicitur bonum,
ma lumve, eo vividior eft appetitio vel averfatio/ et contra, ut ita fint appetitiones et averfationes in directa ratione bonorum, ' malorum ve
Menti repræfentatorum., • III. Appetitiones, et averfationes non
fiint in noflra potedate, nili quatenus
Mentem ab objecta boni, maiive fpecie
avertet^ polii m us. Cxterum licetd
bonum minime profequamur, malumve
fugiamus, intrinfecus tamen »• quali polient ratione, qua rerum naturam, re-. lationesque complectentes-, illarum.bonitatem"' malitiamve affequantur. Proinde: in
perfpicqo «ft*, cctur tantum fit ijiter
homines ' appetitio ' num >sVcHOlo6iA 4 T nnim, atque, averfationum difcrimen.Sanc
quod uni bonum apparet, alteri malum
videtur, et ^ Contra.'Quod uni
voluptatem conciliat, alteri dolorem, tædiumque ingenerat' 'Ipfi nos fententiam de bonitate et itoalitia cjusdetn
objecti pluries in hora, •& quafi momento tenii poris pronunciamus, et mox delemus. QuJ
in "tanta affectionum, idcarurti ',
et calculi difcre‘pantia ftare poffet appetitionum, averfationumque identitas? [Do
not multiply idetities beyond necssity – Grice e Semmola -- ^ 74- Quæ appetitiones et averfationes Anima excitantur ex confufa bonorum, malorum-
’ ve repra?fentatione ope fenfuurn et imaginatio'nis
facta, appetitiones carw/j/ex, feu animales "^diQUtitMT.Rationales e
contrario appellantur 'iJlaSjj' quas
Mens concipit ex clara, et diftincta bo-,
noruni, malorumve fpecie ipfi exhibita 'a ratione. Porro p^fæpe fit,
ut‘qus veluti bo-T na vel mala Menti
reprefentantur ’ fcnfuum et imaginationis-
ope, ea itidem' bona vel mala ex ratione
dijudicemus. Hinc 'duplex iq Ani-‘ mo
excitabitur appetitio vel avcrlatio, carnalis feu animalis altera, altera '
rationalis j modo amba;,hæ convenient.
Alias contra fit, ut qua: tamquam bona*
Vel mala" Menti fiffuntur fenfibus et imaginatione, tamquam mala vel bona
ratio, decernat. Quare appetitio
carnalis gum aVerfatione rationali pugnabit, et viciffim
^‘adeoque Mens in diverfa, &.con-,
traria dillrahi experietur, et internum, luctamen, conflictumque
patietur. Huc fpectant illi^. ApoftoU
verba : Sentio aliam, legem ^ in
memltris jneif, repugnantem legi Mentis
Nem. Nempe in Apoftoli Anima ex
fenfuum illecebris appetitiones excitabantur, erga objecta", quæ ipfc Apoftolus averfabatur ut mala
ex monitu rationis. 75. Hanc pugnam ut explicarent vetcreg Philolophi duplicem diffinxerunt appetitum, animalem et rationalem : tum non uni eidemque
fubjecto utrumque tribuerunt, fed diverfis. Opinabantur nimirum, duplici parte
Animam conftare, wtelie£liva, leu Juperiori, cui appetitum tribuerunt rationalem, et fenjitiva altera, quam inferiorem dicebant, in qua animalem
appetitum pofuerunt. Has Animi partes et revera diftinctas efle, et fecum
ipfas pugnare, veluti Equus cum Equite
fyquæ locutio Platoni in primis familiaris eft j, /autumabant. Atqui- doctrina
ifthæc fenfui intimo, quo eum conflictumMn, uno eodemque individuo fubjecto ineffe experimur,
repugnat. Accedit quod cum ^ Anima fit
incorporea et fimplex lubftantia ( ut
fuo loco evincemus ), vocabula partium
inferioris et fuperioris, vocabula funt nihili.
De Jiffefiibut •. ' ^» ' A‘ Ppetitio, vel aversatio vehemenjCX tior, 8c
cum infolenti naturæ humanat commotione
fociata,' affectus appellatur. Equidem quævis boni, vel mali reprpfeatatio
appetitionem, vel averfacionem ciet': at aon qu*vis appetitio, et avcrfatio affectus
nuncupatur / quæ incitatior eft, et intenfior hoc nomine denotatur. Affectus
itaque nonnifi ex rcpræfentatione boni
vel mali, quod gravioris momenti putamus,
pendet, 70« Inlolens humanse natur* commotio, qua affectum comitatur, ex actione Anima
affectu percita in commune fenforium leu
cerebrum gignitur. Ex intimo enim vinculo, quo Anima, 5 c corpus conibeiantur, quoad homo vivit, fit,
ut ficuti fingula corporis commotiones
nervorum ope ad cerebrum traducta Animam
afficiant, ita reciproce Anima
commotiones ex reprefentatione bonorum, malorumve genita nequeunt in cerebrum non derivare, ipfumque
determinato, quodam modo agitare. Cum
porro e cerebro originem ducant quotquot
per corpus dilabuntur nervi ; hinc intelligitur cccur ex Animi vehementiori appetitu vel averfatione,
concitato cerebro, et nervis, 'infolentes natura humana commotiones oriantur
(a). Ita ex terrore pereuHus Animus
faciei pallorem, cordis pal-, pitationem,
artuumque tremorem comites habet. Ex ira inflammatur Vultus, linguli tenduntur,
atque convelluntur nervi. Ex amor*
per. Non quavis Anima commotiones
io fm^Ias cerebri partes derivant, neque eodem modo : fed fingula certas, ac.determinatas partes ceijelHi
afficiunt, tk de*terminato.modo. Hinc unguli Anima affe^us determinatos cient
in corpore motus, qui quandoque funt diverfi,
quandoque prorfus oppofiti ^ Juxta affe^uum naturam ». et intenfitatem. ' ^ L (. I percurrit mollis
flamma medullas Scc. Hinc in numera phy fica mala, qux fapientes Medici
norunt ' Cum natura fua Mens in bonum te
ratur, malumque refugiat, liquido conflat,
aflectus humanam naturam, qualis modo efl, necefsario confeqai. Quid ergo fibi
volebant Stoici, cum affectus, Animi
morbos appd-. tlantes, in Virum
Tapientem minime cader^ pertinaciter autumabant ? Num ne fapientia eo, pertingere potdt, ut hominem fua expoliet natura,
8 c alia prorfus commentitia induat ? At
nemo unus ex Stoicorum familia ad hunc fa-. pientiæ apicem deveni(. Equidem qui in humana
natura deleri affectus optaret, ille et vim
qua Mens bonum naturaliter appetit, refu^it'' ' qqe malum, radicitus ab
ipfa Mente avmlfam vellet »,Hoc femel
conceffo, non video, quid, homo a crudo
diflaret latere.* nempe hiccine erit
Stoicorum Sapiens ? ^•7p. Atqui human.'>
natura, Sc ut fit,& bene fityfibi
non fufficit • bona proinde quibus caret,
^ profequitur oportet, declinetque ^ impendentibus malis. Bona vero profequi non potefl, Jiifl ipforum bonorum appetitu incitata j
neque mala refugere, et propulfare, nifi
odio percita erga mala, quæ funt inimica felicitati. Sunt itaque affectus nedum neceflaria humanæ naturæ -confectaria 70., fed ipfi 8 c ut fit,
et bene fit omnino neceffarii_ clatere?.
Sunt præterea affectus inftar vectium „
quorumdam, quibus mirifica in homine ex„.citatur, aliturque magnarum rerum
effectrix „ vis, nec fine magnis
affectibus quidquam f gre ‘ « g**cgjutn
> et prsBcIarum unquam ab homini„ bus factum i R^tio in nobis recta, nullo
im« j, petuofiori affectu concitante,
conftantius ope„ ratur, et xquabilius,l'ed eximium qmdqbam, > „ et diftinctum ipfa per fc-fola efficiet
niin’„.quarn. Eadem, ubi natura vehementiffime
„ affecta eft / velut erigitur j ac, licet paullo' turbnlehrius efficit tamen quje mira
viderf „ poffcnt’ nafurs humanæ vires
omnes ignoran> tibus. Itaque Plato fæpe
fcribit magnorum vircrufn fuifle neminem
fine enthusiasmo ^ quodam^ ideft
vehementio riaffectu; xAnt. Gtnu- ^ T
enfis Metbaph. part. tertia, Scbol. prop. 4 ^* Boni,malive repraslentationes in Mente factæ
five fenfuum renunciationibus, five rationis adminiculo non femper funt ‘ex æquo' conformes realibus concretifque objectis,
qui- " bus ilias referimus. Quare
neque., affectus ex. hujusmodi repræfentationibus
'r geniti fempet* proportione
refpondebunt bonis, malifque realibus. Hinc duplex affectuum partitio ex eorum
relatione» ad objecta Alii nimirum "funt
veri, alii vero /«/>/. Veri dicuntur, qui objecta realia' refpiciunt, et ipfis
realibus objectis proportione
refpondent. F7 damus, quafi nihil ^dhuc
ab aliis traditura . Mentem.humanam infita vi, et natura fujc neccffrtate bonum
appetere, et aver.j ' ' fari malum,
fuperius 70..,exporuimus ^ Mp»» nemur
hinc, nos ita natura comparatos, >.ai;
ad bonum in genere, feu ad beatitatem necessario, et indeclinabili
pondere feramur,v et miferiam'
relugiamus, quin valeamus vel-, „minirfium obfiftere. Perfpecte prpfecto. Divus
Au», guRinus inquiebat : Beati effe
•^olumui, et nti' feri effe non fotum nolumus fed nec velle -pofo /limus. At quid 'Anima contingat, quum aliqua
boni j malive fpecie afficitur, operæ prætmm eR ex intimo 'conicientiæ fenfu
perdili- ^ genter edtfcere : ipfo enim
Magiftro in devia certe haud abibimus.. r. rntimus confeientiæ fenfus uberrime edocet, quod ficuti ex oblata boni, malive
fpe» cie mox tu Auimo cietur appetitus,
vel aversatio A J ^49 fatto in* ratione ipfius boni, vel mali repræTentati,
ita hoii rapitur ab illa fpecie Animus,
fed allicitur, vel t*dio afficitur. Non rapi ex eo I* intelligit, quod cuique
appetitui', averfationi, quoufque durat,
efficaciter obfidere* poffe, tum premjre, et infrenare, evidentiffime
animadvertit : %. quod Ipfe fe ad bo'num perfequendum ciet, fi quidfem perfequafUr,
vcl ad malum fugiendum. Sentit
Sinimur præclare Tuilius mare fuo tuf. qq. 1. i. Cw 23. ‘Je moveri, idque dum fentit,
illud una fentit, Je vi fua i non aliena
moveri. Animus ex oblata boni fpecie alle£las, ' crampentem mox inclinationem quandoque extemplo
fequitur j alias vero immoratur, &' appetitum cohibet, ut rationis conHlio
adhibito ejC{>fendat, num 'bonum ei
exhibitum revera bo-» /lum fit, atque
amplexandum, afl %ero malum fub fpccie
boni, adeoque refpuendum. Inito tandem
confilio, et de bp^itate, vel malitia objecti monitus, fe ad illud perfequendum,
vel avertendum ciet: animadvertit vero
i. ipfum fe ciere, hon rapi/ z, etiam
'poflquam perfequi rapit, facultatem
integram defillcndi penes fe, retinere,
licet revera non dcfiftat; hanc ut experiatur, fufeeptam determinationem ex ^rte, vel ex integro
quandoque remittit-, vcl, aliam omnino'
diverfam, contrariamve elicit., Cum
plura Menti exhibentur bona, quorum uno tantum potiri liceat, vel plura media
ad idem* adfequendum bonum, rationis ad-'
hibernus confilium • fingula undequaque expendimus, et quidem quo
efficere pofTumus accu ratius. et acutius
/ media propoGta irfter h, et cum fine comparamus, ut. qu? Gnt
aptioia perdilcamus. Hoc demum
inftituto examine Td id quod melius
videtur, fe inclinare, feu allici Animus perfentit; at inclinari, inquam,
non 'i nam i. inclinatio illa m attum
non Jodit, nifi ipfe Animus fc cieat,
detcrminetaue ad'id,quod melius vilum^ cft amplexandum; 1 quia quovis' pbfito rationis confilio,
Mens ‘oildvertit. le facultatem minus bonum fe determinandi ;.de hac facultate
experimentum capere potett, quoties libet, ut fui' juris eife plene perdifcat.
_ V Ex diais fequentia quam evidentiffime
natent. I. Inefle Menti aaivara facultatem,
qua ipfa fe cieat, moveatque ad bonumx pecu?hre perfequendum, ipfa fe
avertat. a peculiari malo Hanc aftivam
Anim* faculutem t^ohn^ " IMbulo
dkliguamus. II. Aa.vam fa.-ultatem,
nempe Voluntatem ratioms confilio
equidem regi, at ei non lubeffe; rationem Ic«ui ducem et comitem, ipfam
vero etfe fui Lminam, ipfam, f.bi Di vus
Bernardus, de grat. ratio data
voluntati, ut tnfttuat tlUm, non up
^cflruai ' deUræret auten /7 nece(fttatem ulla» i^roonere^. UI- Voluntatem, ^ tionis confilio, deu incitamento, fuam
deter minationem fufpendere polTc,s’immo
aliam pominationem mcitamen nere omnino contrariam ei, q * V. - ritionifque confilium fuadent. LilLt/r momine.intelligimus eam aaiv/poteht.a, indolem-..90,: nMlU natur*
fo* ( V
n^ceflState, nec ulla \extcrna coa6lione invincibiliter determinatur, ad
a£liorverq.; redjipfaj fe determinat,
'ut ita, politis oninibus ^djiagpji^urn.
requifitis,
queat non agere, vel,aliud;5^qU9dvi^. a
politis requilitis alienum. Qfiandoq^ IJbertatU
nomine ipla a£Hva facultas, præfatx -indolis, et natur» intclligitur,.. f - 4
' pt. Duplex adeo Libectas., diftingui folet juxta duplicem neceUttatem ; cui activa
poten? tia fuhjacere poteft. Alia dicitur likfftfl cejfitaie y qu» confidit in immimitate. a
quavis naturali, et interiori vi
rapiente» et determi^ nante ad datam
a£tiodem. Altera vero dicitur iibirtas a,
et hase ia. immunitate a aliquo motivo nihil unquam vult, nihil advefatur.
Sicuti ergo lanx ob impolita pondera
inclinans nihil in fe inclinando libera eft, ita nequi' humana Voluntas, quas a motivis perpetuo
determinatur. At duo præcipue heic
reprehendenda occurrunt I. Mentem a
motivis determinari. ' ir II. Lancis exemplum - Quod ad primum
f|sew ctat, fedulo hæc duo' toto cælo'
cliverla fecernenda funt : Mentem a.mdtivis
determinari; Mentem feipfam ex calculo
mottvonm determinare.Primurd' fi verum
foret, actum eflfet de humana libertate. Atqui’ illud 'ita evideq^ter f.iffum'
eft, quam evidens Animum lentire fe vi
fua, non aliena moveri j fe. a' n?oti
vis allici. quidem> 1’ed non rapi ;
fc facultatem integram habere cuilibet appetitui efficaciter obljftendi/
;fuiqtie juris perpetuo efle. Alterum
vero utique At fjtram quadrare. Sane
Lanx nulla aftiva vi eft£x. gr. Qui
tonos a nervo redditos in. ejus tremoribus confiituit, nequit
‘multiplicium, ac diffimilium tono A
norum rationem aliter expedire, nifi per toti* dem diverlos, ac diflimiles ejufdemque nervi
tremores. -Si ab uno eodemque tremore plures^ac
diflimiles tonos effici contenderet, infeite profecto fe gereret, nec»
feipfum intelligeret; quippe in illa hypothefi necelfe eff^URum eumdemque
tremorem unum eumdemque tonum perpetuo reddere. Ita profefto in hypothefi, qua
Mens humana pro materialis fubflantiæ
temperatione ffa-^ tuitur: cum ideæ Sc
notiones aliud nequeant eiffe nifi
moriones, tot diflin£tas puitiones, atque diverfas fubflantia cogitans
fulcipii>t necefle eft quot
diyerfiis, ac multiplices h:vbet ideas, notionefque. Neqpie juvat' reponere',
Mentem ideam B, t. f:. B, 'qui coram adRat, poflc cum; idea
A,cu-> jus remimfcentiam, habet,
conferre. Quid enim cft^iRuci ideæ
alicujus reminifeentiam habere,, nifi
illam ideam habere præfentem ? Habebit
igitur Mens bmul prætentes ambas ideas A dc B. Datur ergo quod a nobis pofitum eR. Humanat»
Mentem haud effe temperatienem btu>
mani corporis, ac pracipue cerebri^ inviBe y demonfiratur. I. externa Objecta noRri
cor?* poris fenfus percellunt,
'6brar* rumque irritationes ad* cerebrum
ufque deducun»' tur, mox Anima
(enCationes fufcipit. Sed h».
fenfationes phasnomena funt,^ quas tnihibeommune habent cum fibrarum
cerebri, St fenfuum* commotionibus, a
-quibus toto c^l» differunt;
^^.iz.ij.Nequeunt ergo efTe ipfæ commotione^: atque^adeb nec Subjectum cogitationum eR cerebrum,
nec Principium cogitans feu Mens eft.
cerebri, humanique corporis temperatio... §.*' 105.' II.’ Ex intimo confeientiæ.
fenfute.videntiflime docemur, Subje6Ium fenrattoaura, quas five* per unum idemque organon, five per fe
invicem modificantibus, 5c
collidentibus compofitam exprimi poteft, II.
Indicatio horarum eft indici prorfus' extranea : ' Nobis- comparantibus indicis pofitionem ad
va-, ria Digilized by Google quolibet noftrum, haud foret unus et fimplex,
fed adeo multiplex, quot funt illæ
partes A, B, C. ' IIL Tertia tandem
'hypothefis evertit et judicii naturam ( num. I. ), et iotinram fenAita ( n. II. ) nec non fimplicitatem, et ilidivifi•bilitatem
perceptionum (» iia, ). Regeri haud potefl, quo farta teffa fiat prior hypotKefis, illas partes A, B, C
cpmmifeeri, vel in unam coire, -atque hinc judicium emergere. Non enim, nifi
fumnrKa' ofeitantia, "effutiri ifta queunt. Quid fane iftud cft commifeeri ? profecto particularum fitus,
pofitiooes, et tactus ad invicem immutari, et pei^ turbari. At non video, qu? hinc fiat
idearum particulis illis feorfim
infitarum collatio, et com. plexa omnium
perceptio • adhuc enim funt illæ
particulæ totidem diflincta fubjecta, et feorfim 'cxifientia. Illud vero akerum in unum coire pugnat cum naturali partium impenetrabil
itate. 11 5. Neque quidquam valet, quod
incogitanter alii reponunt, cogitationem non partibus corporea? fubftantiæ
convenire, fed toti fub* fiantiæ : non
humani cerebri pattibus, fed ce* rebro,’
quod veluti unum totum confiderandmfi
venit. Revera, quod totius nomine’ defignatur non eft aliud, nifi Mentis noftræ conceptus,
plu* ra fimul fub communi aliquo figno,
et notione, complectentis : atque adeo, quod dicitur 'P-2 *. • ' unum o ^8 psychologia' unum totum eft quid tantum ideale, non
reale. Quod reapfe notioni totius
refpondet, eft collectio plurium, qux propriam fingula, et ieparatam habent
exiflentiam, quzque - proinde æque fe
habent, five colIe£live, live feorfini
cxillant. Ita' ex. gr. cum inquam, totus exercitus, totus populus
&c., reapfe hifce. notionibus plurium, et diflinflorum fub;e6Iorum collectio refpondet, quat^, licet collecta,,
adeo funt didi neta inter fe, ac fi
forent fejuncta. Si propterea fubjectum
cogitationis eft fubftantia corporea, plurium nempe realium fubjectorum
collectio, jure, meritoque inferenda veniunt abfurda f^ierius notata. ^.“>115. III. Quævis materialis
fubftantia naturar fua eft iners,* modus autem agendi et cogitandi, qui humanæ
Menfis eft proprius-, inerti* omnino pugnat. I. Nonne Mens vi fua, et fua libera fponte innumeros ii\ corpore
gignit tn9tus, aliofque a caufta externa
ipfi corpori imprelTos, vel ex
mechanifmo pendentes cohibet, ac deftruit ? Atqui quid efl hoc, quod obluBatur
corpori^ fi ni hU fumus prater corpus? cum
fluvius decurrit in hanc partem, non potefi fua V» aquas fifterey aut retro flevere in
contrariam partem. Materia nulla agit in
je ipfam • nulla machina efl fuorum
motuum, confei a ^ ex illa confeientia
fuorum errorum torreBrix, et refor*
matrix. Si errat, nefeia' pergit ^errare, donec ad‘ mota manu %Artificis, aut Domini in flatum reBum
ordinatur f et reflituitur. Thora. Burnet (a).
II. (a) De stat, mort, O*
refarr, c. J. ^ II,
Nonne %Animus fenth fe moveri, iJque dum fentit, illud et una fenth, fe vi
fua non aliena moveri} Vividus'hic
confcientiæ fenfus, cui contradicere nemo, nifi efFrxnati Pyrronii poffunt,
Juculentiflime oftendit, humanam Mentem
haud elfe poffe e genere fubftantiaruni
materialium. Ipfe
RoHflojus eo fenfu monitus, hanc
veritatem fateri, coa6lus eft. Natura cuique animali imperat, et Brutum
obtemperat. Homo eamdem Jentit
imprefftonem,* at vero ft liberum
agnofcit ad affentiendum ^ aut contra obnitendum ; et in intimo fenju bujufce
libertatis ^nimtr fpiritualitas
prafertim elucefcit In facultate
volendi, vel potius eligendi, et in
bujus facultatis fenfu nibil eji, quod explicari queat mechanicarum legum ope (a). §.117. Lockius, etfi non e grege Materiali-,ftarum,
fententiam tamen coluit, qua non immerito vifus eft pluribus, Materialiftarum
cauffam indire6^e egiffe.'Haud nempe conftare pronunciavit, num Deus vi
cogitandi materiam ( subftantiam ex
mente iua extenfam, multiplicem, inertem ) inftruere poffit, ficuti vi vegetandi
ornaffe in comperto eft. Certe id opinans, aliquid humani paflus eft, nec fibi
compar extitit : animadvertere enim facile potuiflet, Animx humanæ immaterialitatem ( fimplicitatcm
) fimili argumento conftabiJiri, quo ipfe,,Dei naturam immaterialem evicit (b).,
u8. Porro Lotkianæ fententiæ falfitas ex
P 3 ha- • * l, / J 'V* * /• V »
' ». Dircours sur l^inegalitedes iamiptefJ,part,p,'iQ^ (b) SJfai pbllof, cone. i'*nttiid, 'hum, l.
4. liancnus
dl£)is luculentiffime patet. Rtvera » >
cui no^ conflat, Deum non pqHe', qux fa«C intrinfecus iinpoffibilia efficere ? on$» ^8.
Jam vero cagitandi^ 8 c agendi modus^, qui hu«
manx Mentis eil proprius, nequit ulio pa£h> ConfiHere cum extenfione * foliditate, et drati
' diametros, elTe inæquales, contra vero
^ æquales diametros circuli. Ita in re noftra, fuf'‘ikit agnoviffe,
cogitationem, fimplicitatem iqi 'Ente cogitante, requirere e contrario
extenfiQ* nem, e pluribus
coagmentationem : agendi facul- ^ tatem
fua fponte, lua propria eIe6lione, et quidem libera ( qu* humanæ Mentis eft
propria )- f^X iis, quæ haftenus profequuti fumus, difficile non eft. Mentis
hu« ' manæ naturam et genus definire.
Cum enim cogitationes, ac volitiones Hominis nequeant ef-fc e temperatione
ODrporis: Rurfus> cum neque
cogitandi, ac libere agendi vis, quæ
hominis e ff propria, fubftantiæ extcnfæ, multi' plici, inerti,cojufmodi
lunt quot quot ad ftnfibilem Mundum (peffant, cohvenire poffit ( art. 3.
): Agnofcere hinc cogimur fubje£fum
noftratum cogitationum, et volitionum
effe debere vere, & phyficc fimplex,
ac alius prorfus generis, quani lunt
'Entia quævis fenfibilia. §123. Neque
fuipicari 'pofTumus, humanarum
cogitationum, ac volitionum *fubje£lum e genere cfie elementorum
corporflm., quæ ex noffra fentertia (
Materiali ftis tamen ncn accepta ),
funt'& ipfa phyficc fimplicia,co/.
Nam I. corporum elementa fola gaudere vi motrice ftatuimus, quemadmodum
fingula phænomena edoctnt: cogitandi
autem vis omnino alia eff a vi motrice,
neque ut ejus 'temperatio quævis
interpretari poteft. II. Corporum elementa funt natura lua inertia : inertiæ autem. pugnat
illa cogitandi,* et libere agendi
iacultss, qua fua natu« psy:hologia
‘ ra Mens humana juadet : id qiKxl
ewncit quoI que, neque ex div na virtute corporum elemeB-'* lis Subjlantia nuncipari. 125. Opponunt Epicurei : I. Anima in ' corpus agit, et viciflim corpus in Animam. Similis ergo eft utriufque fubftantiæ natura:
qut enim fubftantia extenfa in fimplicem,
et viciflim, agere poflet ? II. Animi ftatus determinatur a ftatu corporis : ægra
quippe eft Mens, triftis, lata, delira
&c. juxta diverfos corporis ftatus •
et e contrario, pluries corporis ftatus ex
Animi ideis et modificationibus pendet.
12 ( 5. Refpondemus ; I. fubflantia extenja in Jimplicem agit ? (tf)
Norunt’ ne melius Ad I nui ' Ii—.
II l 1 i a K V Juxta opinionem quam in onrdiogia §. fequut^, fiimus, qu 2 v is fubftantia natura fua.fimplex
eft, ipfa, corporum elementa vere
fimplicia funt §.i6wC^/' stantiam (
fcilicet "Mentem ) agunt? In nostra ergo da* > fimplkitate elementorum tenrenria"
evanefcftt omoino iHa' apparens
contradidio, quæ primo occurrit, cum invicem^ conferuntur extenfio, qua; corporis est
proprietas (( nem-^ pe_ phamomenun
pendens ex plurium C0mristenria)^&fimpUeius; qu£ est Mentis.. \ .1 ’ ' •. Adverfarii, quf corpora invicon inter fe
aganf, pufa, qu? magnes trahat ferrim ? Corpus
equidem in corpus agit, neque ttmen de hoc phænomeno adeo fenfibus obvio, tot
tantifque experimentis, et oblervationibu} undique expenib, probabilem, imrao verofimiicm
explicationem protulere. Quid ergo mirum,
fi æque ignorare nos fatemur, quomodo Mens ( fubftantia^firaplex ) in corpus,
et corpus viciffim in 'Mejitem agat ? Itaque infeite nimis Epicurei ex hac «oftra ignorantia contendunt, unam,
eamdemque naturam utrique fubftantiæ
tribuendam. Simplicitas certe humanæ Mentis apodiftice cft dcnionftrata.
Evidentibus ne demonftrationibus vai
ledicemus, et in innumeras nos conjiciemus contradi6iiones, quia phænomenon,
cui explicando pares non lumus, occurrit,
aftio fcilicet Mentis in corpus, et corporis in Mentem ?( I -I ' * id) Mons fenfuuih confnetndir» abrepta
nihil follicita 4St rationem,
investigate reciproca; corporum inter fk
aiflionis^ feque intelligere putat, quod profoiAo non inf teJiipit"*» Deinde reciprocæ aftionis
notio, quam fenfuum ministerio nobis'
comparavimus,* perpetuo stipata occurrit cum' idea fimilitudinis -naturse, Teu
generis Entium inter /e a,{enrium. -ista idearum. adfociarione illuhs, tecl{HTOca
Entium diverii generis inter fe a^io extra communes ideas vagari videtur ;
atqui noonifi fumina infeitia, Si.
temeritate inter impolIiblU» rejkl potest *
$. * invenire (a) ? Sed d 6 hac re uberius infra
ۥ differam. II. Harmonia, quam inter Animi, corporifque
determinationes, et ftatus perpetuo experimur, non ex natur* fimilitudine, fed
ex qua* dam reciproca utriufque
fubffantix communicatione pendet. Sane cum Homo fit Ens mixtum, feu individuum ex Mente et corpbre conflans,
ejus Au^or Deus utriufque fubflanti*
naturas cudit, ac temperavit ejufmodi,
ut mutuum inter eas intercederet
commercium, alias biceps monftrum
effeciffet. Commercium i(lud,feu mutua iftæc ani-. mæ, corporisque Temperatio in eo confiflit,
ut nc- • queat Mens, quoufque in corpore
degit, inlitarum fibi facultatum a 6
liones edere, nifi concomitantibus. quibufdam fibrarum cerebri motionibus.; et c- converfo, nihil queat in corpore ^effici,
nifi affines in Anima refpondeant
affectiones. Hinp fit, ut Anima flatura
affumat corporis flatui affinem ; et e
converfo, corporis flatus ab illo
lyientis modificetur. Quo Adverfariorum oppofjtionibus aliqua poffer vis
conGflerc, oftehdcn*. dum ipfis foret,
impoffibile effe, fubflantias diverfi generis, et natur* in fe invicem agere, 8c quidem evidentibus rationibus, non
infulfa, 8c ridicula captione : id haud
concipi poteff, ergo eft impoffibile. De
Commereto Animam inter Cf, Corpus
attentionem ad ea, qusc 'in nobis
ij perpetuo geruntur convertamus,
deprehendemus I. Quoties renfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorom
objectorum pultantur, toties Menti etiam n» appellatur. Præter hxc tria ^ nullum aliud lyftma nec eife, nec concipi poffe
y videtur..... 4. Tria Jsc fyljcmata
copcinna >fimilitudine, e-x duobii horologiis conlonantibus petita,
illuftrari pount. Triplici equidem ratione
fieri poteft, ut do horologia lint inter fe con. lonantia: i. per ifLuxum ^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alrum 'agat ; alterum
alterius motiones excitet ac determinet.
%. Si quadam præordinafione it fapienter
eas machinas perfecerimus, ut lingip luas exa£le legei fequentes, et quin in fe invjem agant, barmoriite fihi
perpetuo refpondeani 3. Si opificem operi cwnitcm vigilem, ac perriuum 'adjiciamus, qiri
fiugulis momentis alterii motum unius
motui» attemperet, 3 c alterurex altero dirigat Erit modo opifex harrniæ inter
utrumque horologium intercede s efficiens CaulTa, ipfa Vero horologia cauffauafionales. ff >
* i • / V'' i
' sAdfi flentia SyfleMa.expendhu*
f' ac' refutatHr. O Yftema adfiftw*ntk
_^Malebranchium ‘ primum habet Aiflorem.
Nc» torporm ( ita ille )non poffunt vera Cauffa
ul' ' lius rei, Mentes etiam[ uciiiflima i» eadem ' verfantur impotentia. Nihil loffunt
cogttofcere, nifi' Deus illas >
illuminet. Nhil poffunt feriti're i nifi Deus- illas modijeet. Nihil pof' JuMt
velle'' ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat,
l' ‘. Cauffa naturales nor. funt vera eaufl
' t f a. Nihil funt \ quryn. Catffa
oceafionales, qua non agunt, nifi vi, C?
efficacia voluntadivina.. Hinc igitur concludendum efl, homines quidem.velle (movere trachium, fed
Deum > Joium poffe, O" noffe
illud nOvere. (a) r ^ 1^4. Alii moderatius
opinantes lolam vim fentiendi corporis
modificationes Animæ dene* . gant y et vira
corporis motricem. Deus ; in* ',
'quittht, fenfationes Animat ingenerat ex occa. ” ^iione motionum corporis, nec
non. motiones in corpore ex occafione
volitionum, et affeflionum • Animæ, idque.conformiter legibus a.fe
fiatutis: ^ Cæteras vero ideas ex
(enfuu!n motidnibus miinæ- pendentes ipfa' libi Mens cudit meditatio ne,
abfiaa^ione, ratiocinio ''&c. ex antehabiris tdeis a Deo imprciTis occafione motionum corpo. * i ' t-i r
(a) Hecher. de' la veriti lib. fiuiem, chap, traif. /econd,>part. bG rfoph»nti vacuum, ac prorfuS ebramentititim videri" iftud
OceaGonalidarum fyfteln^i’hihil dubito. Equidem, ut merito inquit Tullius, magna flultitia efi
earumterum- Deos facere effe£hores\ 'Cauffas 'rerum nort quterere - quidquid enim' oritur, '
quaUcunque ilm tud sJt, cauffam 'hSbeat
a ' natura^ neceffe eji. Sane Philolbphf
V^ferum naturaliurii’' -cauffas ia«
quirentes, haud Gbi proponunt primam', et uni« verfalem Cauifam determinare ( ecquis
ignorat) rerum omnium Caudam primam, et univerfalem
Deum eflel ), fed aliam pratter Deum quæ»
runt, quæ Geuti a ‘Deo ipfo exidenttem lufce* pit, ita et ageriiii" facultate’
ab-e^em> prajdjta i propria, et i m
mediata -phyGca actione effectum
producat. ‘Porro in 'syflbmate-* adGftehtiæ" omnis bujurmodi caufla fubmovetur, Deus in
raa* chinam advocatur. Vacuum^ proiade
eft. hujufjmodi (ydfema’^, &“ philofopho indignum Nonno deridiculus eflet^^qui interroganti eccur
Magnes trahit ferrum* eoalr" Maris
aquas pene lenis quibufque horis
'-intumefcaht, tu*!!! alternatim,
^tumclcant, gravittr refponderet, id ex ea ‘ Q.'' ' •
. iti i, Dt' divinat.^ Si fieri,
quod Deus, juxta ftatut.m fibi ipfi legem,
ad magnetis prælcntiam, ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vicibus
elevet, ac deprimat ex occafione determinati aipe^us Luræ ? Ecquid philolophia
iflEæe muliercularum infciiia, omnia ad immedia« tam Dei virtutem referentium, piæflaret? 1^6 Atqui, inquiunt, iniolubilis. alias eft nodus commercium Animam inter^ et corpus.
QuaG nempe in adnilentiæ fyftemate
perdifficilis hic nodus folvatur, non amputetur
potius. Jam vero, quod Animæ, et corporis commercium fit, phænomenon inexplicabile,
id trguit quidem,noftram ignorantiam,
non, vero naturalis caiiOæ- deft£lum.
Confer ont. 129. ' 137- Deinde fi
corpori.^ motiones nihil omnino
conferunt ad diverias, Animi perceptiones, cui ufui dicemus fabricata fenluum
organa ? Nempe,! inquiunt, iunt fenfuum organa eo refpe£fu, neceffana, ut ex. horum
mutationibus, tanquam occsdk)nibus,.Deus
juxta generales a ie fancitas leges
determinetur ad Animaro diverfifnode modificandam:. Sed iUi^d yelim
edoceant Occafionalilts,. mptationes,
quas fenfuum organa fubitura Junt fiupt ne asione circumflantium, ac prementium
corporum, tel immediate a Deo cx eorum
occafione ? Si primum afTe> runt, jam
cau^m produnt :. tribuentes enim
corporibus a£f ivam- vim, qua inter fc agere queant, nuUo jure feofihus, deqegare pofTunt
activam vim, qua in Animam agant. Alterum vero
fi- fateantur. ( ut fciiicct ipfi jGbj fint confentanei ), inutilia efficiunt fenfuum, organa * quippe
ex occafione circumflantium corporum 'poteft Deus illico fenfationes in Animam immittere,
quin fenfuum motiones, ab iplb
Deo>excitiaDdat intercedant. Nimirum in adverlariorum fyftemate circumdantia corpora lunt occafiones, Deo,
ut motiones in fenfuum organis excitet ;
deinde ha: motiones funt rurlus
occafiones Deo, cur fenfationes in
Animam immittat. Non ne breviori via, &' fapientiori confilio faftum. effet, fi 'leniationes immediate circumdantium corpo'
rum occafionem fequerentur ex ipfius Dei aftione, quin fenfuUm. motiones
intercederent ? Sane non funt
multiplicanda, entia fine necelTitate, et fi^uftra fit per plura, quod fieri poteft
per pauciora. Vel ergo. Deus inconfulto
egit hominem fenfibus ornanda, vel noftrorum fenfuum, totiufque corporis exiftentia ludrica rescft.
Con^ fer quæ diximus in nota iTq. ont.. > ; 1. iir.. • *' i ' '
Harmonia praflabilita fyflema a Lelkniti», . propqfitum’ exponitur y atque
rejicitur.. i tV.' 1 i ; ' ' ' r i » i
' 138. T Eibnrtius, Vir et acumine, et fub^ ri*'-'!- limitare ingenii. nulli certe
fe^ cUhdus, quo mirabilem Mentis, et corporis
hatH moniam expediret, ita philofophatus
eft. t Et r. quod ad Animas. fpe£lat,
pofuit,i. Hominum Mentes vi fibi repræfentandi Univcrfum prædiras efre,& quafi mappam
cofmographicam. interius geftare ; Nempe
efle in continuata ferie cogitationum,
et appetitionum ie ita excipiens Q, 2
tiura. Digilized by Googie ^4 PSYCHOLOGIA tium, ut quævis cogitatio contineat
fufficfentem rationem fubfequentis : et quivis Animje flatus antecedens gravidus fit pofterioris. 2.
Quamlibet Animam cx fua effentia, ac natura propriam habere cogitationum, et appetitionum, leriem, et cur potius talem, quam alteram.• Hinc Mentem automaton fpirituale dixit
Leib; nitius., II. Quod vero humana
corpora, refpicit, cen- fuit, I. quod vis corpus automaton effe vi, fibi. propria, et fua natura fingulas. fubiens
motio-, nes etiam in continuata ferie,
ut adeo quzvis: antecedens motio
lufficientem habeat -rationem
fabCequcntis : 2. nec noq ex fua natura habere, ut talem potius, quam aliam feriem
motionum ceperit, profequatur,
modificcfque juxta varias circumflantium
corporum actiones, et cpnve-r njenter
legibus mechanicis. III. Hilce pofitis
principiis ita profequutus eft. Deus
infinitas numero Merttes, et corpora
fibi quam diftinftilfime repr*fentans, prxordinavit, eas': Mentes V
caque Corpora confociai^, .quorum feries. operationum ac.flatuum perpetuo
harmonicæ elfent, et apprime confentientes,
Ex hat perfeftj operationupi utriufquf autotna^ ton harmonia fieri cenfiiit, ut videatur
Anima in cqrpos-agerC, et vicilfim. At
vero nihil inter fe mutuo agunt ; utrumque quam cepit ex lua natura operationum feriera, camdem vi
fua perfequitur, et independenter a vi,
et operationum Icrie alterius, quin
nimirum, alterum in alterum agat: et ita,
quidem, ut ufraque fubflantia. feu
Autpmatop4^ Mcns fciJicct.^ corpus, eamdetn; operationum feriem cepiflTet, ac deinde
perfequeretur, etiam Ci fejun£lim' altera ab altera exifteret, vel nonnifi alterutra tantum
condita fuiflet. Ingeniofum equidem
inventum, at extra communes ideas ; et quod
nulli fuperex» fru£lum rationi, mere eft
hypotheticum : Id quod et ipfe ejus
Au£Ior, et acerrimi propugnatores WoJphius, et Bilfingerus ingenue funt falli. Sed expendamus utrum hominis realis naturæ,
et phænomenis conveniat. 140. Principio
ponitur in hoc fyftemate Mentem in
continua verfari cogitationum feriO,
quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis contineat / id porro
eft, quod hominis realis phænomenis
pugnare, et fine fufficienti ratione
pronunciatum efle, perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite
Qe*. nuenlis ; fumat quis i» manus
Itxkum aliquod lingua alicujus,
catalogum plantarum \ animan* tium, aut
aliarum rerum, di£iionaria artium,
fcientiarum, bifloriarum j intra- horam percurre» re poteji duo millia verborum idearum inter
fs nullo modo connexarum, plantatum
dljffimilium. animantium y artium,
faStorum, hominum illtiflri* um. Quis ia
omnibus his dixerit rationem pojte*
rioris idea aut pereeptionis contineri in anteric» re y et non potius in imprejfionihus in
fenfibus \ aut cerebro faflls ? Ex. gr.
lego hac verba y '%/fa» ron,,Ari/lides y
^ri/lippusy * 4 verrobs y Buflris y
Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y -Cefenates.^
Centaurus^.David y Delphus; Dido, Dantes,
totidem,\obverfantur menti Q.‘i De Commento Animam inter &. Corpus attentionem ad ea, qua; "in nokis iJ perpetuo geruntur convertamus, deprehendemus I. Quoties fenfuum organa
rite funt -confHtuta, et actione
'externorum objedto» rum pullantur,
toties Menti etiam nolenti-* pras» fto
occurrunt eorumdem notiones, et quidem >
vivldai, vel confufæ in ratione irritationum in ipfis fenfuum, organis factarum, et ad
cercbratn ufque productarum' II. Etiam
Corporis.affe» ctiones in Animam
redundare videntur,-_Mens nempe (latum
adfumit corporis (latui afHnem 4 ita ex.
'gr.' 'læta eft, et viribus erecta-, (i corporis temperatio vegetior (it, et valeat
• tridis e contrario, 5c veluti
dejecta^^ corporis temperatione 'ientcfcente, torpentrbufque viribus; ha. bilis expedita in fuis obeundis
operationibus, vel e contrario tarda, ac
incerta,' juxta æquilibratam', Vel turbatam fui corporis conflitutioncm. ' III. VicifBm. Ex Mentis arbitrio
extemplo’ torporis membra' motiones
lubeunt, quæ nie-'^ ^anicJt- eorum
(Iructutæ fuiit conformes, et io his
r.|nvdiu durant, quatmdiu 'Menti libuerit. •
ly. Nec' non Anjmj jdta:,& affectiones pluTimum modificant corpus',
ut adeo in corpus ipfum manare videantur.
Sic animo ira concitato rubent oculi, faciei et totius- corporis niu, fculi^tcpJunrur. Invidus alterius macrefcit
rckus opirarn: &t..'-r, i»8. Hzc phainomena ne dum miram intercedere
harmoniam oftcndunt Animam inter et corpus;
fed et mutuam dependentiam ftatuere videntur, nec non arctiliimum vinculum, quo invicem inter fe con(ociantur.
Equidem vinculum iftud, quodcumque
tandem fit, ficuti præter noftri
arbitrium feniel conftitutum cft:, ita
prjeter noftri imperium, qupad vivimus,
pergit, ac tandem diflblvitur. Ffthæc liartnonia, qua Animi affectiones, notionelque'*
apprime rdpondent temperationi, ac
motionibus corporis ab externa cauffa illatis,* et qua vicifiim corporis
motiones atque ftatus, ideas, affectionefque Animi, feqUuntur, commercii nomine
venit. Perdifficilis
heic occurrit inquifitio; qui Commercium
iftud Mentis &' corporis ablolvitur? Difficultas maxima in eo primum
con* fiftcre videtur, quod Mens et corpus
fint. naturæ toto cælo diverfæ ; deinde,
quæ funt corporis, et fibrarum cerebri
motiones, excitant in Anima perceptiones, notionesque ^ et viciffim, quas funt Animi ideæ, et volitiones, in corporis
fibras, et membra, motum cient,. 'Definiuntur hypotbefes, ^ua hlfce
fuperjirui pojfunt Metapb/fieorum
fyfiemdta ad exptieandum Mentis humana
> et Corporis commercium. y* mirabilem harmoniam Mentem humanam inter 8c corpus expen^ ». dens, ejus rationes inquirere fa i * tagit,
protinus agnofcit jnonnifi alteram dua* .
• rum fequentium 'hypothefiura pbfle affumi. I!, Vel nempe realem quamdam, et reciprocam
in« ter utram que Tubllantiam actionem
intercedere • ^ ut adeo Anima fua
propria actione corpus mo» dificet, ac
moveat: Sc viciflim corpus in Ani®i^m agens illam di verfimode aihciat,
variafque excitet ideas : Vel II, nullum
intereffe reale commercium • Animam
inter et corpus, sed 1 tantum apparens •
ut ita nulla fit Animai in, corpus a^io, et vicilSm corporis in Animam, Jicet^ ftabilem in utriufque fubftantiæ ftatu
harv^moniam confiftere deprehendamus •'*, '
^ Syftemata,qux priori hypothefi inædificantur ve/ pbyfici influxus de
nominari merito poffunt, Altera vero hypothefis
ad duo diverfi genens fyftemata abire cogit. V^l enim deveniendum eft ad quamdam prseordjn^tioncni
a fupremo rerum omnium Opifice faflaip,
qua dua! fubftantije, Anfma et Corpus, propri'i quidem vi, at fcorfim, quin altera ab
altera ullo pa£lp pendeat, Tuarum
aftionum fimilem -.A. « • 8c confonjtn lenem perhcientes, invicem lint
confociatæ. et lyftema iftud harmoma ^rajlab‘f litte nomine defjgfcatur.* Vel ftatuendum cft, Animæ, et Cor|^ri perpetuo adefle. vigilem et
fatis potentem Cauffam, quse juxta
corporis flatum', fingulafque fenluum determinationes, Ani- mam fimiliter
afficiat, et conlonas iii, ea gigrtaf ‘
notionesj ac vicifim, juxta diverfum ' Anirr.as ftatum, ejufque dverlas determinationes
limilitcr modificet corjbus, et varios in eo motus cieat' et hoc syft ma adfiftentite, vel-
caUffa» rum occafionalium appellatur. Præter
hæc triai,.» nullum aliud lyftema nec
effe, nec concipi pofIc y videtur.., t. 4. 131. Tria h*c fyljcmata concinna \fimili-
t tudine, ex duobus horologiis
conlonantibus petita, illuftrari poffunt. Triplici equidem ratione fieri potefl, ut duo horologia fint inter fe
coa» lonantia: i. per influxum^ fi nempe
fecerimus, ut alterum in alterum 'agat ;
alterum alterius motiones exciret, ac
determinet, a. Si quadam præordinafione
ita lapienter eas machinas perfecerimus, ut lingulaz luas cxa 6 le leges
fequentes; et quin in fc invicem agant,
barmoniee fihi perpetuo refpondeantj Si opificem operi comitem ' vigilem, ac perpetuum 'adjiciamus, qui
lingulis momentis alterius motum unius
mgtuir^ -attemperet, et alterum ex altero dirigat ‘. Erit modo opifex harmoniæ
inter utrumque horologium intercedentis efficiens Cauffa, ipfa Vero horologia cauffa accafionaUs. n mod»
' corftrx ( ita ille )noa poffunt 'effe verg Cauffa ullius rei, Mentes
etiam' uobHijfima in eadem ’ wrfantaf'
impotentia. Nibil poffunt cognofcere ^
nifi Deus itlas^ illuminet. Nibil poffunt 'fentire / nifi Deus- illas
modificet, Nihil pofjunt velle'- ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat. . Cauffa naturales non funt vhra eauf'V fie Nibil funt \
qutyn. Cauffa occafionaies, * qua non
agunt, nifi vi, et efficacia volunii'
divina... Hinc igitur concludendum efi,
‘' homines quidem. velle ^fio ne
motionum corporis, nec non. motiones in
corpoM ex occafione volitionum, 8? affeflionum ' •Animæ, idque^conformiter legibus a /e
(latutis: ^ CaiTtras vero ideas ex
ienfuum motidnibus mi^ ^1» ime- pendentes ipfa fibi^Mans cudit meditatione,
abflEaSro&e, ratiocinio &c. ex antehabitis tfdeic a Deo impre,flis occafione motionum
cor poRecber'. de la veriti lib. fiteiem. chap, treif. fecotui.-Part, t
b,’.C *i’'‘i 8^ pdris Atqui Alii
lyftemati caulTaruni occafio» nalium
tenacius ‘adhærentes, has ipfas ideas a
Deo 'infundi perhibent oc inodi
lyftfema ; et philofopho indignum.'' Nonno
deridiculus effet'''qui interroganti eccur -Magnes trahit ferrumi' eocilr” Maris aquas pene
lenis quibufque horis '-'intumefeant,
tum alternarim ^tunfielcant, graviter
refpohdcret, id ex ea ' ' Q ' " '
• -fie .(a) '• JL' i. De divinat. fieri,
quod Deus, juxta ftatut,m fibi ipfi legem"'*, ad magnetis prælcmiam ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vjcibus
elevet, ac deprimat ex occafione deter«
minati aipecfus Lunse ? Ecquid philolophia i Illise {nuliercularum
infciiia, omnia ad iromedia^ tam Dei
virtutem referentium, pt*Haret? i^S Atqui, ir^uiunt,
infolubilis. alm eft nodus commercium
Animam inter^ 8 c corpus. QuaG nem,pe in adfiftentis^fyftetnate perdifficilis
hic nodus Iblvatur, non amputetur potius.
Jam vero, quod Anim*, et corporis
commercium fit,ph*nomenon, inexplicabile, id trguit quidem vjnoftram ignorantiam, non,vero naturalis catUiæ defe£lum. Confer ont.
jzp. - J37. Deinde fi corpo^i$ motiones
nihi^ omnino conferunt ad diverfas,
Animi perceptiones, cui ufuj dicem.us fabricata fenfuum organa ? Nem{%,:
inquiunt, iunt fenfuum organa eo
refpe£lu. nccefTari», ut ex. horum mutationibus, tanquam occafiunibus, Deus juxta generales a
fe fancitas leges }i MenS;fcili.cet et corpus,
eamdem.: operationum feriem cepiflct, ac
deinde perfe* queretur, etiam fi
fcjun£lim' altera ab altera exifteret,
vel nonnifi alterutra tantum condita
fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at
extra communes ideas ‘ 8c quod nulli luperex» fruftum rationi, mere eft hypotheticum :
Id quod et ipfe ejus Auftor, et acerrimi
propugnatores Wolphius, et Bilfingerus ingenue funt fafU.Sed expendamus utrum hominis realis naturæ,
et phænomenis conveniat. §. 140.
Principio ponitur in hoc fyftemate
Mentem in continua verfari cogitationum fcric', quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis
contineat,* id porro eft, quod hominis
realis phænomenis pugnare, et fine fuffirienti ratione pronunciatum efle, perpetua experimenta
quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*ruenfis : fumat quii in manus lexicum
aliquod lingua aticujus, catalogum
plantarum, animan* tium, aut aliarum
rerum, di^ionaria artium, fcientiarum,
bifloriarum j intra- horam percurre» re
pote/i duo millia verborum idearum inter fe
nullo modo connexarum, plantarum dlffimiliuni. animantium y artium y fa Siorum y hominum illujlrt^ um. Quis in amnibus his dixerit rationem
pofie» rioris idea aut pereeptionii
contineri in anteric» rcy et non potius
in imprejfionibus in fenfibus i aut
cerebro faSlls ? Ex. gr. lego hac verba, “i^a*
tony tAri/lides, tAriftippuSy *AverroSsy Bufiris, Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus
Cafar y Cefenates..y Centaurus^ Davidy Delphus,
Dido, Dantes, totidem.\obverfantur menti perceptiones y efl autem quis Adeo ineptus
qui di» cat y rationem Jufficientem
notionis ^ 4 rijlidis efft in
perceptione fuwmi Sacerdotis » 4,ironis, */Triflippi notionis in i^rifiidey
-^-verrois in x^ri/lip^ po &c,....
niji hac componant Leibnitiani y fciant
y neminem effe adeo incogitantem, qui hac
Jibi velit perfuadere. Sunt, inquiunt, rationes ^ uf^ fidentes, quas non pervidemus,* fci licet ita
lu» dere cum pueris potuit renatus
Pythagoras, ut jis una e(fet^.rat'Oy
ipfe dtxit e at philofophis ut nova
doSlrlna perfuadeatur, rationes faltem pro habiles reddenda junt rhefim rcfta
in iciealifmum, tum et egoifi mum
ducere. In animum quis ponat luum,
Mentem automatoA elfe ejulmodi, ut vi et na. tura fua independebter a quavis extrinfeca
cauffa in fua verfetur perceptionum fcrie, undcnam refcire poterit, fpe£labilem Mundum,
ipfum* que fuum corpus exiftere ?
Perceptionum feries, utpote ex Animi
natura manans, eadem evolveretur etiam fa£la hypothefi, qua nullus exifle* ret Mundus, nullum ^corpus, nulla alia
Mens. Equidem Animi ideæ realem libi
vindicant exiftp^tiam, funt quippe iplius Animi modificationes, quas interiori
fenfu perfentifcimus atque adeo de
ideali Mundi exifientia certi efficimur. Sed cum hæ ideæ nullatenus ab extrinfeco
pendeant, nullatenus conftarc poterit,
extra ipfam Mentem cogitantem aliquid reale exifiere. Caujfalitatis jyfiema Peripateticum
exponitur^ et exfufflatur.,. .,^^
AufTalltatis, feu phyfici influxu» V y
iyflema a.Peripatericis peflime « Sc
portentole expofitura i. duplicem Animas tribuit intelle6Ium, agentem unum,
patientem alterum ; i. duplicem pojnit idearum, feu fpecierum naturam, quas
imprejjfas dicunt, et expreffas. Hifce pofitis principiis, ita rem
expediri putant. Externa objecta ftatim
ac in corporis organa fenforia agunt, commotionem in fibris excitant, quz ad*
cerebrum illico perducitur. Hanc fibrarum cerebri commotionem ideam materialem,
et fpeciem imprejfam dicunt. Imprefla ifth*Ec fpecies ab agente intelleHu
arripitur, et fpiritualiratur, feu in ideam vere talem, et perceptibilem
convertitur, et in inteU ie$lu patiente
exprimitur, a quo propterea percipitur • et hasc vpcatur idea exprtffa •
Simili modo ungulas corporis affe£liones
Animz communicantur. Quod vero fpe£lat corporis motiones ex Animi imperio
derivantes, inquiunt, vim quamdam ‘ex
Anima in corpus manare, et eorporatig^ari, ejufque membra agere juxta determinationem
ab Anima acceptam. 145. Portentofam
opinionem expofuifle, confutafie eft :
neque enim operas pretium cft in ea
diutius immorari. Alias ergo concipiendum cft caulTalitatis fyftema. Cauffalltatts
fyjlema novo conamine expomtut, quidque
tandem fentiendum fit de *^nima, Cr
corporis commercio edocetur, 146. T
Ictt cAuflaiitatIs fyftema feffime Gj i
A a Peripateticis expofitum, Gaud tamen
ab eo recedendum videtur j fed potius
novo conamine, fi Superis placet purgatiori philofophia duce adriiti debemus. in eo, adornando.
Sane cujufque phænomeni-'fua. fufficiens
ratio effe debet. Cum ergo ratio fufficiens har* moniæ Animam inter-& corpus nequeat
aliunde derivari, quam ex altero trium
fyftemafum, feft cum coV. S cum ad hominem conftituendum natura fua
fi deftinata. ;a. ; /«mnrU in ir. Quod vero fpectat " Animam, quid pugnat aflerere, A”'™"
' effe natur*, ut affici queat actione
et tempe ratione corporis, ejulque
y.m terminari ad vi T l^cu c)us natura
fluentes a modificat, vl, et F^cu^
liari actione um ? (a) Nempe vis,
qua fubftantia mate in alteram ejufdem
natur*, agens ; receffum ( fcilicet
motum ) gignit, m ulKra fubftantiam
diverf* natur*, An virium, e qui“ if 1
r I I X.. ,^i, ' Nolim calumniam quis milii inferat ex hoc
ex>•mplo. Quorfum exempla fpe^ent, norunt quotquot equo judicant )ove, quod femelmonuifle
fufticiat. Quod ad prafens adtinet,
aperte dico, vim plantjc vegetari* vam
ex fumma virium omniurti fimplicium fubstantia*
rum, ftu elementorum, quibus planta coalefcit ) confla* ri i atque adeo yel diflblutis- planta;
elementis, vel extra Ordinem pofitis,
violenter aftis, diflbeiatis &c. v \s vegetariva deperit. Contra fe res
habet de Anima, qiiat cum fimplex fit
fubstantia j et una, viia^liva cogitandi expoliari non potest ; ad fummum in
agendo obtundi poterit, neuriquam
extingui j. fubstantiarum quippe natur* mutuis inter fe aflionibus
modificari" quidem' poCftfht*J‘at deteri lifequeunt * i • bus actiones fluunt fubflantiarum,
quibua vires, ipfa infunt, mutuæque
excipiuntur actiones. At virium
quarumvis incomperta nobis cft interior natura, et realis effentia, non fecus
ac fubflantiarum, quibus illæ inlunt. Et
quod ad præfens adtinet., fufflciat
animadvertere, i,, fubflantiarum
materialium nos 1 nihil aliud fci pe, nifi quod invicem in:> fe ij^^pt, et in
feni' fus noftros y atque hinc varia^
Meati percipien». ti phænomena
occurrere.^ 2. fimilit^ Jiumanæ Meritis
nihil aliud no« fcire, nifi qnod.firnf*
plex fit fubftantia, fentiens, attentjcns, fibi confeia &c. Cum igitur intimam realem
effentiam ignoremus utriufijue generis fttbiftaqtiariHmyi. nec, non realem *:naturam virium ;iis
ipfitprwinlU*'' hint profecto fierlt
neqyit *, quia inexj^caubilCf fjt phænomenon
commdrcium Animam inter et corpus,
ejufque plendi foli^tio etttra hutnai
nas ideas vagetur, ' , C^uo cpgo, inquies, philofophorun\ fpectant theoriæ, et fyftemata ? Nempe
huma-.* næ cognitiones jeapfe circa phænomena
verfan-' tur, non circa phæriomenorum
caufiTas. Cum* enim phænomena vel
quamdam inter ie habeant analogiam, vel
qiKemdara nexum, tum alia fint aliorum
modificatioæs* ; in eo totius- philofoi
pbiæ fumma verfatur, ut phænomena peculia». rifl;.per
pauca* quædam generalia, $c lingulis nota,'
ex-po.oaraus, vel per eis fimilia, quæ, magi^ patent. Analyfis,ope Philofophi ex
peculipri^ bus phacnomeYiis generalia*,:
quorum illa lunt, niodificationes ;;
colligunt : tum inverfa metho»i do, quam
fynthefim appellant, h?ec genepalifj phjEnomena pro principiis ponunt, 8 c in
com. binationes, quas fubire pofTunt,
inquirunt • atque hac methodo ratjonem adfignant peculiarium quorumvis
phasnomenprum, qua; per illas
combinationes poflibilia funt. Theoriæ itaque, fyftcniata, explicationes philofophorum
&c. peculiaria refpiciunt phænomena ad certam claffem fpeflantia, quatenus
ex primitivis, et generalibus phxnomenis derivari poffunt. Jam vero cuna quæritur,
quomodo Anima in corpus, et viciffim
corpus in Aninaam agit, patet, primitivi et generalis phænomeni rationem quæri,
(icuti in phyficis fi quærerem, quomodo Planetæ in Solem, et Sol viciflim in
planetas agit ; qui vegetantia, et animali^ feipia reproducant, et illa
exhibeant phænomena, quaj cujufque funt propria &c. Cum ergo r. virium interior natura lateat * 1.
nec generaliora, et magis fimplicia
nobis pateant ejus generis phznomena,
quorum reciproca Mentis, et corporis harmonia fit modificatio, nullam adæquatam,
vel fufficientem illjus explicationem adfignare poterunt Metaphyfici. Quam ergo
hac de re lupra expofuimus opinionem, et explicationem, mancam effe, et tenebris
circumfeptam, ultro fatemur* fed ab ea haud recedendum putamus, neque ultra follicitos nos effe
debere. 153. A£\ionem Animæ in corpus
negant aliqui eo permoti argumento, quod
ipHs ignota fit fibrarum cerebri textura,
tum nervorum, et mufculorum per corpus
dimanantium jorigo, quorum fcilicet ope
finguls motiones cieri debent. At id nihil vetat, quominus Animam ex imperio
(uum ciere corpus dicamus j quam enim
ii£lioncm in corpus exercere Anima de*
beat, et in quam cerebri partem, experientia edocetur, quin corpofis et cerebri texturam
calleat. Sane videndus, pueros manus, pedelque &c. diu inordinate geftare, ad objefta parum,
aut nihil dirigere Icicntcs, demum
fuoram organorum ulum longa experientia edifeere. Concipe ab. ingeniafo qmdam
tArtifice fontem quemdam ad artis
mechanica, et hydraulica amufjim ita
conJlruSum effe, ut quqmprjmum, ajfercuti, per quos aditus demum ad fontem datur,
incedenti* um grejfu deprimuntur,
occulto mechanifmo variarum rotarum y funiumque ope jub affer ibus a b-^ f condit orum, alia atqua aha mirifica f
pectes, e fonte conjejltm profiliant y
quales v. g. fontes Kirc herus, Sebottus, alii que dejeribunt. Concipe Jam tibi y puerulo ad hocce Jptbiaculum edmifjo.y
cum hac adeurrit, "Neptunum cum
tridente minaci obviam fieri y dum illæ, Nereides,* ex alia parte Glaucum marinum y alibi vero Delphinos ^ 0“
fic porro. Puer ifle mechanifmi
abfeonditi ignarus, nec ad omnia praf
entia attentus y non obfervabity fe
revera asione fua producere bofce effe&uSy obfervabit tamen, ft adverfus
eam partem procefferit y jemper fibi hoc potius, quam, aliud obviam fieri
obJeCium : poterit igitur Jam pro lubitu
hec phtrnomena moderari, ac fi v. g. Neptuni, ac Jceptri e/ufdem tricipitis contemplatione
deleBetur y tff ere y ut prodeat y fi Jcilicet verfus certam plagam adeurrat.
Nemo dubitaverity puerum horum motuum
cauffam effe, ac aflione fua phre^
namena producere. Ve idearum,
mfionumque nafura, afque origine. 154. TNquifitio, quam modo adgredimur, J. idearum notionumque naturam, atr. que originem expenfuri, adeo eft cum præce-’ denti, qu* commercium Animam inter, et corpus
ifpe^abat, copulata, ut altera ab altera fejungi nullo modo poffit / et qui in
una erra* veri t, in altera per devia
pergat, oportet. Multiplices,'dilcrepantefque hac de re philofophorum
fententia; nequeunt veritatis confecutionem
difficiliorem, et abftrufiorem, quam reveræft, non reddere Quare hifcc modo pofthabitis, tres animadverfienes, quæ ad veritatem capeffendam
fternunt viam, in anteceffiim exhibebo, tum rem ipfam expediemus; tandem
prasx cipuas aliorum fententias fummatim
exponemus, ^ breviter perftringemus,, \.
». i ‘
t/^nimadver/tones • prallmtnares ad idearum, ' notionumque natufam^ atque originem. ^ i'A •' expifeandam, ‘ 155^^ A J^trnadverfro I. Nihil Mens per’
" ‘jfjL cipere potaft nifi in feipfa. Id
equidem loco axioraatj^ haberi poteft; five enim perceptiones pro aflionibus, live pro.paffioni» j- J bus Mentis haberi vcJint, funt profe£lo
) piius Mentis modificationes, et immanentes,
non^effluentes. Nequit ergo Mens quidpiara percipere nifi in feipfa. • ' X
’ 155. % 4 mmad. IL Cum dicimus;
Menteirt objefta externa percipere,
ifthzc reapfe non* percipit. Si enim ita,
cum nihil Mens pfercipere poflit nili in feipfa, vel Objecta, quæ dicuntur externa, in Mente *formalitcr
contineantur oportet, vel ipfa Mens perceptis Objcftia intime fiat prasfens. Ambo hsc pugnant. ergo dicimus, Mentem externa obje 6 la
pt^eiperc, reapfe oon percipit ipfa objcfta.
§.rea' extra pofitas perci-^^
pere'. Nam i. Si ita: ubinam has rdeas, fcu imagines refidere' dicemus in Anima ne
vel in cefibro Haud quidem in cerebro;
nOi ^ * R quit l T>
ai A( quit quippe Mens quidquam percipere, nifi.iii fcipfa i’55 ; a. quævis rei -imago nihil eft
aliud ^ nifi talis partium ^ difpofitio, ordo, figura, magnitudo &c., quæ fimilis fjt rei,.cujus
eft imago. Si porro idtæ forent imagines
rerum cerebro expictæ', minimæ cerebri,?
fibrillæ tali ordine,>figura tu,
colore &c. componi deberent, ut fimulacrutn rei Menti exhibere ppl^, fent. Sed nihil præter motum in, cerebri
fibris adeftjcum Menti adfunt ideæ.Neqoeunt*
igitur ideas efle rerum imagines cerebro
expictæ.. Ad hæc g... qui Mens expictas
cerebro imagines- iotuc'* retur, ipfum
vero cerebrum nullo, modo? qua» fi,,
nempe pofTit quifpiam pictas in tela figuras
videre,. nec videre telanv ipfam, quæ eft figor»* rum fubjectum, ' Sed neque poffunt, ideæ
efle. imagines Men* ti percipienti
vinJi*ryites v Eft. «nim Mens fim pkx.fubftantia, icuinpfoinde addo pugnat. in
faa(H| rere^imagines
exfitbente6,aoagn»tudi«em, fig«9 wm,
'colorem ^ partiup ordindfn 8cc.^,. ac pu»
gnat puncto gefwnetrico triat^lum, polygonum ^.&c. infcribi 4..Deinde
rerum ideæ, cum Menti primo occurrunt,
vel ; perpetuo eidem permanentes inhærent
vel femel, perceptæ poft* hac pereunt,
evanefcunt. Si primum Mens ' perennes,
ac indeficientes habi^it...pesceptio*
nes rerum olim perceptarum ; Qut -^aim.. fieri poteft, ut pictas, fibique adhærentes-, 8e
immanentes ideas non -advertat? >Si altecuBL, cum- n*i queat Mehs-objecta- percipere nifi in ideis -
hiic« cvanefcentibus, non poterit Mens
ad eatumdem m nun modo abfcntium
contemplatiojMlblvdire^ntfi iiu r». js.ite« Malebranchius omnem agendi vim Entibus creatis denegans, Mentibus etiam' ademit
facultatem fibi cudendi' ideas. Hoc autem potiflimum argumento
rem conficere fibi fuafit. R 4
Ide» («) Sed hac difficultas ipfum
premit A uflorem ideas a perceptionibus
fecernentem. Quis enim ignoti objefU
expreflam imaginem intuens, objeftum illud in imagine recqgnofcere potest? Non magis profeCTio
poterit Mens in idea feu imagine ipfi
oblata objeilum, quod ignorat,
recognofcere et perpetuo ignorabit cujus fit obj'efti iniago illa, qua
ipfi obverfatur ^ nifi aliunde, feu extrinfe*
cus moneatur. to+ Idea: :unt
ver* realitato: imrao funt realiti-' tes
ipfis corporibus nobiliores, quippe fpirituaJes. Harum itaque produaio nihii
diftat a creatione Nequit vero Entibus creatis facultas ereandi ullo paao
convenire. Nec iaitur humana’ p >*as
libi cudendi. V Equidem Ide* funt ver*
realitates. at Wa/es ut inquiunt
Pbiloiophi, non Mfiam. ah, : feu non funt totidem fubftan- ' •’.P" j', lid totidem Mentis coptantis affeaiones,, feu modificationes,
cu julmodi funt volmones, et nolitiones. CunC
Itaque communi Phdofophorum fenfu creatio fit fubfiamiaimm ptodua.o ea nihilo: idearum
pro. duaio toto calo dillabit a creatione, et „ihil vetabt.eam. Anima; tanquam effearici
caufTa;, adjudicare. Re quidem vera, ide*
refpcau Meo. tis perinde fe habent ac
volitiones, nolitionef. que r utr*que
enim funt >/us, modificationes. Si
Idearum Produaiva facultas Animæ repugnat, que pugnabit ipfam Cbi ede iuarum
volitiol num efreancera caudam, eritque.Mens
crudus, putufque later. Quod fi
volitiones merito Ani' Z’ 31 “"' f
‘"‘>“'"d* veni, unt nihil
profeao vetare poteft, qui„ eidem
adjudicemus facultatem fibi ipfi cudendi ideas. Quadam Pbtlofopborum placita, qttof
idearum I JpeBant originem fy breviter
exponuntur. \6j. idearum origine
communior xn« I ^ fer Peripateticos
Tententia fuit, Nihil effe in intelleBu,
quod ^ius non fuerit in fenfu : omnes
nempe ideas primam petere ori», ginem ex
fenfuum minifterio. Atqui fententiam
iftam per duplicem intelleftum agentem y ^patientem exponebant. ; qu*
quidem hypothefis purum eft, putumque figmentum a communi abhorrens ritione. Malebranchius de idearum origine fingularem prorfus fententiam coluit. Hic
fuo inh*rcns fydemati, etiam nobiliffmas,in ea ' verfari impotentia, ut nequeant effe
vera cauffa ullius rei, commentus eft,
nihil eas c»m gnofcere poffe y ni fi
Deus illas illuminet 133. Nempe ut alibi
{a) clarius.* Sciendum eft, Deum
mentibus neftris prafentla Jua arhlijpme uniri » adeo, ut Deus dici poffit locus fpirituum y
quem» admodum fpatium eft locus corporum.
Mens itaque in Deo poteft videre opera Dei y dummodo Deus velit ipfi retegere id^ quod in fe habet, quod illa reprafentat opera y nempe ideas,
quas in fe habet. i6p.
Atqui Humanam Mentem omnia in Deo
videre, adeo communi fenfui occurrit, ut
ne - *..4 •' dU . R^her. de la verit. l. Jt p, z, ch. 6
4 nemo Sapicntum fententiam iftam adunco
nor exceperit nafo : nec fine ratione,
etfi injuriofe. de eo d:clum fuerit,
Ipje, qui omnia in Dec cernit y haud
videt fe injanire '{a). Quifque-^intciligit, fententiam iftam, præter cætera,
quid* piam ftatuere, quod cum Dei
bonitate et fapientia minime congruere potefl: *' tum rcfta ad pantheifmum ducere. 170. Plures e Cartefianorum familia triplex
idearum genus (latuerunt:, qua*
'nimirum Menti occurrunt ex occafione motionum in organis fenforiis
excitarum ab externis '^objectis; quas
nempe Mens fibi cudit cx adventitiis
ideis • tandem innatas, quas fcilicet, neque fcnluum fubfidio, neque reflexione
partas, rentur : fed a Deo Mentibus noftris
ab ipfo exordio veluti infculptas, ac perpetuo immanentes arbitrantur. 17 1. Sed innatas, quas dicunt, ideas, commentitias
prorfus e(fe, binis verbis oftendi poteft. Vel enim has ideas idem funt ac
perceptiones, vel forms et imagines a perceptionibus realiter diftinctas. Si* primum, inerunt Menti tot perennes, et fimultaneæ perceptiones,
quot funt ideas innatas j quod profecto
interiori experientias refragatur. Si alterum, contra faciunt, praster alia,
quas §. 158. monuimus. Deinde nulla cft fufficiens ratio, eccur præter adventitias,
et factitias ideas, alias, quas fint innatas, agnolcamus' cum conflet, nullam
omnino (a) Lui, qui voit teut ^en
DitUy nt^voit paSf\qu* il eji foH.. ’
J no ideam Menti inefle, cujus exordia c
fenlitiva, et reflexiva facultate nequeant quam facile repeti. Vide, fi lubet, fufe hæc
pertractantem Lockiinn. Efjftff philof. cone- l'
entend, htm. Q A p. X. Ve Animæ bumanæ origine. L ket humanæ Mentis
natura, feu potius genus, philofophia
duce. li quido confiet, ejus tamen origo
adeo tenebris cft circumfepta, ut
potius, quid fentiendum non Iit, qu»m
quod tenere debeamus, intelligere detur
* V. ^ ‘ E veteribus Pythagoras docuit,
Deum cGo •Animum per naturam rerum omnem
inten~ commeantem,. ex q»o mflri animi
car tum perentur (4). Huic turpiflkno.errori adhæfiife videntur Stoicorum aliqui, ut ex Seneca, et Epicteto difeimus/ eqmque jam obsoletum
itenun exfufeitavit Spinoza. Hujufce
fententiæ abfurditas.tam clare patet, ut illam refutare nec.operæ pretium duco,., 174. Plato,. qui inter veteres cateris
rc. ctius de Deo philofophatus efi,
Animas a Deo conditas docuit, licet eas
quafi partes Animat' Mundi totius
habuerit Id vero Pythagoreis, et Platonicis
commune erat, humanas Animas primum
aftra incoluiffe, et felicem ibi yitam
du- Tullius lib, I. ile nat. d«or. c. ii. tduxifle: hinc vero expulfas,
et in humana corpora tanquatn in carceres, detrufas, quo commiffi criminis
pznas lucrent: tum ad adra iterum redituras poft corporum diffolutionem,
fi mortalem hanc vitam jufte, et fobrie
duxerint, vel in deteriora corpora
migraturas, fi novis criminibus fe
obruerint. Hinc celebris apud ifios
Philofophos Metemp^ycbo/is. Atqui Stoicis
nec Animarum incolatus in aftris, neque earum de corpore in corpus
migrationes arridebant ' fed illas pofl: terreni corporis fata ad Eteum, e ‘
quo' dificerptæ erant, iterum redituras
afferebant» ^ 175.i^Orlgene^
nimio e.^ga platonicam philofophiam ametrtr’ abreptus Pythagoræ Plato, nis fententiam emendare ftuduit. Docuit
itaque, Ani mas' nec Dei emanationes
effe, nec partes ab Anima Mundi avulfas,
fed a Deo ante corporeum Mundum’ oijines fimul conditas fuiffe cum intelligibili Mundo • has vero peccaffe a
CxmJitort feceiendo'. hinc pro diverfitate peccatorum a Cteiis' ufqne ad terras diverfa corpora, qua
fi vincula, meruijfe. Et hunc ejfe mundum eamque
cauffam Mundi fuiffe faciendi^ non. ut conderentur bona., fed ut mala
cohiberentur. Sed hacc deliria funt, quæ
nec refutari merentur. Leibnitius, Animarum præxiftentiæ et ipfe favens, aliter rem explicavit.
Putavit nempe, Deum ab ipfo rerum initio
omne$ Animas creaffe, ac fingulas totidem organicis corDivus Augujt. Lib. XI.
De ejvitat. Dei cap.sj* ’ lop pufculis inferuiffe. Hzc iUnt germina humana, quJB juxta involutorum hypothefim, olim
in JEv» ovario pofita, e Matribus in
filias tradu- cuntur. Sententiam hanc Wolfius ambabus ulnis amplexatus eft.•
tum Cl. Carolus Boanct fuam fecit. Atqui licet primo adipectu, quo ab hifce Auftoribus commendatur, haud philofopho
indigna videatur, fedulo tamen pcrpcnfa, et fuas patitur difficultates. v Tertullianus, et Apollinaris putarunt, humanas AninTas e parentibus in filios per
traducem propagari; hoc eft Animam >h ilii partem efle Animaj parris,' quæ
'filii corpufculo in matris utero
delitelcenti communicatur, et /incffabilirer conjungitur. Sed ifthæc fententia
cum Animæ natura, quæ fimplex omnino eft,
et cujuivis phyficæ coagmentationis
nefeia, nullo modo conciliari poteft. Communis
tandem fententia, et profefto fanior,
eft, Animas humanas in dies a Deo creari, et cum tenera fetus corpufculo
copulari, cum iftud fufficientem partium
evolutionem, et organizationem obtinet,
qua par fit ‘ad præcipuas vitales operationes obeundas*.-i ! f ’ ‘i. Pa/igini/ff
philofo^h. Annihilatio creationi, et confervationPe diarrietro opponitur. Illa erqoCaufia folum. potest
aliquod Eas annihilare, quæ illud creavit, et perenni a^ioce confervat. Sed
hujufmodi est tantum Deus: omnes ' tlniveiii
Cauffie funt contingentes, quæ nec fuæ existenttæ, et confervationis fufficientem in'fe habent
rationem. Facultas igitur. quidpiam annihilandi nequit ulli, naturafiuna cauffarum convenire. (c) Lib, L tufe, f. jp. ' •dubitare non possumus,
nl/i pla*tf plumbei fumus, quin nibil
fit %dnhnls adrnix» ^^ tum, ntbil
concretwn, nihil copulatum, nihil
ngmentatum ^ nihil duplex quod cum ita, fit y qette nec jecerni, nec dividi, nec difcerpi^
nec diflrahi pote/i, nec, interire
igitur. EJI enim in» iefitus qua fi
difcejfus,, &, fecretio, ac diremptui^
earum partium, qua ante interitum jun^ione 'gl poribus funt interfipta quod.rnimfdo : cum
autem nihU erit prteter v/Ltimum, nulla
res objeBa im^ pediet y quo minus
percipiat quale quidquam fit. Ita
eleganter Tullius tulc. 1. i. c. zo. {a)
l et R T. ir. Mentem humanam ex fui Conditoris
voluntate infpeBam immortalem effe,
naturali ^ ratione affevitur, 1S8. T TUmanam Mentem natura fua in* J. X corruptibilem atque immortalem clTe, neque ullis^ naturalibus cauffis fieri
pofle ut pereat f jam evicimus. Hzc
ratio ingenue philofophanti fatis foret^
quominus de fuprerni Conditoris
voluntate, illam immortalem fervandi f non ambigeret: nullum enim 'in uni verTa
Natura occurrit annihilationis exemplum j
nec quidpiam efl, quod^a fummo Conditore S z non
(a) Plures eit antiquioribus Phiiofophis, et ex ipfis Ecclefia; Patribus, quibus incorporalitatis,
et iinmoitalitatis Animorunj dogma probatum erat, opinaii funt, humanas Mentes nunquam omni corpore
vacare:* ut adeo, cum ex ifthoc cra^o,
et corruptibili corpore diflolvuntur,
adhuc leviflfimum, ac tenuitTimuin, live
æthereum, et incorruptibile corpus geftent, eoque lint perpetuo amidse. Sententiam hanc inter Recentiores
litam fecit CI. Vir Carolus Bonnet, et communivit noti contemnendis rationibus ; quam, cum In
pluribus locis, tum pr^fertim parte XVI. paligenifie philof. et.-. pofuit. Si quis in hanc fentenriam defeendere
velit, ^ Adveriariis morem geret, et «na
fjmul objeilain didir «ultatem elevabit.
itS non fervetur juxta propriam naturam,
et ad fuos non dirigatur fines. Atqui
profani homines, eam non latis effe, contendunt, nec non dolofe effutiunt, Animæ immortalitatem problema efle,
qjuod nequeat fola philofophia extricare: ad
Divinam revelationem idcirco confugiendum neceffario effe, ut conflare
queat, Deum pod corporis obitum nolle humanam Mentem delere, fed,''velle in æternum fervare. iSp. Ut iflorum levitatem perflringamus, animadvertant Tyrones, quod quandoque
etiam abfque revelationis face, fed Ibla
naturali ratione Divina Voluntas nobis conflare potefl. Etenim ficut naturali
ratione plura nobis patent Divina
attributa, ita conflat quoque, non pofTe
Divinam Voluntatem ab illis attributis vel minimum defcilcere, fed iis
plane conformem perpetuo '•effe debere.
Si adeo quidpiam Divinis attributis
repugnare clare nofeimus, tuto poffumus decernere, Deum nunquam id velle : et e contrario perpetuo velle ea, fine quibus farta
tc6la conliftere eadem attributa non poffunt.
Hujufmodi porro cfl
immortalitas Animorum, quos fi pofl
corporum diflolutionem Divina Voluntas deleret, nequiret Dei Sapientia,
Bonitas, Juflitia, ac Providentia farta
te61a permanere. Rem expendamus. ^ 1^. ipo- I. Naturali ratione pleniflime
nofejqaus, potiffimam Sapientiæ legem eam effe, ut fingulorum Entium Naturæ fuis exa£le attemperentur
finibus, ut ita nec a præflituto fine, deficiant,- nec ultra redundent, vel
extra vageUtur V Quare ficuti ex noto fine, de Entium na
Diuiii4tj $4 1 ^ 2. ' fuprerai Numinis revelationem. Audi ut h«c
eleganter profequitur Romanus Philosbphus
tufc. qq. c. Maximum argumentum ejl, naturam iffam de immortalifate Animorum
tacitam judicare » quod omnibus curttf
funt y maxime ^quidem y qua poft mortem f utura Jint: ferit arbores, qua alteri Jeculo projit, ut
ajt St^tiut in Synephebis: quid fpetlans,
nifi etiam poflera fecula ad fe
pertinere ? Ergo arbores feret diligens agricola y quarum adfpiciet baccam ipje nunquam : Vir
magnu» seges y injiuuta, rempublicam non
feret i Quid propagatio nominis l Quid adoptiones filiorum f Quid teJlamentorum
diligentia l Q*dd ipfa f^ultrorum monumenta f Quid elogia figritficant, nifi
nos futura etiam cogitarel.-- Quid in
hac republica toty tantof que viros ob
rempublicam interfeSos cogitaffe arbitramur f iifdenx ne ut finibus nomen fuum, quibus vita
terminaretur f Ne/no unquam fine magna
fpe immortalitatis fe pro patria offerret ad mortem: licuit ejfe otiofo
Themiftocli \ 'Jicuit Epaminonda y
licuit, vetera y Cb* externa •moram,
mihi ; fed nefeio quomodo inharet in trpinti%us quqfi feculorttm quoddam
augurium futurorum; idque in, maximis ingeniis, dltijfmifque animis ^ exiJiit
maxime, iy adparet facillime ; quo quidem demj)to y quis tam ejfet amens y qui
femper in laboribuSy iir periculis
viveret' \ loquor de pfinctf ibus : quid poeto t nonne poji mortem nobilitari volunt t Unde
ergo illudf " Afpicite 0 cives !
Senis Ennii imagini’ formam; Hic
ve*»rum panxit maxima fafta parnm). Mercedem gloria fiagttat ab iis, quorum patres
^ff)' terat gloria -, idemquey -• Nemo
ire lacrimis decoret, nec funera fletu
> Faxit : Cur? Volito vivu’ per ora virum. Sed quid poetas l Opifices pofl mortem
nobilitari vaiunt quid emm fhidias fui fimUetn fpeciem inculfit ‘ • • >,.
'in-. '
ip2. IV. Ad Divinam Ipcflat JufHtiatn'^
atque Providentiam hominum virtutes muneribus ac prsEmiis ex merito
cumuIafC : ficut c contrario condignis'
poenis '“eorum fl gitia corripere. Eft enim duplex in Univerlo OrAn: phy~ ficus nempe, ac ^moralis 8c ad utrumque Homines
procul dubio,, fpt£Iant Si quis hæc in
"Controverfiam adducit, peflime fe de Deo.fendre^oflendit, quafi
hic cardinem c*li ambulet, A n.oftra non
confideret: et \r\'*athe'tfmum fivO
IJrolapfum elTe, five jam jam prolabi. Sed experientia Pedante, Kominum
virtutes, ac flagitia admodum raro condigna pr^mia ac p»na« copfequuhtur : ut adeo vetus Iit iquærela',
latos idiu florere nocentes, vexarique
pios. Divina ergo Juftitia ac Providentia utique expoftulant * poft torporum obitum Mentes adhuc • lervari
ia .vilam, ina qua bene vel' male TaSIorum præmin /ecipiant, poenafve luant. Hajc cum
naturali conflent ratione, concludere
non dubitamus., 'plurali quoque"
ratione conflare fu mmi Condi‘lofrs voluhtatem de ‘humana Mcnte in æternum servanda.
' / *in ! "-. l '• J 'i' i . ' ! 3.
' ".au ' :v. ( I»»» ^. 1.. III i mu iii m ^jWii I. Tufe.
qq. I. I.. f. X6, '., \ib) ^, fr) Jn fomn. Scip. /. I. e, X4, > •., (,d) "XmIUhs Iw. cit, f. 12,, 1, w P */f R S ilu ^.R T ^ y’ Ei
‘ nomine inteJligimus Men» 'n 4 tcm
naturæ fuæ nrceffitate ex i flentem, atque adeo aster aW,®>S af^isiiaSce AK -omni materiali coneretione fejunfbm,
perfe^iffimam, effectricem et liberam
Univerfi Cauffam, ' et omnia providentem.
Equidem Dei notio fu^ conceptu primas Cauffas efficientis Mentibus noflris
primum occurrit,* banc poflmodum rectæ
rationis ope rimantes prolatamus, et attributis,
quæ omnimodam continent perfectionem, locupletamus. Atqui tantum abcfl, nos adæquatam
adfequi poffe pei notionem, eamqu.e
verbis exponere, quantum finitum inter,
et infinitum intercedit. Quf verbis
complectemur-; quem natura iua et effentia undequaque infinitum nulla creata
Mens comprehendere valet Hinc, ingenue
fatendum, aul%*’^ nulla definitione Dei naturam contineri
pofle. (a) 3. Facultas, quæ Dei
exiftentiam, ejus«. que attributa
rimetur, Theologia audit, quæ in
naturalem^ et difpdcitur. Prima de
Deo differit quantum naturali ratione adfequi poffumus. Secunda revelationis' face
myfteria pandit, quæ ultra naturalem
rationem lunt pdfita. Priorem heic perfequemur, quippe quæ fola ad Philofophos Ipectat, 4. Nobiliflimam vero, ac jucundiffimam hanc efle totius Mctaphyfices partem,
nulftr* ambigere poterit. Quid enim
pracftantius, quid- ‘ >e jucundius,
quam rerum omnium Opificem, præfentiflimum
totius Univerfi Moderatorem, ac noftri
præferrim Parentem optimtim contemplari? Si quod ex cæteris difciplinis
folatium, atquC' in adverbs perfugium,
in fecundis rebus animi moderamen, et ornamentum capere poffumus.'inhatc
profecto cynnia ex eapotiflimum uber-
/ (a) Merito Thales Milefius, ut
Tertullianus refert, a Crefo qua:fifus,
quidvefTet Deus, post multas et multo, studio perquifitas refponfiones, faffus
est tandem, fe nihil adeurare, quod ad
rem quadrarer, dixifTe. Idem de Simonide testatur Tullius de
nat. Deor. 1. zi.' Roges me, quid, aut
quale fit Deus ? AuBore utar Simonide : de quo cum qu/efivijfet tyrannus Hiero,
deliberandi cauffa fibi unum diem pojiu/avit. Cum idem ex eo poflridie quareret, biduum petivit. Cum
fapius duplicaret numerum dierum, admiranfque Hiero requireret, f«r ita faceret
: Quod quanto^ inquit^ d’utius confidero, tanto mihi res videtur obfcurior.
Hinc perfpecte monuit divus Augustinus, nihil, quod de Deo accuratius prsdlcemos, nobis occurrere poITe,
aiC quod U^oiopt^CniibUis fit. naturalis uberrime confequi poifumus, qu* omnium
Lan. gitorem bonorum, rerum omnium
[nfpectorem, et Proviforem optimum pandit, et in ^uo
nos efle, vivere, et moveri edocet. Tum
nihil ea utilius in univerfa vita civili.*
nequeunt enim ! fine legibus, et religione
in officio cives contineri n arbitror^ inquit, multas ejje gentes fic immanitate
efferatas, ut apud eas nulla fufpicio
deorum fit Cic. de nat. deor. c, 2 ^. Arbitrari fc, non noviffe, aut fando faltem
inteUexiff?, repoluit. Nullas proptcrea
tunc temporis innotuiflfc Gentes fine. Divinitatis perluafione, tacite fatetur. II. Lucianus, acerrimus equidem Divinitatis,
et cujufvis religionis ofor, in dialogo, cui titulus Juppiter tragadus difputantem
inducit Timoclem religionis cauflTam, et afferentem Gentium omnium hac
de re confenHira; at quid Timodi reponit
pamides, fub cujus nimirum nomine
Lucianus 'latet ? Conftahtiffimam, percnnemque gentium confeufionem fibi objectam ne carpit quidem ; ejus tantum
vim ad demonftrandum, et perfuadendum
elevare conatur adductis futilibus omnino excogitatis, qua mox exfufflabimus. Si quas Gentes exleges,
et a religione extorres Lucianus noviffet,
aut fando audiviffet, nura ne fcirpum in ovo firaulaffet? illas profecto objeciffet, cum
nihil hoc opportunius ad extenuandum
Timoclis argumentum afferri potuiffet. Atqui in diverfa abit Lucianus * dat ergo quod afflv.Tamus, nullum unquam hominum genus Divinitatis notitia
caruiffe. Adeo nimirum Eruditis quibusque innotuit, quod Piutarchus
clegantiflime contra Colotem difputabat:
Si univerjam peragraveris terram invenire quidem poteris urbes sim moenibus, sine litteris^ sine regibus,
abfque teSio divitiis, abfque nummis,
theatris, gymnasiis. urbem sine templis, ^ sine Diis, ^quie precibus, jurejurando careat. nemo Videt, nec vidit unquam. Quantum vero ponderis ad demon» ftrandum, et perfuadendura univerfali
Gentium omnium confenfui tribuendum fit,
in Logica aperuimus. Rc quidem vera, ea cfl hominum indoles, 8 c ingeniofum
conftitutio, ut, fi de re vel minimum
obicura, dubiaque judicium ferre de,
beant, tot fere numerentur fententisE, quot capita : id quod totius
humani generis, fed et præcipue
philofophantium hiftoria edocet. Si
itaque quandoque omnes Gentes quacumque tellus patet, omnefque Seftas',
licet in cæteris admodum difcrepantes, convenientes omnes ad unam deprehendimus ; id, in quo conveniunt, vel communis naturæ lenium, yel naturalis rationis
evidentiffimum præceptum, habere debemus. Eft vero omnium ubique Gentium univerfalis
et perennis fententia, aliquem effe rerum omnium Opificem, et Rtftorem.
Deum ergo exiftere, inter prima humanæ
rationis fcita, vel potius ad communem naturæ fenfum referri debet. Ad rem noftram elegantiflime
Balbus apud Tullium. Quid enim ejl hoc
evidentius ? Quod niji cognitum, comprehenfumque animis haberemus,, »0» tam
flabilis opt“ nio permaneret f nec
confirmaretur diuturnitate temporis, nec
una cum jaculis, atatibufque hominum inveterare potuiffet. Etenim videmus cteteras
opiniones fi^as atque vanas diutuVnitatp
extabuiffe. Opinionum enim commenta delet dies, natura judicia confirmat \ 12. Neque fcrupulum faceffat Tyronibus, j. quod quandoque penes hiftoricos
athearum Gentium meotio occurrat. II.
quod infignes ex t Ve 'i:^o Veteribus Phllofophi inter Atheos
reccnfeantur ; Uti ex. gr Anaxagoras,
Diagoras, Protagoras Anaximander
&c., quæ fi vera lunt, haud conflare videtur univcrlalis humani Generis
confen» liis de Supremi aircujus Numinis
exiftentia. Hæc equidem nulJius funt
momenti -I. Hiftorici etenim grajci, et lati ni, dum Africanas, aut Afianas qualdam Nationes inviferent,
nec templa, idola, immenlumque
externarum ca:rcmoniarum apparatum habere animadverterent, Velut quæ antiquo more fub dio, et fine
ulla pompa Deo facrificarent,
quemaamodum de veTuftis Parthis retulit Herodotus, in eam venerunt fufpicionem,
nullos ab iis Deos coli. Quid quod iidem
Hiftorici idem fecerunt cum Judæis, et Chriflianis ? Accedit eodem,
veteres mercatores, aliofque
itineratores aut infeies morum earum Gentium de quibus feribunt, aut non fatis peritos, ut pretium fuis mercibus, fuifque itinerariis adderent, atheilmi, et irreligionis
infamia illas prafpropere notafle ; qu*
deinde portentolse fabellæ novitatis amore, ut fit, creditæ funt Hujufce rei exemplum temporibus
prope noftris de Huttentottis habemus.
Hi primum pro Atheis in Europa vulgati funt, et habiti.* at fummum illos agnofeere
Deum, reflatur Andreas Kolbi in hiftoria
ejus nationis, quacum decem annis
familiariter uius eft. Philolbphi veteres, qui inter atheos reputati funt Confulatur Johannes Albertus Fabricius
in ApoJogia Generis humani adverfus accufationem atheifnu THEOLOGIA i?i funt, nonnifi fumma injuria hanc pafli funt
infamiam. Conftat, Anaxagoram atheum e ffe habitum, quod Solem e Deorum numero
expunxerit, et ignitum habuerit faxum. Conftat,
Socratem de Divinitatis natura prx cacteris bene fentientem, (limma invidia, et lethali calumnia
atheifmi accufatum, cicutani bibifle. Protagoras i inquit Tullius 1: i. de nat. deor. c, xq. cum in principio fui Irbri sic pofuiffet.
De diis neque ut sint\ neque ut non
sint, habeo di^ tere, ^Atheniensium
juffu urbe et ‘ttgro eft exterminatus y librique ejus in concione combufti, quippe— atheus reputatus eft. Atqui, ut patet, Protagoras de diis, qui a plebe venerabantur vulgo
autem Philofophis, qui præjudicatis opinionibus haud tenebantur, dcfpectui
erant, lo» 'qjyitur; non de Divinitate,
leu de Deo fummo rerum Opifice. Idem de aliis dicas.♦ folum Epicurus inter
atheos recenfendus videtur, etfi de
Epicureis nihil certo conftet, quippe Tullius 1. cit. c. qo ija habet, novi ego Epicureos
omnia stgiUa venerantes. Jam vero
quilibet, cui coit fapit, optime
intelligit, hujufce gregis opinionem, etfi indubie Divinitati aveidam
fuifle jjonamus, nihil communem
perennemque humani Generis fententiam labefactare pofte. Sicuti enim in M-tindo phyfico peculiaria quædani
monfira quandoque occurrunt, qua; nihil de ordine totius detrahunt: ita fimiliter in Mundo morali
fieri poteft. Igitur inter opinionum monftra, febrientium deliramenta ifthxc
Epicureorum fententia reponenda eft^, quæ nihil de communi humani Generis fenfu detrahere
poteft. Allati fuperius ^ 10 argumenti vim
non fugit profanos homines* hinc omnes intendunt nervos ed earh
elevandam. Quare operæ pretium eft, quæ objiciunt potiora, referre, et explodere Inquiunt itaque I. Si ex Gentium confenfu aliquid
confici poffet, equidem potius
conficeretur, polytheifmum efle
profitendum : nam huic coeno omnes infixas
fuerunt • Atqui nihil magis Dei naturam, quam polytheifmus, evertit. Quare.neque Dei exifientia
ex Gentjum confenfu adftrui poteft. Deinde quot quantæque et Gentium, et Philofophorum
diferepantes de Divinitate opiniones ?
deos ejfe dixerunt, inquit Tullius, tanta funt in varietate y ac diffentione ut
torum “teflum sit dinumerare fententias,
.11. Hujufce confenfus origo petenda eft ex
naturalium phasnomenorum timore j quo peis culfi hominum Animi, quoddam terrificum Numen,
fupremamque Virtutem ^ illa phænomena
producentem, fibi effinxere: •
Primus in orbe deos fecit timor, ardua cato Fulmina cum caderent. Petr. in fat. Ad hunc adeeffit naturalium cauftarum
ignorantia propterea quod Ignorantia caujfarum conferre Deorum CogiV ad
imperium res, et concedere rt» gnum: Quorum operum cauffas nulla ratione vU dere
Poffuntf bæ fieri divino numine rentur.
Lucr.
1. 6, V. $1? Alias Divinitatis notio ex
Legumlatorum calliditate conficta, et populis
inculcata. Nempe quo ifti facilius populos legum jugo fub« mitterent, et in officio continerent, Deorum
numine illas leges conferiptas efle, fibique concreditas tradiderunt. Ita Livio
tefte, Numas Pompilius nocturnos
congreflus cum Dea Egeria commentus eft, cjufque nurnine ritus diis gratiffimos fanxifle. Eamdem adhibuerunt
artem Ligurcus, Minos, aliique,
Confenfus ergo Gentium, ita concladunt profani homines., in' Divinitatis
adftruenda exiftentia nullius eft ponderis.
Ad primum refpondemus. Licet
concedere quis vellet, omnes Gentes polytheifmi cceno volutas, nullo
tamen pacto confici poffet, polytheifmum
profitendum efle. Ut iJ concedi poflet,
demonftrandum foret, omnes ad unam
Gentes eofdem et numero, et fpccie D
eos, et perenniter cognovifle ; hi enim funt
veri characteres perennis et univerfalis confenfus, quem natura; fenfum,8c veritatis vocem efle
autumamus. At vero Gentes omnes nec fibi unquam convenerunt, nec quælibet fibi
perpetuo conftitit, quot, qualefve Dii
eflent colendi : ergo nonnifi perperam
conficitur, polytheilmum Gentium
confenfione firmari. Itaque Polytheifl*
plures, diverfofque deos agnofeentes, Divinitatis declarant exiftentiam,
quippe de qua omnes conveniunt* at vero
fibi invicem contradicentes, tum in numero, tum in fpecie, et natura. deorum, fcipfos fanatifmi arguunt, fuofque
deos T 3 fua 1 1^4 ' fu a e fle commenta declarant, (a)
Si.Phyficos de corporum eflentia, 'atque
natura difputantes audiamus, non unas
numerabimus, nec fine moleftia
difcrepantes fententias. Quid ? num ne
ifti de corporum cxiftentia dubitant ? Minime profecto,* exiftentiam corporum nifi
perfpectam exploratamque haberent, tot
non inftituerent de eorum effentia, et natura
perpetuas concertationes ; jam vero, difcrepantibus fententiis, fatis clare innuunt, harum nullam certo
-ftarc talo. Sane non heic quærimus qUam
recte homines de Deofentiant,,fed
fentiant quidquam, nec ne. Hæc duo mifcent Adverfarii rvon fine Logica imperitia, quæ funt omni procul
dubio fccernenda. Quum poflremum conflet
inter omres, invictum efl argumentum, cur Deum efle credamus. Ignorarunt enim vero, et turpiter hallucinafi funt, qualis eflet habendus,
habendum tamen omnes conftanter tenuere. II. Atqui nonnifi fumma in Veteres
injuria, vel faltem fumma hiftoriæ
imperitia affirmant Adverfarii, omnes ad
unam Gentes polytheismi ccsno infixas.
Nam i. valde probabile efl, polytheifmum, et idololatriam antiquiorem non fuiffe
babelica turri, i. De hasbraica Gente unum
Deum colente nullus moveri poteft fcrupulus. 3. De Gentilibus vero, fi
ftupidam ple be- Eleganter Tullius more fiw. Itaque inter omnes omnium gentium Jententia conflat. Omnil/us
enim innatum efl i ^ in animei quafi infculptum, effe Deos • Quales fint, variurri' efl : efl» item» negat.
I. a. Indi, Sinenfes, ne quid dicam de Tureis, uni- ' cum fupremum Numen et Regem adorant. i^uttentotti,
quai Gens nullo alterius nationis com^ ^ j
mercio unquam ufa. eft, fummum hunc Deum
intelligunt, etfi illi nullum offerant facrificium, nullas preces, quod
ajunt, quum fit beatiffimus, nulla re indigere. Priufquam ad II. et KL
objectum, refpondeamus, operæ pretium
eft iummam, ac • , pene incredibilem
Atheorum vecordiam in an, ' ' teceffiim
indigitare. Affumunt hi ingenioli oi,
Iputatorcs, id de quo unice quxftio inftituitur nempe religionem commentum effe, &; fabulam
: tum ui cauffas inquirunt erroris, j^rius-, ^
quam errorem effe demonftretit illud, cujus ori, j gines, et rationes explorant; quo quidem «e-
i Icio an vitiofius, et ineptius
aliquid effe pol-. ! fit. Sed
expendamus utrum aliquid momenti infit
in objectis.Si prima Divinitatis notio fingulas ; Gentes e ftrepentibus per æra
fulminibus per- ^.1 terrefa6Ias invalit,
quam profe£\o fortes Atheo-., rum Animi,
quos unice, nec fulmina terrent, 1 nec
nubila fiftuntljam vero lemel pavore con cuffis hominum Mentibus, perpetuo ab
eis di-. '., fcelfit ratio, et tam
longe abiit, ut nunquam ' fepofito
terrore rediret, difcuteretque prajudi- :
catam opinionem ? nec feri Nepotes, iplis li-. ‘ ] w ig
cet Atheis ducibus, et magiftris adnitentlbus,
commentum Avorum nec rejecerunt, nec agnoverunt ? Equidem, quum conflet,
diem hominum commenta delere, excutiifTent tandem aliquando Gentes
prajjudicatam fententiam, vel haftenys
faltem ad cor rediiffent. Sed contra efl;
quo enim cultiores fuere Gentes ^ et Religioni magis incurabuerunt, et tenacius
adhjefere. Deinde Divinitatis notio, quam ubique Gentes olim habuerunt, et modo
habent, efl Numinis Uiiiverfi Rectoris, benefici Patris^^hominum felicitati non
modo non invidentfs, fed cumulantis. Si
ex terrore, e quo nunquam homines funt expergefacti, ortum duceret Divinitatis
notio, profecto hac foret Divinitatis terrifica, hominum bono invidentis,
eofque in tranfverfum agqntis :
hujufmodi fane funt idese, qu2 animis ex
terrore informantur. 17. Nec minimum
prodefl profanis, naturalium cauflTarum ignorationem afferre, quafi ex ea hominum Mentes fupremam Virtutem, feu D um fibi effinxerint. Si ita foret,
effet notio Divinitatis, ac in hanc
religio in inversa ratione feienti*, et cognitionis
cauffarum. At contra efl : fiquidem
Gentes literis florentiorcs, et Divinatis
fludiofiores fuere.* fummi int^r ve^
teres Sapientes, Thales, Plato, Socrates &c..accur.itius de Deo
loquuti funt, et religiofius fentiere ; inter recentiores Nevvtonus, Eulerus
Scc. et fcripfere elegantiffime, et fumma
religione, coluerunt. Quod ad *Iir.
fpectat, perbelle efl obfervare, quomodo profani homines fuo fe jugulant
gladio. Qui circumvenire alios fatagunt,
ii Animorum affectiones, quas in hominibus extare vident, in rem liiam convertere adnituntur,
non vero novas in eorum mentes introducere. Legumlatorum itaque calliditas
ac vcrlutia, qua Divinos congrefTus
commenti funt, ne lubjecti populi a
legum propofitarum norma defcifcerent,
edocet, populorum Animos ante imperium
imbutos fuine Divinitatis notio, nc, nec
non religioni addictos antequam de rebus publicis condendis quispiam cogitaret.
Ita ex. gr. Numa nunquam colloquia cum
Egeria finxi flTet, neque leges ac inftituta fibi ab hac Diva tradita fuiffe,
mentitus effet, nifi in populo Ro nano
animadvertiffet notionem Dei alicujus, et propenlionem ad religionem > alias qui
impatientes, elafiicos, et fervitutis nefeios Romanorum Animos duplici
graviflimo jugo et legum latarum, et Divinitatis
vindicis fubmittere potuiffet ? Deinde, fi ab imperantibus in populos derivavit Divinitatis, et religionis notio, profecto omnibus retro fæculis ante
conflitutionem civilis imperii Gentes et Populi, fuiffent Divinitatis ignari • nec non
religione carerent qui nullis vivunt
legibus, neque aliis parent. Atqui e
contrario Nationes, quo primis Mundi cunabulis viciniores, eo magis religiolæ
fuiffe comp.riuntur ; neque deficere rc- *
ligionis femina in illorum etiam populorum Animis, quos nulla civilis focietas
colligavit, penes Doctos omnes
confiat. l.}. Delirationes itaque funt,
quæ ab Atheis afferuntur Cauflas univerfalis ^ ac perennis conienfionis Gentium
cie Divinitate, ac religio, ne. Quod fi,
Cepofitis Animi Audio, ac prai. judiciis,
veras hujufce conlenfus cauAas inve.
Aigare velimus, nullo negotio deprehendemus, has fuifle, I. Gentium omnium ex communi
fti. pite, et protoparente originem.*
II, Mirificum Univerli Ipectaculum
fingulorum oculis perpetuo præfens. Ex prima equidem factum eft, ut Filii, ferique Nepotes a parentibus edocti, primam Divinitatis notionem lacte fimul exceperint.
Ex fecunda, ne prima ifthzc notio
parentum traditione Animis informata in oblivio- ' nem abiret, quin immo firmaretur in dies. Haic fecunda Caufia, profecto potior prima,
et ipla fola focordes Animos, vetcrifque
traditionis vel immemores, vel indoctas ab Atheifmi fomno fortiter difeutit, Deumque
agnofeere cogit. De attrihufisy qva Dto
^ u^i Enti a . ' ' fe ^ conveniunt ', ; ' -v v t,
» 10. T~^Fi exiftentia fub notione
primxre.1 J rum.omnium Cauflas effectricis
adverfus profanos homines vindicata, illius modo naturam expendere, operæ
pretium eft. Hant-equidem, utpote undequaque infinitam, finitis Alentibus et brevi admodum intelligentia prædi, tis, vetitum complecti, et adæquate introlpicere.
Quare imbecillitati nofiras conlujentes
theologia 1^9 variis illam
adfpectibus feorlim '^contemplandam
fufcipimus, ut quoad fieri pottft, excellentio. rem iplius cognitionem aflequamnr. nue I ut Ens a (e ; II- ut Mentem ; III.
ut huius Mundi liberam efficientem
cauffam conCderabimus, et in pratcipua inculcemus atmbuta, feu* perfectiones,
quæ ei tub hoc triplici adfpectu
conveniunt. Re autem vera, quz icuntur Dei attributa lunt una et fimplex
Dm na Elfentia : W vero nifiil vetat,
quin leorfim ea expendenda fumamus, ne
(cilicet u in ni tate Divinz naturæ
deficientes, cæcutiamus omnino, nec dein quidpiam delibare valeamus. et 21.
Cum Deus fit prima rerum omnium CaulTa,
eft idcirco improductus : nequit pro^
inde cxifiere nifi fua vi, et neceffitate luæ Naturæ - Si aliunde
fufficientem fuæ exiltentiæ rationem
peteret, non effet prima rerum omnium CaulTa. Patet itaque Deum, efle Ens 9 fe et neceflitate -fuæ naturæ exiftens. \ ni. Cum ex nihilo nihil fieri queat, neque
quidpiam elTe poflit caufla efficiens fui ipfius It. 114, et “8 ; Ens, quod a
fc eft, femper cxtitilTe neceffe eft. Deinde
cum neceflitate et vi fuæ natur* exiftat,
nequit Ii* bi deficere, et ficuti
necelTario lemper extitit, ita et necelTario
femper extabit. Deus itaque eji
teternus. r i. - JI. Cum Deus neceflitate fuæ naturæ exiftat, quidquid ad Dei naturam fpectat, ne
celTario pariter exiftit. Quare nihil, quod Uei eft, nec defecit unquam, nec deficere ullo
mo’ do do pofeft * Dsus adeo eft immutabilis.
Finge fane, Deum mutari pofle : necefle
cft, cum aliquid de novo pofle adfumere,
vel aliquid, quod habebat, ex eo
decedere poffe. Utrum vis dicas, eflfet
aliquid in Deo non æternum, nec
neceflitate fuse natur* exiftens, fed contingens. Id vero eft abfurdum §. zr. Efl proinde
Deus omnino immutabilis - Confer 51.
cofmol, 24. Patet hinc i. nullos in Deo
efle, nec effie pofle modos. Sane
modorum fufficiens ratio in parte 1'altcm ab externa caufla repetenda eft ont. 16. Eft vero Deus omnino independens,
alias non eflet Eris a fe. Nulli ergo funt
in Deo modi. Quidquid proinde in Deo eft, ad ejus fpectat naturam, et eflentiam, et neceflarium
eft. 25. Ex utroque mox expofito
theoremate patet 2., Deum actu efle,
quidquid efle poteft, et neceffario, et ab
sterno; nec ullam realem fucceflionem in
eum cadere pofflp, cujufcunquc generis
ea fingi velit. Sapienter
Plato in Timso ERAT, EST, ERIT partes Junt tem»
porrs, male transferuntur ad naturam ater^ nam. Huic EST tantum competit, ERAT vero,
ERIT pertinent folummodo ad res in
tempore fluentes ; Junt enim, motiones. Illa fem» per immutabilis Natura nec fenior, nec
/unior ullo modo effe potej }., Contra
Divinam immutabilitatem fequentia obftare videntur.!. Cum Deus Iit æternus,
Mundus vero fit in tempore ab eo productus, ex non Creatore factus cft Creator.'
reu actionem in tempore edidit, qua ab *terno feriatus eft. II. Cum tanta fit
rerum hujus ;Univerfi novitas, 8c mutatio, caque Deum habeat Auctorem, haud illum eadem femper velle, oec eadem femper nolle, dicendum eft. III.
Cum nihil Deus neceffitate fuæ naturæ
velit, agatque, fed ex liberrima fua voluntate ; profecto quæ voluit, nolle : et quæ noluit, velle
po. test; id quod certe cum abfoluta
immutabilitate conciliari nequit. IV. Vel vanæ funt preces, fupplicationefque,
quibus homines in fua vota Divinitatem
pertrahere latagunt.* vel fi hac non
inutiles fuum quandoque lortiuntur effectum, Deum mutari dicendum eft j quippe
fua confilia, fuamque in homines
providentiam flectit, attemperat &c.
zy. Sed fingula ifthæc futilia funt, et bi. nis verbis exfufflantur. I. Quam dicimus
crea, tionis actionem, nihil eft aliud,
nifi Divinæ Voluntatis actus, quo Mundi
exiftentiam efficaciter decernit. Hic profecto Divinæ Voluntatis actus æternus eft, ficut ipfe Deus r at vero
ejus objectum, feu effectus a Deo
intentus, Mundi fcilicet molitio, Tion
pro æternitate, fed pro tempore
intendebatur. Nihil ergo novi egit Deus, cum Mundus c nihilo apparuit. II. Tota
rerum mutabilium feries, quanta quanta eft, unico, et fimplici, et æterno Divinæ
Voluntatis actu continetur. Deus ergo
immutabiliter vult mutabilia. III. Cum æterna
fuerit in Deb ratio tum volendi quæ
voluit, cum quæ noluit nolendi, ctfi nihil necesfitate naturse velit, nolit -V,.
- it V ii VC • '.«i ve ;
quz femel voluit, aut noluit ob camdem
jtternjim rationem perpetuo volet, noletve. Sane incoftantisE, levitatis, vel infeitia e(l
argu. mentum nolle quat olim funt
volita, et e contrario, velle qux noiita funt. Sed nihil horum in Deum cadit.
IV. Preces, fupplicationefque ad Deum, non Deum erga homines, fed homines erga Deum fle 61 unt. Perpetuo manet
Deus in amore Juftitiffi, et ordinis : prout
ergo homines vel in ordine manent, vel abeo defeifeunt, vel ad eumdem redeunt, bona
vel mala experiuntur ab imperturbabili
et immota Divina Natura juxta ordinis
leges agente. Nimirum preces, fupplicationefque &c. ad illum fpe£l:ant ordinem, cui Divina Voluntas
atque Providentia perpetuo, et immobiliter
adhasret. 28. III. Veus tft Etif
infinite peyfeB^n extenrive, et intenfive.
Si non eft infinite per, feftum, eft
profecto natura fua perfeilibile. Cum
enim Entitas entitati haud pugnet, quavis finita Entitas nova feraper augmenta
lufcipere poteft' tum extenfive, cum intenfive. Sed quod natura fua perfectibile eft, hoc ipfo
eft mutabile. Id ergo cum de Deo pugnet,
necef. fc eft, eum omnem poflibiiem
entitatem complefti,* atque adeo infinite perfectum efle et intenfive, et extenfive. Revera finis, feu limes non eft quid pofitivum, led negativum ; eft
nimirum defectus majoris entitatis. Fiat hypothefis, Deum haud elTe infinite perfectum j et quoniam Is eft Ens necelfitate fua! naturæ exiftens
et irm mutabile 1. 2^, erit Deus Ens
cjufmodi, ut natur* fu* neceffitate fit
finitum, et in fu finitionis flatu immutabile. Id vero abfurdum cft. Concipi enim nequit Entitas, quæ naturæ fujc neceflitate certam fui limitationem expofcat,
certamque menfuram, quæque repugnet fui
ipfius augmertto. Deus igitur eft Ens infinite perfectum 8 fC. Confer cofmot. Deus
efl Ens fimpt}ci£imum. Ens compofitum
pendet e comptinentibus. Deus vero eft Ens omnirvp independens. Nequit
ergo effe nifi phyfice fimplex. Deinde
quodvis compofitum natura fua eft mutabile. Deus autem cft immutabilis. Iterum ergo conficitur, Deum
effe ens fimplex. 30. In Scholis
difpufatum cft, an ntetaphyfica faltem. Vel logica compofitio Deo conveniat.
Quod ad primum Ipectat, affirmativam fententiam . Scotiftæ tenuerunt,
alferentes Dei attributa formalifer ex natura tei inter fe diftingar. At
non fatis penficulate, quippe qupdvis
Divinum attributum natura fua nequit aliud effe quam ipfa Divina effentia ^ in qua fapere ex. gr»
idenr-profecto eft ac effe. Quod fi diftinctiones inter Divina attributa ftatuere folemus, id
quidem efficimus imbecillitatis Mentis
noftrs gratia, non quod fit quidpiam in
Deo multiplex. Verbo, funt ilfjE
diftinctiones virtutis feu rationis in
Mentis noftras conceptibus fundamentum habentes, non formales in natura
rei in fidentes J Quod vero ad alterum
fpectat, ad quaftionem nominis tota res mihi perduci videtur. Cum enim iogica compofitio CX genere et differentia
conffet ^ 2. ont. ^ Genera autem fint noftrx Men^ tis notiones abftractione confectæ appofitis nominibus
defignatæ : has primum notiones ac#
curate funt determinandas, atque exponendas, critque poftmodum facillima
qujeftionis folutio. Ita ex. gr. li
nomine quis intelligat, id quod in
quaque re fjibftat, et adjunctorum
fulcrum eft-, Deus fub genere liiblfantise haud comprehendi.poteft. Si vero illo vocabulo *intelligatur
omne id,f quod ‘per fe fubfiftit modo
Deus ' fubftantia eft. - • qi..,V. De«/
immettfuf. l. Quipiie pugnant Deo,
utpote. Enti infinito, quavis mirationes
ficati effentias_, ita et exidentist; at»
que adeo ficuti infinitus cft in elTchtia,• ita iq exiftentia immenfus effe, debet.* II. Exifiat tenim vero Deus in- aliquo
tai»r tum loco, non ubique. rSufficiens
ratio cur. iq hoc potius rloco, et non
in alio, nec ->ubivi| exifiat, vel in
ipib loco.inefi, vel (ih Dei tura. Utram
vis dicatur, non r; foret Natura Dei
omniraodfiiindependens ; ejufque exiftentia cum iit d^termbato loco alligata, haudeffet' fibi
fuiSr cientilfima et a fe. Hoc autem
repugnat. Deos Igitur ubiquq locorum
exiftat) 4 ^us oportet jfiiat
immenfitate naturas., ^ qa. At opinemur illunt, fpatiofa
magnitudiiie.. ubique diffundi., Qpa de
rp animadvertatipr, 00.-« tionem
'Divinis.immenfilatis non pofTe ulfo pOf
eto fecerni. a. notione fimplieitatis vetras, et ab# folutas : 'nequ«; Deum dici poffe ^imm.eofum,
air ii et una J^ui fimplex habeatur 4
$ane guævia c. roa l,magnitudo minor eft in lui parte, quam
in toto ; Deus vero per luam
immenfitatem unus et idem ubique locorum
eft, et rei cuilibet intime præiens. Certe
immeiifitas, et limplicitas duæ lunt
perfectiones puræ : amb adeo de Ente
infinite per{pcto prædicandas veniunt. Cum vero utriutque perfectionis nec adæquatas
nec pofitivas habeamus notiones / hinc
ratio, fibi deficiens ab imaginatione exfuperatur,' quæ, immenfitatem cum fimplicitate pugnare,
faJfo repræfentat. Quod fi clare
pervidemus immenfitatem non poffe nifi Enti limplici convenire, ratio imaginationem corripiat, neque linat ab ea
rapi. ^3. Deus ejl unus. I. Nulla adeft
ratio eccur plurcs efle Deos putemus.
Sane Dei notionem ex neceflitate primæ alicujys CaulTæ effeflricis nobis
compatamus: lemcl ac (latuimus, aliquem
exiftere Deum primam rerum omnium
caudam, nulla adefl ratio cur pl u res Deos comminifeamur. Deorum
pluralitas manifclliffime rationi contradicit. Quid lane Deorum nomine
intelligi debet, nifi Entia natur* fuæ neceffitate exiflentia, atque adeo
infinite perfeSla? 53. cof. ^.zS-tieol.
Atqui duo infinita, non inquam plura,
manifeftilfime repugnant. Sint, fi fieri
poteft, hæc duo infinita A, et B. Infunt ne Enti A illæ- cædem numero perfe£liones,
quæ infunt B, et viciiTim : vel non,? Si
primum, illa duo Entia A, et B non funt reapfe nifi idem, et numero unum
Ens. (’quot yel ad idealem coexiftentian>,
vel ad idealerp fuccffljonem fpectant ex natura^ et complexione
tot is syflcmatis, nec nOn ex nataris
fingulcrum Entium syfleinaconfiantiura,
V ‘ fiuc natur'alis fluere
debent; nec aliter fluere, quam i pix Entium naturx, mutuzque ad invicem
relationes exigunt. Hinc profecto efl,
ut, vel ex ipfis exordiis cujufque Mundi intelligibilis, infinita Divina
Intelligentia, cui p^enitiflime patent et naturas, et relationes ut ut minimas Entium
ad illum Mundum fpectantium,
perfpectiflime, et plenillinie nequit
non attingere lingulas fuccefliones, et evolutiones ad eumdem Mundum fpectantes. Divina polTibilium fcientia,
quam breviter modo expofuimus, fcientia
fimplicis in^ telligentia folet
nuncupari. Ejus fons et origo, ut patet,
ipfa eft infinita Dei Entitas Divinæ
Intelligentiæ pleniffime patens.
45. Atqui gaudet quoque Deus completa
fcientia omnium futurorum, quæ ad certa quavis et determinata tempora
fpcctant ; quam vi/sonis fcientiam dixerunt. Hujus fcientia:, eo quod et futura libera complecti debeat, ex humanis
ideis explicatio, acriter torfit Theologorum ingenia. Ita vero nobis exponenda
videtur. Mundus hifce realis, quantus quantus efl (8c duratione, et extenfione, et intenfitate,
expreffio eft et deferiptio uniiis ex illis infinitis tntelHgibilibus Mundis Divinse Menti longe lateque
ab ipfa æternitate patentibus: illius feilidcf, cui JEterno, et efficaciflimo
Divinæ Voluntatis decreto adjudicata fuit exiftentia in tempore confequenda.Nihil
profeqjo eft, nec fuit, \ncc erit
quidpiam in hoc reali Mundo, quod vel
latum unguem ab illo asterno exemplari re. '
C« ceiendo alterutram denegare, quam fui imbecillitatem ingenii
fatentes, utrique veritati acquielcere. Ho.
rum nempe Alii, de humana libertate nihil hslitantes,futurorum liberorum
feientiam ab sternitate Deo adimerunt. Alii vero, Divinam re, rum omnium certam et infallibilem
prsfcien-. tiam pro rata, Sc indubia
ftatuentes', Mentibus agendi libertatem
eripuere,. Hi e Fataliflarum funt grege,
qui Divinam prsfcientiam nobis
neceffitatem imponere agendi qusciinque agimus, contra intimum confeientis fenfum effutiunt.
lif* ' dem ElegamitHme Boethius confoUt. T« cun6ia fuperno Ducis ab exemplo : pulchrum, pulcherrimus
IpP^ Mundum mente gerens ^ fimi lique in
imagine forma'*^') FerfeSla/que jubens ^
per f edum abfolvere partes, ' y
dem pene armis Utrique pugnimt,quo propSam tueantur fententi-sm. Hos audire et refutare
ma. xiniopere infereft,.Inquiunt: I.
Gum Dei fcientia certa fit, et infallibilis,
quæ Deus prænovit, neque|int profecto non evenire. Sed qræ nequeunt non evenire neceflario eveniunt. Quæ ergo futura
Deus prænovit, neceffario funt futura. Vel
ergo ‘ nulla funt futura libera, vel fi aliqua funt tujufraodi, a Deo neutiquam funt 'prævifa.
II. Et revera, facta hypothefi, Deum fingula ab æternitate prævidifllp,k ficuti
fi modo aliquid fieret contra id, qu^
Deus pwevidit, actu Dei prævifio errori
obnoxia foret : ita profecto, fi aliquid contra id. quod Deus prævidit, evenire poffet, Dei fcientia poITct errori
fubjacere. Quum ergo Divina prasvifro, nec unquam a veritate, aberret, nec
queat aberrare : dicendum' eft, rerum
omnium et Cauffas, et effectus ne dum
ita pergere, rUt Deus prajvidit, fed nec
aliter pergere poffe. firmatur ita. que,
vel nullam habere, Deum* certam feientiam
futurorum : vel quæ dicuntur futura libera non effe hujufmodi nifi vtrbo tenus, reapfe
tamen Jieceflaria efle. ♦ ' s? 48. Ad fingula refpondemus. Ac I. diftinctione
indiget, quod principio ponunt: qute
Detts tranavit^ y nequeunt, non evenire." nequeunt profecto non.hypoihetice y 8 c
confequen* ter y non item abfolute ^ et
antecedenter. Quæ diWnctio ut in
propatulo ponatur, fupponamus, me, omni
illunonis periculo remoto, Petrum coram
ambulantem intueri, profecto,, quandiu
1 \ theologia 455. iUum a Abulantera intueor, fieritne^uit i
^uin deambulet,* non enim fieri potcft,
ut idctn fit fimul, et non fit» At nemo
non videt, 4ticirco fieri non-polfe,
quin Petrus deambulet quia, ipfe fe
&.ad deambulandum determinavit, 5c
adhuc in, eadem, determinatione manet ; non quod neceflitatem aliquam tex.mea vifione paflus
fit, vel actu, patiatur. Neceifitas itaque,
qua Petrus actu deambulans nequit non deambulare, hypothetica eft, et co»/e^«»x,
fluenS, nempe ex ejus libera^eterminatione, n deambulantem. certo«intuear, et cur
nequeat ille actualiter et de facto non deambulare. lU porro tera (ejungi nulfo modo‘pofiit, patet, Deo Voluntatem
tribuendam -effe i Revera cum hicce
Mundus e nihilo Iit conditus, nonnift Divinæ Volitati ' tribui* poteft r, eccur inter «
infiiiitos «lios «que polfihiles et fit
electus, et fit ad exiftentiam
perductus. '• 54. Dei.;autem 'Voluntas
nequit effe' niff rectiffima, fcilicet infinita; fuæ Sapientia; iciris, æternifque rationibfus apprime* conformis.
Cum enim Natura Dei fimpliciffima fit,
ac perfectilfima qo., equidem fieri non potefi, ut in Eo aliud fit velle, aliud fapere. Sane
qiitd magis ablonum quam, Voluntatem a
Sapientia defcifcere, ac' Sapientiam
erroris, levitatis, vel ofcitanrias
Voluntatem' redarguere ? Profecto id
everteret intimam Dei NatUram numeris omnibus abfolutiflimam. Divina
Volyntas, qua parte objecta. extra fe
pofita iritendir, lilxrrima eft, et immutabilis. Sane nulli externo fato
potefi^ Deus fubjici, eum fit'omnino
independens^ et a fe^t neque ulla
neceilTtate naturæ, nulloque interno.
impeto- rapi poteft ad profequenda (Ejecta extra fe, quum fit
intrinfecus Sc natura fua bea- «
tiffimus, nullumque licet minimum bfatit^t» nis augmentum advenire ei extrirtferuff
poffit, Liberfima igitur Deus Voluntate gaudere debet. Cum vero nequeat Divina
Voluntas noa effe i ni mutabilibus, ac
asternis fua; Sapientiæ 'rationibus apprime conformis' præ., confeqiiens eff, illam nec unquam mutari nec mutari
poffe- - ' ' Qpæ Deus vult, aut non^v^t
/ ab ' I æterno, ac lemper voluifle,
aut noluiffe opor- ^ tet ; nec
'^quidpiam ‘Deus velle poteft, quod ab ' |
æterno noluit, aut fnodo nolle, quod ab æter- 1 no voluit. Itaque Dei Voluntas non inftar facultatis
concipi debet, fed infbarfimpliciffimi actus
pci^petuo, et immutabiliter permanentis, -quo • ab ipfa æternitate voluit, noluitve fingula
fi. ntul j, qux efie poterant fuæ
Voluntatis objectum. Patet hinc nonnifi cx imbecillitatis noftraj modulo pl ures Deo tribui Voluntates, quibus res extra fe intendat, et quas
Dei decreta appellare confuevimus....
iir., De attnhuus, qu(t Dvo, utpote
primee rerufn omnium Caujfa, conveniunt
: ubi dt confervittipne, bonitate, ' 0 providentid.De Conjervatione. «^ fingulæ
hujus Mundi fubftantiæ . j non ex fe, et
vi fua, fed efficaci Divina Voluntate
olim exigentiam fint confequutæ^ fponte veluti fua inquirendum modo occurrit,
qua vi ha^enus in Tua perdurarint exiilcntia, feu cui referenda veniat fuse
exiflentise continuatio. I. inhæc exidentiæ codtinuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ effeftiæ
con.^e^ire. Si enim cxiftent^id eorum effentiam
pertineret, forent Entia illa immutabilia : contradi£lorium fane e(l,^quidpiam
fua effientia exiiientiam, vei continuationem exiftentiæ obtine, re, et interim elTe, et beri pofTe aliud ab
eo quod effiSunt vero Entia quxvis hujus
Mundi ut origine fuacontingentia ^ ita
&: ejulmodi in fuæ exiftentiæ continuatione. Exiflentiæ itaque continuatio
nequit Entibus contingentibus vi propriæ*^^ eflentiæ convenire : atque adeo
aliunde ejus fufficiens ratio repetenda
venit. Ratio futiiciens continuationis in exi ftendo nequit alia effe a ratione
fufficienti exiftenti* primo temporis momento confequutæ. Revera exiftentia fecundo, tertio 6cc.
momento cjufmet naturas eft, ac
exifteotia primi momenti ; immo una eft eademque exiftentia; nempe Entia
contingentia fubfequentibus momentis
{'uum ejfe haud aliud et diverfum habent ab illo, quod primo momento obtinuerunt. Igitur fufiiciens
ratio continuationis exiftehtias Entium con
fuam exiftentiam primo aufpicata funt. II. In hypothefi, qua Ens sternum niWl curaret entia
a fe olim condita, fed ea veluti ipfa fibi
relinqueret, nequirent profecto, ne minimo quidem temporis intervallo, perdurare, in nihilum
illico abitura. III. Quum exiftenti® contiouatio, eofifervatio appellari foleat, liquet, illum
ipfum“ rerum omnium Conditorem effe
Carumdem Coa* Jervatorem optimum. IV.
Rerum confervationem haud infcite
continuatam creationem di£Iam effe: quæ
phrafis haud ita intelligenda eft, quafi De«
us fingulis momentis. reiteratos edat creandi aftus, led quod rerum confervatio non conliftit,
nifr ex eodem Divinæ Voluntatis æterno,
atque efhcaciflimo actu, e quo ilis luam cxi6- Quoniam Bonitas mora Bs ‘
condUit in‘ conforraitatc actionum
liberarum cum prasferipto legis » botio bonitatis moralis fupponit legem a fuperiore latam ; potentiam in fubjecto
morali delciicendi ab illa ; 3, necefiita^
tem illam lequendi, ut fuam confequatur felici-? tatem Atqui hx notiones • pugnant
omnino^ cum Divina perfectiffima Natura,
quæ et abfolute independens efl, et intrinfecus ac per fe beatiflima. Nequit igitur hujusmodi
bonitas moralis Deo attribui. Divina
bonitas eft Ordinis, cft plena
Voluntatis confbrmitas zterno rerum Ordini ab «ternis infioitz Sap entiz fcitis atque
re£liilimist, confiliis fluenti. Itaque
non Bonitas Sapientiz ac Potentrz
imperat, fcd Sapientia Bonitatem et Potentiam
moderatur. Quare fi zternus ac
iiqnentiflime conflitutus rerum ordo haud patia. tur>, homines in ipfis exordiis fuz
immortalis vitz ( nempe in hac vita
przienti ) plenam coflfequi perfcflionem,
et beatitatem fu» nature congruentem ; fed exigat, refervandam eam ^e alteri feculo ; minime profecto
Divinam Bonitatem redarguere licet ^
quod nos non eflPecerit heie^enc felices,.fiveritque plura mala obrepere. Ita porro rem fe habere, facili
argu. m«iu \ 6Oe malis, quz ex
indeclinabili MiAidi ordine patimur,
quseque contectaria iunt legum
coimologicarum, nihil efl, quod jufte conque. ri poiTimus. I. enim ex ipfo Mundi ordine, iifderrique cofmologicis, legibus noflra
pendet exiflentia, 8c innumera illa bona
fluunt, queia in præfenti vita fruimur.
II. Quod ita Mundi ordo ab initio (it
conflitutus, ut omnium minima ^ pauciora mala irreperent, maxima vero, et plura
bona : id quod pluribus demon* ftrare
poflTemus per totum Mundi orbem mente
difeurrentes I III. (J^uod fæpe numero voluptates doloribus adeq iinitimæ et conlequentes
fint;po« fit*, ut hos fatis, fuperque
rependere videantur. IV. Quod mala illa optima fu nt media quibus a nimio
pr*fentis vit* amore revocemur, neve
vit* voluptatibus irretiti ' faifq nobis fua. . deamus, permanentem heic habere
civitatem, nihil de futura folliciti :
tum legem fenfiium legi rationis
praferamus. V. Quod>lunt illa auf
przparationes ad virtutem ne peccemus, aut juflz punitiones fi peccavimus, ut a
peccatis recedamus. Nulla fane utilior,
atque eloquentior virtutis fchoia > quam malorum perpaflio j nec capitalior virtutum peflis y quam
perpetua vit* profperitas; Mifyri/e
toiSrantur, pcrfpcctc Tacitus inquit,
felicitate corrumpimur.. Ilf. Mala, qu* ipfi nobis confeifeimus ma. lo' five corporis ^vc Animi reginiine
plurima equidem funt. Atqui h«c nequeunt
certe D/o Sd' adjudicari nifi fumma
inicitiav et stolida temc. ritate, quæ
non verbis, led verberibus.corripienda foret. Quid enim, Deo ne tribuam fi doloribus, vel febri laborem ( ut id
exempli loco auferam ) ex ingefto cibo,
potuque ultra quam natura exigebat, et (lomachi
vires patiebantur ? Profecto juRum eft, quod intemperan. tia! poenas luam : -nec eft, quod Divinam
bonitatem redarguam, cUm e contrario maximopere commendanda veniat.. Hæc fane
mala, mali nr ftri regiminis confectaria,
fræna funt, ne in vitia corruamus,. et ad
virtutem colendam caleatia tum juxtæ funt punitiones, fi hac contempta, in illa
concc fieri mus. Reftant tandem mala, qusE 'e?c noftris
fluunt præjudicatis opinionibus., ab effræna imaginatione. Quas ad /hanc fp^ctant
clafiem, maximam malorum partem capiunt,
et ea præfertim', quæ focialis vitæ felicitatem maximop,ere pertubant. Sed
nihil hæc mala contra Dei Bonitatem
faciunt, quippe fepientia et prudentia profligantur, ficuti e contrario sb
inicitia et imprudentia gignuntur,-ScitifSme
Epictetus in Encbir. cap. V. Pet^tnrbant
bomirtes non res ipfa, Jed de rebus
opiniones.... Cum- igitur ' aut
perturbantur aut trifiamur ^ nunquam alium
irtcujemus., ^ed nos ipfos, boe eji noflras opiniones. Verum vero
inquient. Potuifict Deus in alia rerum
(Siconomia humanum Genus conftituere, e qua perpetua bona fluxifient, quin ulla unquam irreperent mala /' Quod fi ita, haud fumme bonus-, in. bonitate, admodum parcus
Deus fuitje videtur, qui illa podhabita
ceconomia banc przfeutem ^ condiderit pluribus Icateutem naalis. 'j6. Sed facilis ad hzc refnonGo • I. ‘Non heic quzrijtur, quid Deus potuerit efficere,
fed quid efficere eum decuerit ^ Jam
vero, non,no« ' Ilrz caligantis
intelligentiz e(l decernere a priori, quznam ex poflibilibus oeconomiis
przdet ceteris, fitque Dei Sapientia ac
Bonitate di« gnior. . II.
Nutn ne tantum noftri ergo Deum condere mundum oportuit? Equidem Deum
horni, num non' demerentium felicitatem
velle, i omni dubio vacat.* at Eum in
Mundi creatione noflram plenam felicitatem primario intendifle • vel intendere debuiHe, id ed quid' ^uidpiam ab illa ratione diverfum. Sed
hanc rationem five verbis præclare
definire, five pura mente complecti pofie, certe negatum mortalibus effe
autumamus. Ecquis fane perfectiffimam, et undequaque infinitam Naturam Divinam
perluftraverit ? Quas rerum ideas, quasve
notiones adeo puras, et præcellentes mentibus noftris gerimus, queis Divina incomprehenfibilia
arcana decentet relerare audeamus? (a)
80. Verum vero, utut explicanda veniat
Divina ifthæc excellentiflima ratio, et finis ^ autumamus, creaturarum felicitatem, Divinæ-
^ que glorise manifefiationem illa
ratione ccrtc contineri. Revera, haud
aliter decebat Deum fe gerere, quam
ejusmodi Mundum condere, In quo Hanc rationem et finem ut expedirent
Platonici, aifeverabant, Deum ipfa fua
infinita bonitate percitum fuilTe ad
Mundum condendum, ut fcilicet effent, quos
benignitatis, ac famma:,qua ipfe fruitur, felicitatis participes
etiiceret : quaf fententia antiquis Chriftiani ccetus Dodorlbus non difplicuit. Procedente vero
tempore ufu ienfun invaluit inter
Theologos, ut Deos glorix fpf caufla
Mundum condidi fle diceretur j quod rede explicatum, et intelledum, nec
quidi-uam habet offenfionis, nec cum
priori illa fententia pugnat. Nam ut perfpedt
Cudworfhus Syflem. inrelled. Cap. V. fed. 5. Neq:lTet vel minimum obflare. Q^ua igitur Deus voluntate finem infendeb.it, profecto et optimum Mundum *legit ex infinitis
poflibilibus, tum et opere complevit. Revera finge, hunc Mundum non effe
optimum^ feu fini pr*4ituto non apprime
congruentem ^ equidem vel defectui
Sapienti*, vel Potenti*, vel Voluntatis
in Deo tribui debet, quod non Iit
conditus optimus Mundus. At 'priora duo
Divina: pcrfcctiffim nanif* repugnant: ternum vero contradictorium
eft,,: media enim ad finem confequendum
eadem voluntate, continentur, qua finis
intenditur. Quin
ergo hic Mundus fit optimum, et ^ptifiTimum
medium ad confequcuf dum finem a Deo
intentum nullo pacto ambi, gi potcft. Sed
hasc rerum Univerfitas fummd Divinas
Sapientias confilio,'.ac pie niifima omnium futurorum ptasfcientia plim a Deo
condi* ta, incelfanti actione ab eodem
Deo perenniter confervatur, nec aliter
confervatur, quam Men. te concepta fuit.
6 z, Deus 'igitur perenni ifthac
confervatione curam oftendit, ut mun«
danorum entium, syfiema illum confequatur fi» nem, cujus» olam gratia * mente conceptum,
tura reapfe conditum eft. Et quoniam mediorum ad finem æcomodatiflimorum
electio cura ne ab illo fine deficiant,
providentia vocabulo dcfignatur.* Deum
providentiffimum- plane effe ex modo
dictis 81. 82. evidentiifime patet..Equidem Dei Providentia cx ipla ejus natura tam'
arcte ac necefiario fluit, ut p^rfpecte
Cicero de. Epicuro, qui Deos nihil mundana curare fluite effutiebat, dixerit,
Epicurus ve tollit, oratione relinquit
Deos (a). Certe omnes, Gentes, ficuti
Sdpremi alicujus Numinis 'exiflentiam agnovere, ita et ejusdem
providentiam hffx funt, et coluere.*
quod adeo omnibus in eompertO/ efl ^ ut
demonftratione non indigeat, Di nat. D eor.'l. i, - » v. - 'At circa Dei
providentiam plura occurrunt, quæ maximopere intereft animadvertere. I.. Dei
providentiam. haud in eo confillcre, ut
per lingulos dies,pcrque fingulas. horas perfpiciat quid. factu opus ht, et qua
flectenda fit rerum feries, fi quuipiara
erraverit, Abfurdiim id quidem, 8c
infinita Dei Sapientia indigniffirnum. Potiflima Divinæ providentiæ notio codfiftit
I. in illa rerum omnium præordinat io ne
fapientiffime oliro conftituta ex ad^uata omnium futurorupa prastcientia,
qua præordinatione fingula entia hujus Mundi fuas exacte leges fequentia tum ad fuos, peculiares fines
pergunt, cum ad ultimum illum fipem, qui
in Mundi molitipne fuit a Deo intentus. 1.
Divina prexvidcHtia continetur in illa inceflanti actione, quam confervatiooem dicimus, feu io
perenni illa et efficaci voluntate, qua
fit, ut fingula Entia.perdurent, &“
pergere non definant juxta præordinationem
in principio, factam. II' Syftema Divinæ providentiæ pror fiis
incomprehenfibile haberi debet, ficuti enirn
' 3 * brutis., animantibus intelligi nullo modo poffunt quæ ah hominibus
conduntur fyfteniata politica,
mathematica &c., ita profecto multo
minus comprehendi ab hominibus poteft lyftema gubernationis Mundi, quod
eft opus ab infinita Sapientia attern* Mentis conditum. Revera hujusmodi
lyftema ferienti complectitur omnium
temporum, omnium entium, omnium eventuum
fibi invicem cohærentium, et lele motuo. explicantium, duantum profecto eft nu
jusmodi fyftema, et qu«m la;c patet i at qu^tn exigua illius pars efl, qux
nobis innotdcit ! Tum, quantilla cft
human* caligantis inteJligentiæ et vis et extenfio 1 quam manca, quam perverfa de quavis ut ut minima re noftra cognitio
1 Num ne rerum relationes, ac nexum vel
longe perfpeximus ? Quam plura funt,
qnse de unaquaque re ignoramus, quam qus
novimus, vel potius quæ noviffe putamus? 86, III. Divinæ Providentiæ Syftema eo magis adorandum, quo minus illud comprehendere
valemus. Hinc enim i. in admirationem
rapimur Supremæ Dei Majeftatis, nec, fi lapimus, non poffumus
venerabundi non adorare altitudinem
Scientia ac Sapientia Dei, cujus adeo
incomprehenjibilia funt judicia y invefli*
gabiles via. a. Incerti de rerum eventibus probamur, et ad fummas virtutes fidei, fpei, et omnimodæ religionis excolendas incitamur
• 87. IV. Totum Divinæ Providentiæ Sy-, Ilcma dno præfertim peculiaria ac minora Syfiemata
complectitur inter fe fapientiffime, et mirifice connexa ; phyjicum nempe, quod
ad brutam materiam fpectat, et morale,
quod Entia ratione, et libero arbitrio
prædita refpicit. Phvficiim Mundi
Syftema phyficis legibus regitur, et ad
pra^itutum a Deo finem recta pergit Sunt
enirnvA-o phyficæ leges nihil aliud,
nifi certæ determinationes viribus materiæ a Supremo Conditore imprelTæ, quibus
phyfica neceflitate fiunt quæcunque
fiunt, et hd smuifim infinitæ præordinantis
Sapientiæ. De hoc phy£co Syftemate fatis in Co/. c. 4. Atqui Entia, Y quæ funt ratione et libero arbitrio prædita
aliis omnino legibus profecto regi
debent, quæ lint eorum natur* conformes
j leges quippe, quas phydcas dicimus^
rationem et liberum arbitrium
deftruerent. Determinationes,
qu* Entibus ratione Sc li- bero arbitrio
prxditis conveniunt, nequeunt aliæ cfTe,
quam qu* ex illiciis bonorum, et amore
felicitatis, vel ex horrore malorum, et mife- ri* odio fufcipiuntur. Leges itaque, quæ
En- tibus libero arbitrio pr*ditis
conveniunt, oc- ' queUnt aliud efle niti
certa et immutabilia tita- tuta Supremi
Conditoria, quibus bonum et felicitatem creaturis rationalibus in ordine
n>a- nentibus præordinaverit,
miferiam vero et in- felicitatem
creaturis ab ordine defcifcentibuS. Ifthæc
flatuta /e^ef morales naturales dicUntur^
* 88. V. Leges morales haud cenferi debent creaturis rationalibus extrinfecus et accidentaliter impotit*.* fed in ipfo Mundi ordine intit*,
et in creaturarum naturis. Neque
putandum eft, ex folo Conditoris
arbitrio illas luam obtinere fan-
ctionem, fed pr*fertim ex rectiffimis et infle- xibilibus Sapienti* fcitis, quibus omnis
mun- danus rerum ordo primum conceptus
fuit ^ tum demum Divina* Voluntatis
efficacitate ad exi- ftentiam perductus.
Nimirum generale Mundi Sytiema ea arte
ab infinita Divina Sapientia conditum
efl, ut indeclinabiliter ad felicitatem
ducat Creaturas rationales ^ quæ fartas tectas fervant relationes, quas ad tingula qu*vis
En- tia natura fua habeat, fuasque illis
attempe- rant actiones: ticuti c
contrario ad miferiam et in- lyp
Sc infelicitatem efficaciter trahat illas Creaturas rationales, quæ eas relationes violant,
corrum- punt, fuifque actionibus
peffumdant. Requ dem vera nifi res ita
le haberet, haud foret 'iVfua^ danum
Syfiema ordioatiffimum, infinitaque Dei
Sapientia ac Majefia^e dignum, fed opus na- tura fua hians, quod externis veluti
prasfidiis pofimodum circumvallatum,
infcitiam et im- potentiam in Conditore
argueret. * Sp. £ mox dictis patet I.
generale Mundi Syflema ne latum quidem
unguem a præfiituto fine aberrare, five
Creaturæ rationales in fuo maneant
ordine, (ive ab eo defcircant. In fuo
enim ordiiie manentes fuam confequuntur feli- citatem : a fuo ordine recedentes miferiam et
infelicitatem nancifeuntur, et quidem in
ratio^ ne fuæ aberrationis - At utrumque
verum, et realen-i ordinem generalem
confiituit : utrum- que ad generale
Mundi syftema æque fpectat, et mirifice
conrpirat fini, quem ^us munda- no
syftemati przftituit. 2, Patet,Vmnem le-
gum moralium naturalium notitiam aufpican- dam pfTe cx relationibus, qu® rationales
natu- ras ad fingula quavis Entia
nectunt. po. Contra morale syftema
Divina pro- videntia objiciunt profani
homines maximam ac increciibilrm pene
rerum humanarum confu- fionem. Inquiunt, aque omnia
eveniunt omni, bus: nrobis et improbis,
religionis contemptori- bus et amicis
idem imminet periculum, et aqua fors.
Quin immo perjuri, facrilegi, et criminoii homines non raro melioribus
gaudent fatis, quam optimi, et juftiifimi.
Nullam er- Y 2. go naturalis
go Deus, ita concludunt, humanarum rerum
procurationem habet. pi. Equidem
vis huic objecto confifteret, fi inter
demonftrata foret noflrorum Animorum cum
corpore mortalitas. Id autem cum tantum
abfit, ut contrarium recta ratione dcmonftre- tur, ruit propterea objectum illud ipfa fui
mo- le, tum facili refponflone
exfufflatur. Ita præ- clare Auguftinus
ia).' Placuit Divina providen- tia
praparare in poflerum bona juflis, quibus
non (ruentur injujli, mala impiis, quibus nofi excruciabuntur boni .
Ifla vero temporalia bona et mala utri f
que voluit ejfe- communia ut nec bona
cupidius appetantur, qua mali quoque
habere cernuntur ; nec mala turpiter evitentur, t^tibut et boni plerumque afficiuntur ., . Dein
fuhdit. Si nunc peccatum (Deus ) manifefla ple&e- ret poena., nihil ultimo judicio Jervari
putaretur.' rurfus, Ji nullum peccatum
nunc puniret aperte Divinitas . nulla
ejfe providentia Divina credere- tur .
Similiter in rebus fecundis, Ji non eas
Deas quibufdam petentibus evidentijpma largi- tate concederet, non ad eum ifla pertinere
dice- remus itemque,fi omnibus ea
petentibus daret nonnift propter talia
pramia ferviendum illi eJfe arbitraremur
. pz. Qui Dei providentiam vituperant, quod mala et impia facta non llatim plectat,
equi- dem fimillimi eorum (unt, qui
videntes in fce- nsm prodire facinorofos
^ fceJeratofque homines, eof- de Ci
vit. eofque per totum carmen in luis criminibus
exulMre, tragicum Poetam incunctanter convi- ciis petunt } totamque fabulam ut
Icclcratam rejiciunt . Tragoediæ exitum
hos expectare opor- tet, mox enim illos
dignis excipi fuppliciis videbunt,
fuorumque fcelerum meritas poenas lue-
re . Vera fabula prxfens efl vita : quilibet no- Urum luam in hoc telluris theatro
perfonam fubflinet, et ita, ut de fuo
femper aliquid ad- dat fabulæ . Atqui
Deus totam fapientiffime fabulam
moderatur, et regit . Is lapientiflime
nectit noftras hujufce vitSB actiones cum fuis geftis, quæ in altera vita lequentur :
eruntqua futura cum pr®fentibus ita
inter fe apte Sc con- cinne connexa, ut
fumma de rebus omnibus providentia
eluceat . pq. Tandem, fi Deus in
humanis rebus moderandis ubique fusE providentiæ vim, 8c, præfentiam extraordinariam oflendere vellet,
ficuti Adverfarii infcitiflime et arrogantiffime poftulant • profecto miraculis cuncta elfent
re- plenda, naturæque leges perenniter
interpellan, dæ . At quæ fumma confufio
rerum hinc pro- diret, quæ maxima
perturbatio ! Edifcant ergo Adverfarii
rectius philofophari : ficuti apparen-
tes illa; perturbationes, et monftra, quæ in fyftemare phyfico quandoque occurrunt,
nihil de ejus ordine et harmonia
detrahunt, quippe ex ejusdem ordinis vi
3c legibus confequuntur, et in ipfum
ordinem redeunt : ita nihilo fecius divina de rebus humanis providentia
confiftit, licet quædam moralia monfira
quandoque profilire et exultare videantur. Moralis quippe y q or. NATURALIS ordo, 8c providentia ex harmonia legum cosmologico-moralium,
et ex nexu actionum hujus vitæ cum alterius futuræ vitæ ordinatione refultare
debet. Finis Theologia, TOTIUS OPERIS CONSPECTUS Jn unlverfam Metaphyficam^ prafatio. i METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In Ontofopbiam
prolegomena De effentia, et attributis. De variis entium generibus
De relationibus Entium . Dff
relationibus fimilitudinis. De relationibus, e coexifletftia dependentibus . De relatio.nibus
dependentiis, ubi de Catijfis. De quib.usdam
"relationibus compo/itis . INSTITUTIONUM
METAPHYSICARUM PARS ALTERA In
Cofmologiam prolegomena. De Corporum elementis. Corporum elementa Junt ne
ex- tenfa, vel inextenja Similia Jint ^
qn diffimilia cor- porum elementa
expenditur . . niTT De Legibus
cojmologicis . De Mundi, Materia origine. sirr: Etis tttiquod aternutn natura fua
necifjitate exi/iere, indubie demon-
firatur j tum ejus pracipui c&araSleres expenduntur .In materia originem inquiri
- tur, eamque ix nihilo conditam vi, potentia fupremi Numinis inviBe demonflratttr . I op Democriti, et Epicuri fenten» tla refutatur ; ubi Mundum potentia, et fapientia
Entis aterni conditum effe evincitur . I
£ 5 Spinosa Jyflema abfurdorum, et contradiBionum
effe cumulum ofien - ditur . De nexu
omnium Mundi Cauf- Jarum et effeBuum :
ubi de fato juxta . Pbtlofophorum
placita di [feritur De nexu omnium Mundi Cauf-
/arum, effeBuum, lai P
bilofophorum de fato fenten* tia
enarrantur, atque refutantur. ia8 De
Naturali, et jupernatu» De Natura gener
at m ; ubi . quid fit naturale edocetur De fupernaturaii : ubi de Mi’ vaculis generatim Pinis Cofinologia METAPHYSrCARUM INSTITUTIONUM In Pfycbohgiam
jtrole^omena . g CAPI L De Facultate
fentiendi . j Senjitiva facultatis
indoles at» que natura expenditur ^
&“ plura fenfa ^ tionum do^lrtnam
Jpe^antla enucleem tu* . Qna Jit fedes principii fenji- tiva facultate praditi .De Memoria De
contemplatione DV remintfcientta .De recognitione De facultate attendendi ^ et refle^endi, zS De imaginatione, De facultate appetendi ^
ejuf~ que objeElo : ubi de affe^ibus
fummatim. De facultate appetendi,
ejuf- que objeblo . ibid. De affeBibus .
at, De humana Mentis Volunta* te, ac Libertate . De Mentis humane
Natura.. . •^nimadverfiones ad invejiigandam %Anima humana naturam preeli- mtnares .Humanam Mentem haud effe ' temperationem humani corporis, ac pra^ cipue cerebri inviate demonjiratur Ct*tvU
fubjlantite corporea in* trinfecus
pugnare cogitationem, /Jw De idearum^
notionumque natura, atque ongtne %/inimadverfiones praliminares ad idearum,netionumque naturam atque originem
expijcandam. Idearum origo ac, natura ex~
penditur. Quadam Pbilofopbortm.placita, qua idearum /peliant originem, brevi - ter exponuntur . Df tAunue humana orij^tne’ .De
Mentis humana Immorta- litate . I
loi Mentem humanam ex natura Jua infpe^am, immortalem effe, demon- flratur . Mentem humanam ex fui Con- ditoris voluntate infpeBam immorta- lem naturali ratione afferitur. METAPHYSICARUM
INSTITUTIONUM In naturalem Theologiam
prolefromena . Deum exi/lere invitiis ratio -
nibus demonflratur, et *Atheorum pracipua cavillationes difpelluntur . Deum exi flere
met a phy fice de - monflratur .
ibid. ART. II. Dei exiftentia morali
demon- firatione vindicatur .De
attributis, qua Deo, ut Enti a fe y
conveniunt. 1^8 De attributis y qua Deo
y ut Menti, conveniunt . Dei Scientia
expenditur . ibid. Ds Dei abfoluta
Beatitate, De Dei Voluntate. De attributis, qua Deo y ut - pote prim-rfetur, et fi merito typis mandari pnfit . Ac pro executionc Regalium
Or- dinum idem Revifor cum Jua relatione
ad nos di- rede tranf mittat etiam
autographum ad finem', Datum NAPOLI ^ .»79d.
FR. ALB. ARCHIEP. COLOSS. CAPP. M. S. R. M. J Uffu tuo accurate legi docfl-flfimi Viri
Sacerdo- tis D, Mariani iJcmitula
in^itut ones philofo- phtCas^ nempe
infi/turiones metaphyfices, in qui- bus
quxcunque a ienfibus funt remota ) leu le-
ruin naturam, feu univerfi ordinem, Icu nafU- Tain animorqm, feu durina attributa,
quantum i-tio »e adfequi licet, facili
methodo dilucide per- tvadlantur ; atque
infitutiones logices quibus, qu.ie ad hu
minam mentem formandam fpeiflant, folide
præcipiuntur, in his utrifque inititutionibus bu8 omnia fumma eruditione, Ir
dodlrina, neo minori pietate explicanrur
; tantum abeft, ut qoidpiam aut juiibus
Majeftati", aut boniS mon. bus
advei ium commeant ; quare edi pcffe cen»
fto, nifl aliter Majcftati Veftrae fuerit vifuin, NAPOLI MAJESTATIS VESTRAE. JlVmiliJtimuS addidi ffimus 6-
obfequtl^ffimus, Jofephus Maffcjus
Regius Profcffor. NAPOLI ec. Vifo refcripto S. R. M, fub die 5.
currentis 'fnenfis, cSr anni, ac
relatione U, J. Dodoris O, Jofephi
lAafiei ^ de commijfione Reverendi ReffH. Cappellani Majoris, ordiie pr^fau
Regalis Majejiatts &C» Reffjlis Camera S, Clara providet,
decernit^ Mtque mandat, quod imprimatur
cum inferta forma prafentis /upplicis libelli, ac approbationis dtdi revi fotis . R erum no<» publicetur
ni fi per ipfun Revi/orem fada iterum
reviftone, . ajir- metur, quod concordat
^fervata forma Regalium ordinum ^ ac
^etiam in publicatione fervetur' Re- gia
pragmatica» Hoc fuum ec, JARGIANNI PECCHENEDA
VOLLARO V. A. R. C. Izzo Cancelliere Rfg- fol, t?, tt u Pafcale Uluftris Marchio MAZZOCCHI P. S.
C.& ceteri Aularum Praefedi tempore
lub. impediti . EMINENTISSIMO SIGNORE .M trhele Migliaccio pubblico Stampatore
fup- olicando efpone ali’ E. V. come
defidera dare alle ftampe un’ opera
tntitolata In/iitutionet, Philolophicte
Auctore Mariano Stmmola . Prega percio 1
’ £. V. a commetterne la reviiionc a chi
piu le piace • Admodum R«v,
Dominus D. Donatus GigUo St Th. Prof. revideat, et in Jcriptis
referat. FRANCISCUS ROSSI CAN. DEP. Institotiones Philosophicae appofite ad Tyrona
u captum a S. concinnatas, ea
diligentia, qua tua juffa capeffere par eft. Princeps Eminentidime,
perlegi, In illis, prxterquam quud
methodo meridiana luce clariore argumen-
ta tum unde unde exquidta, tum propriae penis depronua (apienter ad Philoruphiae firmanda
dog- mata congerit Audior, in i!l ud
porro omnes lol- lertix nervos intendit,
ut et fandi di m a morum ratio redle
libi condet, 8c jura Rei gionis, li
unquam antea fufque deque habita*, nunc ut cum maxime pedimo fato divexatx, farta tedla
fer- ventur . Qux cum ita le habeant,
cumque nihil optimo Prxfult antiquius, fan^iufque
effe debeat, ? uam ut adolefcentes
fandlionbus, minimeque iibdolis
fententiis imbuantur ( nam quo Jemel ejt
imbuta recens, fervabit odorem Tejia diu ) in publica commoda peccatum iri 'rcor, fi
hujufmo- di Opus minime Typis mandetur,
Quare fi ita Z * Emi Sminenti* Tu®
videbitur, publici jur» fieri pof- fe
cenfeo . l-)ab. ^Alib. Seminat ii Urbani XV Iil. EMINENTUE TU.E, AddidiJP
Obfequentijp, Ta/nuius iionatus Gigli, yy/ff ip is. Mariano Semmola. Semmola. Keywords: istituzioni di
filosofia, l’istituzione della logica, l’istituzione della metafisica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Semmola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Semprini: implicatura cabalistica nel
deutero-esperanto di Pico -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo
di Giocodi H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bologna). Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna.
S. progetta una lingua internazionale su base latina che chiama “neo-latino”
– “Rubrica del movimento interlinguista” --- e l'anno successivo ci prova anche
LAVAGNINI (si veda) con l'Unilingue (o Interlingue) pubblicato nel Corso
pro Corrispondenza d'interlingue od Unilingue in sette sezioni a Roma
e ancora con MONARIO (si veda), dato alle stampe nel Corso de Monario
prima e nell'Interlexico Monario. Italiano-français. English-deutsch poi.
GIOVANNI PICO (vedasi) DELLA MIRANDOLA. LA
FENICE DEGL’INGEGNI -- saggio
di S. nella
quale si raccontano
i casi della
vita del principe-filosofo e
si espongono i
segreti cabalistici magici
e astrologici della
sua esoterica filosofia. Con un
esame in appendice
delle sue poesie
in volgare e
un ritratto fuori testo
fregiato da De
Carolis ALL'INSEGNA DELLA CORONA
DEI MAGI PRESSO ATANOR. TODI. Il
saggio che offre al suo C. non
ha la pretesa
d’essere una monografia
e molto meno
uno studio completo
della vita del
Mirandolano. Esso, così come
si presenta, porta l’impronta dei sentimenti
e dei pensieri
non sempre contenuti
che in me
sorgevano via via
che il velo
si discopriva e
la bellezza di
una vita intensamente vissuta per
un ideale mi
appariva nella sua
immediata freschezza. Ciò
che mi mosse
a scrivere del Pico
non fu, lo
confesso, quella preoccupazione per la
verità storica che
spinge molti a
travagliare per anni
interi intorno a
manoscritti, a cimeli,
a documenti, pur di riuscire
a determinare con la massima
certezza le date
della vita di
una personalità o
di un avvenimento
storico. È stato il desiderio di
conoscere, attraverso un
personaggio quelle altre verità
che, non essendo
sempre dì dominio
del pensiero riflesso,
le chiamiamo con
altri nomi. Tale
desiderio mi ha
portato a conoscere
quanto il Pico,
al pari degli
uomini del suo
tempo, fosse assetato
di verità, e
come più di
tutti i suoi
contemporanei avesse il senso
dell'inanità degli sforzi
umani e della
vita stessa. Quanto
egli, pur aspirando alla verità
come luce rasserenatrice, fosse
convinto, anche prima
di raggiungerla, che
desso, purtroppo, non è il
fine ultimo della
vita, che c'è
qualcosa di più
alto ancora che
più della cristallina chiarezza del
vero esprime l'essenza
della vita,, e
cioè l'amore. Non
è tragico tale
sentimento che rende
inquieta l'esistenza di
questo giovane aristocratico il quale,
sotto la femminea
placidezza del suo
volto avvenente, nasconde
un'anima irrequieta e nostalgica,
non già agitata
dalle passioni 0
dai perturbamenti del
senso, ma dal
dubbio della ragione,
dal contrasto che
sorge come nube
procellosa negli spiriti meditabondi
ogni volta che
vedono l'inconciliabile opposizione
fra il reale
e l'ideale? E
ciò che nel
Pico rendeva insanabile
questo dissidio interiore
era il senso
del mistero che in combeva
su ogni manifestazione del
suo vivere, il
senso dell'arcano per
penetrare il quale
s'illudeva, come gli
spiriti profondamente mistici,
che al di
là della conoscenza
comune, al di
sopra delle nozioni volgari ci
fosse una dottrina
esoterica, accessibile a pochi,
per mezzo della
quale l'iniziato potesse
inoltrarsi nei sentieri
reconditi ove splende
la luce che
trasumana. Non so
quanto sia riuscito
nel mio assunto
che era di
rappresentare il Pico
quale mi si
rivelava più che
dai documenti d'archivio,
dalle sue opere
e dalle lettere
del suo epistolario.
Certo sarebbe per
me motivo di
conforto poter constatare
che il mio
studio potrà essere
stimolo ad altri
a darci del
Pico quell'opera completa
che tuttora ci
manca. Bologna, Villa
Serena. In un'alba di
febbraio del 1463
nasceva nel castello
della Mirandola Giovanni
Pico. Sua madre,
in un sogno
di fiamma, ne
aveva presagito la bellezza
superiore a quella
delle sue splendide figlie, e
l'ingegno e l'amabilità
che non aveva
saputo riscontrare nei
figli Galeotto e
Anton Maria, in
perenne lotta per
la supremazia dei
feudo. Muratori, Amali d'Italia;
Tiraboschi, Dizionario Top.;
Bratti, Cronaca, 143;
Cronaca della Nob.
Famiglia Pico, scritta
da autore anonimo,
illustrata con note e
documenti da F.
Molinari, pubblicata in
Memorie storiche della
città, ecc. Mirandola,
voi. II, 1874, 32-153;
Ceretti, Giulia Boiardo
in Atti e Memorie
della Deput. di
storia patria dell'Emilia,
Modena; Burckardt, La
civiltà italiana nel
Rinascimento, Firenze, 1902, 142
e 232. La
prima biografia del
Pico è quella
scritta dal nipote
Gianfrancesco e premessa
in tutte le
edizioni delle opere.
2La contessa Giulia,
che aveva nelle
vene un po'
del sangue del
cantore dell'Orlando Innamorato, ci si
presenta una di
quelle donne meravigliose del Rinascimento,
abilissime nei lavori
muliebri e aperte
a ogni manifestazione dell'arte,
capaci di accudire
alle cure più
minute della famiglia e
di tener testa
agli affari più
difficili dello stato.
Questa donna, che
altrove ci appare
energica e severa, accanto
al piccolo Giovanni,
rivela i caratteri
più squisiti della
maternità. Ora la vediamo
tutta compresa di
tenerezza nell'atto che
la nutrice mostra
il bimbo in
fasce a Giorgio
Merula, ospite durante
il suo viaggio
per Bologna delle
figlie Lucrezia e
Caterina. Ora notiamo
lo sforzo della
sua maschia natura
per condiscendere a certi
capricci e vizietti
del piccolo Giovanni. Oh!
la gioia di
questa madre quando
assisteva alle prime rivelazioni
di quell'ingegno precoce,
che era pronto
a cogliere sul
punto qualsiasi istruzione impartita,
che imparava con rapidità
sorprendente una poesia,
che rivelava sin
dai più teneri
anni una memoria
prodigiosa. L'indole dolce
e arrendevole che
il Pico aveva
sortito da natura,
l'aspetto quasi femmineo
del volto che
si tingeva di
rossore o impallidiva
ai fremiti insoliti
dell'età critica dell'adolescenza vicina, la
inclinazione agli ardori
di un misticismo
incipiente, dovevano senza
dubbio indurre la contessa Giulia
a provvedere per
tempo all'avvenire del
figlio, non senza
quella trepidazione propria
delle madri che
vorrebbero vedere immutata
l'ingenuità delle loro creature.
A Giulia parve
che lo stato
ecclesiastico fosse il
più adatto all'indole
del piccolo Giovanni
che, da parte
sua, era più
che mai disposto
ad abbracciare uno
stato in cui
avrebbe potuto svolgere
più agevolmente quei
sogni che cominciavano
già ad agitarlo.
Giulia s'interessò per
ottenergli la elevazione
a protonotario apostolico,
e appena il
figlio ebbe raggiunto l'età di
dieci anni, la
contessa ne celebrò
solennemente l'investitura. Alcuni
anni dopo, nel
1477, Io mandò
a studiare diritto canonico
all'università di Bologna
. La festante
città dei Goliardi,
la cui vita
politica era guidata
in questo tempo
dalla potente famiglia dei
Bentivoglio, poteva considerarsi
per il suo
Ateneo « il
tramite per cui
le idee umanistiche passavano dall'Italia
all'Europa. Da ogni
regione d'Italia e
paese d'oltr'Alpe convenivano
quivi numerosi gli
studenti con le
caratteristiche e i
linguaggi delle loro
terre; e quivi
formavano corporazioni con
statuti propri. Si
deve far risa
ci) SCARABELLI, Dell'antico studio
bolognese, Bologna, 54-55;
Gavazza, Le Scuole
dell'antico Studio bolognese,
Milano, 1896, 78. 4lire a
questo periodo l'attrattiva
esercitata sull'animo del Pico
dall'ordine domenicano, che
finirà per essere
una delle mete
sospirate. La chiesa
di S. Domenico
era il luogo
in cui solevano
radunarsi le corporazioni dei
« legisti »,
i quali erano
tenuti a intervenire
processionalmente alla festa
di S. Domenico
e ad assistere
dal coro alla
messa dello Spirito
Santo. Tra quei
frati predicatori che,
per la loro
dottrina e il
loro ascendente, avevano
sì gran parte
nelle cose dello
studio, uno dovette
attrarre l'attenzione del
Pico, per le
maniere semplici e rudi,
gli occhi vivissimi,
la fronte solcata
da rughe e
il colore bruno
che contrastava col
biancore del lungo
saio. Questi era
Girolamo Savonarola, giovane allora
venticinquenne, già emaciato dai
digiuni e dalle
astinenze che a
« vederlo passeggiare
pei chiostri, pareva
piuttosto un'ombra che un
uomo vivo. È
dubbio se fin
da allora si
stringessero rapporti fra i due,
che dovevano in seguito
legarsi coi vincoli
di reciproca stima;
certo da quel
momento i loro
occhi si saranno incontrati, non
con l'indifferenza onde
passano le innumeri fisonomie
umane, ma producendo
quella recondita impressione
che rifiorisce presto
o tardi negli
scambi di idee
e di sentimenti. VillAri, Savonarola,
Monnier. È durante il
tempo de' suoi
studi di filosofia a BOLOGNA che
muore a Pico
la madre, e ci
duole di non
trovare alcun'eco ne'
suoi saggi di questa
sventura. Ma faremmo torto
al suo delicato sentire
se volessimo ciò
attribuire ad uno
scarso attaccamento verso la
persona che pili
di tutte lo
ha amato. La
contessa Giulia che
si era portata
a Bologna per
stare vicina al
diletto figliuolo, fu
colpita da un
malore che la
trasse in breve,
il 13 agosto
1478, alla tomba.
La sua salma,
trasportata il giorno seguente
alla Mirandola, fu tumulata
accanto a quella
del marito nella
chiesa di S.
Francesco. Pico, forse perchè
non si sentiva
portato allo studio
del diritto canonico,
decise di recarsi
a Ferrara ove
lo invitava il
Duca Ercole I,
già imparentato con
la sua casa,
avendo sposato la
sorella Bianca a
Galeotto, fratello del
nostro Giovanni. Quando nel
maggio del 1479
giunse a Ferrara,
che era allora
una delle città
pili popolose e ricche
d'Italia, fu assai
lieto di poter
frequentare la scuola di
rettorica e di
poesia di Battista Guarino, che
proseguiva con pari
valore le direttive
del padre suo,
il celebre Guarino
Veronese. Come un'aura
di poesia doveva
respirare nella città
che della poesia
cavalleresca ed epica
stava per divenire
il centro d'Italia,
e come un'ebbrezza
6materiata di sensualità
doveva ispirargli la tragica
storia ancor recente
di Parisina e
gli amori un
po' violenti del
padre di Lionello
e di Borso
d'Este . Il
Pico trovò modo
di appagare più
di un desiderio
come ci attestano
i frammenti delle
sue poesie amatorie
e Raffaello da Volterra
ne'
suoi commentari in
cui parla anche
del successo che
conseguiva nelle pubbliche
discussioni. Non ostante
la simpatia ch'egli
sentiva per Ferrara
in cui aveva
contratto varie amicizie
cogli Nell'interno del
palazzo accadono fatti
spaventosi: una principessa,
Parisina, è decapitata
insieme col figliastro Ugo per
adulterio (1425) (v.
Muratori, R. I.
S. lib. XX); principi legittimi
e illegittimi fuggono
dalla corte e
sono minacciati anche
all'estero da assassini
inviati ad inseguirli, come accadde;
oltre a ciò
continue cospirazioni dal di
fuori; il bastardo
di un bastardo
vuol rapire a forza
la signoria al
legittimo erede. Ercole
I ». BuRCKHARD.
Cfr. Solerti, Ugo
e Parisina in Nuova
Antologia, 1893, voi.
129, 593-618. Ivi
il Volterra dice
di avere veduto
il giovinetto Pico,
vestito da Protonotario
apostolico, discutere fra
le acclamazioni di
tutti con Leonardo
Nogarola. Devono alludere
a questo tempo
le parole del
nipote: « Prius
enim et gloriae
cupidus, et amore
vano succensus, «
muliebribusque illecebris commotus
fuerat, foeminarum «
quippe plurimae ob
venustatem corporis orisque
gratiam, « cui
doctrina amplaeque divitiae
et generis nobilitas
ac« cedebant, in
eius amorem exarserunt
». Opera, Vita,
senza numerazione di
pagina. uomini pili
in vista del
mondo letterario come
col Guarino e
con Vespasiano Strozzi,
il demone dell'irrequietezza cominciò
a fargli sospirare
altre città, a comunicargli
il tormento comune
a tutti gli
umanisti di allora
pei quali la
più gran gioia
era quella di
andare in cerca
di nuovi codici, dì
poter frugare conventi
e biblioteche, di
scoprire qualche nuovo
volume. Benché ormai
rimanesse poco o
nulla da scoprire,
dopo che, sull'esempio
del Petrarca, il
Filelfo, il Guarino,
Giovanni Lascaris erano
riusciti a riesumare
tante opere preziose
dell'antichità, non era
peranco cessata la
bramosia della scoperta
di nuovi libri .
Il Pico, spinto
da un ardore
che nasceva da
uno spiegabilissimo sentimento
di emulazione, non
risparmiava spese nell'acquisto
di libri, e intraprese
anche dei viaggi
per raccogliere o rintracciare
qualche codice antico.
Nell'autunno del 1480
troviamo il Pico
a Padova , dove
in data 16
dicembre di quell'anno
Sabbadini, Le
scoperte dei codici
latini, Firenze, Sansoni,
1905. Cfr. specialmente
i capitoli IV, 72,
VI, 114. Anche
il Muntz, Precursori
e propugnatori del
Rinascimento, trad. Mazzoni,
Firenze, Sansoni, 1902, 76-78.
II Pico rimase
a Padova per
un biennio, dal
1480 al 1482.
Cfr. Della Torre,
Storia dell'Accademia Platonica di
Firenze, 1902, 749. 8
gli venivano rimesse
le patenti ducali
con le quali
si concedevano a
lui studente di
filosofia nell'almo studio
patavino, tutti i
privilegi che vi
potevano godere gli
scolari. Pare che
l'indirizzo di studi
che si perseguiva
in questa città
e l'ambiente studentesco lo soddisfacessero molto,
poiché in una
lettera ad Ermolao
Barbaro dice che,
fra tutti i
«ginnasii» d'Italia, quello
di Padova era
stato da lui
frequentato più volentieri
. Era il
Pico allora in
quell'età in cui
la vita sorride
più che mai
all'occhio dell'adolescente che,
nell'esuberanza delle
proprie forze psichiche,
non trova limiti al
suo pensiero, e
il bene e
il male rientrano
in quella sfera
che li assorbe,
direi quasi, li accomuna,
cioè l'amore. Ciò
che in altre
età può sembrare
scandaloso, indegno dell'uomo,
è nell'adolescente tollerato;
e anche quando
l'uomo avanzato negli
anni piange, come
il Pico, i
peccati della gioventù,
sente nel-, l'amarezza
del rimpianto il
rimorso di così
cari ricordi! E
il Pico era
troppo sensibile per
non sentire questa
vita fremente che
gli s'agitava intorno, egli
ch'era così bello,
colle chiome d'oro
svolazzanti sul volto
radioso, quasi novello
Ado «
ex Italiae gymnasiis
mihi sedem ad
philosophiae « studium
diligerem... » opera, 376. Cfr.
DoREZ et ThuaSNE,
Pie de la
Mirandole en France,
Paris, Leroux, 1879, 9. 9
ne, come
ce lo dipinge
il Ramusio in
un carme latino.
Testimonianza di questa
vita goliardica di Padova,
è la raccolta
dei carmi latini
di Girolamo Ramusio,
ch'egli volle dedicare
al Pico verso
il quale si
sentiva attratto, oltre
che da tenera
amicizia, da identico
amore per lo studio
delle lingue orientali
e per la
vita avventurosa , con
un carme intitolato:
Illustrissimo loanni Mirandolae
principi ac concordine
corniti benemerenti, Hier. Ramusius
paiiper Ariminensis. Girolamo Ramusio, della
cui memoria non
c'è traccia nelle opere
del Pico, benché
nella raccolta delle
sue poesie si
trovino inseriti alcuni
carmi di quel
Donato col
quale il Pico
rimase in Ecco
i distici del
carme Lusus in
Venerem: Pacem vultus
habet, facies exorat
amorem Membraque scytonia
sunt magis alba
nive. Cuncta dicent
Divum, ut sydus
ocelli, Et volitant
circum tempora amata
comae. citati dal
Flamini, Girolamo Ramusio,
in Atti e
Memorie d. R.
Acc. di Padova.
Viaggiò in oriente
in cui imparò
la lingua araba,
fu a Damasco
nel 1484, morì
a 36 anni
il 5 giugno
1486^ mentre si
recava da Damasco
a Beiruth. Flamini,
1. e. Anche
il Donato studiò
a Padova nel
1476, conobbe Catta,
amata dal Ramusio,
e l'amore della
fanciulla per l'amico
gì' ispirò versi di
rimpianto per la
immatura morte, e
in essi cerca
di riprendere il
Ramusio pe' suoi
carmi lascivi. Assistendo alla
laurea dell'amico nel
1476 scrisse una
saffica per quell'occasione. Divenuto
personaggio influente nella Repubblica
di Venezia, protesse
letterati e umanisti.
2 10 rapporti epistolari,
era oriundo da
Rimini dove fu
caro a Pandolfo
Malatesta; venuto a
studiare a Padova
quivi nel 1476
si laureò, come
dice in un
carme dal titolo:
Dum subirem artium
laurearti in collegio
doctorum Ramusius pauper.
Nelle sue poesie
« di un'oscenità
da disgradarne VHermaphroditus del
Panormita... e che
sono veramente nugae
da giovani spensierati
e scapestrati »
canta gli amori
per una bella
fanciulla di Narni,
di nome Catta,
morta in età
immatura, da cui
pare fosse corrisposto.
Al Pico indirizzò
due carmi, nel
primo dei quali
si duole di
non poter essere
sempre con lui,
a cagione delle
strettezze che lo
costringono a starsene a
lungo in casa;
nel secondo (ch'è
una saffica all'oraziana)
ne loda la
bellezza, la dottrina,
la liberalità .
Si deve attribuire
senza dubbio a
questo periodo, in cui
dovette influire non
poco sulla condotta del
Pico la convivenza
con studenti del
temperamento di un
Ramusio e di
un Donato, la composizione di
gran parte delle
poesie del nostro,
le quali non
dovevano essere diverse
Flamini, op.
cit., 19. Flamini, Delle
donne amate dal
Pico, due sono
celate sotto lo
pseudonimo di Marzia
e di Fillide
Peona o Pleona,
morta quest'ultima in
Padova nel 1481.
Cfr. DoREZ et
Th. op. cit., 16
e Della Torre,
op. cit., 758,
n. 3. 11 dalle
nugae degli altri,
se in seguito
il Pico le
diede alle fiamme.
Ma non tutti
gli amici del
Pico erano del
tipo suaccennato; ve
n'era fra gli
altri uno che
per la sua
anima candida e
mite, per la
sua profonda conoscenza
della filosofia aristotelica, doveva lasciare
traccie visibili sull'opera
del Pico, e
legarsi a lui
coi nodi della
più dolce amicizia. Eia
questi Ermolao Barbaro
che da alcuni
anni era titolare
di filosofia morale
in quell'Università dove
si era addottorato
a ventitré anni
nelle leggi civili
e canoniche .
Benché nei periodo in
cui il Pico
studiava a Padova,
Ermolao stesse per lo più
a Venezia, ove
copriva importanti cariche pubbliche
, pure, le
poche volte che
poterono vedersi, si
sentirono subito due
anime gemelle fatte
per intendersi e
per amarsi. Conoscitore profondo della
lingua greca, Ermolao
ri Nei Fasti
Gymnasii Patavini, Patavii,
1751, del FacciOLATi,
abbiamo Ermolao Barbaro
prof, di filos.
morale dal 1472;
Fr. Io. Battista
ex eremitis di
S. Agost. prof,
di logica nel
1480, 114; nello
stesso anno era
rettore degli artisti
Benedictus Ariminensis, 88-89.
Cfr. Colle, Storia
dell' Univ. di Padova,
1824. Apostolo Zeno,
Disseri. Vossiane, Venezia,
1753, t. II, 368. Causa
la peste a
Venezia, ritornò in
Padova ove si
mise a disposizione
dei giovani che lo pregarono
d'insegnar loro il
greco. In quell'anno
fu creato senatore.
Cfr. Colle, 12—
poneva ogni suo
intento a tradurre
Aristotile, le cui
dottrine solide e
profonde erano un
pascolo per la
sua mente costretta
sovente a ben
altre faccende. Bisogna
riconoscere che Padova,
la quale era
il centro del
movimento intellettuale del
Nord-est d'Italia e
per l'insegnamento filosofico
faceva tutt'uno con
l'ateneo bolognese ,
esercitò sul giovane mirandolano un
influsso le cui
traccie si scorgono qua
e là nelle
sue opere. Anzi
tutto ciò che
vi è di
scolastico e di
medioevale nelle Tesi
e in altri
lavori filosofici del
Pico, è dovuto
a questi anni di
studio nell'università patavina
che ha continuato
più a lungo
di qualunque altra
le abitudini del medioevo.
Era Padova la
rocca forte dell'Averroismo e
uno dei professori
piìi ragguardevoli, non privo
di una certa
originalità, fu Nicoletti
Vernia che insegnò
a Padova dal
1471 al 1499.
L'insegnamento di questo
averroista, che sosteneva
senza restrizioni la
teoria dell'unità dell'intelletto, non dovette
svanire si tosto
che il Pico,
il Nel
1475 aprì nella
sua casa alla
Giudecca una scuola
privata di filosofia,
e aveva in
animo di tradurre
tutto Aristotile; peraltro
tradusse V Etica, la
Rettorica, la Dialettica
e inoltre scrisse
una parafrasi di
Temistio. Cfr. Renan,
Averroès et l'Averroisme,
Paris, 357-58; Burckhardt,
op. cit., 242-244;
Mandonnet, Sigerete Brabant,
2^ ed. 111-112, n.
1; Windelband, Storia
della Filos. trad. it.
Palermo II, 16-17;
Petrarca, Opera» 1581,
Basilea, II, 1093.
13 cui soggiorno a
Padova coincide con
gli anni scolastici 1480-1482, non
palesasse una certa
indulgenza per l'arabismo
da fargli vagheggiare
l'accordo oltre che
fra Platone e
Aristotile, fra Avicenna
e Averroè. Durante
i due anni
di studio a
Padova si recava sovente nella
natia Mirandola, la cui quieta
e semplice vita
paesana gli tornava
sommamente gradita e
dove amava invitare
amici e maestri.
Ma in quegli
anni la pace
del castello avito
doveva interrompersi agli orrori
della guerra fratricida scoppiata fra
veneziani e ferraresi.
Anche il Duca
di Milano, i
Bentivoglio di Bologna,
la Repubblica di
Genova e qualche altro
staterello, erano stati
attratti nell'orbita del
conflitto; e i
soldati mercenari coi
loro cavalli e carriaggi
taglieggiavano e smungevano,
durante le loro
scorrerie, i pingui
contadi della pianura
padana. La piazza
di Mirandola, che
era come una
tappa sulla strada
maestra, dovette senza
dubbio subire tutti
gl'inconvenienti che derivavano ai
piccoli comuni incapaci
d' imporsi alla forza
dei più potenti,
La visione di
una realtà intrisa
di sangue, quale
può essere in
periodo di Per
la guerra tra
Venezia e Ferrara,
vedi Marin Sanudo,
Commentari della guerra
di Ferrara, Venezia,
1829, 7; Muratori,
XXIV, 257. Du
Mont, Corpus Diplom.,
Ili, 2, 128.
Cipolla, Storia delle
Signorie Italiane dal
1313 al 1533,
Vallardi, Milano, 1881, 603-640.
14 guerra, così
lontana da quella
che i suoi
studi umanistici rendevano
idealmente gentile, avrà
certo contribuito a
far abbandonare al
nostra ogni pensiero
di partecipazione alla
vita politica e
di scegliere tra
l'instabile carriera di
principe e la
missione di dotto,
questa che gli
apriva la via
a una meta
pili certa e
duratura. Già fino
dai primi anni
aveva sperimentato la
precarietà della vita
principesca, quando poco
dopo la morte
del Padre, avvenuta
nel 1468, i
suoi fratelli vennero
a contesa per
la supremazia del loro
staterello, e di cui si
ebbe il primo
epilogo nel 1473,
avendo Galeotto fatto
prigione il fratello
Anton Maria. Questi,
liberato dopo due
anni di, carcere,
si vide spogliato
dei beni paterni
e costretto a
cercar asilo presso
il Papa e
il duca di
Calabria, i quali
con grandi sforzi
e soltanto^ mediante
l'intromissione di Ercole,
cognato di Galeotto,
riuscirono nel 1483
a farli venire
a un accomodamento. Galeotto
ebbe il dominio
della Mirandola e
del territorio e
il conte Anton
Maria fu ammesso a
condividere il potere
in moda che
i due non
dovessero pregiudicare alle
ragioni della terza
parte dell'entrata di
detta terra che
spettava al loro
fratello Giovanni. Il
nostro Cfr.
Memorie stor. della
ciità e dell'antico
ducato della Mirandola,
tomo unico, Mirandola,
1874, IL 15 per
essere più libero
di attendere a'
suoi studi, declinò
ogni inframettenza nelle
cose che gli appartenevano,
e incaricando il
fratello maggiore dell'amministrazione di
ogni suo avere,
partì alla volta
di Pavia col
suo maestro di
Greco, Manuello Adramitteno,
mentre col compatriota
di questi, Elia
del Medigo di
Candia, con cui
aveva già cominciato
a studiare ebraico
a Padova, rimase in
relazione epistolare. Il
suo soggiorno a
Pavia dovette essere
di breve durata,
perchè alla fine
del 1482, lo
ritroviamo ancora a
Padova, di dove
indirizza, il 22
dicembre, una lettera
al Ficino, la
cui fama d'interprete
e volgarizzatore delle
opere platoniche e
alessandrine si diffondeva ovunque . Il
Cassuto basandosi su
alcuni passi ebraici
di Elia, ritiene
non risponda al
vero la congettura
avanzata dal Della
Torre (Storia dell'Accademia Platonica
di Firenze, 1902, 752)
che il Pico,
partendo da Padova,
conducesse seco Elia.
Gli Ebrei a
Firenze nell'età del
Rinascimento, Firenze, 1918, 286.
Proprio in quell'anno
(6 novembre 1482)
usciva la neologia
Platonica del Ficino
e il Pico
nella sua lettera
lo prega di
inviargliene una copia
e di assisterlo
nei suoi studi
i quali come
erano stati indirizzati
al peripatetismo, voleva
d'ora innanzi integrarli
col platonismo. Vi è in
questa lettera del
Pico una frase
che fa sospettare che egli
abbia veduto il
Ficino tre anni
innanzi e cioè
nel 1479: «
Cum enim apud
te essem superioribus
an« nis adhortationes
tuae nec unquam
ardenter magis, quam
16 « ex
illa in hanc
usque diem me
totum literis addisci
* id., 373,
Ma dove aveva
egli veduto il
Ficino? Il Della
Torre nella sua
opera afferma a
Firenze, ma senza
portare nessuna prova di
questo soggiorno del
Pico nella città
dei Medici. Egli
stesso dice che
il 14 aprile
del 79 il
Pico scriveva da
Mirandola al Marchese
Gonzaga che si
recava a Ferrara
e il 29
maggio era in
tale città. Se
coi mezzi odierni
di trasporto il
fatto non avrebbe
oggi nulla d'inverosimile, non
altrettanto può dirsi
del tempo del
Pico. Comunque il
quesito resta ancora
insoluto. Pico dopo aver
fatto una nuova
visita a Pavia e
dopo avere soggiornato
alquanto a Carpi,
presso la sorella
Caterina e il
nipotino Alberto Pio,
del quale era
allora precettore l'amico
Aldo Manuzio, si
trasferì ai primi
del 1484 nella
città di Firenze.
L'Atene d'Italia si
trovava allora in
quel mirabile meriggio
in cui la
vita sociale era
fervida in tutte
le sue innumeri
attività e l'arte
splendeva in ogni
angolo della città,
in ogni manifestazione del
popolo. Lorenzo Magnifico aveva potuto,
col suo tatto
mirabile, rimettere in equilibrio
la bilancia dello
stato che aveva Poliziano,
Episi., lib. VII,
7; Calori-Cesis, Vita,
ecc., Modena, 1866, 14-15;
DoREZ et Thuasne,
Pie de la
Mirandole en France,
Paris, 10; Berti,
Rivista Contemporanea, t. XVI,
1859, 9; Della
Torre, L'Accademia Platonica, 747,
n. 6. 18 momentaneamente tracollato
con la congiura
det Pazzi; mentre
i suoi cortigiani
e tali erano
il Ficino, Cristoforo
Landino, Giovanni Argiropulo cercavano di
attuare un analogo
equilibrio nel campo
del pensiero e
della religione, mediante
l'Accademia Platonica, e
il Poliziano teneva
alto il nome
dello Studio fiorentino
con le sue
affollate lezioni di letteratura
greca e latina.
Quando il Pico
arrivò a Firenze
non vi giunse
come straniero in
mezzo a gente
sconosciuta, ma come
un amico desiderato
dal Magnifico e
dal Poliziano, e
come il benvenuto
in mezzo a persone
che nulla piìi
desideravano che il
vedere aggiungersi alla
schiera dei ricchi
borghesi e letterati un
principe umanista che
veniva a fare
pìit bella la
corona dei Medici.
Tra i tanti
letterati che convenivano
nella casa medicea,
molti facevano parlare
di sé oltre
che per la
loro erudizione e
dottrina per le
produduzioni poetiche, filosofiche
e letterarie. In Firenze
il lavoro di
preparazione, ormai matura
degli umanisti italiani,
cominciava a fiorire
in creazioni originali.
Il Pico sentiva
la sua inferiorità, nonostante che
i suoi tentativi
poetici venissero lodati dagli
amici; s'avvide che la stoffa
di umanista si
era ormai invecchiata
e conveniva ristorarsi a
quelle sorgive popolari
cui attingevano il
Poliziano e il
Magnifico. 19 Fra quanti
avvicinava, nessuno gii
pareva brillasse di pili
viva luce del
Poliziano, e nessuno
più degno d'essere
preso a modello
di un « novizio
e quasi
scolaretto», com'egli si
giudicava, E c'è
quasi dell'accoramento in
alcune frasi della
lettera critica alle
poesie del Magnifico
in cui, dovendo fare
da giudice di
un poeta «
adolescente » esclama:
«So purtroppo di
non potere far
parte « io
pure di questo
albo (di giovani
poeti), nò di
« essere così
maturo da arrogarmi
il titolo di
«critico». La lettura
delle poesie dell'amico
lo aveva entusiasmato;
scorgeva in esse
i segni dei
tempi nuovi: una
certa « vivida
luce », una
nativa freschezza che
sembrava scaturire in
suolo vergine- In quelle
poesie che toccavano
tutte le corde
della vita: laudi
mistiche e religiose,
canti satirici e burleschi,
canoni d'amore e « carnesciali
»., Lorenzo Magnifico
gli si rivelava
grande poeta. Tali
poesie gli ricordavano
i due pii^i
grandi poeti della
letteratura italiana: Dante
e Petrarca. Aveva
del primo la
maestosa serenità del
verso « aspro
e stringato »
quale si addice
a poesia di
argomento filosofico, senza
però essere come
quegli «impolito e rude»;
del secondo la
«molle tenerezza *
propria della poesia
erotica con in
pili la maschia
robustezza (iorosus) dell'uomo
d'azione. Ciò che
spiace nel Petrarca
è il notare
qualche freddezza e
ridondanza nel verso
e una 20 certa
ostentazione nell'uso delle
parole che tradiscono il
lavoro di lima,
mentre in Lorenzo
ogni parola appare
al suo posto
«con naturalezza». Dante
vola sublime e
mesce con dignità
severa le cose
gravi dei filosofi
cogli scherzi degli
amanti, ma Lorenzo
nell'aver saputo cospargere
qua e là
versi ilari e
graziosi «sembra abbia
superato Dante». Tuttavia
se Lorenzo appare
più fine, Dante
resta più grande.
Questa lettera scritta
a Firenze nel
luglio del 1484
per l'acutezza di
alcuni giudizi, incontrò favore presso
molti amici e fu uno
dei primi passi
verso la capacità
critica del nostro autore
il quale, se
si è lasciato
prendere la mano
dal calore della
prima impressione e
dalla simpatia che
lo faceva indulgere
troppo verso Lorenzo
bisogna del resto
tenere presenti le
circostanze singolari in
cui nacquero queste
poesie di Lorenzo, le
feste pubbliche in
cui giovinetti e fanciulle
le cantavano, le
mascherate in cui
venivano recitate rivela
tuttavia un acume
penetrante e misurato.
La frase quo
mihi videris Dantem
exsuperasse, potrebbe sembrare
una Opera, 349-50.
Cfr. Carducci, Cavalleria
e Umanesimo, t. XX
delle opere, 1909, 258; ROSCOE,
The life of
Lor., ecc., London,
1800, voi. II;
Thuasne et Dorez,
op. cit., 15;
Geiger, Renaissance und
Humanismus in It.
und DeuL, Berlino,
1882. Vedi infine
il bello studio
di SCARANO, Le
selve d'amore in
Nuova Antologia, voi.
131, 1893, 49-66.
21 recisa dichiarazione circa
la superiorità dell'ingegno del Magnifico,
rispetto a quello
dell'Alighieri, mentre si riferisce
solamente all'espressione
formale in voga
a quei tempi
che tenevano in
gran pregio V hilaritatem
gratiamque in cui Lorenzo
era maestro. Naturalmente
il Pico non
poteva rassegnarsi a
rimanere semplice amatore
di poesia in
mezzo a tanti
dotti che avevano
pagato piiì o
meno il loro
tributo alle Muse;
voleva anch'egli dare
qualcosa di suo
per sottrarsi a
quel senso d'inferiorità
che gli era
reso tanto piiì
penoso quanto piii
sentiva in sé
lo stimolo della
gloria e il
sentimento della propria
ca pacità. S'indusse dunque
a pubblicare i
suoi versi, distribuendoli in
cinque libri, e inviò
il primo
ad Angelo Poliziano
perchè lo correggesse e
criticasse. « Voglia
tu essere, gli
scriveva, giudice equo non
iniquo, cioè severo,
non indulgente ».
E il Poliziano
gli rimandava il
manoscritto corretto di
alcuni versi difettosi,
con questo giudizio
che non è
privo di grazia
lusinghiera: «Ho corretto alcuni
versi non perchè
li disapprovassi, ma
perchè sembrano cedere
ad altri più belli».
Il Pico lusingato
sulle prime da
simile benevolenza dell'amico
per i suoi
componimenti poetici, dei quali
in un'altra lettera
aveva Opera, detto:
. Ecco la
Conclusione Si quis in
• opere prnecedentis
conclusionls
intellectualiter operabi • tur,
per mcridiem li^^abit
septentrionem, si vero
mun • dialiter per
totum operabitur, iudicium
sibi opcrabitur ». 107.
Conci. 21, Opera, 107. Conci.
11. 105-10^1. (4)
• Non potest
operari per puram
Cabalarli qui non
est « rationaliter
intellectualis >. Id. 109.
112 mondo, compose il
suo Heptaplus o
settemplice spiegazione dei
sei giorni della
Genesi. In quest'opera
del Pico, in
cui l'elemento lirico prevale talvolta
sulla serena spiegazione
cosmogonica, i tre mondi:
il divino, l'angelico,
e l'elementare, sono
legati da un'intima
armonia. « Haec
satis de tribus
mundis, in quibus
illud in «
primis magnopere abservandum
unde et nostra
« fere tota
pendet intentio esse
hos tres mundos
« mundum unum,
non solum propterea
quod ab «
uno principio et
ad eundem finem
omnes refe« rantur,
aut quoniam debitis
numeris temperati et
« harmonica quadam
naturae cognatione atque
or« dinaria graduum
serie colligentur ».
L'uomo, in questo
sistema, è il
compendio dell'universo, la sua figura
rappresenta i tre
mondi, l'intellettuale, il celeste
e il corruttibile;
è quindi un piccolo
mondo .
Ma l'armonia non
dev'essere solo una
legge dell'universo, un
dato della realtà
in tutte quante
le sue manifestazioni, essa
deve regnare anche
nel pensiero dell'uomo,
e ogni prodotto
dell' in Heptaplus. Prefatio,
id. 6. «
Nam si homo
est parvus mundus
utique mundus « est magnus
homo, hinc sumpta
occasione, tres mun«
dos, inteliectualem, coelestem
et corruptibilem, per
tres « hominis
partes, aptissime figurai
».61. 113 tcllctto
deve seguire la
legge musicale. Come
nei mondo esteriore
all'armonia si contrappone
il disordine, cosi anche
nelle discipline intellettuali
prevale molte volte
la discordia, prodotta
dalle basse passioni.
È scopo nobilissimo
quello di cercare
l'armonia e di
far notare la concordia anche
nelle teorie più
disparate. Questo scopo
il Pico se
lo prefigge nell'opuscolo
De Ente et
Uno. Era vecchia
la questione se
Aristotile si opponga
a Filatone nella
determinazione dell'essere e dell'uno.
La scuola platonica
ammetteva la superiorità
dell'essere sull'uno (unum
esse superius), mentre
Platone nel Sofista
ne proclama l'identità
(!'. Com'è facile
comprendere, i primi
avevano preso l' ipotesi
per la tesi,
e attribuivano come pensiero
del maestro ciò
che non era
in fondo che
la loro erronea
interpretazione. Quando parliamo
dell'essere, intendiamo con
questo tutto ciò
che è al
di fuori del
nulla, e in
questo senso Aristotile
aveva detto che
l'um» è uguale
all'essere 2). «
tnim vero in
Sophistc in liane
scntcntiam po« tius
loijuitur esse unum
et ens aequalia
•. 243. «
Quomodo usus est
Aristoteles cum uniens
ae. quale fecit.
Nec dictionem absque
ratione sic usurpavit.
« nam
ut vere dicitur
sentire quidcm ut
pauci. loqui autein
ut plures debemus. Contro quei Platonici
moderni che presumonodi
avere dalla loro
Dionigi l'Areopagita, possa
affermare, soggiunge il
Pico, che Dionigi
è piuttosto della mia
opinione, e gli
avversari si trovano nel
dilemma di dover
dire che Dio
è e non
è nello stesso
tempo. L'essere in
sé che diciamo
Dio, non è
l'essere che noi
intendiamo, vale a
dire l'essere concreto^
ma quella superentità,
che è la
pienezza di ogni
essere e che
non procede altro
che da sé
stesso . Noi
dobbiamo ritenere l'uno
superiore all'essere nel
modo stesso che
si dà a
Dio l'attributo dell'unità, principio di
tutti i numeri.
Cosi si spiega
se gli Accademici
attribuiscono a Platone
l'affermazione che l'uno è
superiore all'essere; senza
dubbio intendevano parlare
dell'uno principio di
tutte le cose,
che è Dio.
Nel V
il Pico espone
i modi secondo
cui perveniamo alla
divinità, i quali
però sono sempre
inadeguati a farci
comprendere piena Sed
et Dionysius Areopagita
quem qui centra
« POS disputant
fautorem suae sententiae
faciunt non ne•
gabit vere a
Deo apud Mosen
dici Ego sum
qui sum ».244.
« Hac
igitur ratione vere
dicemus Deum non
esse « ens,
sed super ens,
et ente aliquid
esse superius ».245.
115 mente
Dio (I). Questi
modi sono qiiatii
i li f^ico
li chiama gradi
dell'ascensione dialettica a
Dio; essi corrispondono
alle qualtro forme
musicali che abbiamo analizzato.
La prima forma,
poiché si rivolge
ai sensi coi
suoni, ci fa
conoscere che Dio non
ò forma corporea,
come insegnano gli epicurei
e gli Stoici.
La seconda che
è l'ars numeranJi,
ci fa intuire
nell'essenza divina qualche cosa
che va al di \h
della vita, deirintelligibilitc^, e
cioè la deità
che 6 in
sé. si raccoglie
e si unisce
non come uno
fra molti, ma
come uno innanzi
a molti (2.
Colla terza forma,
che il Pico
fa corrispondere alla
Magia naturale, c'imposessiamo delle
leggi stesse che
presiedono ai destini
umani e nell'ordine mirabile dell'universo
Dio ci appare
non solo come
la bellezza che
traluce in ogni
cosa, come il
vero che può
essere frammentariamente presente
nelle più differenti
dottrine, ma sopratutto come bontà,
poiché l'universo rivela
essenzialmente un valore etico.
La quarta forma,
che nella gradazione
pichiana e la
Cabala pura, ci •
Deus enim nmnimoda
et infinita pcrfectlo
est. ». 247.
• Deus ipse
sua unica pedectione.
quae est sua
« infìnitas. sua
deitas. quae ipsc
est, in se
unit et colligit.
« non sicut
unum ex illis
multìs, scd unum
ante illa multa
>.249. 116 mette
in rapporto diretto
con Dio, senza
peraltro farcelo ben
comprendere. Dio infatti
non è solo
ciò di cui
non può pensarsi
nulla di più
grande, come dice
S. Anselmo, ma
ciò che è
infinitamente pili grande
di tutto ciò
che può essere
pensato. In questo
quarto grado la
nostra mente è
come ottenebrata da
caligine, si da
poter appena intravvedere
l'essenza di Dio
elevantesi al di sopra
della stessa unità,
bontà e verità,
e innanzi a
cui conviene solo,
come dice David,
il silenzio: «
Tibi silentium laus».
Il silenzio! ecco
la musica, la sola
musica che convenga
a Dio. Al filosofo
musicale, è subentrato
il mistico, l'uomo
cioè che rinnega
ogni armonia, ogni
bellezza formale e si
ritira in quel
mondo chimerico in
cui la tenebra
ha lo stesso
valore della luce,
il silenzio ha uguale
malìa del suono . Gli
ultimi anni del
Pico sono caratterizzati da
una vita di
fervido misticismo unicamente
spesa per l'amore
di Dio e
il bene della
Chiesa. A Dio
egli dedicò lo
scritto In Orationem
dominicam ex oEx
quibus colligi illud
potest non solum
esse « Deum,
ut dicit Anselmus,
quo nihil maius
cogitari po« test,
sed id esse,
quod infinite maius
est omni eo
quod « potest
excogitari ».250. «
Ego vero dico
Chimaeram quam mente
conci« pimus ».261.
117 positio; per
la Chiesa scrisse
l'opera poderosa: In
Astrologiam. Nella prima,
che è un'analisi
dell'orazione domenicale,
preceduta da un'enunciazione delle
teorie del Pico, l'elemento
musicale è intimamente
connesso a quel
desiderio il cui
obbietto è il
sommo bene. Diremmo
che quanto più
la preghiera è elevata
e disinteressata, tanto
più è pura
musicalità. Quando l'uomo
prega non per
chiedere favori o qualche
bene immediato, ma
per essere purificato
dai peccati, per
raggiungere la dolce
contemplazione dei beati
e conseguire la
purezza degli angeli
, allora egli
è in contatto
di quel profondo
io, che, come
si esprime il Tagore rivela
l'intima natura dell'uomo
« più che
« il bisogno
di sostentamento per
il suo corpo,
« più che
la sua avidità
di onori e
di ricchezze. «
E quella preghiera
non proviene solo
da lui, «essa
è nella profondità
di tutte le
cose, è l'in
• Scimus autem
illud esse sumnie
desiderandum « quod
est summum bonum
•. Opera, fol.
a 1. Et
monebimur ad petendum
hoc efficacissime su«
per omnia a
Dee ut praeservet
nos a peccato.
Nihil aut
« de rebus
huius mundi, aut
de gratiis gratis
datis vel «
desiderantes, vel a
Dee petentes. Diximus
igitur nihil «
ex his honis...
adiumento esse
sicut scientia et
dulcedo « contemplationem... ^fol.
a 2. 118 «cessante
stimolo in lui
deW Avih, dello spirito
« di eterna
manifestazione (5). Nell'opera
contro gli astrologi,
nel mentre il
Pico ribatte uno
per uno gli
argomenti degli avversari che
si erigevano a
paladini dell'astrologia,
prende occasione per
esporre le sue
idee sulla forma
e le leggi
degli astri, e
per far rilevare anche quella
superióre armonia in
virtù delia quale
si compone l'apparente
disordine del cielo
stellato. Intanto fa
risaltare subito che
è assolutamente arbitraria la
configurazione dello Zodiaco,
come fantastiche e
ridicole sono le
rappresentazioni animali di cui
gli astrologi popolano
il cielo (6).
Bisogna premettere che
l'opera del Mirandolano
rispondeva a un
bisogno del tempo
in cui era
tutto un rifiorire
di pregiudizi astrologici,
magici e negromantici. Il
Pico che in
questo tempo (1492)
frequentava il Monastero
di S. Marco,
in cui convenivano (5)
Tagore, Sadhana, reale
concezione della vita,
tradCarelli, Carabba, Lanciano, 46-47.
Cfr. Semprini, La
preghiera nell' Imitazione
di Cristo e
suoi rapporti col misticismo,
in Rivista di
Psicologia an. 1919.
(6) « Quod
nos in universum
primo declarabimus, tum
« singillatim, quascunque
aliquis Astrologorum signavit
co« niunctiones magnas,
retulitque ad eventa
rerum admi« rabilium,
et falsas et
falso supputatas et
ad effectus falso
« relatas, luce
clarius ostendemus lanti ammiratori
del Savonarola, dovette
sentirsi stimolato dal
frate ad impugnare
quell'arma potente contro la
pretesa degli astrologi,
che consisteva nel far
dipendere i miracoli
dal potere diretto
di Dio e
quindi dalla sua
grazia, non già
dall'influsso degli astri.
Era ben vero
che egli andava
con questo un
pò contro le
convinzioni care de'
suoi amici, contro
il fervore delle
idee astrologiche del
suo tempo e
in parte contro
certe convinzioni sue
precedentemente manifestate. Ma
appunto in questa
serie di contrasti,
la natura sua battagliera
trovava stimolo ad
agire e a
incanalare le aspirazioni
del suo cuore
dietro le orme
del Savonarola. Era
propria dei popoli
primitivi la concezione
che il mondo
fosse un vasto
organismo le cui
parti sarebbero unite
da uno scambio
incessante di molecole
e di effluvi.
Gli astri, generatori
di energia, agiscono
costantemente sulla terra e
sull'uomo, e l'uomo
ha il suo
destino segnato in
una delle tremolanti
stelle che vibra
nella sua corsa
pei cieli insondabili in armonia
con quell'essere umano.
Tale concezione sopravvisse
nel mondo greco,
s'impose agli scrittori latini,
ricomparve arricchita di
una vasta letteratura
nel medioevo e
nel Rinascimento. Al tempo
in cui il
Pico scrisse la
sua polemica il
tema astrologico trovava
dei cultori 120 appasionati e
già Ambrogio Traversari,
Paolo del Pozzo
Toscanelli e Matteo
Palmieri avevano preparato,
colle loro discussioni
nel convento degli Angeli
in Firenze, la
materia per i
difensori e gli oppositori
dell'astrologia. Era pur
sempre in questi
lontani e talvolta
semplicisti precursori della
Astronomia moderna, l'aspirazione
a poter misurare
il corso dei
pianeti, ridurre in
numeri^ in intervalli
di tempo la
danza delle infinite
stelle i cui
movimenti complessi producono
« l'armonia delle
sfere » .
Ma il Pico,
sebbene avesse avuto
un concetto così
grande della potenza
dei numeri e
avesse propugnato la
sua ars numera/idi,
quando vide con
quale leggerezza fossero
numerate le plaghe
del cielo (universas
coeli partes) e
con quale baldanza
venissero attribuite ad
esse le diverse qualità della
natura umana (diversas
in rebus naturalibus proprietates), reagì
con la voce
del buon senso.
È impossibile trovare
un'affinità matematicamente
determinabile fra le
figure del cielo
e le affezioni
umane, com'è anche
assurdo voler determinare
dai segni, dalle
case e dalle
con Soldati, La
Poesia Astrologica del
Quattrocento, Firenze,
Sansoni, 1906, 199-220.
« Erraticae stellae
per zodiacum aequo
cursu non «
deferuntur, hoc est
non acquali temporis
intervallo... qui «
igitur metiri illorum
motus et dirigere
in numeros volu«erunt
».561. 121 giunzioni
degli astri, il
sesso, le qualità
fisiche e morali
degli individui. Anzi
il Pico sembra
andar contro persino alla
sua favorita idea
dell'armonia che gli faceva
vedere rapporti musicali
non solo negli
oggetti tra loro
ma anche fra
la natura e
l'uomo. Egli crede
che si voglia
correre troppo quando
si applicano questi
rapporti musicali agli astri,
poiché la loro
infinita distanza rende
impossibile qualsiasi esatta
determinazione. Vi sono
dei moderni, egli
dice, che vorrebbero
trovare delle dissonanze
e delle armonie
negli astri; come
i musici le
trovano fra le
diverse voci del
suono. Troverebbero delle
assonanze, come tra
la terza e
la quinta, o
dissonanze fra la
quarta e la
settima, anche tra
i triangoli stellati
della quinta e
i quadrati della
quarta. Ma è
un volere, soggiunge
il Pico, prendere
per realtà ciò
che non può
essere che similitudine.
Non vi sono
spazi celesti muti,
altri dissonanti, altri
armonici, perchè il cielo
non emette voce
alcuna . «
Excogitata postremo neotericis
quibusdam de «
musicis consonantiis alia
ratio, ex qua
radios planeta« rum
tum concinnere invicem,
tum dissonare harmonia«
rum quadam similitudine
tradunt. Est enim,
inquiunt, apud «
musicos comprobatum ratione
et experientia tertiam
vo« cem et
quintam primae consonare,
quartam vero et sep« timam
nequaquam ».596. «
Nos vero ut
omittamus istas in
tam diversis re«
rum generibus similitudines, efficaciam,
rationem decla 122 Vi è
sì l'armonia anche
nell'universo stellato, la
legge musicale vige
anche in mezzo
alle erranti comete
e all'immobile fascia
lucente della via
Lattea. Ma questa
musicalità è avvertibile
da ben altri
orecchi che non
siano questi sensibili,
essa appartiene a
quel grado di
cui la musica
dei suoni è
la forma più
grossolana e, per essere
gustata, richiede un
processo laborioso della
mente umana, un'elevazione
spirituale che non
a tutti è
dato raggiungere. Nondimeno
tale elevazione fu raggiunta
e quei pochi
tra i mortali
che hanno potuto
gustare il concento
della sinfonia universale,
si sono sforzati
di tradurre le
impressioni in quelle forme
del nostro linguaggio
che obbediscono più
visibilmente alle leggi
della musica. Nell'opera del
Mirandolano contro gli
astrologi si trova spesso
citato il salmo
XVlll in cui
il profeta Davide
fa risaltare la
grandezza di Dio,
richiamandosi all'armonia del
firmamento. . E
invero pochi brani
delle varie letterature
possono rivaleggiare con questo
salmo che sintetizza
e rende quasi,
con sublime laconicità,
il linguaggio' degli astri.
« Coeli enarrant
gloriam Dei, et
« opera manuum
eius annuntiat firmamentum. «
rabimus non habere
atque computationem et
similitudi« nem non
procedere... sed (coelum)
nuUam vocem emit«
tit ». Opera, 597.
123 «
Non sunt loquelae,
neque sermones, quorum
« non audiantur
voces eorum. «
In omnem terram
exivit sonus eorum
: et in
« fines orbis
terrae verba eorum».
Il suono della
musica stellare è
cosi diffuso e
riempie di sé
ogni punto della
terra, che non
c'è creatura che
non goda di
una tale armonia
e non esulti
alla vista del
re degli astri
che • spunta
fuori qual gigante
per correre il
suo cammino». La
musica degli astri ha
la sua scala
e le note,
di cui questa
si compone, risuonano
in modo diverso
nel cuore umano.
L'uomo, se è
proclive ai beni
frivoli della vita,
non trova negli
astri un'armonia diversa
da quella che
ci descrissero gli
astrologi. Se intende l'armonia degli
astri da un
punto di vista
naturalistico, considera il
cielo alla stregua
di tutte le
cose create soggette
a trasformazione. Le
stelle percorrendo le
loro orbite sono
illuminate da altri astri
a volte compagni
inseparabili, a volte sconosciuti
che incontrano forse
una volta sola
per non più
rivedere nel periodo
lunghissimo della loro esistenza,
durante la quale
mostrano la giovinezza
nelle iridescenze del
verde aranciato, la
pienezza matura nella
chiarità bril «In
sole posuit tabernaculum
suum: et ipse
tamquam sponsus procedens
de thalamo suo:
Exultavit ut gigas
ad currcndam viam
•. Ps. XViiI,
5. 124 lante, l'agonia
nel tremulo guizzo
di porpora. Ma
se invece l'uomo
cerca nel cielo
un simbolo, nelle
leggi che regolano
il corso delle
sfere un termine
di confronto per
le leggi eterne
che sgorgana dal
profondo del suo
io, allora egli
non può non
proiettare in questi
mondi, così lontani
dalla propria esperienza, la
trama delle sue
piij squisite elucubrazioni. S.
Agostino ci ha
descritto in alcune
pagine delle sue
Confessioni il momento
in cui egli
con la madre
Monica, ragionando della
felicità eterna di
fronte al mare
di Ostia, fu
compreso da quelle
squisite risonanze che
sembravano provenire dall'alto. «
Peragravimus gradis cuncta
corporalia et «
ipsum coelum unde
sol et luna
et stellae lucent
« super terram
». Dinanzi a quella
musica tutto quanto
sapesse di suono
era uno strepito^
anche il timbro
della voce più
cara parlante di
cose spirituali: «Et dum
loquimur et inhiamus
illi, at« tingimus
eam modice toto
ictu cordis et
suspi« ravimus et
relinquimus ibi religatas
primitias « spiritus
et remeavimus ad
strepitum oris no«
stri, ubi verbum
et incipitur et
finitur » . Tutto doveva
finire e scomparire
dinanzi a ciò
che era la vera realtà,
la musica celeste.
« Si
cui AUG.
Conf. lib. IX,
cap. X.125 « sileat
tumultum carnis; sileant
phantasiae ter« rae
et acquarum et
aeris, sileant poli
et ipsi * sibi anima
sileat et transeat
se non se
cogi« tando. Sileant
sommia et imaginariae
revelatio« nes, omnis
lingua et omne
signum,et quidquid *transeundo
fit, si cui
sileat omnino ». Ecco
espresso con linguaggio
umano ciò che
rappresenta la musica pura,
il misticismo. 11
silenzio profondo, ottenuto
con l'astrazione da
ogni flusso del
tempo, da ogni
ritmo che accompagna
le cose viventi,
da ogni procedimento
verbale che esprime
il pensiero, è
indispensabile per metterci
in contatto con V Armonia,
che, come ben la definì
il Pico, è
quella legge suprema
in cui si
compone ogni discordia,
si rappacifica ogni
contesa, si unifica
ogni cosa dispersa.
Tale è la
dottrina occulta del
Pico, dottrina che,
pur avendo nel
suo autore diverse
denominazioni : ars numerandi,
ars combinandi, alfabetaria
revolutio, si riduce
a un concetto
sempre chiaro nello
spirito dell' autore: musicalità
o armonia. Ciò
che ci riempe
di ammirazione per
il Pico è
il vedere come
abbia saputo valorizzare
tutto ciò che
nel mondo e
nella vita vi
è di occulto
€ di misterioso, come
protendesse sempre lo
{!> AuG., Con/.,
lib. IX, cap.
X. 126 sguardo suo
curioso al di là della
natura fenomenica e cogliesse
da ogni dottrina,
da ogni scuola,
da ogni manifestazione del
pensiero anche meno
evoluto, anche più
avvolto nelle favole
e nei miti,
quegli sprazzi di
luce sulle arcane
verità che accendevano ognora
la sua fervida
immaginazione. Ed è bello
vedere questo giovane
dovizioso e fervente
compreso della verità
di questa dottrina occulta
che, pur essendo
implicita nelle più
antiche filosofie, dalla
Pitagorica alla Platonica,
dall'Egiziana (Ermete Trimegisto)
alla Cabalistica, non ha mai
trovato alcun assertore
della sua importanza
metodologica, di scienza,
cioè, atta a
farci penetrare nel
sacrario delle segrete discipline. È
bello pure vederlo
sostenere la bontà
della sua dottrina
contro gli oppositori
e i giudici
del santo uffizio.
Egli si sforza,
è vero, di
trovare qualche scappatoia per sfuggire
alla condanna e si rifugia
nella casistica della
scolastica, quando distingue
una Cabala vera
(tradita) da una
falsa, una Magia naturale, da
una illegittima; ma,
pur attraverso i suoi
distinguo, egli afferma
solennemente la lealtà
delle proprie intenzioni,
la sua sincera
dedizione alla verità. Convinto
che la sua
dottrina esigesse da
parte degli esaminatori
una competenza in materia
occulta, cioè una
vera e propria
iniziazione, egli prega
gli amici e
i nemici, i
buoni 127 e i
cattivi, i dotti
e gl'ignoranti che
vogliano leggere i suoi
scritti, con quella
purità d'intenzioni da
cui era stato
mosso nel redigere
le Tesi. E
poiché molte cose
da lui dette
potrebbero trarre in
errore coloro che
non hanno pratica
di scienze occulte,
spera che ciò
che è stato
scritto per gì'
iniziati non venga
esposto pubblicamente a
tutti, perchè sarebbe
come dare le
perle ai porci
e peggiorare la
sua causa. Nel
corso della narrazione
vedremo come venissero ascoltate queste
parole, e come
rimanesse il nostro
fedele alla sua
dottrina esoterica .
(Il «Oro igitur,
obsecro et obtestor
amicos et inimi«
cos, pios et
impios, doctos et
indoctos... non explicitas
« non legant,
quando Inter doctos
eas proposuimus di«
sputandas, non passim
legendas omnibus pubblicavimus
». Opera, 237.
Parte di ciò
che formava il
contenuto di questo
doveva essere
pubblicato nella collana
Ritmo f ndata
da Diego Ruiz,
alle cui idee
originali sul concetto
di musica, benché
contrastanti con le
mie, devo rendere
qui omaggio. VII
La pri:xioiiia del
Pico in Francia.
8cc(MmIo soggiorni» a
Firenze Il Pico
clic riguardava la
città di Parigi
come un luogo
in cui sarebbe
più facile ottenere
quel successo che
a Roma non
aveva potuto conseguire, s'incamminò sulla
fine del 1487
alla volta di
Francia. Innocenzo Vili,
non contento degli
ordini impartiti alle
autorità religiose perchè
denunciassero o impedissero ogni
tentativo del Pico
per divulgare le
sue Tesi e
la sua Apologia,
si rivolse anche
all'autorità secolare, come
fece con un
breve indirizzato ai
sovrani di Spagna,
fi) Bolctin de
la Rcal Accademia
de la tìisioria,
Madrid, Pico de
la Mirandula y
la inquisición cspanola.
Breve inedito di
Innocenzo Vili, cfr.
DoREZ et Th,
op. cit., 71,
n. 1. 130 perchè si
procedesse all'arresto del
Conte recidivo. Nel
Gennaio dell'anno seguente
mentre il Pico
attraversava il Delfinato,
veniva a conoscenza
del breve del
5 agosto «
essendo io nel
cammino di Pranza»,
e fatto arrestare
dal Signore di
Eresse, zio del
re di Francia
e governatore del
Delfinato. L'ordine di
questo arresto si
spiega subito: avendo
il papa inviato
in Francia ai
primi di Gennaio
due nunci di
valore Leonello Chieregato
, vescovo di Traìi
e il protonotario
Antonio Flores, per
trattarvi affari di
grande importanza, come
il processo dei
vescovi che si
erano dichiarati contro
la reggente, e il ritorno
alla Prammatica Sanzione,
incaricò pure costoro
di far ottenere
l'arresto del Mirandolano.
Ed essi con
una tenacia «degna di
cagnotti polizieschi »,
riuscirono, malgrado che
in favore del
Conte intercedesse presso
il re l'ambasciatore del
duca di Milano,
a farlo trattenere
in carcere. La
rocca di Vincennes
nella quale venne
rinchiuso il giovane
conte, dovette ispirargli ben
tristi riflessioni sul
proprio avvenire con
la prospettiva di
una lunga prigionia. Forse allora
piia che mai
avrà sentita a
sé (1,1 BERTI,
/. e. doc.
I, 52. Simeone
Ljubic, Dispacci di
Luca de Tolentis
e di Lionello
Chieregato, Zagabria, 1870, 9-11.Cfr.
DoREZ. et Th.
op. cit., 72,
n. 2. 131 vicina
l'ombra del grande
Origene, le esperienze
della cui vita
egli ripeteva con
non poca somiglianza! Ma se
il Pico aveva
dei nemici che
tentavano ogni mezzo per
perderlo, contava altresì
amici che sinceramente
lo amavano, e
che non l'abbandonarono nella
sventura. La figura
del Magnifico assume,
durante questa drammatica
vicenda, un aspetto del
tutto nuovo e
simpatico, forse perchè
ci è meno
noto, e tanto
meglio riconosciamo
l'umanità del suo
cuore, in quanto
sta a lui
di fronte l'anima
intransigente di Giambattista Cybo, che
portò sulla Cattedra
di San Pietro
i difetti della
sua scarsa intelligenzaLa lettera
che scrisse in
questo tempo (19
gennaio) Lorenzo al
Lanfredini, il quale
non appare molto
ben disposto verso
il Pico, è
una bella testimo
(Ij Fu la
sua bolla contro
la stregoneria (1482)
che elevò, per
dirla col Symonds,
a metodo la
persecuzione contro disgraziate
vecchie e idiote.
Lo Sprenger nel
Malleus maleficarum nota
che, nel primo
anno dopo che
quella fu pubblicata,
41 streghe furono
bruciate nel distretto
di Como. Intorno
alle persecuzioni contro
le streghe nella
Valtellina, vedi Cantù,
Storia della Diocesi
di Como, e
Folengo nella sua
Maccheronea. Non bisogna
però disconoscere il
debito che deve
a Innocenzo Vili
l'Università di Roma
«sotto il quale
co« minciò a
respirare, e a
riprendere in gran
parte il vigore
« e il
lustro primiero ».
RoviNAZZi, Storia dell'
Università degli studi
di Roma, Roma,
1803, 196-197. 132 nianza
dell' affetto che
Lorenzo nutriva per
il giovane Mirandolano. Essa
dice che le
molte persecuzioni che in
Roma si tramano
contro il Pico,
potrebbero menarlo per
disperazione a «
qualche via cattiva»;
che è piiì
facile riuscire nell'intento
con le maniere
dolci che con
bolle e scomuniche,
che avendo fatto
esaminare l'Apologia a
persone religiose e
dotte e intelligenti,
le quali non
trovarono nulla contro la
fede, non può
comprendere perchè si
voglia essere così
intransigenti, massime quando
chi ha scritto
tali cose è
un « giovane
doctissimo et fresco
su la doctrina».
Meno nota ancora
è la parte
che ebbe in
favore del Pico
Chiara Gonzaga, sorella
del Marchese Francesco di
Mantova, la quale,
andata sposa nel
1481 a Gilbert
di Montpensier della
Casa Borbonica, cooperò
con insistenza presso
il consorte, così
che questi «
motus praecibus et
commendationibus « quae
ex Italia mittebantur
» , ottenne
che il re
Carlo Vili, che
non nascondeva le sue simpatie
verso l'illustre erudito,
menasse le cose
per le (Ij
Berti, 1. e, 32.
(2i « Numerose
lettere gli arrivavano
ugualmente dal« r
Italia, in cui
contava molti amici,
tanto alla Corte
di « Milano
che a quella
di Roma, i
quali lo pregavano
di « usare
tutta la sua
influenza sul re
in favore della
causa « del
Mir. » Dorez
et th,. op.
cit., 97. V.
anche nella stessa
opera appena, doc.
V, 4, 133 lunghe.
I nunci, frattanto,
la cui opera
svolta in rigida
conformità ai brevi
pontifici, è ampiamente
trattata col sussidio
di preziosi documenti
dal Dorez e
dal Thuasne nell'opera
piìi volte citata,
dovendo lasciare Parigi
per accompagnare la
Corte « pour
l'expédition des autre
affaires dont ils
étaient chargés »,
incaricarono il vescovo
di Grenoble, Laurent
Allemand, di volerli
sostituire. Ma ormai
era troppo tardi:
il Pico, dopo
una prigionia di
circa un mese,
venne posto in
libertà, e potè
passare il confine. Corse
allora la voce
ch'egli si fosse
recato in Germania,
avendo più volte
espresso il desiderio
di visitare la
biblioteca del Cardinale
di Cusa e
di fare acquisto
di libri. Si
disse pure che
fosse stato invitato
dal re di
Castiglia, Ferdinando, che
si era mostrato
desideroso di riceverlo onorevolmente
nel suo regno .
il vero si
è che il
Pico ripassò le
Alpi e giunse
all'ospitale Torino. Mentre
attendeva a riordinare
in questa città
le sue cose,
libri e ba ll
i DOREZ
et Th. op.
cit., 92. Qual'era
il movente di
questo re, si
domanda il Dorez,
la cui slealtà
e perfidia sono
i suoi caratteri
salienti, ad invitare nel
suo regno il
Pico? Forse per impadronirsi
della sua persona
e consegnarlo al
Santo Uffizio per
ingraziarzi Roma? l'ipotesi
non è inverosimile.
Op. cit., 99-100.
134 gagli, che durante
la cattura erano
stati manomessi, e a
scrivere in tal
senso a Filippo
di Bresse e
ad altri personaggi,
di cui ora
non aveva piiì
nulla a temere
0); ricevette una
lettera dal Ficino
(30 maggio) che
gli offriva 1'
amichevole protezione del
Magnifico e lo
invitava a Firenze.
Intanto nell'animo dei nunci
si era prodotto
un cambiamento singolare,
come lo dimostrano
le parole con
le quali terminano
uno dei loro
rapporti al papa:
« Existimamus qiiod
bonum esset si
Sanctitas Vestra «
eius conversioni et
ad gremium suum
reductioni « operam
darei » .
Tuttavia l'animo del
pontefice era lungi
dall'essere placato e
disposto a rimetterlo nella sua
buona grazia; forse
gli suonava sgradita la
frase con cui
il Pico lo
aveva qualificato nell'Apologia: cui
ab innocentia vitae
nomen meritissimum. Si
sa infatti che
Giovan Battista Cybo,
prima di abbracciare
lo stato ecclesiastico, visse
nella depravata Corte
aragonese, conducendo una
vita punto migliore
dagli altri, ed
ebbe due figli
naturali : Teodorina
e Franceschetto. Sebbene,
come osserva il
Pastor, non si
abbiano testimonianze sulla
sua condotta morale,
allorché entrò nello
stato sacerdotale, pure
quando fu divenuto
papa, Op.
cit, 100-101. Docum.
V, 6, cit.
dal DoREZ et
Th., op. cit, 162
€ anche 101.
135 -correvano voci sopra
altri figli, ed
è notorio un
epigramma del poeta
Marnilo che taluno
prese alla lettera:
. Octo nocens
piieros genuit, totidenque
puellas; Hunc merito
potuit dicere Roma
patrem •. Del
resto è con
questo papa che
si accentua quell'infausta politica
che produrrà la
piaga del nepotismo
da cui tanti
guai derivano all' Italia.
Innocenzo Vili pone
sulla scena politica
il suo figlio
Franceschetto, giovane più
che mai dissoluto, il
quale « commetteva
disordini tali, che
in «un figlio
del papa doppiamente
sconvenivano », a cui diede
in isposa Maddalena
de' Medici, stringendo
così parentela con
Lorenzo il Magnifico (l). Questi
perorò insistentemente la
causa del Mirandolano
presso il papa,
il quale da
uomo debole ed
arrendevole com'era, si
lasciava con dì Pastor,
1. e, 197.
Se Sisto s'era
arricchito colla vendita
di ogni sorta
di grazie e
di dignità, Innocenzo
e suo figlio
eressero addirittura una banca
di grazie temporali,
nella quale dietro
il pagamento di
tasse alquanto elevate,
poteva ottenersi l'impunità
per qualsiasi assassinio
o delitto: di
ogni ammenda 150 ducati
ricadevano alla Camera
papale, il di
più a Franceschetto... Per
Franceschetto la questione
principale era di sapere
come avrebbe potuto
piantare tutti con
quanti tesori poteva,
nel caso che
il papa venisse
a morire. Burckhardt,
op. cit., 126.
136 vincere dai malevoli
per intentare qualche
cosa di serio
al Pico. Ad
irritarlo maggiormente contribuirono alcuni famigliari
del Mirandolano, i
quali, avendo «
troppo temerariamente e
super« bamente parlato
contro il papa
» erano stati
messi in carcere,
recando così pregiudizio
alla causa stessa
del loro Signore.
Questo incidente impensierì
non poco il
Pico, cui premeva
che le dicerie
esagerate a suo
riguardo non finissero
per alienargli la
simpatia di Lorenzo,
e in questo
senso chiedeva informazioni
al Salviati, fornendogli
le prove della
sua incolpabilità in
tale faccenda. A
questa lettera rispose
il Ficino rassicurandolo della
costante benevolenza di
Lorenzo il quale soggiungeva
« il
tutto volentieri udì
e per ciò po« temmo
considerare che nell'animo
suo non era
« odio alcuno
verso di voi,
ma tutto amore
» . Che
così fosse lo
vediamo in un'altra
lettera del Ficino
(30 maggio 1488)
in cui narra
che Lorenzo, pur
nel dolore per
la morte di
una sua figliuola,
trova modo di
pensare al Pico,
la cui sorte
travagliata gli pare simile
alla sua, quasi
che un (1
« É ti
fa l'effetto di
un uomo il
quale si lascia
consigliare da altri più
anzi che da
sé stesso »,
scrive l'ambasciatore
fiorentino il 29
Agosto 1484. 2'
Come attesta una
lettera del Ficino,
lib. Vili, trad.
Figliucci senese, Venezia,
1548, t. II, 114. 137 fato
gravi sulla vita
dei principi e
degli uomini grandi,
il medesimo, dopo
aver accennato da
«quanti pericoli sia
questo giovane minacciato»,
rivolgendosi al Ficino
dice: «E voi
avete mai di
questa cosa qualche
più ascosa causa
ritrovato ? »
Al che il
Ficino risponde, conforme
alle sue teorie,
che la causa
risiede nelle essenze
che presiedono, come
ai vari ordini
di uomini, alle
congiunzioni dei pianeti;
per cui essendo
tanto Lorenzo che
il Pico nati
sotto la «copula
di Saturno», i demoni
di questo sono
ostacolati da quelli
di Marte. Tuttavia
siccome Saturno è
superiore a Marte,
così i demoni
che presiedono alla
loro sorte, avranno
il sopravvento su
quelli avversari (1
). Questa lettera illustra
l'indole mistica e
superstiziosa del Ficino,
il quale dilettavasi
di predire il futuro
agli amici, e
a proposito del
Pico soleva dire
che era nato
l'anno in cui
egli aveva posto
mano alla traduzione
di Platone, ed
era venuto a
Firenze il giorno
e l'ora stessi
della publicazione. Il
Pico da parte
sua si tenne
sempre esente da
queste aberrazioni, grazie
a quell'amabile ironia
insita nella sua
natura. Ecco com'egli
scherza sul significato
del pianeta Saturno
e sulla fede
che l'amico dimostra
nell'influsso delle stelle.
« Forse, 1»
lib. Vili, 119-120.
10 138 « dice,
Saturno non è
cosi propizio come
voi as« serite,
perchè il suo
moto retrogado comunica
« la stessa
direzione ai vostri
passi ogni volta
«che v'incamminate per
venire da me,
perchè «per ben
due volte siete
tornato indietro*. Ritornando
a Lorenzo, questi
non si lasciava
sfuggire nessun'occasione per
rendersi utile al
Conte. Essendo di
passaggio per Firenze
Anton Maria, fratello
del nostro Giovanni,
che si recava
a Roma, Lorenzo
lo incarica di
« operare gagliar«
damente per indurre
il Pontefice a
far venire a
« Roma il
conte Giovanni. A
me piacerebbe que«
sta venuta perchè
forse (Giovanni) purgherebbe
« questa sua
calunnia et contumacia,
et sua San«
tità lo raccoglierebbe in
grazia » .
Veramente nessuno sembrava
più indicato a
perorare presso il
Papa la causa
di Giovan Pico
del fratello Anton Maria,
il quale godeva
la benevolenza di Innocenzo
Vili, ed
era dal medesimo
protetto in ogni
contesa che, a
causa della signoria
della Mirandola, aveva
col fratello maggiore
Galeotto. Ma non
pare che quegli
si desse molto
d'attorno per Giovanni,
e il Papa
era pieno di
un si osti
li) Epist. libr. Vili, 120.
Dal carteggio mediceo,
riportato dal Berti
nel suo studio
1. e, 35. 139
nato rancore, che
nulla valeva a
migliorare la situazione
del Mirandolano. Tuttavia
le insistenze del
Magnifico riuscirono alfine
a smuovere l'animo
di Innocenzo Vili,
che accondiscese a
permettere al Pico
di venire a
Roma a discolparsi
dinanzi a testimoni,
riservandosi di dargli quella
penitenza che avrebbe
creduta necessaria all'uopo. Il
Mirandolano, cui era
pervenuta una lettera
di Lorenzo che
si dimostrava contento dell'esito
promettente delle sue
premure, non sentendosi
ancora disposto a
fare il gran
passo, credette più
opportuno di fermarsi
a Firenze (giugno
1488). Quivi, nella
città che aveva
dato il primo
spunto alla sua
gloria, vicino agli
amici che teneramente
10 amavano, si
senti rinascere alla
gioia dello studio,
una gioia però
velata da un'intima
tristezza che gli derivava
dal suo sogno
svanito. 11 dissidio
interiore che qualche
anno addietro aveva
provato nella città
fiorentina, si era approfondito
in un
doloroso travaglio, che
non toccava solo
come allora una
parte della sua
attività, oscillante da
una forma di
espressione a un'altra,
ma investiva tutto
il suo essere,
sì «
Laurentius..., scrive il
Ficino, praestantissimus, et
« metuetur et
Picum ad Florentem
revocat urbem ».
Opera. da portarlo, attraverso
a una crisi
spirituale, sulla via
del misticismo. Pur
in mezzo agli
amici e alle
persone dotte di
Firenze che ambivano
la sua compagnia,
si sentiva inquieto
come se qualcosa indefinibile ma
necessaria gli mancasse;
la parola «eretico»,
ronzando insistente all'orecchio
anche tra i
conviti e le
adunanze allegre, gli
dava un senso
d'isolamento che lo
rendeva malinconico. Gli amici,
che notarono, senza
forse comprenderne i
moventi, l'avvenuto cambiamento,
s'affrettavano a darne
notizia agli altri
lontani, in vario
modo. « Il
signor Giovanni Pico scrive «
il Ficino ad
Ermolao Barbaro che
ora in Fio«
renza alla filosofia
attende, assai vi
si racco« manda
». E Lorenzo
che ha sempre
per il suo
Pico parole di
tenerezza, scrive: «Il
conte « della
Mirandola si è
fermato qui con
noi, dove «
vive molto santamente,
ed è come
un religioso, «
ed ha fatto
e fa continuamente
degnissime opere «in
teologia; commenta i
salmi; dice l'officio
or Knte et
Uno». Appena il
Pico ebbe terminato
il suo Ettaplo
l'inviò per primo
a Lorenzo al
quale l'aveva dedicato, e
il A\aj:;nifico si
affrettò a passarlo
a Roberto Salviati, perchè
lo facesse esaminare
dai dottori, e
poscia pensasse alla
pubblicazione. Il Salviati
risponde che l'opera
del Pico, «primizia
de' suoi studi',
gli fece nascere
un sincero affetto
per il giovane,
ben degno dell'amore di
Lorenzo; perciò, essendo
stata giudicata
eccellentissima, sarà suo
dovere di curarne l'edizione con
la massima diligenza
perchè riesca utile
agli studiosi. E
infatti, tosto che
V Ettaplo fu
terminato di pubblicare,
venne dal Salviati distribuito a
tutti i letterati
di Firenze e
inviato agli amici
delle varie città
d' Italia. Quest'opera
armonicamente concepita, scritta
in un latino
150 piano e
scorrevole, non privo
di colorito nei
passi più salienti;
con la fusione
ben riuscita delle
varie teorie che
s'imperniano tutte intorno
a un'idea centrale:
la identità di
pensiero che riusciva
a svelare nei
misteri di Mosè
col pensiero di
tutti gli altri
filosofi che hanno
fatto uso del
velame arcano; infine con
un'intuizione semplice e
grandiosa del cosmo,
che dalla distribuzione
dei cieli, delle
cose create e
delle facoltà dell'uomo,
accoglieva in una
euritmica totalità il
sistema cabalistico, gnostico,
neoplatonico e peripatetico,
non poteva non
destare unanime ammirazione
nei dotti di
allora. Molte sono
le testimonianze, specialmente epistolari, che
attestano il grande
successo ottenuto dal Pico,
che ormai era
ritenuto un vero
portento dagli uomini
piij rappresentativi di
quel tempo. Al
Salviati, che era
l'editore più importante
di Firenze, scrivono
con espressioni d'entusiasmo
per l'opera del
Mirandolano da ogni
parte d' Italia gli
umanisti che avevano
ricevuto copia dell'
Ettaplo. Nella raccolta
delle lettere comprese
nelle Opere del
Pico, troviamo quelle
del canonico della
Badia di Fiesole,
di Baccio Ugolino,
di Giuliano Maio
di Napoli, del Poliziano,
che non
si stima degno
d'essere avvici Opera, 393-94
e 303-407-409. 151 nato al
Mirandolano, di Ermolao
, che confessa
d'aver letto Vexameron
tutto d'un fiato,
del vecchio Cristoforo
Landino, al quale
pare di veder
congiunte nel Pico
la sapienza dei
filosofi greci con
la dottrina dei
Padri della Chiesa.
E l'eco di
questa unanimità di
ammirazione per V
Ettaplo varca anche
i confini d'Italia,
come dimostra una lettera
scritta al Salviati
da Bartolomeo Ponzio, addetto
alla Corte di
Mattia Corvino, re d'
Ungheria. Forse nessuna
lode poteva tornare
più gradita al
Mirandolano di quella
tributatagli dal suo antico
maestro, Giambattista Guarino,
il quale, scrivendogli da Ferrara,
loda la vasta
cultura profusa in picciol
volume dal suo ex allievo
(ex tuo praeccptorc
factiis sum tibi
discipulus). Il Pico
era di quelli
che nella gloria
non dimenticano chi
per primo ha
aperto le porte
dell'anima, illuminandola
alla luce del
sapere. Rispondendo al
vecchio precettore, lo
prega di non
corrugare la fronte
se lo chiamerà
a partecipare della gloria
che gli deriva
dal suo Ettaplo .
Ed era sincero,
perchè non c'è
soddisfazione più intima
di quella che
si prova al PoLiT.
Epist. lib. II.
Opera, 390-91. Opera, 396-9.7
152 riconoscimento del proprio
valore da parte
di quegli che,
essendo stato maestro
nell'adolescenza, rimane
impresso come un
giudice equo e
spassionato. Ma quanto
favore incontrò V
EU apio fra
i dotti umanisti,
altrettanto severamente venne
accolto da parte
dei teologi romani
che vedevano in
esso un'altra prova
del persistere del
Pico nell'attitudine
contraria alle dottrine
ortodosse della Chiesa.
Non migliorava quindi
la posizione del
Mirandolano di fronte
al Pontefice, il
quale^ facendo suo
il giudizio della
Curia, assumeva un
atteggiamento sempre più intransigente. Invano
si adoperava Lorenzo per
mezzo del Lanfredini
a mitigare l'animo di
Innocenzo Vili, e
invano gli faceva
pervenire uno schema
di Breve, compilato
dallo stesso Pico,
per dimostrargli a
quali condizioni il
conte si sarebbe
sottomesso. Il Papa
era irremovibile e
rispondeva al Lanfredini che «
il caso del
Pico era importantissimo »
e che ben
« altra cosa
era gratificare Lorenzo
del « figliuolo
(accenna al cardinale
Giovanni) o com«
piacerlo non entra
questi casi della
fede». Berti,
Op. cif. 39.
Ecco parte della
lettera del 27
agosto 1489 in
cui il Pico
dopo aver espresso
la gratitudine sua al
Magnifico, seguita: «
Quello ch'io desidero
« è un
Breve, nella forma
eh' io scriverò
di sotto. Faccia
» vedere la
Sua Santità se
per concederlo, ne
li può na 153 II
fratello Anton Maria
aveva riferito al
nostro Giovanni che
un certo monsignore
di Napoli lo
accusava di due
cose: che cioè
egli aveva sparlato della Bolla
a Parigi e che continuava
a trattare di nuovo
quelle cose che
gli erano state
vietate. II Pico
allora si difende
contro la prima
asserzione, chiamando a
testimoni gli stessi
« ora« tori
che erano in
Pranza, se non
vogliono tacere « el vero
» : e
contro la seconda
che « non
ho « scripto
altro di nuovo
che quella expositione
« sopra el
Genesi ch'io ho
mandata alla M.^'^
Vo« stra, et
Lei può far
fede se è
contra el Papa
o « no,
che tanto è
distante dalle materie
di quelle «conclusioni,
quanto è il
cielo da la
terra». II Magnifico,
infatti, faceva fede
che l'opera era
« stata veduta
da quanti religiosi
dotti ci sono
e « uomini
di buona fama
e di santa
vita e da
tutti è «
sommamente approvata, né
io però sono
si cat« tivo
cristiano che quando
ne credessi altro,
me •« scere
o danno, o
vergogna, o scandalo
alcuno nella Ec«
desia di Dio,
ch'io so gli
sarà detto di
no, se ne sa« ranno
domandati huomini non
passionati. Il Breve
voria « che
fusse in questa
forma: Havendo tu
già proposte per
« discutere alcune
conclusioni fu iudicato per
noi che «
il libro di queste non
fosse Ietto, come
in una nostra
«tale Bolla si
contiene ecc.». Dall'Appendice II,
doc. I, nello
studio del Berti,
1. e. 39
e 51-53. Berti, doc.
I, Append. Il, 52-53.
154 « lo tacessi
o sopportassilo. Sono
certo se costui
« (il Pico)
dicesse il credo,
cotesti spiriti malvagi
« direbbero ch'è
un'heresia ». La
lettera poi accenna
alla debolezza del
Papa il quale,
essendo occupato in
molte altre cose,
si lascia raggirare
da persone malevoli
che, « come
diavoli lo ten«
tano con queste
persecuzioni e sono
troppo cre«duti». Avverte
che il conte
è «un istrumento
« da saper
fare il male
e il bene
» così che
tormentarlo sarebbe farlo deviare
dal bene («e ul«timamente si
era ridotto qui a vivere
santamente «e con
buoni costumi e
quetare l'animo suo
*) e fargli
tentare cosa che
« potrebbe essere
di gran «scandalo».
E conclude: «Se la forza
gli farà «
pigliare altra via,
io ci perderò
poco perchè in
« ogni luogo
dove anderà, so
mi vorrà bene,
per« che ne
voglio assai a
lui». Esorta quindi
l'oratore a fare il
possibile per riuscire
nell'intento « che
non potreste mai
stimare quanto questa
cosa « mi
è molesta e che passione
mi da » . Tutto
inutile; il Papa
era irremovibile e
non sapeva capacitarsi a
veder persistere uno
che aveva ancora
l'aspetto di scolaro
imberbe, a sostenere
cose di teologia,
per le quali
si richiede una
lunga vita Lettera
conservata dal Fabroni
Laurentii Medicis Magnifici Vita, voi.
II 291. Cfr.
Berti in op.
citata pag. 39.
Id., 40. 155 di
studio: «perchè, diceva
il Papa, non
si mette «
a fare della
poesia ?» Questa
gli pareva un'applicazione più rispondente
alla sua giovane
età. Cotesta frase
del Papa, che
può parere ironica,
ed è invece
sprezzante, dimostra quanto
poco ei sapesse
comprendere quell'anima assetata
di gloria e di
luce, che coiu)Sceva
tutte le ansie
del dubbio e
il tormento di
tante notti insonni
per decifrare, nei
libri degli orientali,
qualche sparso raggio
della divinità. 11
Papa arrivò a
dire, anzi, che
V Ettaplo peggiorava
la causa del
Pico « es *
sendosi trovata questa
opera sopra il
Genesi, « et
vista per questi
docti di Sacra
Scriptura, «l'hanno dannata,
perchè in molte
parti entra «
nelle medesime heresie,
et quelle medesime
cose * che
sono state detestate
per indirecto, lui
le in« troduce
in questa opera
in molti luoghi».
Bisogna poi aggiungere
che il libro
del Pico sortiva in
un brutto momento
per trovare in
Innocenzo Vili un animo
ben disposto, essendo
in quel tempo
amareggiato dai gravi
scandali che Cit.
dal Berti, I.. e.
39.
Si deve convenire
che contrariamente all'asserzione del
Pico che sosteneva
non aver tenuto
ncW Ettaplo parola
del contenuto delle
conclusioni, abbonda invece
di quelle idee
che erano state
condannate nelle Tesi.
E noi abbiamo dimostrato come
l' Ettaplo sia la
sistemazione delle varie
teorie che formano
argomento delle conclusioni.
156 erano avvenuti proprio
a Roma in
seno alla sua
famiglia. Stando cosi
le cose, il
Pico si rassegnò per
il momento a
rinunciare ad ulteriori
pratiche e tutto
s'immerse negli studi
ch'erano forse l'unica
cosa in cui
trovasse continue e
pure soddisfazioni. Riprese
con gioia lo
studio delle Sacre
Scritture e in particolar
modo dei Salmi,
di cui voleva continuare l'esposizione
esegetica. A farsi
aiutare nel lavoro
di traduzione dall'ebraico,
il Pico teneva
presso di sé
un giovane ebreo,
Clemente, il quale, essendo
stato convertito al cristianesimo
e indotto a
vestire 1' abito
di S. Domenico, è
richiamato da Lorenzo
come una prova
dello zelo cristiano
del Pico, e
un esempio per
stornare la vana
calunnia di eresia
. Grande Nell'anno
1489 venne scoperta
in Roma una
lega d'impiegati senza
coscienza,! quali esercitavano
un traffico lucroso con
Io spaccio di
Bolle papali falsificate.
Franceschetto Cybo dava
l'esempio peggiore e
getta uno sprazzo
di luce sulle
condizioni morali della
Corte pontificia. In
compagnia di Girolamo
Tuttavilla percorreva nottetempo
le vie e
per futili motivi
aggrediva le case
dei cittadini riscuotendo
di necessità scherno
e vergogna. Presso
il cardinale Riario
perdette in una
notte 1400 ducati
e si lagnava
poi col papa
d'essere stato raggirato.
Pastor, 237. L'accenno
nella lettera di
Lorenzo al Lanfredini
è testualmente così:
tra gli altri
segni di vita
cristiana del Pico,
vi è quello
« di aver
convertito un ebreo,
giovane 157 era l'aspettativa
per questo lavoro
del Pico tra
i letterati e
gli amici, le
cui lettere di
questo periodo vi alludono
come a qualche
cosa del genere
dell' Ettaplo. «
Ci aspettiamo davvero
qualche «cosa di
delizioso, scriveva Matteo
Vero al Sal*viati,
dagl'inni di David,
ch'egli ò dietro
a in«terpretare e
a spiegare con
grande premura. «
A compiere il
qual lavoro mi
compiaccio che «in
questo momento abbia
scelto la quiete
del « nostro
Cenobio di Fiesole,
dove il solo
vederlo «e udirlo
è una vera
gioia». Siccome all' infuori del commento
al salmo XV, di cui abbiamo
già parlato, non
ci rimane nulla,
se non qualche
frammento inedito, scoperto
dal Ceretti, che
possa giustificare l'ipotesi
che il Pico
facesse un Commentario
di tutti i
salmi, dobbiamo ritenere
ch'egli continuasse lo
studio dei salmi
più tosto per
un bisogno suo
particolare, per fare
cioè una specie
di esercizi spirituali;
e questo spiega
anche perchè amasse
ritirarsi nel Cenobio
fiesolano. Ad avvalorare
questa nostra supposizione
ci soccorre la
lettera ch'egli scrive
il 13 gennaio
1490 « assai
dotto in quella
lingua, al quale
faceva tradurre «
certe opere in
casa sua e
colle armi sue
medesime e «
ridotto a farsi
cristiano, che non
sono opere da
eretici ». Il
Berti corregge il
Fabroni da cui
desume questa lettera e
che publicata con
la data del
1492 è invece
del 1489. 1. e. 41.
Cfr. anche Cassuto, 315-317.
Opera, 393. 158 da
Firenze a un
certo padre F.
B. C. che
lo esortava a una
vita pia e
virtuosa. « Vedrai,
sog« giunge il
nostro, che, quando
mi sarà dato
di « ritirarmi
nella solitudine, allora
potrò filosofare «
piamente (pie philosophari)
e congiungere la
«pietà alla sapienza.
Anch'io sono convinto
non « esservi
vera sapienza quando
manchi la eterna,
« poiché il
trattare le varie
discipline, può ben
« dare il
colore alla pelle,
ma non farci
più belli. «
Ma la mente
sana, ferma, gagliarda
non si può
«sperare che dall'integrità della
vita, dai buoni
« costumi e
infine dalla santa
religione ». Non
dobbiamo credere che i soli
salmi assorbissero il suo
tempo; coltivava anche
gli studi teologici e
filosofici, certo anche
quelli poetici, come
si ricava da
una lettera datata
da Firenze l'undici
febbraio dello stesso
anno, indirizzata ad
Aldo Manuzio. «
Ti mando 1'
Omero che mi
hai chie« sto
tempo fa; mi
trovo così stretto
dalle occu« pazioni,
Aldo mio, che
non ho neppure
il tempo «
di respirare. Mi
sono dato alle
lettere le cui
« esigenze sono
cosi grandi che
ho appena il
«tempo di rimettermi
in salute .
Tu che stai
« per accingerti
alla filosofia, ricordati
che non Opera, 375.
Questa frase indica
che la salute
del Pico doveva
essere alquanto scossa,
e forse si
era ritirato a
Fiesole anche per
scopo di cura.
159 « vi è
nessuna filosofia che
ci dispensi dalia
ve« rità dei
misteri: la filosofia
cerca la verità,
la «teologia la
trova, la religione
la possiede'». In
queste tre sentenze
il Pico ci
dà, in ct)mpendio,
il programma de'
suoi studi, i
quali andavano orientandosi verso
quella fase finale
della sua attività,
che è, come
in ogni processo
della vita umana,
la liberazione dello
spirito dagl'impacci del mondo
esteriore. E così
avremo modo di
notare come nel
Pico questo processo
si svolgesse con ritmo
più accelerato che in altri,
e il ciclo
si chiudesse proprio
nel periodo che
d'ordinario separa il trapasso
dallo spirito volitivo
che cerca di
fissarsi nel limitato,
allo spirito libero che
aspira all'infinito. Durante
la primavera, per
riprendere il vigore
delle sue forze,
usciva sovente con
qualche amico a
passeggio pei dintorni
di Firenze: e
il Ficino ci
ha descritto con
insolita semplicità, in
una sua lettera
a Filippo Valori,
una di quelle
passeggiate che i due
filosofi solevano fare
insieme, ragionando con
poetico fervore delle
comodità della vita . Ecco
in che modo
il Pico stesso
faceva conoscere a
Battista Spagnuoli come
Opera, 359.
« Alli giorni
passati andando a
spasso il nostro
Pico « della
Mirandola, uomo certamente
meraviglioso e io
per « gli
colli di Fiesole,
riguardavamo cosi per
il cammino tutto
160 passasse il suo
tempo. « Al
mattino, dice, mi
« applico assiduamente
alla concordanza di Pla« tone
e di Aristotile,
serbo le ore
meridiane agli «
amici, alla ricreazione
dello spirito mediante
la « lettura
dei passi e
degli oratori, le
ore della «
notte le ripartisco
fra lo studio
delle sacre carte
« e un
breve sonno». Come
si vede il
Pico aveva intrapreso
un lavoro che lo teneva
occupato le ore migliori
della giornata, e
cioè la concordia
dei due massimi
filosofi dell'antichità. A
tale intento domanda
in prestito agli
amici i libri
che gli occorrono
e, se non
li trova a Firenze,
li chiede per
lettera a quelli
che risiedono in
altre città. Ringraziando
in una sua
Baldassarre Migliavacca di Milano
delle copie dei
libri greci inviatigli,
lo prega di
acquistargli il commento di
Giovanni Grammatico sulla
fisica di Aristotile
e, se gli
è possibile, anche
la metafisica dello stesso
filosofo . Nel
mentre che si
fa inviare dal
carmelitano Battista Mantovano
l'indice della Biblioteca di
Bologna in cui
risiede, gli chiede
ragguagli intorno alla
vita di Filostrato
« il paese
di Fiorenza, habitazione
per certo felice,
pur « che
due soli incommodi
si schivassero, cioè
la nebbia «che
l'Arno cagiona e
i gran venti
del monte che
gli è « opposto ».
Fi(;;iNO, Epist. voi.
cit. lib. IX. Opera, 358-59.
Opera, 370. 161 e
del filosofo Zaccaria
che il frate
aveva conosciuto a Roma .
Da tutte queste
lettere traspare il grande
affetto che ormai
legava il Pico
al Poliziano e
nei saluti agli
amici troviamo sempre congiunto il
nome di lui.
Scrivendo agli ultimi di
luglio a Ermolao
lo prega, con
dolce rimprovero, di voler
moderare le sue
lodi {me iani
qiiacso lauda modice)
poiché gli è
stato riferito dal
fratello Anton Maria
che Ermolao, lo
portava a cielo
dinanzi a lui,
agli altri e
« allo stesso
Pontefice » :
per altro lo prega di
amarlo senza ritegno
{diun iamen anies
immodice) e termina
la lettera: «Ti
saluta il Poliziano
amandoti e lo«
dandoti sempre un
immodico (immodicus) ".
Ed Ermolao rispondendogli a sua volta
da Roma il
13 agosto, dopo
aver detto che a ciò
è mosso da
un prepotente bisogno
di essergli vicino
col pensiero, con
la voce, con
lo scritto, perchè
trova più giocondo
il dire che
l'udire essere l'amico
suo pieno di
candore, di bontà,
di umanità, termina
lo scritto: 'Vale
cum Politiano «meo^>. appunto perchè
sa che così
si rende più
accetto all' amico
. Anche nell'
epistolario del Poliziano abbiamo
la testimonianza di lei. 369.359-360.
391. 162 questo attaccamento
reciproco dei due
letterati. Degna di
nota è la lettera che
il poeta scrive
alla «fedele Cassandra»,
dotta fanciulla di Venezia,
la quale, desiderosa
di mettersi in
corrispondenza col più celebre
poeta del tempo,
gì' invia alcuni suoi lavori
letterari (orazioni, epistole,
versi, scritti di
argomento filosofico ecc.);
ed il Poliziano
trovandoli scritti con
eleganza, con gravità, e
con una certa
virginea semplicità, non
priva di dolcezza,
così la saluta:
« Decus Italiae
virgo», nuova Aspasia,
Saffo, Corinna, degna
di stare accanto
alle donne più
celebri dell'antichità. Ma non si
appaga dell'ammirazione; egli
vorrebbe contemplare il
volto castissimo della
vergine, vedere il portamento
e le movenze
della sua persona, bevere, quasi,
con orecchi assetati,
le parole ispirate
delle muse, poiché
allora trasumanato (consuinatissimus) dall'aflato
suo, non temerebbe
nel canto il
Tracio Orfeo e
la di lui
madre Calliope. « Certamente
finora, soggiunge, soleva
am« mirare Giovanni
Pico della Mirandola,
come il «
più bello e
il più dotto
dei mortali. Ed
ecco « che
ora. Cassandra, io
presi ad amare
te ancora «subito
dopo di lui,
anzi insieme con
lui». Come si
vede, c'era una
differenza tra l'affetto
del Pico e
l'amore del Poliziano
: in realtà
quello POLITIANI
Episf. ed. cit, 103-05.
163 del primo
era un'amicizia che
derivava da quell'ascendente che non
può non esercitare
un temperamento poetico, quand'anche
l'esteriorità della persona
non abbia alcuna
attrattiva e del Poliziano si
dice che fosse
alquanto deforme — ;
quello dell'altro, invece,
era quasi un
amore ispirato dalla contemplazione estetica
di un giovane
dalle forme squisite,
tanto più ammirate
in quel tempo
in cui rinascevano,
fra tante altre,
le preferenze classiche per
la bellezza androgina.
Un fatto che
in questo tempo
tornò di sommo
gradimento al Pico
e a' suoi
amici, fu la
notizia dell'elezione a
patriarca di Aquilea
di Ermolao Barbaro.
A lui, che
da Milano, dove
aveva rappresentato in qualità
di oratore la
Republica di Venezia
presso Ludovico Sforza,
era passato a
coprire lo stesso
ufficio a Roma,
presso Innocenzo Vili, rivolge
il Pico la
seguente lettera: «
Mi congratulo con
te della nomina
a Patriarca «
di Aquilea dove
potrai dimostrare il
tuo valore. «Vi
sono tre generi
di vita: il
civile, il contem
Una nota simpatica
di questo circolo
di dotti fiorentini, al quale
apparteneva il Pico,
è l'assenza sia
dalla loro vita
come dai loro
scritti di quell'immoralità che imbratta
come viscido fango
i nomi dei
più celebri umaninisti
delle altre Accademie.
Per Pomponio Leto,
che fu imputato
di Sodomia, vedi
la monografia dello
Zabughin, Grottaferrata, voi.
I, 1909, pp.,
33-35, 37, 56-'J7.
164 «
piativo e il
religioso. Esigiamo dal
primo la «
prudenza, dal secondo
la dottrina, dal
terzo la «santità.
E tu per l'
innanzi nel trattare
gli affari «
dello stato, ti
sei dimostrato prudentissimo, e
« gli studiosi,
amandoti e ammirandoti,
ti tengono «per
loro maestro nelle
buone discipline: e
non « abbiamo
dubbi di sorta
che saprai del
pari «svolgere le
tue mirabili doti
nella Chiesa». Ermolao
risponde con espressioni
di rimpianto per
il bel tempo
speso negli studi
pei quali teme
ora di non
esser più libero
di dedicarsi come
nella vita secolare,
e sopratutto perchè
teme che l'alto
ufficio che ora
deve coprire, induca
il Pico a
tenere un contegno
piii riservato verso
di lui. E
questo non vuole
che avvenga per
nessuna ragione. «
Ti scongiuro, esclama,
per quella be«
nevolenza che mi
hai sempre dimostrato
di vo« lere
far sì che
anche sacerdote io
sia tenuto da
«te, se è
possibile, per quell'Ermolao
che hai «
amato nel secolo
e che ora,
fatto soldato di
« Cristo, desidero
esserti ancor più
caro. Sappi che
« Aquilone mi
ha trasportato oltre
la verità, che
« Favonio mi
ha rapito oltre
l'amore » .
Chi avrebbe detto
che il suo
desiderio di poter
attendere alla filosofia
lontano dalle occupazioni,
Opera, 359.392.
165 si sarebbe cosi
presto realizzato, ciie
anzi, mentre egli diceva
: Si hoc
cveniut, ne avesse
il presentimenio ?
Difatti il Senato
veneziano che si
arrogava il diritto
di nominare il
Patriarca di Aquiiea,
si sentì offeso
dall'atto di Ermolao
Barbaro, il quale aveva
accettato la nomina
da Innocenzo Vili, senza
prima chiedere al
governo il permesso
voluto dalla legge;
e per questo
condannò il Patriarca all'esilio.
Questa sciagura che
privava Ermolao della
speranza di rivedere la
cara patria che
tanto amava, fu
però sopportata con
stoica fermezza e
ricompensata dal piacere di
poter riprendere i
dolci studi. 1
suoi sentimenti in
proposito, che manifesta in
una lettera al
concittadino Antonio Calvo
(22 luglio 1491)
sono la fedele
espressione del suo animo
puro ed elevato,
uno di «Nulla
vi ha di
più preclaro, nulla
di più elevato
della fortezza dell'animo.
Essa brilla al
disopra di ogni
• altra virtù;
essa è la
migliore fattrice di
voluttà e di pace, e
mentre tutte le
altre s'inchinano all'impero
della • fortuna,
la sola fortezza
l'affronta e la
pone in ceppi.
« Ma fingi
pure che io
abbia ricevuto una
ferita più pro«
fonda ancora di
quella che al
presente mi grava;
quanto « presidio,
quanto sollievo non
credi tu che
a me rima«
nesse da queste
tenui lettere che
sin da fanciullo
ho coltivato? Godendo
io sanità di
mente e di
corpo, quale •
calamità poteva sopravvenirmi
che m'involasse il con
• torto
degli studi ?
Essendo questi sani
e intatti la mia 166 quei
nobili caratteri del
secolo XV non
abbastanza studiati.
Frattanto il Pico,
per meglio attendere
a' suoi studi,
fece dono, nell'aprile
del 1491, di
tutti i beni
che teneva nel
Mirandolese, e della
terza parte del
Principato per la
somma di trentamila
ducati d'oro, al
nipote Gianfrancesco, il
quale con tanto
amore doveva in
seguito curare l'edizione delle opere
dello zio e
scriverne la vita.
In quel medesimo
anno il Pico,
in compagnia del
Poliziano e del
Crinito, fece un
viaggio nell'Alta Italia
per visitare le
biblioteche delle principali
città, Bologna, Ferrara,
Padova, Vicenza, e
i particolari di questo
viaggio sono riferiti
dal Crinito(l). Senza
dubbio il motivo
di questo viaggio
doveva esser quello
di procacciarsi i
libri che riteneva
necessari per condurre
innanzi il suo
lavoro intorno alla concordanza
di Platone e di Aristotile.
Nella vita del
nostro si alternano
con una certa
frequenza periodi di
vivacità espansiva, con altri
di calma
e riposata solitudine.
Così ora, mentre è
tutto immerso nello
studio dei due
sommi « vita
non può essere
se non tranquilla,
gioconda, ono« revole.
Oh felice calamità
che mi hai
restituito alle let«
tere e le
lettere a me,
anzi a me
stesso ! »
Dalle Epìst. del
Poliziano, ed. cit. 514-18,
la traduzione è
del CoRNiANi, /
secoli della Letferat.
Italiana, 279. Rassegna
Bibl. della Leti.
Italiana. filosofi della Grecia,
si sentiva di
ritornare alla pietà
e al bisogno
di quiete. Con
minore assiduità prese a
frequentare i convegni
e le feste,
cui Lorenzo per
le sue mire
politiche dava largo
incremento; cominciò ad
essere notata la
sua assenza nei conviti
in cui era
solito accompagnarlo il
Poliziano. Questi prova
rincrescimento e per
lusingarlo gli descrive
ora lo spettacolo
di una giostra
{cquitum ccrtamcn hastis
concurrcntium), al quale
partecipa il fiore
della gioventù fiorentina e
in cui Piero
de' Medici, ch'è
divenuto il beniamino
della moltitudine e
la gloria della
sua famiglia, ottiene
la palma della
vittoria. Ora invece
gli descrive un
banchetto offertogli da
un certo Paolo
Ursino, il cui
figlio, bimbo di
undici anni, si
rivelò un prodigio
(un enfant prodigi
diremmo noij sia
nel suono e
nel canto, sia
nella recitazione di
prova oratoria, sia
nel cavalcare un
focoso destriero in
singoiar tenzone con
Piero de' Medici.
« 11 fanciullo,
soggiunge il Poliziano.
« aveva dei
capelli d'oro che
gli scendevano mol
POLITIANI Epist., «
I Medici con«
cepiscono una vera
passione per la
giostra... Già ancor
« sotto Cosimo
(1459), e poi
sotto Piero il
vecchio ebbero «
luogo in Firenze
giostre celebratissime; Piero
il giovane «
poi per tali
esercizi, trascurò perfino
il governo e
non « voleva
essere dipinto se
non rivestito dalla
sua splen. dida
armatura». Burckhardt, op.
cit., II. 108-109.
168 « lemente sulle
spalle, gli occhi
vivaci, lo sguardo
« intelligente, il
portamento elegante e nel tempo
« stesso marziale.
E quando in
mezzo al convito
« prese a
cantare accompagnato dagli
strumenti « musicali,
sentivo penetrarmi la
sua voce soa«
vissima nel cuore,
e inondarmi di
una voluttà «quasi
divina». Questo brano
ci dice quale
ammiratore fosse il
Poliziano della bellezza
androgina; anzi quale affinità
di sentimenti avesse
con gli esteti
dell'antica Grecia e
sopratutto di Roma
imperiale di cui
abbiamo uno specchio
nel Satyricon di
Petronio. Ma il
Pico era un
mistico e non
un sentimentale; non amava
i festini e la vita
gaudente che per
un poeta come
il Poliziano erano
fonte di sempre
nuove impressioni. Ormai
il contatto delle
cose esteriori cominciava
a nauseare il
nostro assetato di
quella bellezza che
trascende ogni forma sensibile. Ai
primi del 1492
pubblicò il libro
De Ente et
Uno che volle
dedicare ad Angelo
Poliziano il quale,
appunto in quegli
anni 1490-1492, soleva
intramezzare le sue lezioni
di letteratura greca
e latina con
la lettura dell'etica
di Aristotile o
di qualche brano
filosofico di altri
autori . A
tali lezioni inter
POLIT. Epist. lib.
XII, 447-50. .2)
Isidoro del Lungo,
Florcntia, Firenze, Barbera,
1897, 176-180. 169 veniva
talvolta anche il
Pico e la
presenza del dotto
principe tornava molto
lusinghiera al poeta
di Montepulciano che
all'amicizia univa una
grande ammirazione per le qualità
dell'ingegno del Alirandolano. Nella
dedica il Pico
ci fa sapere
come l'argomento gli sia
stato suggerito da una disputa
sorta tra Lorenzo
e il Poliziano
sul modo di
considerare Vesscrc e V
unità. Il Poliziano
stava con Aristotile che ne
aveva sostenuta l'identità
e il Magnifico coi
Platonici che si
erano pronunziati per
la disparità. Il
Pico si schiera
decisamente coi primi
e viene a
dimostrare che anche
Platone identifica l'essere
con l'uno. Dove
egli trova la
più rassicurante risposta
alla sua tesi,
che nella mente
d i Platone l'essere
e l'uno si
convertono, è nel
dialogo del Parmenide, ove Platone
dimostra non già la superiorità
dell'uno sull'essere, ma la loro
identità. Perciò Aristotile,
che parte dal
cuore della filosofia
platonica e vi scorge
questa identità dei
due principi, non dissente
aflatto dal suo
maestro. Tuttavia il
Pico che non
era un superficiale
conoscitore della filosofia
aristotelica, non poteva
nascondersi che il
pensiero dello Stagirita
è stato sempre
su questo argomento
ondeggiante, sia quando
disse che «
l'essere non è
assolutamente 170 uno», sia
quando, parlando dello
stesso essere, l'ha
definito ora in
un senso ora
in un altro.
Lasciando stare l'equivoco di
linguaggio a proposito della parola
essere, che è
impiegata in numerosi sensi, e
che quella di
sostanza è impiegata
almeno in quattro,
sta di fatto
che la contraddizione è flagrante
e ogni tentativo
per eliminarla riuscirebbe
vano. Ma il
Pico, tendendo alla
conciliazione ad ogni costo,
concepisce quella superessenza
che in sé
comprende l'essere e
l'uno, sorvolando sopra a
tale contraddizione con un ragionamento che non
è privo di
acume. L'essere, egli
dice nel quarto,
si deve considerare
come concreto e
come astratto; nel
primo caso l'essere,
come partecipazione di
qualcosa, è inferiore all'uno;
ma nel secondo,
cioè l'essere per
sé, é un
essere uno, superiore
ad ogni ente
(adeo est ut
sit ipsum esse,
quod a se est et
sit ipsum esse,
quod a se
et ex se
est et cuius
partecipazione omnia sunt).
È evidente che
in questo caso
l'essere è Dio,
il quale, come
l'unità, é principio
di tutte le
cose (Tale autem
est Deus qui
est totius plenitudo,
qui solus a
se est, et a quo
solo nullo intercedente
medio ad esse
omnia processerunt). Così
il Pico si
spiega non solo
la convertibilità
dell'essere nell'uno, ma
anche come l'essere
e l'uno siano
in Dio, il
quale é un
superessere e un 171 superuno, e,
come dice Dionigi,
quia unice est
omnia. V indirizzo
mistico dei suo
pensiero porta il
Pico ad operare
la conciliazione di
Piatone e di
Aristotile mediante Dionigi
e a convertire
l'ontologia in una
concezione teologica. Cosi
l'assertore della dignità
dell'uomo diviene il
paladino dell'infinita potenza
di Dio, al
quale l'unica lode
checonvenga è il
silenzio. Il Poliziano
fu molto commosso
della dedica del
libro e l'accolse
con espressioni tali
che parrebbero esagerate,
o per lo
meno dettate da
un senso di
adulazione, se non
avessimo avuto agio
fin qui di
notare la sincerità
della sua ammirazione per il
Pico. « Arsi
sempre, dice il
Poeta, arsi forse
un po' troppo,
te lo confesso,
dal desiderio di una
perpetua fama, a!
punto da ritenere
per un niente
le ricchezze, la
dignità, la potenza
e i piaceri
in paragone di
una gloria duratura.
Ma poichò ciò
che ho scritto
non mi è
valso molto a
perpetuare il mio
nome tu, Pico,
sei apparso a
prestarmi ciò che
non avevo potuto
da me, dedicandomi
il tuo commentario
De Ente et
Uno, nel quale
richiami le accademie
alla vera sorgente
e congiungi in
una due filosofie
e la nostra
teologia. Che altro dovrei
cercare per poter
vivere nei campi
Elisi, se vivrò
per mezzo tuo
e insieme con
te ? La
posterità narrerà un
giorno esservi stato
una volta un
certo Poliziano, il
quale fu tanto
stimato da meritare
che il Pico,
luce di 172 ogni
sapere, parlasse di
lui nel bellissimo
libro che tratta
di cose sublimi.
Ti rendo, dunque
per l'immortalità, grazie
immortali». Questi segni
di affetto dei
due letterati dovevano
senza dubbio tornare graditi
al sofferente Lorenzo
che, ammalato da alcuni
mesi, era assistito
dal Poliziano, dal
quale si faceva
leggere ora alcuni
passi del De
Ente et Uno,
ora s'intratteneva a
parlare delle virtìj
e dell'ingegno del
suo diletto Pico.
« Quanto desidererei,
disse una sera
l'infermo, passare quest'altro
po' di tempo
che Dio si
degnerà concedermi, negli
studi filosofici con
te, col Ficino
e con Pico
della Mirandola. E
quando fu presso
a morire in
Careggi (scriveva il
Poliziano a Jacopo Antiquario)
guardandomi dolcemente,
come sempre soleva, Oh
Angiolo, mi disse,
sei tu qui
? — e
insieme levando a
stento le languide
braccia, mi afferrò
strettamente ambo le mani.
Io non poteva
trattenere i singhiozzi
e le lagrime,
cui nondimeno sforzavami
nascondere, volgendo altrove
la faccia. Ma
egli, senza punto
commuoversi proseguiva a
stringere le mie fra
le sue mani.
Quando si avvide
che il pianto m'impediva di
parlargli, a poco a poco,
quasi naturalmente, mi
lasciò libero. Corsi
allora subito nel vicino
gabinetto ed ivi
diedi POLITIANI
Epist. ed. cit. 452.
173 « sfogo al
mio dolore e
alle lagrime. Poscia
asciu« gatomi gli
occhi e tornato
dentro, appena egli
« mi vide
e mi vide
tosto, mi chiama
di nuovo «
a se e
mi chiede che
faccia Pico della
Miran« dola, gli
rispondo ch'era rimasto
in città, per«
che temeva d'essergli
molesto colla sua
pre« senza. Se
io, disse Lorenzo,
non temessi che
« questo viaggio
gli fosse di
noia, bramerei pure
« di vederlo
e di parlargli
per l'ultima volta,
prima « di
abbandonarvi. Debbo io
dunque, gli dissi,
« farlo chiamare
? Sì, certo,
rispose, e il
piij «presto possibile;
così feci, e
già era venuto
« il Pico
e si era
posto a sedere
presso il letto.
« E io
ancora mi ero
appoggiato presso le
sue « ginocchia
per udir meglio
per l'ultima volta
la « già
languida voce del
mio Signore. Con
quale « bontà,
Dio buono, con
quale cortesia, dirò
an« Cora, con
quali carezze lo
accolse Lorenzo !
« Gli chiese
prima perdono di
avergli arrecato «
un tale incommodo,
lo pregò a
riceverlo come «contrassegno
dell'amicizia e dell'amore
che « aveva
per lui, e
gli disse che
moriva piiì volen«
fieri dopo aver
veduto un sì
caro amico». Il
volto gentile del
Pico era valso
a calmare l'agitazione
convulsa di quell'uomo
in preda agli PoLiTiAN!
Epist., ed. cit. 124-37.
Vedi Berti, 1. e. 44-45.
174 ultimi strazi dell'agonia,
resa più triste
forse dal ricordo
dei falli commessi
durante la vita
di principe; e gli
occhi vitrei, prossimi
a spegnersi per
sempre, parvero rischiararsi
alla luce calma
e celeste che riverberavano
gli occhi azzurri
del Mirandolano. Il
male di cui
soffriva il Magnifico
era di quelli
che non perdonano,
e il grande
mecenate, r astuto politico,
uno dei primi
poeti del Rinascimento,
moriva l'otto aprile
all'età di quarantaquattro anni.
Si discuterà sull'opera
sua di governo,
sulla sincerità o meno della
sua liberalità e
del suo mecenatismo,
quel ch'è certo
si è che
Firenze e l'Italia
godettero sotto di
lui di una
prosperità come poche
volte fu dato
nella storia della
nostra patria; che tanti
uomini d'ingegno lo amarono
e lo
riverirono non sempre
per adulazione (e
la lettera del
Poliziano è una
prova della più
sincera devozione) ma
perchè riconoscevano in
lui oltre che
un reggitore politico,
un uomo dì
cuore e d'ingegno.
Valga la considerazione di ciò che
accadde all'Italia dopo
la morte di
lui per dover
ammettere che Lorenzo
fu una delle
personalità più spiccate
e complesse del
Rinascimento, un uomo che,
come pochi, ha
rappresen TiRABOSCHi, Storia
della Letteratura Italiana,
t, VI, part.
I, lib. 1,
cap. XV. 175 tato
le sorti di
una nazione. E
il Pico fu
di quelli che
esperimentarono la generosità
disinteressata di Lorenzo
le cui lettere
e documenti fanno
fede dello spontaneo
disinteressamento che sempre animarono ogni
suo atto verso
il giovane filosofo,
al quale si
sentiva legato da
un affetto sereno
e sincero. E
se il Pico
era sfuggito alle
persecuzioni dei propri
nemici, se aveva
potuto trovare in
Firenze un asilo
comodo e sicuro,
se era riuscito
ad esplicare liberamente
la sua attività di
studioso, lo doveva
a Lorenzo che
per lui fu
non solo un
amico ma un
carissimo padre. IX.
Il Pico a
Ferrara nel 14i>2.
Crisi Uelii^iosa. L'Orazione
Domenicale. Invitato dal
duca Ercole I,
si recò il
Pico a Ferrara
per assistere alla
disputa che doveva
aver luogo in
occasione del Capitolo
generale dei Frati
Predicatori. Alcuni anni
addietro aveva partecipato
a un altro
Capitolo, a quello
di Reggio, dove era
stato fatto segno
all'aminirazione generale pel
suo ingegno precoce.
Né anche ora
dovettero mancargli i
segni di deferenza
e di ammirazione da parte
dei convenuti; ma
mentre un tempo
si sentiva accendere
ai sogni della
gloria e «all'uso
di Gorgia da
Leontini cercava fama,
sostenendo qualsiasi cosa » ;
ora molte foglie
vedeva cadere avvizzite dalla
sua corona, dopo
che ne aveva
sperimentata la vacuità
piena d'ama — 178 ritudine. Anzi
adesso provava un
sentimento d'inferiorità
davanti a quei
frati il cui
nome non sorpassava
la cerchia ristretta
delle conoscenze personali,
ma la cui
vita al compimento
della quale mettevano
in uso tutte
le loro energie
riteneva alla sua superiore.
Questi sentimenti del
Pico li leggiamo
in una lunga
lettera, in data
15 maggio 1492,
ch'egli scrive al
nipote Gianfrancesco. Ivi
lo consiglia di
non dolersi delle
difficoltà che dovrà
incontrare nella via del
bene, giacché sarebbe
oggetto di meraviglia
se a lui
solo fra i
mortali fosse dato
di andare in
cielo senza fatica
(sine sudore). E dopo
avergli ricordata la
massima di S.
Giacomo: Gaudete fratrcs
cum in tentaiiones
varias incideritis nec
immerito quidem, gli
spiega come ogni
stato sia irto
di difficoltà e
pericoli : così
quello del marinaio,
del mercante, del
principe. Per questo egli
ha scelto la
quiete del suo
studio, e nulla
a mbisce in questo
mondo i cui
seguaci gridano unanimi:
laxati sumus in
vias iniquitatis, perchè
le innumerevoli cure
della vita li
agita come un
mare fervens quod
quiescere non potestSiccome
tutte le cose
terrene sono caduche,
incerte e vili,
lo invita a
rompere i lacci
delle passioni, a
rendersi piacevole più
a Dio che
agli uomini, a
scegliersi la via
stretta della virtìi
che mena al
cielo. Per fare
questo, 179 gli consiglia
due cose: a
pregare, e pregare
non solo con
molte parole (multiloquio)
si bene nel
segreto della propria
mente e di
ascoltare nei penetrali
della coscienza la
voce divina che rischiara
le tenebre ed
unisce a sé
coi modi più
ineffabili: e infine
che la preghiera
non sia lunga,
ma ardente e
interrotta spesso dai
sospiri. L'altro consiglio è
di lasciare le
favole dei poeti
per aver sempre
nelle mani le
sacre scritture (nocturna
versare manu, versare
diurna) nelle quali
è nascosta una tal
forza sovrumana, così
viva ed efficace,
che trasfonde, in
chi vi si
accosti umilmente,
un'ammirabile amore divino.
Termina la lettera
ricordandogli quanto gli
ha detto altre
volte, che cioè
per quanto lunga
possa essere la
vita, si deve
pur morire e
che il cavallo
che ciascuno di noi
cavalca non ha da percorrere
che un breve
stadio. Quale passo
ha fatto il
Pico di questa
lettera, dal Pico
dell'epistola critica a
Lorenzo cosi piena
d'entusiasmo e di
giovanile baldanza o
dell'Apologia in cui
scoppiettavano a volte
un virulento sarcasmo,
a volte espressioni
così ardite e
per quel tempo
insolite ! Questa
lettera sembra scritta da
un padre religioso
tanto è compenetrata
di pensieri e
di massime divote:
il distacco dal
mondo, gli orrori
dell'inferno, l'e Opera, 340-343.
180 sortazione alla preghiera,
trovano un accento
cosi fervente, che
ci sembra d'avere
innanzi un vecchio stanco della
vita e anelante
al riposo del
sepolcro. Il Pico
era ancor giovane,
non aveva che
trent'anni, eppure il suo spirito
era invecchiato, 0 meglio,
poiché lo spirito
non invecchia, era
cambiato il contenuto
della sua vita.
Ciò che ora
lo attraeva non
era più la
poesia e le
sue lettere e
i suoi sonetti
ci attestano quanto
egli avesse amato
la poesia (omissis
j'am fabulis nugisque
poetarum cosi consiglia
al nipote^ neppure
forse piiì la
filosofia e questa
era stata la
sua grande passione,
quella per cui
aveva rinunciato alla vita
di principe, per
cui aveva sofferto persecuzioni e
prigionia ciò che
ora Io attraeva
era una vita
più degna d'essere
vissuta, per la
quale voleva dare
non solo una
parte della sua
attività, l' intellettuale, ma
quella affettiva, quella pratica,
insomma tutta l'anima.
E dessa, è
ormai evidente, era
la vita religiosa.
Ma gli era
d'uopo conciliarsi con
la Chiesa, dare
al Pontefice un
attestato persuasivo della
sua nuova disposizione. Era
quello l'anno nel
quale avvenne l'espulsione degli Ebrei
da tutta la
Sicilia e molti
si sparsero in
ogni parte d'Italia.
Uno di questi
Opera, 343. 181 (siculus quidam
hebraeus) si era
spinto sino a
Ferrara, portando seco
gran copia di
libri ebraici. Il
Pico si senti
stimolato dall'antica curiosità
ed attrattiva per il misterioso;
per lui un
libro nuovo era
un tesoro, e
Io leggeva con
la convinzione di trovare
in esso ciò
che la sua
anima vagheggiava e
che tutti i
libri precedenti non
avevano saputo accordare.
Ricordava, non senza
tristezza, quali orizzonti
aveva intravveduto nello
studio della Cabala
e quante notti
aveva vegliato per
decifrare gli arcani dell'antica sapienza.
Chi sa che
anche ora non
potesse scoprire qualche
verità riposta nei
libri di quel
giudeo, il quale
gli acuiva il
desiderio di leggerli coll'annunciargli la
sua partenza da
Ferrara entro venti
giorni ? Al
nipote che lo
richiedeva di consigli,
rispondeva che non si
aspettasse per qualche
tempo da lui
nessuno scritto essendo
occupato notte e
giorno, sino quasi
a perdere gli
occhi, su quei
libri dell'ebreo, che
contava di finirli
prima della di
lui partenza. «
Addio, conclude, temi
il Signore e
pensa ogni giorno
che devi morire
». Non i\)
Opera, 360. Questa
lettera porta la
data del 30 maggio
1492. Alcuni giorni
prima aveva scritto
a Troilo Malvezzi ringraziandolo dell'invio
fattogli del suo
libro De Sortibus
che aveva trovato
diligente in quanto
alla lingua, acuto
nelle osservazioni e gli promette
d'inviargli alcune 182 pare
che da tali
letture ne traesse
il frutto che
si era ripromesso
e nemmeno la
benché minima soddisfazione
dello studio per
sé stesso. Ormai
era inclinato per
quella via in
cui si sentiva
irresistibilmente trascinato.
Si ritrasse da
quei libri con
una specie di
disgusto, e come
da ciò che si frapponeva
alla sua vera
méta. Riandando alle
cause che determinarono
il suo attrito
con la Chiesa
e il suo
capo, il Pontefice,
s'avvide che «buona
parte della colpa
era sua, «
che aveva troppo
amato la gloria
del mondo e
«trascurato quella che
sola proviene da
Dio*, e sopratutto
perché all'odio e alla nequizia
degli uomini, aveva
reagito coli' impeto della
passione, che é
figlia di Satana.
Non aveva ascoltato
il precetto di
Gesù quando disse:
«Si vos hodio
mundus habet, scitote
quia priorem me
vobis habuit»,e quindi
aveva agito ciecamente
per la violenza
della propria consuetudine, come coloro
che sono trasportati
dall'impeto della corrente di
un fiume. Non
aveva riflettuto sulla sentenza
socratica che se i nemici
uccidono il corpo,
non possono nuocere
all'anima, e però
non si era
astenuto dalla vendetta
che im sue
quisquiglie (forse alcuni
di quegli inni
che in questo
tempo andava componendo
per ricreare lo
spirito col suono
della lirai. 19
maggio 1492, Opera, 366. 183 pedisce
all'anima di udir
risuonare la voce
soavissima di Dio, unica
guida alla verità
e alla vita.
Oh ! come
gli tornava spontaneo
sulle labbra il
gemito del profeta:
«Delieta iuventutis meac
«et ignorantias meas
ne memineris: sed
secun« dum misericordiam
tuam memento mei
propter « bonitatem
tuam Domine » ora che,
trovandosi a Ferrara,
si risovveniva del
tempo della sua
prima gioventù non
scevra di quei
trascorsi che imbrattano la
coscienza. " Pensa,
figlio carissimo soggiunge rivolgendosi al
nipote che la
vita ò un
punto, un istante;
che i piaceri,
le ricchezze avvelenano l'anima e
la sottraggono al
regno del cielo;
che tutto ciò
che forma la
nostra gioia di
quaggiù è incerto, umbratile,
falso; pensa che
una grande ricompensa
sta preparata per
colui che, disprezzando
queste cose, sospira
alla vera patria, di
cui Dio è
il re, la
carità la legge,
l'eternità il modo. Occupa
l'animo in questi
pensieri, che lo
stimolano quando dorme,
lo accendono quando
e tiepido, lo
rafforzano quando vacilla,
e gli apprestano
le ali quando
tende al divino
amore; di maniera
che, quando verrai
da me, che
ti attendo con
grande desiderio, ti
possa vedere non
solo quale sei,
ma come voglio
che sia». Opera, 344-346.
Questa lettera porta
la data del
2 luglio, Ferrara.
184 In questa lettera,
improntata a una
maggiore unzione delle altre
scritte al nipote,
il Pico ci
si mostra ormai
preso dal sacro
fervore de! mistico.
Ed è degno
di nota il
fatto che il
nostro, le cui
lettere agli amici
sono di sapore,
diremo così, profano,
abbia scelto nel
suo nipote il
confidente delle proprie
aspirazioni. Forse lo
confortava a questo,
oltre il legame
di parentela che
lo univa al
figlio del proprio
fratello, a cui
non era del resto molto
distante per l'età,
la serietà di questo
giovane principe che
si era rivolto
a lui con
un abbandono e
una devozione che
non si smentì
mai. Ad ogni
modo il Pico,
che pur tanti
amici annoverava, non
si aprì mai
con alcuno come
co! nipote, non
fece mai nessuno
partecipe delle sue
ansie, dei suoi
ardori delle note
piìi intime che
gli vibravano nell'animo;
né mai nessuno ebbe
a chiamare metà
della propria vita
(animae dimidium mcae) , perchè
nessuno per r
innanzi l'aveva compreso
come il nipote
Gianfrancesco. È senza
dubbio di questo
tempo il commento
all'orazione domenicale che
va sotto il
nome: In orationem
dominicam expositio. Il
Pico fa rientrare
l'orazione domenicale, che
per i cristiani
è la preghiera
per eccellenza, nel
n ; Il
nipote si era
già sposato. (2ì
Questa espressione si
trova nella lettera
datata da Firenze
il 27 novembre
1492, Opera, 347.
185 quadro generale di
una teoria della
preghiera; quindi prima
di tutto la
definisce, poi determina lo
scopo per cui
si deve pregare
, infine dà
la norma che
deve seguire colui
che prega .
La preghiera, dice
il Pico, è
sempre un desiderio, e
ciò che si
desidera è sempre
un bene, e
le cose le
amiamo in quanto
esprimono un bene.
Siccome poi, al
dire degli stessi
teologi e filosofi,
il bene sommo
è Dio, dobbiamo
perciò amare e
desiderare prima, e
al disopra di
ogni cosa, Dio,
e insieme con
lui le creature
che più a
lui ci congiungono.
Come dobbiamo regolarci
rispetto a tante
cose che pur
ci dilettano (come
i beni della
fortuna, la bellezza,
la forza del
corpo ed altri
obbietti sensibili) e
nondimeno non ci
uniscono a Dio?
Col fuggirli, risponde
il Pico; perchè
non può essere
buono ciò che
ci allontana da
Dio e ci
fa peccare. E
quando ci sono
concessi tali beni
da Dio? Allora,
incalza il nostro,
dob [\) «Orare non
est aliud quam
per elevationem men •
tiset affectus excitationem
sua desidcria Deo
notificare -. i2i
« Si ergo
debcmus scire, quoniodo
sit orandum, •
oportet prius scire
quid sit desiderandum... •. i3 Scimus
autem illud esse
sumnie desiderandum •
quod est summum
bonum •. L' Esposizione di
cui stiamo facendo
l'esame è inserita
in principio delle
Opere del F*ico,
edizione Basilea già
citata. Mancando la
numerazione delle pagine,
citeremo per ordine
numerico degli a che contraddistinguono i
fogli. 13 186 biamo
ricordare il detto
di S. Paolo
che ci consiglia di
far uso delle
cose di questo
mondo, tenendo da
esse distaccato il
nostro cuore. Chi
vuole distaccarsi da
ciò che è
caduco deve far
uso della meditazione,
della compassione, della
imitazione. Poiché solo
meditando la passione
di Cristo, noi
sentiremo il nostro
cuore punto di
compassione per le
infinite sofferenze di
Gesù ; ma
a nulla gioverebbero
le nostre lagrime
se non cercassimo
di imitarlo nella
sua vita, nelle
sue parole, nella
sua inalterabile pazienza
a sopportare i più
grandi dolori. E non solo
dobbiamo sopportare le
afflizioni della vita,
ma anche coloro che
ci fanno del
male. Se vogliamo
che Dio rimetta
i nostri peccati
e ci preservi
dalle tentazioni,
accordandoci la sua
misericordia, la quale
è come la
medicina per il
corpo, perchè dovremmo
negare al prossimo
ciò che noi
chiediamo a Dio,
vale a dire la misericordia
? Se è vero che
è per essa
che noi siamo
salvati e non già
per i meriti
nostri, a maggior
titolo dobbiamo usare verso
gli altri questa
grande benevolenza che
distingue gli animi
eletti. Quando infine
Cristo c'insegna adire
al Padre, «liberaci
dal male», non
possiamo fare a
meno dal non
raffigurarci, nella rappresentazione del
Demonio, l'insieme di
tutti i mali,
l'ipostasi di tutto
quanto è triste
e peccaminoso; ecco
perchè noi dobbiamo
187 fuggire dal
male, come da una bestia
orrenda e rifugiarci
nel seno del
Padre nostro in
cui riposeremo sempre che
lo serviamo con
santità e con
giustizia. Il 28
luglio giunse a
Ferrara la nuova
della morte di
Innocenzo Vili, e
pochi giorni dopo, quella dell'elezione
alla cattedra di S. Pietro
del cardinale Borgia
col nome di
Alessandro VI. L'avvento
di questo nuovo
Papa che, per
la larghezza delle
sue idee e
i suoi gusti estetici, era
ben noto nel
mondo letterario ed
artistico, produsse nel
nostro un senso
di sollievo poiché, essendosi
rivelato di un
carattere del tutto
diverso da quello
del defunto Pontefice,
sperava di trovarlo
meno restio a
concedergli la sospirata
assoluzione. Un'altra circostanza
si presentava intanto a
lui favorevole: l'elezione
del Rettore dello
studio di Padova,
il cipriota Podocataro,
a segretario pontificio.
Il Pico scrisse
da Ferrara il
16 agosto una
lettera di congratulazione al
suo vecchio professore,
rimettendogli una supplica
per il Papa,
colla preghiera
d'intercedere per la
sua causa .
[\ I Opera,
foL, a, 4.
(2^ DoREZ, Giornal.
Star. d. ietterai.
Italiana, voi. 25,
1895, 355. 188 Egli
intanto si mosse
alla volta di
Firenze, per potere
poi proseguire per
Roma ove non
gli mancavano amici
e ammiratori, tra
i quali il
suo affezionato Ermolao,
patriarca di Aquilea.
A Firenze, essendosi
imbaltuto in un
fascio di libri
greci (ex his
graecorum librorum fascibus
extricavero) s'intrattenne per
poterli consultare. In
questa città desiderava
raggiungerlo il nipote
che ormai non
sapeva più vivere
da lui lontano.
Ma lo zio
l'ammonisce di rimanere
per due motivi: primo
perchè potrebbe arrivare
a Firenze nel
contrattempo ch'egli sarebbe
in viaggio per
Roma (ut illuc
mihi eudum sit,
causam nosti) oppure per
Mirandola ; l'altro
che avrebbe dovuto
lasciare per lui
la moglie, verso
la quale l'obbligavano dei doveri
inerenti al matrimonio,
cui egli non
potrebbe sottrarsi senza
venir meno al comando
divino in cui
è detto essere
gli sposi un'anima
sola. « Infatti,
soggiunge, 'non puoi
es« sere più
tutto tuo dal
momento che hai
voluto « assoggettarti
alle leggi nuziali,
nondimeno puoi «
essere tutto di
Dio, al quale
sei meritevole nello
« stesso tempo
che lo sei
a te stesso
». Lo esorta
infine a starsene
in casa per
attendere alle proprie occupazioni e
alla meditazione delle
sacre scritture e
in special modo
del Vangelo. A vederlo
non istarà molto
tempo, avendo in
animo 189 di
ritornare a Ferrara
al cominciare della
primavera . Siccome non
arrivava nessuna risposta
alle pratiche che
aveva inoltrate a
Roma, nò credeva
riuscisse per niente
proficua la sua
andata in quella
città, decise di
trattenersi ancora a Firenze
ove poteva almeno
attendere agli studi.
In questo periodo
attraversava egli un
momento di grande
sconforto; aveva molto
bisogno di affetto
e di parole
buone e in
questo senso è
improntata la lettera che
scrive ad Ermolao
nella quale gli
chiede anche il
volume di Tolomeo
sulla musica .
Arriva un momento
nella vita in
cui la mente
nostra fa un
cammino a ritroso
e invece di
guardare avanti e di
sognare si volge
indietro e ricorda. Fra
le persone che
conoscemmo ed amammo
ve n'è sempre
una che rimane
nella nostra memoria coi
caratteri indelebili di
una bontà semplice e
gioviale. Felici noi
se, mentre la
contempliamo in immagine, tale
persona vive ancora
e può accoglierci
nel suo seno
e ridirci la
parola che consola.
Il Pico era
cosi giovane quando
questo periodo era
per lui arrivato
che, si può
dire, tutti coloro
che aveva conosciuto
nell'in Opera, 346-47
la data di
questa lettera è
del 27 novembre
1492. (2 Opera, 374.
190 fanzia, erano ancor
vivi e tra
questi la persona
che Io aveva
palleggiato bambino tra
le braccia, e
che ora ricorda
con tenero affetto
nella sua lettera
che gì' indirizza senza
rivelarci il nome.
« Nulla mi
tornò più dolce
e piij gradito,
gli « scrive,
della memoria della
tua antica famiglia«rità
e soavità di
costumi. Se la
sede dell'ami« cizia
sta nell'animo, in noi allora
essa è vera«
mente, vale a
dire, non c'è
motivo, come scrivono
« Platone ed
Aristotile, perchè in noi possa
for« mare un
dissidio la distanza
di luogo e
di tempo. «
Pensavo or ora
in che modo
poterti essere «
vicino, né altro
mi venne in
mente che il
farti H pervenire
la mia elucubrazione
de septiformi «
in sex dies
geneseos. Se noi
partoriamo dei li«
bri quasi come
dei figliuoli, e
il padre è
in gran *
parte nel figlio,
vengo io ancora
con esso lui
« che ho
generato. Ricevi dunque
il mio figliuo«
letto che viene
a te com'
io soleva ilare
e fe * stante
bambinello. Ti piacerà,
lo so, perchè
mi « ami,
e ti dispiacerà
anche perchè mi
ami. Nam *
eiusmodi pietatis est et eorum
errata qtios ama«mus
signanter introspicere ut
emendemus et in*trospectis
leviter undulgere ne
vexemus*. Da ciò si
vede che il
Pico considerava V Ettaplo come
il suo lavoro
prediletto; e invero
esso Opera, 375.
191 e proprio
figlio del suo
spirito: tutto ciò
che aveva studiato,
sognato e amato,
egli lo aveva
trasfuso là dentro
e se in
qualcosa sperava ripromettersi perpetuità al
suo nome, era
appunto in esso,
che rimane del
resto anche per
noi l'espressione più notevole
del suo ingegno.
Frattanto non tardò a
venire la lettera
di risposta del
suo Ermolao, ch'egli
trovava quale si era ripromesso, e
cioè piena di
sentimento e di
parole buone, vera
immagine di quell'anima
semplice e mite,
che, pur cosi
erudito passava allora
per uno dei
più eletti stilisti
latini — rifuggiva
il plauso esteriore,
pago unicamente della
stima degli amici.
In verità questi
gli corrisposero e
più di ogni
altro il nostro
che, esaltando i
suoi meriti letterari, esclamava: «Voglio,
o dottissimo Ermolao,
« che tu
sappia che ti
sono amicissimo e
che le •
tue virtù mi
accendono alla stima
e venerazione •
per te, così
che a nessuno,
anche se ti
fosse • consanguineo, permetterei di
amarti come ti
• amo io».
Ai primi del
1493 giunse a Firenze
la notizia che
Ermolao era stato
colto dalla pestilenza
che serpeggiava allora
nel Lazio; il
Pico e il
Poliziano n'ebbero il
cuore trafitto. Il
Pico volle tentare
di soccorrere l'amico
invian do Opera, 374-375.
192 dogli per mezzo
di un corriere
uno specifico da
lui stesso comprato
e che credeva
atto a domare
il morbo pestilenziale. Ma
quando l'espresso arrivò a
Roma, Ermolao Barbaro
era già spirato.
Contava trentanove anni;
con lui spariva
una delle figure
più amabili del
suo tempo e
più che per
le sue opere
letterarie fra cui le Castigationes
plinianae erano meritamente
celebrate, egli emergeva
fra i contemporanei
per le squisite
doti del suo
cuore, doti che
solo in parte
possono trasfondersi negli
scritti e che
la morte porta
inesorabilmente seco. Per
far meglio intendere
l'indole di questo
umanista, vogliamo riferire
in parte la
lettera che scrisse
alcuni mesi prima
di morire ad
Antonio Calvo, il
quale gli annunziava
la morte del
padre suo Zaccaria
avvenuta in Venezia.
Dopo d'aver detto
il rammarico provato
per non aver
potuto dalla terra
d'esilio andare a
porgere l'estremo saluto
all'autore dei suoi
giorni, soggiungeva: «Forse
egli andando sicuro
incon« tro alla
morte, era solo
sollecito del mio
dolore; « sono
certo eh' egli
non sapeva con
che animo «
sopportassi la mia
sventura, perchè se
mi avesse «
veduto, oh allora,
senza dolore sarebbe
passato « da
questa vita. Del
resto mi conforta
il pen« siero
ch'egli abbia lasciato
il mondo con
la co« scienza
d'avere fatto il
proprio dovere e
di avere 193 « speso
la sua vita
per il bene
della patria e
delia «famiglia. A
te raccomando i
miei fratelli, sii
loro « consolatore
in vece mia
e che continuino
ad «amare il
padre loro oltre
la tomba». La
perdita di un
sì caro amico
gettò un velo
di tristezza sull'animo
del Pico; il
pensiero di rendersi utile alla
Chiesa divenne ora il dominante
fra ogni altro.
A farlo persistere
in esso contribuiva notevolmente l'influsso
che su di lui esercitava la
vita austera di
Girolamo Savonarola. Dopo
la morte del
Magnifico, colui che
in Firenze aveva acquistato
maggiore autorità era il frate
predicatore, la cui
eloquenza dall'intonazione profetica,
la cui vita
rigida e intemerata,
cominciavano a guadagnargli le
anime stanche della
vita 0 desiderose
di purificazione. Il
Pico, che già
da tempo conosceva
il frate ,
ora che sentiva
più urgente il
bisogno d'una persona
la quale piij
che amica gli
fosse guida nel
nuovo cammino, si rivolse
al frate di San Marco
come all'albero maestro.
Riprese con fervore
le pratiche di pietà,
passava le ore
nella Biblioteca di
S. Marco a
conversare col Savonarola
di cose religiose,
riceveva con piacere
nella sua abita
li j Roma, 13
dicembre, 14^2. Dalle
Epistole del Poliziano ed.
cit. 518-20. (2;
Cfr. la Vita
del nipote. 194 zione
le visite di
coloro che desiderassero
intrattenersi in dotti e
cristiani argomenti. In
questo tempo, si
legge nella vita
scritta dal nipote,
il portamento del
Pico aveva assunto
un fare più
timido e contegnoso,
il suo volto,
di solito ilare
e calmo (vulio
hilari semper erat
et placido) ,
sembrava ora trasfigurato
dagli ardori mistici
cui si abbandonava.
Più volte fu
veduto col flagello
in mano (meisque
oculis saepius [cuncta
in Dei gloriam
redeant] flagellum vidi)
(4) macerare le
proprie carni per
espiare i falli
commessi e in
memoria della morte
in croce di
Cristo. Più nulla
poteva ormai commuoverlo
dal suo proposito.
Solo una cosa
lo avrebbe irritato,
se cioè vedesse
andar perduti certi
scrigni {nisi scrinia
quaedam deperirent) ripieni
delle sue elucubrazioni, frutto
di lunghe veglie
e che credeva
tornassero di grande
utilità alla Chiesa
di Dio. Se
il paragone non
fosse irriverente, diremmo
che uguale si
presenta in intensità l'attaccamento per
il denaro dell'avaro
che tiene sul cuore
le chiavi dello
scrigno ove sta
il suo tesoro,
e dell'umanista per
i libri e
gli scritti che
tiene nel suo
studio : l'uno
e l'altro ne
morrebbero di dolore se
vedessero andare distrutto
ciò che considerano
metà della loro
anima, come. Cfr.
la Vita del
nipote. (21195 secondo Pontico
Virunio, incanutì dal
cordoglio quell'umanista che
perdette in un
naufragio la cassa
contenente i libri
che portava dall'Oriente.
Maffei. Verona
illustrata, Il, 134.
Cosa tenesse il
Pico nei suoi
scrigni ce lo
dice il nipote: una
farragine di lavori
incompiuti, scritti con carattere
malagevole a leggersi
«di modo che,
come d'in • gegno,
cosi fu si
celere di mano
che, essendo stato
da « giovane
ottimo calligrafo, finì
quasi col non
intendere • più
egli stesso ciò
che aveva scritto.
Soleva anche scri«
vere or qua
or là scrivendo
cose nuove sopra
le vec • chie,
molte opere interrompeva
dopo d'averle incomin«ciate». Egli
allora attendeva con
più di proposito
a un'opera in
cui si prometteva
di combattere i
sette nemici della Chiesa:
gl'increduli, i pagani,
gli ebrei, i maomettani,
i cattolici non
osservanti a quello
cui credono, gli
astrologi e gli
eretici. Di quest'opera
solo la parte
in cui prendeva
a combattere gli
astrologi « egli
aveva, come •
dice il nipote,
compiuto e limato
in parte, e
noi con •
grande fatica potemmo
ricavare da un
esemplare tutto •
cancellato e stracciato
» (Vita). Poiché
il lavoro contro
gli astrologi, che
si compone di
dodici libri è
vastissimo, tenteremo di
esaminarlo brevemente più
oltre nel nostro
studio. X.
L'assoluzione del Pico.
Risolazioue della crisi
nel misticismo. Le
« Disputationes » .
Sua morte. Il
18 giugno 1493
giunse al Pico,
quasi improvvisamente, il sospirato
Breve di Alessandro VI
che lo assolveva
in seguito alla
relazione di una
Commissione, composta di
un vescovo, di
due cardinali e
del domenicano Paolo
da Genova, professore di
teologia e maestro
del palazzo apostolico da
ogni censura o
nota di eresia- Il
Breve, dopo aver
fatto la storia
della esamina delle
900 conclusioni, di
cui alcune erano
state condannate sotto
Innocenzo Vili, perchè
erronee e contrarie alla
fede, viene alla
considerazione dell'Apologia.
« Inteso poi
il detto pre«
decesssore che tu
avevi pubblicato un
altro libro «
apologetico, dove le
medesime proposizioni in«
terpretavi in un
senso migliore e
cattolico, e ne chiarivi l'intendimento giusta
la vera fede,
lo « stesso
predecessore volendo impedire
che le «
premesse proposizioni corrompessero
in qualun« que
modo i cuori
dei fedeli, vietò
la lettura del « libro
delle predette novecento
proposizioni, però «
dichiarando che tu
non eri incorso
per tutto «
questo in alcuna
censura, siccome più
ampia« mente si
contiene nelle stesse
lettere, il te«
nore delle quali
vogliamo che qui
si abbia per
« espresso * .
Qui potrebbe affacciarsi
la questione se
il Breve di
Alessandro VI veniva
a contraddire la
Bolla di Innocenzo
Vili, ma noi
non crediamo necessario indugiarci in
essa che ha
dato campo a
vivaci polemiche fra
alcuni pubblicisti rosminiani
e gesuiti della Civiltà
Cattolica . Ci
basti dire che
vera e propria
contraddizione nei decreti
dei due [\)
Documento citato dal
Berti nella Rivista
Contemporanea, già citata, 45-46.
Il 10 aprile
1519 Leone X
spedì a Gianfrancesco
Pico un Breve
col quale permetteva
al nipote di
pubblicare le opere proprie
e quelle dello
zio. Per questo
Breve vedi Civiltà
Cattolica. E per
la Polemica vedi
Rassegna Nazionale, gennaio
e ottobre 1899, 198-205
e 537-547; Civiltà
Cattolica voi. cit.
e il voi.
8, 320-332. Vedi
anche Malavasi, Pico
della M. davanti
al Tribunale della
santa sede. Mirandola, 1897 ;
Pagani, Rosmini (an.
Ili, voi. I. 232
e 760, e
Rassegna Nazionale, voi.
cit. 199 pontefici non
esiste; ciò che
appai e invece
e spiega tutto
è la diversità
di temperamento nei
due capi delia
Chiesa. Il primo,
invero, non ha
mai emesso un
atto esplicito di
scomunica contro il Pico,
ma soltanto tenne
sospesa questa minaccia come
una spada di
Damocle sul capo
del Mirandolano, la
quale valeva a
paralizzare la sua
attività e a
tenere in angustia
lo spirito di
lui credente; Alessandro
VI, d'indole mono
puntigliosa e meno proclive
a cedere alle
pressioni degl'invidiosi del
Pico, i quali
erano per altro
diradati, e che
in fondo non aveva nessun
risentimento personale col nostro
(si ricordi la
frase dei Pico
a riguardo d'Innocenzo
Vili nell'Apologia), era portato
ad interpretare nel
modo più indulgente
l'operato del medesimo,
il quale, del
resto, era venuto
sempre più accostandosi
ai dettami di S.
Chiesa con una
vita veramente pia,
e ad «
indulgere tanto più
verso quelli che,
per « nobiltà
di sangue, per
sapere, per integrità
di « vita
e religione ortodossa
si raccomandano »
la cui «
quiete e reputazione
ci sta a
cuore quando «
con Dio è
lecito ». Questo
Breve colmò di
giubilo il cuore
del Mirandolano e valse
a togliere quella
specie di op
» Multa itidem
vasa argentea prcciosasque
supellec« tilis partes
in pauperum usus
distribuit ». Vita
ecc. op. citata.
200 pressione che gli
si faceva sempre
più penosa di
mano in mano
che si accostava
al centro della
vita religiosa. Questa
era ormai l'unica
sua aspirazione, l'ideale verso
cui tendeva il suo pensiero
e con cui
sperava di dare
inizio a una
nuova vita. Ridusse
quindi al puro
necessario le sue
bisogna; la mensa rese
parca e frugale,
vendendo parte del
vasellame d'oro e
d'argento per distribuire il ricavato
ai poveri verso
i quali cominciò a
largheggiare in elemosine.
Volle essere riconoscente
con i fedeli
famigliari, lasciandoli usufruire
liberamente dei suoi
poderi. Lasciò all'amico Benivieni un
fondo cospicuo onde
all'occorrenza alleviasse le persone
piìi indigenti di
Firenze, sopratutto dotasse
le fanciulle bisognose, acciocché potessero
maritarsi. Considerando poi
chiusa la sua
vita nel mondo
decise di fare
il proprio testamento
che redasse l'otto
agosto e rifece
il primo settembre
dello stesso anno
e a cui
fecero da testi
il Poliziano e
il Savonarola. Ivi
disponeva che l'Ospedale
di S. Maria
Novella fosse erede
universale de' suoi
beni immobili, mentre
di quelli mobili
eleggeva a erede
il fratello Antonio
verso il quale
non voleva riuscire
imparziale, avendo già
soddisfatto largamente al
figlio del fratello
Galeotto. Sciolto La
vendita era stata
fatta con strumento
del 22 aprile 1491.
Ceretti, Sonetti inediti
del C. G. P.
Mirandola, 201 così
da ogni legame
d'ordine finanziario, si trovò
libero di dedicarsi
a ciò che
piìi gli stava
a cuore. Due
erano le tendenze
che si contrastavano dentro di
lui e l'imbarazzavano nella
scelta: l'ordine religioso
dei frati predicatori
cui apparteneva il
Savonarola, e la
vita del pellegrino
più aspra di
sacrifici e più
libera nell'amore. Come
luogo di ritiro
per le sue
meditazioni, si era
scelto la villa
della Fratta dove
pochi ammetteva, per non
essere distratto dal
suo raccoglimento: tra quei
pochi era Gianfrancesco. Un
giorno, narra questi,
mentre ci trovavamo
a ragionare del divino
amore in un
giardino dal quale
l'occhio spaziava lontano
le prospettive verdeggianti, mio zio
proruppe in queste
parole: «Te «
lo confido in
segreto, appena avrò
terminato • certe
mie elucubrazioni, darò
il rimanente de'
« miei averi
ai poveri, e,
giunito di un
crocefisso, « scalzo,
a piedi nudi,
me n'andrò pellegrinando
« pel mondo
a predicare Cristo
alle città e
alle ca« stella
». Sembrava che
in questa missione
egli trovasse la
vera via alla
sua anima irrequieta
e bramosa di
agire in conformità
delle sue libere
aspirazioni. Non altro
che per questo
egli si era
1894, 22, n.
2. Cfr. anche
Spigolature in Giorn.
stor. di L. I. Vita
in 202 negato
una compagna, non
altro che per
esser libero egli
visse « sempre
errabondo senza una
sta« bile dimora,
benché abitasse più
spesso a Fi«
renze e talvolta
a Ferrara». E
quando gli ardori
mistici si acquetavano
e l'anima sua
si ricomponeva in
quell'equilibrio normale di cui
la sua fisonomia
esteriore era la
più soave espressione,
pensava al bianco
saio di fra
Girolamo, alla maestosa
gravità che traspariva
dalla magra figura
del predicatore, quando
di sul pergamo
del duomo con
la mano che
sembrava scagliasse folgori,
con la voce
annunciante l'ira di
Dio, con gli
occhi accesi da
quel furore profetico, suscitava brividi
di terrore sulla
folla degli astanti; allora
sentivasi trascinato nelle
braccia di quell'ordine che
pareva istituito per
convertire a Dio con
la predicazione e
la scienza teologica,
gli eretici e
gì' increduli. A
tale scopo cercava
il Pico di
cimentarsi con quelle
discipline che suggerisce l'ascetica,
per mettere a
prova la sua
capacità e le
attitudini richieste ad
un apostolato. È forse
in questo periodo
ch'egli compose le dodici
regole « per
eccitare e dirigere
« l'uomo nel
combattimento spirituale » . L'idea
Vita, \n «
Regulae XII partim
excitantes, partim dirigentes
« hominem in
pugna spirituali »,
in Opera, ed.
clt. 332. 203 centrale
di queste regole
è la seguente:
«Non si deve
rifuggire dalla via
della virtù perchè
il cammino è aspro
e difficile, poiché
anche la via
dei piaceri ò
seminata di spine
e di avversità;
se si deve
sostenere in questo
mondo una battaglia perenne, dato
che la vita
dell'uomo è una
milizia, tanto vale
combattere per una
causa giusta e
santa qual'è quella
che ci fa
simili a Gesù
Cristo il quale
non ascese al
cielo se non
per il martirio
». Perciò
il Pico viene
a riconoscere che fra
tutte le tentazioni
dell'uomo quella che
si deve combattere
e vincere è
la superbia, radice
di tutti i
mali, contro la
quale vi è
solo un rimedio,
il pensare che
Dio stesso si
umiliò per noi
sino alla morte
di croce .
A\entre da una
parte il Pico
per suo proprio
uso scriveva queste
regole e cercava
di metterle in
pratica, «
SI homiiii vidctiir
dura via \
irtuiis, quia continue
« oportet nos
pugnare advcrsus carncm.
et diabolum, et
« mundum recordetur,
quod quamcunque elegcrit
vitam, « etiam
sccundum mundum, multa
illi adversa, tristia,
in« commoda, laboriosa
paticnda sunt ».
Rcf^. I. •
Sicut et caput
nostrum Christus, non
ascendit in «
coclum, nisi per
crucem ». Rcg.
Ili. «
Quare super omnes
tentationes, homo debet
ma« xime se
munire, contra tentationem
superbiac, quia ra«
dix omnium malorum
superbia est, contra
quod unicum «
remedium est, cogitare
semper, quod Deus
se humiliavit «
prò nobis usque
ad crucem et
mors ». Rcg.
XII. 204 non trascurava
dall'altra i suoi
studi, massime in
quanto potessero giovare
in qualche misura
alla Chiesa. Si
proponeva, come abbiamo
detto, di combattere
i nemici della
religione e in
particoiar modo gli
astrologi, le cui
elucubrazioni piene di
sofismi gli parevano
incompatibili col dogma
e con la
fede. il Poliziano,
venuto a sapere
che il Pico
si era accinto
a questo lavoro
contro l'astrologia, si
adopera in qualche
modo per contribuire
alle fatiche dell'amico.
In quel tempo
leggeva nello Studio
ai giovani uditori
il suo poema
Rusticus in cui,
fra le altre
cose, fa menzione
degl'influssi della luna
sui vari lavori
dei campi, conforme
ai dettami di
Esiodo. «Ora, egli
scrive al Pico,
io « cominciai
fra me a
dubitare se cotali
osservazioni « non
avessero qualche fondamento
nelle leggi «
della natura o
piuttosto non fossero
derivate « dalla
superstizione del volgo.
Siccome tu stai
« scrivendo un
libro pieno di
dottrina contro gli
« astrologi, dove
tratti appunto argomenti
che « hanno
affinità con quelli
da me svolti
ad imi« fazione
dell'antico poeta, così
mi è sembrato
d\ « fare
cosa a te
giovevole riassumere in
una «
Quare quoniam tu
nunc librum cum
maxime com «
ponis adversus astrologos
multiplici doctrina, magnisque
« argumentis instructum
». 205 «lettera ciò
che si contiene
nel mio poema
e in« sieme
anche le ragioni
che dei fenomeni
ivi de« scritti
sono date da
Proclo, da altri
e da me « stesso
». Il Poliziano,
che dopo la
morte di Lorenzo
aveva rivolto tutta
la sua devozione
e il suo affetto
al principe della
Mirandola (poiché egli
era del numero
di quelli che,
avendo servito per
tutta la vita,
e si serve
in tante maniere
una persona, non
possono rassegnarsi a
vivere senza un protettore)
scrivendo all'Antiquario, gli
dipinge così al
vivo l'amabilità del
Mirandolano, da invogliarlo
a sua volta
a conoscere l'uomo
celebrato. Infatti l'Antiquario
in una lettera
a Bernardo Riccio,
dopo aver accennato
alle orazioni e
alle opere filosofiche del Pico,
nelle quali si
rivela un ingegno
singolare, dice di sentirsi
pieno di ammirazione
per uno che
per lo studio
ha abdicato alle
dovizie del suo
ricco casato .
E il Poliziano,
rispondendogli subito dopo, gli
dice di aver
fatto leggere la
sua lettera allo
stesso Pico, come
a quegli che
era il vero
oggetto delle sue
lodi, e che
riceverà dal Mirandolano
quanto prima una
lettera « doctani.
( 1 ) Angeli Politiani
et aliorum virorum
illustrium, Epistolarum libri
duodccim, Basilea, 1522.
libro XII, 455^460.
POLIT., Epist., libro
IX, ed. cit. 353-354,
9 giugno 1494. 206 aciitam,
cordatam, plenamqiie humanitatis
». Il nostro
infatti gli scrive
da Ferrara il
23 giugno, ringraziandolo delle
benevoli espressioni a
proprio riguardo, sicuro
che il Poliziano
saprà interpretare il
suo pensiero, poiché
alle muse non
si addice lo
strepito di un
picchio anzi l'aspra
voce di un'anitra,
com'è la sua,
di fronte al
canto di due
cigni, quali sono
loro due .
Il contenuto di
questa lettera del
Pico, tradisce uno stato
d'animo completamente estraneo
a quello cui
sono intonate le
lettere del Poliziano
e dell'Antiquario; qui
si sente dell'artificiosità, fors'anche
dell'ironia, prova che
l'animo del nostro
si è ormai
ritratto da ogni
attaccamento mondano e non
vibra più a
quell'entusiasmo che era
si frequente nelle
lettere anteriori. Questo
risalto deriva dalla
comparazione della lettera
di risposta dell'Antiquario, in
cui traspare quell'intima
soddisfazione che nasce
ogni volta si
ottenga un attestato
di deferenza da
parte di qualche
personalità eminente. Egli dichiara,
che non ci
tiene d'essere paragonato
al Poliziano, desiderando
solo essere amato
dal Pico, per
il quale nutre POLIT., Opera. un
affetto e un'ammirazione più
antica di quel
che non creda,
e il suo
nome di Antiquario
ne è una
prova. Ad ogni
modo non nasconde
questi sentimenti per non
venir meno a
ciò che l'animo
sente, e la
lingua esprime, e,
d'altra parte, la
di lui gloria
6 sì solida,
che non ha
bisogno di adulazione,
egli che ha
conseguito tra i
nati degli uomini
il nome di
Fenice. Questo fascino
che esercitava la
persona del Pico,
invece di scemare,
sembrava andasse crescendo
con gli anni.
Ad altri letterati
si chiedeva un
giudizio, un'espressione di
simpatia, un apprezzamento
qualsiasi; al Pico
si chiede un
sentimento d'amore; non
si ambiscono le
sue lodi o
la sua ammirazione,
si desidera essere
da lui amati.
E che veramente
fosse felice l'Antiquario
d'essere stato onorato da
una lettera del
Pico (quoniam me
nuper tuis littcris
exornasti), Io vediamo
nelle parole scritte
al Poliziano subito
dopo. Dichiarandosi suo
debitore per averlo
messo in corrispondenza col
Pico, soggiunge :
« sapevo «
ch'egli è un
amabile compagno, ma non potevo
« supporre che
divenisse così presto
famigliare. « Ho
proprio notato come
le sue lettere
rivelino, •oltre che
il sapere, l'innata
bontà del suo
ani« mo Quando lo
vedi, digli che
riguardi nelle PoLiT.,
Episf., Cd. cit. 357-359,
questa lettera e
datata da Milano,
9 agosto 1494.
208 «mie lettere non
ciò che vi
è d'incolto, ma
la « mia
devozione per lui,
e mi abbia
come anti« quario
fra i suoi
amici, poiché la
legge dell'af« fetto
non può mai
divenire antiquata». Il
movimento decisamente mistico
che aveva per
centro il Savonarola,
alle cui prediche
traevano in folla sempre
piiì frequenti gli
uditori, aveva poco
per volta attirato
nella sua orbita
tutti gli uomini
piìi in vista
di Firenze. Il
Benivieni, che diverrà
in seguito «
il poeta, per
così « dire,
ufficiale delle pie
solennità con le
quali il «
priore di S.
Marco si studiava
di riformare i
« costumi » , rimase
così vinto dal
fascino del Savonarola
che poco mancò
non desse alle
fiamme le sue
poesie d'amore, che
esprimevano un passato di
vita leggera. Anche
il Ficino si
senti scuotere
dall'eloquenza del predicatore,
ch'egli chiamava «novello profeta»,
e rimase suo
seguace finché la
fortuna fu favorevole
al riformatore; mentre
quando si tratterrà
di confessarlo nel momento
della sventura, egli
lo abbandonerà vilmente con
parole indegne di
un filosofo. Il
Pico piiì di
ogni altro subì
l'influsso del Savonarola,
al quale si
sentiva legato da
vincoli di ammirazione di lunga
data, e per
richiamare il quale
da Reggio a
Firenze aveva speso
i suoi buoni
uffici POLIT., 359-360,
porta la stessa
data, Rossi, //
Quattrocento, Milano, 281.
209 presso Lorenzo. Il
frate aveva acquistato
tale impero sull'animo
del nostro, da
permettersi aspri rimproveri
al suo divoto
che indugiava ad
entrare nella vita
religiosa, e gli
presagiva gravi punizioni se
non rispondesse al
più presto alla
voce che veniva
dall'alto. E il
Pico prometteva di vestire
l'abito, appena avesse
dato termine ai
suoi lavori in
corso, che in
fondo, diceva, sarebbero
tornati assai utili
alla Chiesa. Quasi
tutti ormai sapevano
dell'imminente pubblicazione dell'opera
polemica del Pico
contro gli astrologi
di cui se
ne faceva ovunque
un gran parlare
; e il
Ficino che, come
sappiamo oltre essere
filosofo era anche medico,
e la sua
medicina aveva per
fondamento molti postulati astrologici,
cominciò a pensare che
l'amico suo non
avrebbe certo risparmiato alcune di
quelle teorie che
gli erano care
e che aveva
sostenuto negli scritti.
Senza por tempo in
mezzo, scrisse al
Poliziano, che condivideva
le opinioni del
Conte e collaborava
alle sue ricerche bibliografiche, una
lettera, nella quale,
facendo le viste
di convenire con
loro, cercava di
difendere quanto gli era
possibile salvare. Riferiamo
parte della lettera
singolare: « Contro
molti astro« logi,
che come già
i Giganti a
Giove il cielo
«torre tanto invano
quanto empiamente si
sfor« zano meritamente,
il Pico, figliuolo
di Pallade e
VlLLARI, \, 76-82.
210 «voi figliuolo d'Ercole,
spesso felicemente com«
battete... E io,
come in tutta
la mia vita
sempre « sono
stato del medesimo
animo (?) che
voi, in « questo studio
ancora con voi mi unisco.
Gli « platonici
le celesti imagini
degli astronomi de«
scritte, non riprovano,
né si studiano
approvare. « Ma
Plotino di tali
cose al tutto
si ride, e
io « ne'
miei commentari sopra
di lui, come
suo in« terprete
ugualmente me ne fo beffe,
parte nella «
sua autorità confidato,
parte perchè nessuna
« certa ragione
ho di tal
cosa. Ma nel
mio libro «
della vita, com'io
posso d'ogni luogo
diligen« temente ricerco;
non disprezzo al
tutto quelle «
imagini, né tutte
quelle regole refuto...
e quivi «
narro le disposizioni
dei segni e
de le imagini
« non come
appresso gli Platonici,
ma come ap«
presso gli Astrologi
ho osservato... oltra
di que« sto
nel libro del
Sole non tanto
cose astronoonarola :,
il morto suo
conhdente ; egli
che aveva reso
acuto colle sue
recriminazioni quel dissidio interiore
che aveva fatto
penare per tutta
la vita il
povero Mirandolano; egli
che avevi esacerbato coi suoi V, ultimi
giorni ed alteralo con
la sua :
: .^ta dalle
astinenze lo sguardo
dolce e mansueto
del biondo Kìovane.
Ciò non basUva:
ei doveva perseguitare
anche nel regn».
del riposo l'ombra del
Pico e molestarla
con le sue
tetre predizioni. Ma coloro
che l'avevano amato
sinceramente, ne sentirono
tutta l'amarezza del
vuoto lasciato; e
la sua morte
immatura fece nascere
più d'un sospetto.
Si narra che
(ierolamo ! per
il dolore della
pi-rdila dellamico, fosse
sui . ^i
darsi la morte.
La frase del
Savonarola • non
avrei mai creduto
questo ., la
descrizione della malattia
fatta dal nipote,
in cui si
parla • del
gonharsi delle viscere
e di una
febbre insidiosissima ., inhne
la e tfatta
alcuni anni dopo,
il 22 agosto
1497, da e.
; ;o di
Casalmaggiore di avere
avvelenato (. lo
tosegoc .. dice
il SA>arr() nei
Diari. Tom. I,
coli. 714. 715,
726) il Pico
di cui era
segretario, sono argomenti tutti che
inducono a credere
che la morte
del Mirandolano non
sia stata naturale.
Il Dorez che
ha studiato sui vari
documenti la questione,
emette due ipotesi:
runa di carattere
privato il cui
movente era esclusivamente uno scopo
pecuniario; l'altra di
natura politica, e
connessa coi Utrbidi
giorni del 94
in cui a
Firenze si contrastavano partiti e
tendenze diverse che
mettevano capo, alcune
al papa, altre
a Pietro De'
Medici o a
Carlo Vili. 226 Fra
le molte vittime
non è escluso
che anche il
Pico, un tempo
amico di Lorenzo
ed ora seguace
del Frate, sia
stato preso di
mira come uno
che aveva tradito
la causa dei
Medici (Giorn. Stor.
ecc. voi. 32, 362).
Un documento del
vivo rimpianto che
lasciava dietro di
sé il Mirandolano,
lo abbiamo in
una lettera del Ficino, proprio
dell'uomo che, per il suo
carattere incostante, ci
parrebbe il meno
degno di fede.
Se il vecchio
medicofilosofo provò mai il
nostalgico affetto per
una persona amata,
partita per sempre
dalla vita, fu
senza dubbio nei
giorni che seguirono
la morte del
Pico; questa lettera
ci mette a
nudo per l'unica
volta forse, l'anima
del Ficino, non
spoglia però di
ogni finzione allegorica,
parlante nel suo
linguaggio tronfio eppure
accorato. « Oh!
Germano, • scrive
al Presidente della
Sorbona, desideri aver
la con« ferma
della morte del
Pico, vuoi accrescere
il tuo dolore,
« poiché ora
che non sei
ben certo se
sia morto, ti
duoli « amaramente,
credo che ti
dorrai ancor di
più quando te
« ne sarai
accertato. Ah, perchè,
mio Germano, mi
preghi « di
una tal cosa!
Come vorrei essere
ancora in dubbio,
« né posso
compiere questo pietoso
ufficio senza piangere.
« Il nostro
Mirandolano ci ha
lasciato il giorno
stesso in «'
cui re Carlo
entrava in Firenze,
e compensava i
gemiti « dei
letterati coll'esultanza del
popolo ch'egli liberava.
« Se non
fosse stata la
luce apportata dal
re di Francia,
« forse Firenze
non avrebbe mai
veduto giorno più
oscuro « di
quello in cui
si è spento
il luminare di
Mirandola. « Con
ilare fermezza passò
il Pico dall'ombra
di questa «
vita come se
passasse dall'esiglio alla
patria celeste. «
Qualche rara volta
i sacerdoti concedono
per un poco, «
agli occhi dei
profani, i misteri
più riposti e
tosto li na«
scondono, così Dio
concedette ai mortali
questo divino «
filosofo, Pico della
Mirandola, e lo
tolse, appena maturo,
* a trentadue
anni ». La
morte del Pico
troncava molte speranze
e lasciava in
sospeso molti lavori
di cui si
attendeva il compimento.
227 L'erede spirituale del
Pico, quegli che
per l'ingegno e
la non poca
coltura, sembrava più
indicato a continuare
l'opera del filosofo, era
il nipote Gianfrancesco; a
lui si appuntarono gli sguardi
di tutti coloro
cui stava a
cuore vedere publicate le
opere inedite. Infatti
il libro contro
gli astrologi, di
cui il manoscritto
era in caratteri
cosi indecifrabili che lo
stesso autore stentava
a leggerli, • Gian« francesco,
al dire del
Ficino, così pio,
come intelligente, si
• sforza tuttora
(quotidie) di trarlo
dalle tenebre, e
il me • desimo
scriverà la vita e le
opere dello zio
». • Da
te, poi, Gianfrancesco, gli
scriveva fra Battista
« Mantovano, che
erediti le virtù
dello zio, quasi
che il suo
spirito si sia
trasfuso nel tuo
come quello di
Elia • in
Eliseo, ci aspettiamo
questo: che raccolga
gli opu • scoli
suoi i quali,
benché lasciati imperfetti,
causa l'im • matura
morte, non possono
non essere dalla
posterità • degnamente
letti, amati, adorati».
.Mantova. Il medesimo
in una lettera
del 3 gennaio
dell'anno seguente,
narrandogli un sogno
avuto in una
notte giocondissima, in cui il
filosofo gli apparve,
discutendo di cose
arcane del cielo
e della terra,
lo esorta a
scrivere la vita
dello zio della
quale nessuno è
meglio informato di
lui e più
adatto a farlo,
per essersi proposto
d'imitarlo come un
esemplare di sapienza
e di religiosità. Essa,
conclude, riuscirà di
grande conforto a
tutti coloro che, come
me, hanno amato
il filosofo e
sofferto per la
sua perdita un
dolore più grande
che per quella
di qualunque altro.
Mi sono doluto
si della morte
di Giorgio Merula,
mio condiscepolo e
precettore e di
quella d'Ermolao e
del Poliziano, due
uomini illustri; ma
di gran lunga
superiore fu il
cordoglio per quella
del nostro Pico. Piangono
la sua morte
l'eloquenza, l'arte, la
filosofia e ogni
speculazione, che trovarono
in lui un
degno cultore; ma
tuttavia egli non
è morto invano,
noi stimolati dal
suo esempio ci
sforzeremo di pervenire
là dov'egli gode
già di essere
pervenuto ». Tale
era il rimpianto
che lasciava dietro
di sé il personaggio
scomparso, tale la
somma di pensieri,
di affetti, di
care simpatie che,
a guisa di
scia luminosa, tracciava
nel percorso della
sua breve vita. Egli
scompariva dagli occhi
di tutti in
quel mezzo in
cui s'incrocia col
fascino della giovinezza
non ancor sfiorita tutto ciò
che vi è
di bello e
di profondo nella
vita dell'uomo; e
non è a
stupirsi se nell'immaginazione dei
contemporanei tanto alto
assurgesse colui che,
per la bellezza della persona,
per l'ingegno favorito
da una memoria prodigiosa, per
il cuore sensibile
a ogni impressione e
per tutte quelle
prerogative che non
si possono tramandare
cogli scritti, dovette
certo figurare uno
di quegli uomini che
sono il vanto
e la meraviglia
di un secolo Fu
osservato che il
Rinascimento è l'epoca
delle forti individualità
che spiccano con
caratteri originali
sull'amorfa moltitudine. Quelle
individualità che, come Farinata
degli Liberti, il
Conte Ugolino, Pier
delle Vigne, Francesca
da Rimini, emergono
nel mondo delle
ombre per opera
del pensiero di
Dante (e il
pensiero precorre sempre
l'azione) si realizzano
in carne ed
ossa nei condottieri, nei commercianti,
negli artisti, negli
uomini di Stato, nelle
donne celebri del
Rinascimento. Non pochi di
questi personaggi giunsero
sino a noi
e sono ancor
vivi nella storia,
non tanto per
quello che hanno
lasciato, quanto per
quello che hanno
fatto; non tanto
per quello che
hanno fatto quanto
per quello che
hanno suggerito ad altri
di fare. Borgia non
ha lasciato nulla
che giustifichi la
fama che rende celebre il
suo nome, ma
le sue gesta,
il suo carattere, hanno gettato
il loro forte
riverbero nella mente
del Macchiavelli, il
quale fu tratto
a scrivere il Principe.
E cosi dicasi
di tanti altri
uomini di quel periodo
glorioso la fama
dei quali giunge
sino a noi
per opera di
scrittori e di
biografi. Altrettanto può
dirsi di Pico
della Mirandola, ir
quale, se lasciò
non pochi scritti,
non è già
per questi che
è ricordato, ma
per le lodi
di cui è
stato insignito dai
contemporanei. Siamo qui
dinanzi a un
problema che non
sempre è stato valutato
adeguatamente. È proprio
vero che la
grandezza di un
uomo si debba
misurare da ciò che
ha lasciato, da
ciò che anche
per i posteri
può essere materia di
esame ? Se
si dovesse risolvere
il problema in
modo affermativo, allora molte
figure storiche dovrebbero
relegarsi nell'oblio, fuori
del quale esse
rimangono tuttavìa chiare e
sempre splendide. Ben
disse il Balbo
che Cesare appare
piìi grande di
Pompeo per quello
che ha lasciato,
ma non per
quello che ha
compiuto; certo in
questa assegnazione del
compito non sempre
la storia si
rivela giusta e
imparziale. E non
ci sembra privo
di significato il
detto del Leopardi
quando afferma che
la gloria di
un uomo dipende
più dal caso
che dal merito.
Ma noi crediamo che
la vera soluzione
del problema si
abbia quando si
tenga conto, oltre
di ciò che
può da noi
essere giudicato, anche
dell'elemento di quell'unanimità che è
possibile riscontrare nei
giudizi dei contemporanei
su di un
dato personaggio. Perchè,
torniamo a ripetere,
non tutto ciò
che vi è
di bello e
di profondo nella
vita può sempre tramandarsi cogli
scritti, nei quali
molte particolarità che rientrano
nella componente di una personalità
storica, possono essere
trascurate o, comunque,
taciute. E nel
caso del Pico
non tutto ciò
che vi era
di nobile e
di affascinante in
lui, che lo
rendeva così singolare
in vita, si
può vedere negli
scritti suoi. Quindi
il nostro giudizio
finale sul Pico
oltre che da
un esame della
sua dottrina doveva
essere integrato da
quanto scrissero e
giudicarono i contemporanei. Ecco
perchè nello svolgere
la sua vita
e le sue
opere, non potemmo
trascurare anche le
lettere e i
giudizi di alcuni
uomini del suo
tempo, massime di quelli
che vissero con
lui nei pii!i
intimi rapporti. Inoltre
per meglio ritrarre
la figura del
Mirandolano, abbiamo voluto
seguire un metodo
che, contrariamente a
quanto avviene negli
studi d'indole storico -filosofica, seguisse
lo svolgimento del suo
pensiero procedente di
pari passo con
lo sviluppo storico
della sua vita.
Forse non saremo
riusciti nel nostro
intento, e la
monografia-profilo tra gli
altri difetti presenterà
quello di essere
inordinata, sconnessa, e
poco chiara. Ma
non dovremmo sperare
indulgenza se in
cambio potremo dare
la sensazione di
essere rimasti sempre
fedeli allo spirito
del nostro autore
? Noi ci
siamo adoperati a
mettere in rilievo
sopratutto ciò che nell'opera
del Mirandolano rispecchia fedelmente gli
stati del suo
spirito, travagliato da una
crisi interiore che si rivela
piij intensa che
negli altri contemporanei. Il
Ficino visse più
del doppio del
Pico e pure,
benché si parJi
della sua conversione
nel tempo in
cui prese gli
ordini sacri, non
offre esempio di
quel doloroso dissidio
che fece soffrir
tanto il nostro
autore. Il Poliziano
trasse sino alla
tomba l'inalterabile
serenità della sua
anima ellenica. Il
Pico che si
era spinto col
pensiero nei vari
campi del sapere,
perseguendo un ideale
che gli sfuggiva sempre, la
concordia di tutti
i filosofi e
di tutte le
scuole, cominciò a
provare quella specie
di disillusione che
subentra con la
coscienza dell'inanità dei propri
sforzi. Dall'aere rarefatto
in cui l'avevano
portato certe sue
elucubrazioni, senti il
bisogno di abbassarsi
un poco più vicino
alla solida terra
dell'esperienza e di
restringere i suoi studi
a quegli argomenti
che si fondano sulle
incrollabili basi dei
pochi ma sicuri scrittori, le
cui opere hanno
sfidato i secoli.
E infine, non
trovando più neFlo
studio che aveva
coltivato con tanta
passione, la pienezza
cui anelava la sua
anima irrequieta, pensò
di darsi alla
vita attiva del
religioso e di
confondersi umile e
negletto tra i
semplici del volgo
dai quali aveva
cercato di distaccarsi
colle sue aristocratiche teorie.
Non v'è figura
forse nella storia
che, come quella
di Pico della
Mirandola, si contrapponga
con tanta evidenza
al dottor Faust.
Mentre questi, nauseato dei
libri e degli
alambicchi della sua
stanza solitaria in
cui era invecchiato
precocemente, abbandona lo studio
al quale invano
aveva chiesto la
soluzione degli enigmi
piij affannosi, e si
slancia nella vita
festante dove sorride il
volto soave di
Margherita; Pico invece
lascia giovane e
bello la corte
principesca con le
sue caduche frivolezze,
per il fascino
di ciò che
vi è d'imperituro
e non declina
come la luce
del giorno, per
le idee che
illuminano i nascosi
sentieri della verità
a coloro che
sanno formare in
se stessi gli
organi atti a
contemplarle. Ciò che
infine piace nel
Pico, è di
vedere in lui
compendiati molti caratteri singolari
della stirpe italiana, che
più di ogni
altra sente il
fascino della bellezza,
della gloria e
sa per esse
immolarsi. Questa nostra
stirpe ha sempre
dimostrato, fin da
quando nel Pantheon
dei Cesari accoglieva tutte le
divinità, di saper
comprendere ed apprezzare le
manifestazioni religiose degli
altri popoli; e anche
quando unificò gli
spiriti nella religione cattolica romana,
diede prova della
sua tolleranza in
quella stessa Roma,
in cui all'ombra del
Vaticano, potevano vivere
indisturbati gli ebrei,
che altrove erano
perseguitati e vilipesi.
Ogni volta poi
che questa stirpe
fu colta da
quelle profonde crisi
che non risparmiano
alcun popolo, essa
ha saputo riformarsi
senza cadere in
quegli eccessi che
fanno rompere ogni
rapporto col passato 0
che, abbandonandoci al
caos rivoluzionario,
ritardano, invece di
far avanzare, la
civiltà. E noi
assistiamo sovente a
questo fenomeno che
come nella massa
della nostra gente,
si avvera nei
singoli, e cioè,
che quanto più
il volo della
fantasia o lo
slancio dell'ingegno li
porta a varcare i
confini della tradizione
e delle leggi
civili e religiose,
proprio allora succede
un ritorno o,
meglio, un più
forte sentimento di
amore e di
venerazione per la
religione e le
usanze dei padri.
Se è vero
che nell'individuo sono
compendiati tutti i
caratteri della specie,
possiamo ritenere che,
come pochi, riesce
il Pico a
compendiare queste caratteristiche della
razza italiana. Onde,
nel modo istesso
che egli soleva
dire che, se fosse vera
la teoria pitagorica
della trasmigrazione delle anime,
avrebbe creduto che in Marsilio
fosse redivivo Platone;
cosi noi potremmo
dire, in senso
metaforico, che in
ciascuno di noi
rivive un poco
dell'anima entusiasta e
pugnace di Pico
(iella Mirandola. Concludendo,
il nostro j^iudizio
sarà diverso la
quello pieno di
rimpianto che di
lui e delle
ne opere formularono
i suoi contemporanei, se)ndo
I quali la
morte precoce impedì
al suo ingegno
di raggiungere la
pienezza degli anni
maturi. La monografia -profilo che
abbiamo tentato di fare
del Pico, ci
induce a scartare,
come assolutamente infondata,
questa opinione che potrebbe
anche apparire a
un esame superficiale
ilella vita del
Mirandolano. Noi siamo
del parere che
il Pico non
mori quando la sua carriera
letteraria era a
mezzo, ma piuttosto
quando era compiuta.
Se la morte
lo sorprese, fu
soltanto tlla svolta
della sua vita,
quando già egli
era per intraprendere
un nuovo cammino.
Il Pico se
fosse ancora vissuto,
si sarebbe dato
alla predicazione, a
una vita di
apostolato in servìgio della religione
cristiana: egli insomma
non avrebbe più
lavorato per la
gloria del mondo
e quindi per
la scienza, ma
unicamente per la gloria
celeste e cioò
per la sua
anima. Già gli
ultimi frammenti della
sua produzione letteraria,
accusano i sentimenti
di un morituro
alla vita del
mondo, di un
nascituro a quel genere di
vita che, rinnegando
il mondo e
le sue comuni
soddisfazioni, è una
preparazione a una
buona morte. Il Pico
poeta. Come abbiamo
detto, tra la
farragine di scritti
che teneva ne'
suoi scrigni, egli
aveva le Disputationes
e i versi
raccolti in più
libri i presumibilmente cinque);
a quelle egli
diede pubblicità, e
questi volle consegnare
alle fiamme. Tuttavia
qualche cosa sfuggi
all'incendio: una trentina
di sonetti in
volgare che, scoperti
contemporaneamente dal Dorez
e dal Ceretti,
furono publicati sulla
fine del secolo
scorso; e in
latino alcuni distici
ad esaltazione della
Bucolica di Benivieni
i2j;un breve epigramma
laudativo ad Angelo
Poliziano i3), e un
carme elegiaco. Dorez li
pubblica in una
rivista romana la
Nuova Rassegna e
il Ceretti a
Mirandola. Sono stampati. ^Ac.
74b delle opere
del Benivieni stampate
a Venezia per
Nicola Zoppino e
Vincentio Conipapagno) e
in Opera. Poliziano espresse
il suo dolore
in un epiragmma
slg "còv tcìxov
perchè il Pico
diede alle fiamme
le sue poesie.
In ed. Del
LUNGO, pagina 217, num.
LUI. Opera, 339, Dei
quattro carmi latini
due : «
De expellendis Venere et
cupidine» e «
In martyrem Laurentium
Hymnus » publicati
nei Carmina III.
Poet. appartengono al
nipote. L'elegia «
In Inudem Dei
et prò oratione
ad Deum facienda. Siccome poco
o nulla possiamo
dire del Pico
come poeta latino,
soffermiamoci alquanto sui
suoi meriti come
poeta italiano, attendendoci all'edizione
dei sonetti curata
dal Ceretti. Il
nostro scopo in
questo breve esame
non è quello
di risolvere una
questione estetica e
molto meno di
offrire un testo
critico delle rime
in volgare del Mirandolano;
esso mira unicamente,
in coerenza all'indirizzo
che abbiamo seguito
nel corso del
nostro studio, a
indagare se anche
nei componimenti poetici
si rivela qualche nuovo
"lato della personalità
del nostro autore. I
sonetti del Pico
appaiono più esercitazioni
sco. lastìche che
espressione di stati
d'animo; essi trattano
per lo più
argomenti d'indole filosofica
e morale. L'intonazione petrarchesca
si rivela sin
da principio: Ed
io sono esemplo
al popol tutto
il qual verso
richiama il noto
sonetto del Petrarca
che incomincia: al popol
tutto Favola fui
gran tempo. Cosi
dicasi del primo
verso di quell'altro
sonetto: Spirto che
reggi nel terrestre
bosco che ricorda
il petrarchesco :
Spirto gentil che
quelle membra reggi.
Tuttavia anche in
alcuni di questi
sonetti come nel
quarto della raccolta
citata, non è
difficile notare qualche sprazzo di
luce, un afflato
poetico che dimostrano
come Pico sapesse
talvolta elevarsi colle
proprie penne e
l'ode «Ad Pctrum
Medicem => (che
insieme all'epigramma per
il Poliziano si trova
nel cod. Laur.
XC, sup. 37)
sono d'argomento religioso,
moraleggiante. G. Bottiglioni,
La Lirica Latina
neUa 2. metà
del secolo XV
in Annali della
R. Scuola .Normale
di Pisa, nel cielo
della poesia 5
. Un indice
che il Mirandolano
era anche uno
studioso di Dante
lo abbiamo nel
sonetto V, in
cui tenta di
esprimersi con lo
stile forte e
solenne del Poeta,
come nella quartina:
Quinci colei, da
cui mai non
iscampa Scese nel
mondo e in
alto precipizio Guida
chi del gran
primo benefìzio Grata
memoria non riscalda
e avvampa. Nel
sonetto VI c'è
un'eco delle sue
ansie di mistico,
del suo sospirare
alla patria lontana
che forse il
presentimento della morte vicina
rendeva tanto bella
al pensoso giovane:
Non m'accorgeva, dico,
ahimè infelice !
Esser qui in
viaggio, esser qui
posto in bando
; Altrove esser
la patria e
la mia stanza.
C'è qui anche
una visione tetra
della vita che
oscura le cose
più leggiadre, come
i fiori che
intristiscono sul loro
stelo, le balde
esistenze discoloro che
avanzano frementi di speranza
e finiscono tòsto
per cadere: E
che quando l'uom
crede ch'egli avanzi
Spesso al suol
cade ed e'
gran sonno dorme,
E che seccarsi
e diventar può
informe Subito un
fior che verdeggiava
dianzi. Ma se il suo
pessimismo se così
può denominarsi) è
appena momentaneo, egli
non poteva ancora
essere assalito dal dubbio
assillante dell'autore di
Amleto, ne da
tutto il travaglio
del pensiero critico
che troverà la
sua espressione nelle
poesie del Leopardi.
11 Pico era
ancora in quell'età
in cui l'uomo
appena s' inoltrava nelle
vie del (5.
Ci atteniamo airedizione
del CERETTI, Sonetti
Inediti del Conte
F G Mirandola,
189». Non hanno
notevole interesse la
canzone e .1
sonetto che si
trovano nella raccolta
Delle Rime Scelte
di GABRIEL G.OLITO,
Vinesia, dubbio, sì
ritraeva tosto inorridito
e abbracciava la
croce come un'ancora
di salvezza. E
mentre al mio
passato erro pensando
Tengo fermo nel
cor l'alta radice
Di carità, di
fede, e di
speranza. E ci
descrive anche quando
egli si distillava
il cervello per decifrare
gli antichi codici
cui sperava di carpire
qualche segreto; e
come al chiaror
della lampada, nell'alta
quiete della notte,
fisso in quei
punti oscuri che
arrestano ogni slancio
del pensiero, egli
provasse l'ansia, il
dolore fino alle
lagrime per ciò
che invano sospirava
di poter chiarire:
Versan lagrime sempre
le mie luci
E pur quand' altri
posa, il sol
si parte, Non
men quando al
ritorno scuote l'ombra
Mentre il sudor
distilla in qualche
libro Pel caldo
a cui non
trovo aura né
ombra. Abbiamo accennato
altrove come il
Pico non fosse
di forti passioni,
se si esclude
quella per la
gloria; non ebbe
una forte passione
per la donna,
e anche quando
ne parla, non
esprime nulla di suo e
cade nella rettorica.
Tale ci appare
il sonetto che
incomincia: "Era la
donna mia pensosa
e mesta „,
nel quale il
Pico fa apparire il
suo cuore nudo
" a guisa
d'un messaggio „
a Madonna che, mossa
alfine a pietà,
" nell'umido suo
seno allori'accolse „.
Né riesce più
efficace quando per
colorire meglio dei
sentimenti che non
provava, ricorre alla
mitologia. Così nel
sonetto fX) "
Per quel velo
che porti agli
occhi avvinto „,
pieno d' invocazioni a
Venere, a Psiche
e a Cupido.
Notevole nella sua
forma esteriore è
il sonetto (XIII >
che incomincia: " Io
mi sento da
quello ch'era in
pria Mutato da
una piaga alta
e soave „
che, anche tecnicamente,
è uno dei
meglio riusciti del
nostro autore. Non
privo d'interesse è
il sonetto iXlV)
a forma di
dialogo tra Pa e Po,
il quale appare
anche nella « Raccolta di
Poesie italiane inedite
di duecento autori
del Trucchi ». Nel
sonetto XII sembra
abbia coscienza della
sua incapacità a
trattare di amore,
perchè mettendosi a celebrare
un grande personaggio
del tempo <
forse un Papa
o Lorenzo il
Magnifico immagina che
Apollo Io consigli
a lasciare Amore
e a cantare
" d'un chiaro
splendore che alluma
l'universo „ ;
e riconosce che
quando vuole emulare altri il
Petrarca riesce meno
abile: e fatto
emulo altrui Spesso
ad altrui mi
fa parer men
chiaro. Non privo
di grazia appare
il sonetto XVI
nel quale Pico,
che si ora
innamorato di una
donna da altri
amata, la paragona
a una cerva
inseguita da due
cacciatori e incerta se
fuggire o gustare
il dolce miele.
A\a il poeta,
commosso della sua
sorte, poiché era
In pericolo di cadere
vittima del traditore,
esclama: Ed io
di ciò me
ne affannava molto
Che m'accortala del
ricoperto fele, E
mentre me ne
doglio ella disparve.
Forme e modi,
come si vede,
convenzionali, come convenzionale
è pure il
sentimento della natura,
non diverso da quello
che ci forniscono
i modelli classici.
Ecco come II
Pico dipinge nel
sonetto XI la
campagna che si
ridesta al soffio
primaverile: Chiara gemma
più assai che
chiaro Sole Quando
apre l'anno verde,
e rivi e
colli Orna di
fresche e pallide
viole ! Ed
ecco come parla
dell'estate nel sonetto
XV: Era nella
stagion quando il
Sol rende A'
due figli di
Leda il bell'uffizio.
Quando ch'io giunsi
all'ombra d'un ospizio
Ove natura le
sue forze estende.
L'amore ei lo
fa nascere: Quando
la terra Si
riveste di un
verde e bel
colore; 242 e questo
amore è il
dio platonico che
non muore mai:
Ojfendeti la morte
o la vecchiezza
? No, che
rinasco mille volte
al giorno. Ma
quando il suo
pensiero da soggetti
frivoli o comuni, passa
ad argomenti più
elevati, per esempio
a quello di
patria, allora pare
che si ridestino
in lui i
nobili sensi della
sua stirpe guerriera,
e la sua
penna sa foggiare
parole taglienti come lama
acuminata. Dopo avere
notato come il
prestigio che un
tempo aveva l'Italia
stia per passare
oltr'Alpe, e specialmente
in quella Gallia
che doveva, proprio nel
giorno della sua
morte, mettere il
piede ferrato sull'Itali^
egli allora guarda
la patria italiana
come a un'ombra
dell'Inferno dantesco: Allora
mi parca come
del ceco Regno
di Dite stanno
i spirti bui;
Che si conosce
un ben quando
é perduto. Ed
è pieno di
reminiscenze dantesche la
chiusa del sonetto:
E quando il
danno tuo fìa
conosciuto Intenderai, se
avrem da pianger
teco. Dicendo : non sai
più quella eh'
io fui. Anche
le competizioni di
parte, le lotte
intestine, le guerre
fratricide tra città
e città, tra
regione e regione,
trovano un'eco nel
sensibile suo cuore.
Egli, che aveva
studiato e agito
per trovare una
conciliazione fra le
idee, per perseguire
il suo ideale
di pace fra
gli uomini, deve
constatare che questi
non cessano di
combattersi fra loro
in forma violenta
e sanguinaria. II
sonetto XVII è
l'espressione del suo
cuore angustiato di figlio
di questa misera
Italia, e sebbene
si senta l'ispirazione
di Dante, pure
il Pico sa
rendere abbastanza la
sincerità del suo
sentimento. Misera Italia,
e tutta Europa
intorno Che il
tuo gran padre
Papa giace e
vende. Marzocho a
palla gioca e
lunge stende. La
Biscia è pregna
ed ha in sul capo
un corno. Fernando
infuria e vendica
il gran scorno,
San Marco bada,
pesca e poco
prende, La vincta
Biscia ora S.
Giorfiio offende, La
Lupa a scampo
veglia notte e
giorno. Nulla di
notevole preserftano i
cinque sonetti che
compaiono nella seconda
parte della raccolta;
prevale in essi
l'intonazione filosofica. Ciò
che si rileva
è l'aspirazione del poeta
ad elevarsi dagli
amori frivoli e
passeggeri di questo mondo
a quell'unico amore
che arde sempre nella
inalterata beatitudine. Egli
che aveva provato
le pene, le
gelosie, i languori
degli amanti: Uno
star divoto più
che divino Basi,
sussurri, risi: in
un momento Mi
han fatto servo
: e dir
non so di
cui. ebbe però
anche la forza
di dominarsi e
di drizzare l'occhio alla
contemplazione del sempiterno
bene: e degno
obietto Nel guai
ogni sua forza
ha posto il
Cielo E veramente
pur me stesso
lodo Che a
tanta electionc hebbi
intelletto Levando totalmente
a gli occhi
il velo. Dopo
questo sommario esame
dei sonetti, la
figura del Mirandolano
ci rivela un
altro lato della
sua caratteristica
personalità. E se
alle opere filosofiche
egli deve maggiormente
la sua celebrità
presso i contemporanei, e se
per esse lo
riteniamo degno di
studio noi moderni, non
dobbiamo misconoscere anche
i suoi meriti
letterari. Noi riteniamo
che non sia
lecito tacere del
suo contributo, modesto
quanto si voglia,
alla letteratura italiana, le
cui manifestazioni se
furono cosi splendide
nel cinquecento, ciò si deve
al solerte lavoro
di preparazione, di
prove, di conati
che caratterizzano il
quattrocento, del — quale il
Pico se fu
l'ultimo in ordine
di tempo, non
fu l'ultimo per
merito e importanza. Sul contenuto
e sul valore
delle poesie del
Pico esiste un
lavoro di Valdimiro
Testa, « Pico
della Mirandola e
i suoi contributi
in rima alla
lirica del Quattrocento», Aquila,
1902, che noi
non riuscimmo, per
quante ricerche fatte,
a trovare. In
Rassegna Bibliografica d.
L. Ita- liana, an. Vedi la
recensione del Flamini
alla publicazione dei
sonetti fatta dal
Dorez e dal
Ceretti. Cfr. pure
Giornale stor. di
Leti. Italiana, voi.
41, p. 170
e la Rivista
Abruzzese. Vedi infine
Giorn. stor. di
Letteratura Italiana. Giovanni
Semprini. Semprini. Keywords: il deuteuro-esperanto di Grice, PICO (vedasi). Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Semprini.” Semprini.
Luigi Speranza -- Grice e Senea: la ragione conversazionale della scuola
di Caulonia – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia,
Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorian cited by Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senocrate: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senofante: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean – Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Serbati: la ragione
conversazionale del divino nella filosofia italiana – la scuola di Rovereto -- filosofia
trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo italiano. Rovereto, Trento,
Trentino-Alto Adge. Important Italian philosopher. Frequenta l’imperial regio ginnasio. Studia a Padova. A
questo proposito i famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età,
legge alla luce della sua aureola. E in occasione della venuta a Rovereto
del vescovo di Chioggia per consacrare le chiese di S. Maria del Carmine e di S.
Croce, appartenente all'omonimo monastero, che, prendendo parte alla cerimonia,
ottenne il diaconato. Mostra una profonda inclinazione per la FILOSOFIA,
incoraggiato in tal senso da Pio VII. Si trasfere a Milano dove strinse
un profondo rapporto d'amicizia con Manzoni che di lui ebbe a dire -- è una
delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità. Manzoni assistette S.
sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare,
Tacere, Gioire". La sua filosofia destarono l'ammirazione, tra gli altri,
anche di Stefani, Tommaseo e Gioberti dei quali pure divenne amico. Dopo
aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue
posizioni incontrati da parte del vescovo di Trento fonda al Sacro Monte
Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità,
detta dei "S.ani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa,
contenute in un libro che cura per tutta la vita, sono approvate da Gregorio
XVI. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale
in un collegio S.ano, il "Collegio S.", regolato dalla Congregazione
della Provvidenza S.ane. Svolge una missione diplomatica per conto del Re
di Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. E presidente
dell'Accademia Roveretana degl’Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte fu
assunto da Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di
Casa S.. Tra le sue volontà del vi e anche quella di donare a Rovereto un
terreno nell'attuale zona di S. Maria per costruirvi l'ospedale cittadino, e
Paoli onora tale decisione. Porta avanti tesi filosofiche tese a
contrastare sia l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità
dei diritti naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata,
entrò in polemica con il socialismo e il comunismo, postulando uno Stato il cui
intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì
le concezioni di Agostino e AQUINO, rifacendosi anche a Platone. I suoi esordi
filosofici si ricollegano a GALLUPPI, sia pure polemicamente, in quanto S. avverte
con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale
sensismo gnoseologico. La necessità di concepire una funzione ordinatrice
dell'esperienza, e a questa precedente, porta S. a guardare con interesse la
filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo
kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le
quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale
quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto
stesso del conoscere. Il problema filosofico di S. si configurava perciò
come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà
essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei
connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo
di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con
immediata evidenza, universalità e immutabilità. Questo principio è per S.
l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza,
quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati
forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui
affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque,
costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è
perciò innata (“Saggio sull'origine delle idee”). Ma qui i problemi del
kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con
urgenza: di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, ha
chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui
l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione
è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il
predicato si determina e la sensazione si certifica: se questa è la funzione
propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di
un giudizio; né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di
essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del
giudizio. Tuttavia non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il
predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli
una natura oggettiva e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela
all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Chi lo nega come il nichilismo
cade in una vuota posizione nullista. Accanto a questa ontologia la sua etica
si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale). Dedica alla
politica una breve ma intensa fase della sua vita. Seguì Pio IX riparato a
Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua formazione
attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale e tale per cui e
costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX vuole
istituire una commissione incaricata della preparazione del testo per la
definizione del dogma dell'immacolata concezione, nonostante ben due suoi saggi
(Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) sono
all'Indice. Chiamato a prendere parte a tale commissione, e favorevole allo stato
liberale (vagheggiando la monarchia costituzionale), al costituzionalismo e
anche alla separazione tra stato e chiesa, sebbene non assoluta. Critica lo
Statuto Albertino proprio per il suo porre ancora il cattolicesimo come
religione di stato, elogiandone comunque il tentativo distensivo nei confronti
della Santa Sede. Critica la legge laicista ed anti-clericale. Si convince della
sostanziale bontà della maggior parte delle conquiste dell'età moderna,
criticandone solo le modalità: in tale ottica, critica sia la rivoluzione
francese che l'Ancient Regime, riconoscendo invece la sostanziale bontà dei
princìpi sanciti, distinguendoli dalle successive de-generazioni rivoluzionarie,
in polemica con chi, da una parte e dall'altra, sostene una società perfettista.
Continua a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo
sistema di pensiero con saggi come “Logica” e “Psicologia”. Ratzinger, quando
la questione S.ana era ancora ben accesa, nell'ambito di una serata organizzata
a Lugano, dice. Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano
così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se
rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi
ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già
stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è
cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più
forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione
che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi
della chiesa, almeno nell'epoca moderna. Ma se io ora guardo i grandi e
fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da S. a Guardini, o nel nostro
tempo de Lubac, Congar, Balthasar quanto più attuale è la loro parola rispetto
a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della
Chiesa. In loro diventa chiaro anche qualcos'altro: il pluralismo non
nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue
forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla
davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio,
ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come
voce e via della verità. Del resto io penso che vale la stessa regola
anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate:
teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese
non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non
si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più
adeguatamente possibile. E così questa teologia è diventata anche tanto
francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia
italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa
intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la
cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati
da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi. Abbiamo
veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla
verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la
contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la
forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente
grande. Pio VIII dice a S., in udienza. È volontà di Dio che voi vi occupiate
nella filosofia. Tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la
logica, e la Chiesa al presente ha gran bisogno di filosofi. Dico, di filosofi
solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugl’uomini, non
rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di
questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un
vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non
esercitando qualunque altra opera del Sacro Ministero. Gregorio XVI, successore
di Pio VIII, in risposta alla lettera che S. gli aveva indirizzato. Diletto
Figlio, a te il nostro saluto e la nostra Apostolica Benedizione. Abbiamo
volentieri e con animo lieto ricevuto la tua lettera con i sensi della tua
devota sommissione a Noi e alla Sede Apostolica in cui ci parli della pia
Società, chiamata Istituto della Carità e che con le tue fatiche è stata
fondata nel territorio della diocesi di Novara con l'approvazione del Vescovo.
E soprattutto ci hai anche informato che il medesimo Istituto è stato da poco
chiamato anche dal Vescovo di Trento nella sua diocesi e che qui molti
ecclesiastici, di provate virtù, vi hanno aderito. Per questi fatti davvero
rendiamo il nostro umile grazie a Dio autore di ogni bene. E quantunque questo
Istituto non sia stato ancora confermato dall'autorità di questa Santa Sede,
tuttavia speriamo in bene di esso e ci allietiamo che lo stesso si dilati con
il consenso dei nostri Venerabili Fratelli nell'Episcopato. Quindi, per quanto
riguarda le Sante Indulgenze connesse a questo istituto, che domandi siano
concesse, ricevi diletto figlio il nostro Rescritto unito a questa lettera, da
cui sicuramente comprenderai che rispondiamo positivamente alla tua richiesta.
Ti assicuriamo anche che ci è pervenuto il libro sopra i Principi della
Dottrina Morale da te edito e mandatoci in omaggio e ti dichiariamo il grazie
del nostro animo per il dono. Tuttavia per la tensione nelle gravissime fatiche
del Governo Apostolico non abbiamo ancora letto lo stesso libro, ma siamo
certamente persuasi che esso sia in tutto conforme alla più sana dottrina e
utilissimo alla sua difesa. Continua dunque, diletto figlio, lo studio e
prosegui a spendere le tue fatiche ad onore di Dio per l'utilità della Chiesa;
in Cielo sarà copiosa la ricompensa per la tua opera. Frattanto la paterna
carità con cui ti abbracciamo nell'umanità di Cristo sia pegno dell'apostolica
benedizione, che sgorgante dall'intimo del cuore ti impartiamo.» (Da
Breve pontificio di Gregorio P.P.XVI,) Pio IX rivolgendosi al Vescovo di
Cremona dopo il decreto Dimittantur opera omnia parlando di S. disse:
«Non solo è un buon cattolico, ma santo: Iddio si serve dei santi per far
trionfare la verità. Leone XIII, al tempo delle aspre e dolorose lotte che si
svolgevano intorno al pensiero S.ano sul finire del diciannovesimo secolo, in
una lettera indirizzata agli arcivescovi di Milano, Torino e Vercelli, fra
l'altro scrisse: «Ma non vogliamo che con questo abbia a patir detrimento
il religioso Sodalizio della Carità; il quale come per lo innanzi spese
utilmente le sue fatiche a beneficio del prossimo, secondo lo spirito
dell'Istituto, così è desiderabile che fiorisca in avvenire e prosegua a
rendere ognora più abbondanti frutti. Col decreto del Sant'Uffizio "Post
Obitum" firmato da Leone XIII,
vennero condannate, in quanto "non conformi alla verità cattolica", XL
proposizioni contenute nelle opere del S., le quali la Sacra Congregazione
romana "giudicò doversi riprovare, condannare e proscrivere, nel proprio
senso dell’autore", chiarendo inoltre che non era lecito "a
chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non
vengono condannate per questo decreto, siano per veruna guisa
approvate". Giovanni XXIII, negli ultimi anni della sua vita, meditò
in ritiro spirituale le S.ane "Massime di Perfezione Cristiana",
assumendole come propria regola di condotta. Anche Paolo VI prestò interesse
nel S.: in occasione dell’anniversario di fondazione dell'Istituto della Carità
inviò un messaggio all'allora padre generale, in cui elogiava l'intuizione del S.
nel dare un grande peso alla missione caritativa già nel nome del nativo
istituto religioso, appunto l'Istituto della Carità. Pubblicamente Paolo VI lo cita
durante il discorso tenuto alla Federazione Universitaria Cattolica
Italiana riguardante la cultura
cattolica e l'Europa. Inoltre sotto il suo pontificato venne tolto il divieto
di pubblicazione dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Alla
morte di Paolo VI venne eletto Giovanni Paolo I, laureato in sacra teologia
alla Gregoriana con il saggio, “L'origine dell'anima umana”. È bene precisare
che Luciani e fortemente critico nei riguardi del pensiero S.ano, solo
successivamente cambiò opinione, rivolgendo nei riguardi di S. parole di
ammirazione e stima. Tuttavia fu con il pontificato di Giovanni Paolo II
che il pensiero S.ano ha potuto liberarsi delle aspre critiche e delle condanne
che accompagnavano l'Istituto della Carità fin dai tempi della sua fondazione.
Nella Lettera Enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II l’annoverato tra i
pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere
filosofico e Parola di Dio». Ne ha inoltre concesso l'introduzione della causa
di beatificazione, conclusasi nella sua fase diocesana novarese. Ratzinger da prefetto della Congregazione per
la Dottrina della Fede emana il famoso documento Nota ai Decreti dottrinali sul
Rev.do sac. S.. La nota si concludeva confermando la validità del decreto Post
obitum sulle quaranta proposizioni, e allo stesso tempo con la riabilitazione
di S.: «Il Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio
sulla negazione formale di verità di fede da parte dell'Autore, ma piuttosto al
fatto che il sistema filosofico-teologico del S. era ritenuto insufficiente e
inadeguato a custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur
riconosciute e confessate dall'Autore stesso. Si possono attualmente
considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali
e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum
di condanna di quaranta proposizioni. E ciò a motivo del fatto che il senso
delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo decreto, non
appartiene in realtà alla sua autentica posizione, ma a possibili implicanze.
Resta tuttavia affidata al dibattito teoretico la questione della plausibilità
o meno del sistema S.ano stesso, della sua consistenza speculativa e delle
teorie o ipotesi filosofiche e teologiche in esso espresse. Nello stesso tempo
rimane la validità oggettiva del Decreto Post obitum in rapporto al dettato
delle proposizioni condannate, per chi le legge, al di fuori del contesto di
pensiero S.ano, in un'ottica idealista, ontologista e con un significato
contrario alla fede e alla dottrina Cattolica. Il documento ribadisce la
diversità di linguaggio e apparato concettuale del sistema S.ano rispetto al
tomismo, l'assenza di apparato critico nelle opere postume e la permanente
"difficoltà oggettiva di interpretarne le categorie, soprattutto se lette
nella prospettiva neotomista". Benedetto XVI autorizza la
Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo della
guarigione di Ludovica Noè, attribuito alla sua intercessione. Tra quelli
portati dalla postulazione dei padri S.ani, si è scelto di dare maggiore
impulso a quello della guarigione della suora sopracitata, poiché il medico che
la curò si convertì in seguito all'accaduto. Il cardinale Angelo
Bagnasco, presidente della CEI, a margine del Convegno sulla sfida educativa
tenuto a Milano, ha tenuto un intervento intitolato "Istanze educative e
questione antropologica" in cui riconosce le sue istanze pedagogiche. A.
Bagnasco ha presieduto a Stresa la celebrazione eucaristica per il suo Dies
Natalis. Nel corso dell'Angelus domenicale e ricordato per la sola carità
intellettuale e perché testimonia la virtù della carità in tutte le sue
dimensioni e ad alto livello. Avversario del sensismo e dell'illuminismo e mentore
e maestro intellettuale di quattro pontefici eletti consecutivamente: Giovanni
XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II. Nulla osta della Congregazione
per la dottrina della fede che consente l'inizio della causa di beatificazione.
Apertura del processo informativo diocesano dopo la nomina dei censori teologi
e delle commissioni storiche in Novara. C. Papa diventa postulatore della causa
succedendo a Belti, storico dell'Istituto e già Direttore del Centro di Studi S.ani
di Stresa. Chiusura del Processo informativo Diocesano. Consegna del Trasunto
alla Congregazione per le cause dei Santi. Apertura del Trasunto. Decreto di
Validità del processo diocesano. Schema per la stesura della Positio. Consegna
del lavoro sul Post obitum curato dal Postulatore. Il Relatore generale approva
il lavoro sul Post obitum e il lumen oculorum tuorum Consegna del lavoro sul
Post obitum alla Congregazione per la Dottrina della Fede.Il giorno
dell'anniversario della morte di S. viene pubblicata sull'Osservatore Romano la
Nota della Congregazione per la dottrina della fede sul valore dei decreti
dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do sacerdote S., a firma
del cardinal Ratzinger e di mons. Bertone.
Rilascio del Nihil obstare per la Causa di Beatificazione. Il Relatore approva e firma la Positio. Conclusione della stampa e consegna alla
Congregazione per le cause dei santi della Positio. Consegna del Trasunto super
miro alla Congregazione per le cause dei santi. Validità dell'inquisizione
diocesana sul processo super miro. Presentazione fattispecie super miro. Revisa
della fattispecie con firma del sotto-segretario. Relatio et vota del Congresso
Storico (con esito positivo). Relatio et vota del Congresso teologico super
virtutibus (con esito positivo). Ordinaria della Congregazione per le cause dei
santi: esito affermativo. Ponente della Causa
Fisichella. Benedetto XVI
autorizza la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto di
esercizio eroico delle virtù. La Consulta medica della Congregazione per le
Cause dai Santi, si esprime con esito affermativo (all'unanimità 5 su 5) circa
l'inspiegabilità scientifica dell'evento di guarigione avvenuto a Noè. Il
presunto evento miracoloso è avvenuto. Al termine del dibattito, i Consultori
si sono unanimemente espressi con voto affermativo (7 su 7), ravvisando nella
guarigione in esame un miracolo operato da Dio per intercessione Benedetto XVI
autorizza la pubblicazione da parte della Congregazione per le Cause dei Santi del
riconoscimento della virtù eroica di S.. A Novara si celebra la beatificazione
dando lettura del decreto di Benedetto XVI che l’iscrive tra i beati. La
beatificazione è avvenuta a Novara: appositamente è stato fatto allestire il
Palasport della città, unico luogo capace di raccogliere un numero di fedeli
così significativo. Con il pontificato di Benedetto XVI le beatificazioni
vengono preferibilmente celebrate dai cardinali, per rendere ancora più piena
la comunione tra loro e il successore di Pietro, e viene privilegiato il luogo
in cui il candidato agli onori degli altari ha vissuto. Così, in qualità di
delegato pontificio, la celebrazione è stata officiata da J. Martins, allora prefetto della
congregazione per le Cause dei Santi. A fianco dell'altare erano disposti gli
spalti da cui hanno concelebrato circa 400 sacerdoti, non soltanto S.ani.
A prendere parte alla processione e celebrare sull'altare, insieme al preposito
generale Flynn c'era il segretario generale dell'Istituto Domenico Mariani con
gli allora componenti della Curia Generalizia dell'Istituto della Carità, il
Vicario per la Carità SpiritualeCrish Fuse, il Vicario per la Carità
Intellettuale Taverna Patron, il Vicario per la Carità TemporaleDavid Tobin,
l'allora preposito della Provincia Italiana don U. Muratore (profondo
conoscitore di S.) e il postulatore della Causa di Beatificazione, Papa.
Hanno partecipato alla celebrazione anche il cardinale ex prefetto della Sacra
Congregazione per i vescovi Re, il cardinale arcivescovo di Torino S. Poletto,
il vescovo di Novara, mons. R. Corti, l'arcivescovo di Trento, mons. Bressan,
il vescovo S.ano mons. Antonio Riboldi e fra gli altri anche G. Zaccheo (che
sarebbe improvvisamente scomparso due giorni dopo), vescovo della Diocesi di
Casale Monferrato, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (che durante
la III sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II fece per primo il nome di S.),
l'allora segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana G. Betori, G.
Lajolo, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, l'allora rettore
della Pontificia Università Lateranense, mons. Rino Fisichella, il Vicario
Episcopale per la Vita Consacrata dell'arcidiocesi di Milano monsignor Ambrogio
Piantanida e il preposito generale dei barnabiti, padre Villa. Tra i
numerosissimi fedeli (più di diecimila) accorsi da diverse parti del mondo per
presenziare alla celebrazione, hanno preso parte anche personalità
politiche. Tra queste il senatore a vita Scalfaro, l'allora presidente
del Senato, Marini, e Parisi, al tempo Ministro della Difesa. S. è il primo
beato della Provincia del Verbano Cusio Ossola. In occasione della
beatificazione sono stati moltissimi i quotidiani e periodici italiani e esteri
che hanno dedicato articoli, pagine e interi numeri alla figura di S.. Sono
numerosissimi i suoi saggi. Certamente il più importante a livello ascetico e
spirituale e le “Sei massime di perfezione”, su cui anche Giovanni XXIII fa
delle riflessioni prima di morire. Gli costarono la messa all'Indice dei libri
proibiti le opere "Delle cinque piaghe della santa chiesa" e
"Dalla costituzione secondo la giustizia sociale". In filosofiia
meritano di essere ricordato il “Saggio sull'origine delle idee”. Altri saggi:
“Principii della scienza morale”; “Filosofia della morale”; “Antropologia in
servigio della scienza morale”; “Filosofia della politica”; “Trattato della
coscienza morale”; “Filosofia del diritto”; “Teodicea”; “Sull'unità d'Italia”;
“Il comunismo e il socialismo”. Le sei massime di perfezione sono formulate per
definire il fondamento spirituale sul quale ogno uomo puo avere un cammino
nella perfezione. Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (Matteo
5,48). Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere
giusto. Orientare tutti i propri pensieri e le azioni all'incremento e alla
gloria della Chiesa di Cristo. Rimanere in perfetta tranquillità circa
tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Cristo,
lavorando per essa secondo la chiamata di Dio. Abbandonare se stesso
nella provvidenza di Dio. Riconoscere intimamente il proprio nulla.
Disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di
intelligenza. Di particolare interesse e “Le cinque piaghe della santa
Chiesa". Mostra odi discostarsi dall'ortodossia dell'epoca. Per tale
ragione il saggio fu messo all'Indice e ne scaturì una polemica nota col nome
di "questione S.ana". L'opera eriscoperta al Concilio Vaticano II. Il
primo a parlare al Concilio di S. e Bettazzi. Mi sia consentito ricordare S.,
molto legato ad Aquino. Ma anche studioso e amante del suo tempo, e che
certamente guadagna a Cristo non pochi uomini. Tutto questo mi sembra si
accordi con le cose che sono state già dette da non pochi padri su questo
schema in generale, che cioè gl’uomini non si aspettano dalla Chiesa soluzioni
particolari, ma piuttosto la presentazione di valori che li aiutino a
trascorrere questa vita umana più nobilmente e con maggiore sicurezza. Parlando
della libertà, esaltare i valori dell'umiltà. Parlando del matrimonio, il ruolo
della fortezza. Parlando dei problemi economici e di molti altri problemi,
l'efficacia di un certo disprezzo delle cose. Occorre dunque mettere in luce la
necessità dell'ubbidienza, della castità, della povertà, non solo nella vita e
nell'esempio (e nella Bozza di Documento!) dei religiosi, aiuto agl’uomini di
questo tempo, perché possano vivere la loro vita umana nel modo migliore e più
efficace. Il primo e principale compito dunque per gl’uomoni che coltivano la
sapienza dev'essere, alla luce del Magistero, l'amore delle Scritture e l'amore
di questo mondo in un colloquio franco e aperto. Paolo VI dice. I suoi saggi
sono pieni di pensiero, una filosofia profondo, originale che spazia in tutti i
campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, sopra-naturale, religioso,
ascetic -- filosofia degna di essere conosciuta e divulgata. È stato anche un
profeta. Le Cinque piaghe della Chiesa (una volta la chiesa non aveva piacere
che si mettessero in luce le sue mancanze, le sue debolezze). Previde
partecipazione liturgica del popolo. La sua filosofia indica uno spirito degno
di essere conosciuto, imitato e forse invocato anche come protettore dal Cielo.
Ve lo auguriamo di cuore. “Delle cinque piaghe della santa chiesa” è suddiviso
in cinque capitoli corrispondenti ciascuna ad una piaga, paragonata alle piaghe
di Cristo. In ogni capitolo la struttura è la medesima: un quadro
ottimistico della Chiesa antica segue un fatto nuovo che cambia la situazione
generale (invasioni barbariche, nascita di una società cristiana, ingresso dei
vescovi nella politica) la piaga i rimedi. La prima piaga e la divisione del
popolo dal clero nel culto pubblico. Nell'antichità romana, il culto era un
mezzo di catechesi e formazione e il popolo partecipava al culto. Poi, le
invasioni barbariche, la scomparsa della lingua dei romana, la scarsa
istruzione del popolo, la tendenza del clero a formare una casta hanno eretto
un muro di divisione tra il popolo e i ministri di Dio. Rimedi proposti:
insegnamento della lingua romana, spiegazione delle cerimonie liturgiche, uso
di messalini in italiano. La seconda piaga e l’nsufficiente educazione del
clero. Se un tempo i preti erano educati dai vescovi, ora ci sono i seminari
con piccoli libri e piccoli maestri: dura critica alla scolastica, ma
soprattutto ai catechismi. Rimedio: necessità di unire scienza e pietà. La
terza piaga e la disunione tra i vescovi. Critica serrata ai vescovi
dell'ancien régime: occupazioni politiche estranee al ministero sacerdotale,
ambizione, servilismo verso il governo, preoccupazione di difendere ad ogni
costo i beni ecclesiastici, schiavi di uomini mollemente vestiti anziché apostoli
liberi di un Cristo ignudo. Rimedi: riserve sulla difesa del patrimonio
ecclesiastico, accenni espliciti di consenso alle tesi dell'Avenir sulla
rinunzia alle ricchezze e allo stipendio statale per riavere la libertà. La
quarta piaga e la nomina dei vescovi lasciata al potere temporale. Compie
un'approfondita analisi storica sull'evoluzione del problema e critica i
concordati moderni con cui la S. Sede ha ceduto la nomina al potere statale (e,
accenna prudentemente, per avere compensi economici). Rimedi: propone un
ritorno all'elezione dei vescovi da parte dei fedeli. La quinta piaga e la
servitù dei beni ecclesiastici. Sostiene la necessità di offerte libere, non
imposte d'autorità con l'appoggio dello Stato, rileva i danni del sistema beneficiale,
propone la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei bilanci. A Rovereto
gli ha dedicato il liceo che frequentò quando ancora si chiamava Imperiale e
Regio Ginnasio. Borgomanero ospita l'Istituto S.. Domodossola ospita il liceo
delle Scienze Umane "S. (istituto parificato). Roma ospita la sede
dell'Istituto Comprensivo. Torino ospita la biblioteca Antonio S. del polo
biomedico universitario che in passato fu un istituto scolastico attivo fino
alla fine del XX secolo. Trento, dove si trova il liceo "S.". Farina,
Prosser Prosser Bonazza, L'Accademia
Roveretana degli Agiati, su agiati, Accademia Roveretana degli Agiati,
«Paoli artefice della rinascita
dell'Accademia e suo president. Ragionamento sul comunismo e socialismo,
Grondona, Genova, Questa tesi fu messa in discussione da Abbà a cui S.
controbatté nel Diario filosofico di Adolfo, Riv. S.ana, Pagani Rossi. Nota sul
valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere). Angelus: S., esempio per la Chiesa, su
agensir, Biografia di S. su vatican. Istituto S., su S. borgomanero. Liceo delle
Scienze Umane su cercalatuascuola.istruzione. Istituto Comprensivo S., su ic-S.
Biblioteca S., su biomedico campusnet.unito. su vivoscuola. M. Farina, Gl’Agiati, Brescia,
Morcelliana Edizioni, Italo Prosser, El
pra' de le Móneghe: cronistoria del monastero di S. Croce nell'antico comune di
Lizzana, Rovereto (Trento), Stella, Approfondimenti Sciacca, La filosofia
morale di S., Torino, Bocca, Pusineri, S. (Edizione riveduta e aggiornata da Belti), Stresa, Edizioni S.ane Sodalitas,
Dossi, Profilo filosofico di S., Brescia, Morcelliana, Valle, S. Il carisma del
fondatore, Rovereto, Longo Editore, Marangon, Il Risorgimento della Chiesa.
Genesi e ricezione delle "Cinque piaghe" di S., collana Italia Sacra,
Roma, Herder, S., Frammenti di una storia della empietà, a c. di Cattabiani con
una nota filologica di Albertazzi, Trento, La Finestra, Giorgi, S. e il suo
tempo. L'educazione dell'uomo moderno tra riforma della filosofia e
rinnovamento della Chiesa Brescia, Morcelliana, Dossi, Il Santo Probito, La
vita e il pensiero di S., Trento, Il Margine, Gomarasca, La forma morale
dell'essere. La poiesi del bene come destino della metafisica, Milano, Angeli,
Paoli, S., Virtù quotidiane, Verona, Edizioni Fede e Cultura, Paoli, Maestro e profeta, Milano, Edizioni San
Paolo, Sapienza, Eclissi Dell'educazione? La sfida educativa nel pensiero di S.,
Roma, Libreria Editrice Vaticana, Giuseppe Goisis, Il pensiero politico di S. e
altri saggi fra critica ed Evangelo, S. Pietro in Cariano, Gabrielli, Comunità
di San Leolino, Una profezia per la Chiesa. Verso il Vaticano II, Panzano in
Chianti, Feeria-Comunità di San Leolino Muratore, S. per il Risorgimento. Tra
unità e federalismo, Stresa, S.nane Sodalitas, Bergamaschi, S. La perfezione
della vita cristiana, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, S. per l'unità d'Italia.
Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano, FrancoAngeli,. Domenico
Fisichella, Il caso S. Cattolicesimo, nazione, federalismo, (Roma, Carocci); Muratore,
Apologia della fedeltà. In difesa dei valori etici e spirituali, Stresa, S.ane
Sodalitas, Malusa, Stefania Zanardi, Le lettere di S., un "cantiere"
per lo studioso. Introduzione all'epistolario S.ano, Venezia, Marsilio, Zanardi,
La filosofia di S. di fronte alla Congregazione dell'Indice Milano, Franco Angeli.
Treccani Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. In S.
l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio
furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità,
impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare,
seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema
filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con
brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese. Una trattazione piuttosto ampia si trova già
nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina
Provvidenza che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21,
sotto la rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale
recita: «La mente umana non può produrre
a sé medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione
proposta la materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri
sussistenti' la mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre
senza lo stimolo di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti
(88-89). In altre parole, «l'uomo
conosce solamente quello che a Dio piace di manifestargli naturalmente
soprannaturalmente» (94), ossia il mondo fisico (96) e i contenuti della
rivelazione (97). Dono di Dio non può
che essere anche il mezzo per passare dall'uno agli altri, ossia il
lin-guaggio, perché la rivelazione - principio paolino - si fonda sull'udito e
inoltre presuppone già esistente la facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non
potea dare a se stesso il linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche
questo mezzo di conoscere» (99). La
funzione semiotica è condizione necessaria della conoscenza, in quanto l'uomo
«senza i segni non potea né pure concepire gli astratti» (100); e qui,
diversamente che altrove, segni vuol dire senz'altro parole, e precisamente i
nomi di qualità. È questo il punto cruciale della questione: non c'è astrazione
senza segni-parole, ma i segni-parole presuppongono le astrazioni.
Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno, cioè da Dio, il primo nucleo
motore, già formato, di segni-parole. La tesi dell'origine divina, già
nettamente delineata, trova così la sua
enunciazione esplicita: Erano necessarj
all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né
egli poteva dargli a se stesso, mentre per inventarli sarebbono state
necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può,
come dicevamo, possedere. Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro
supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi
sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci
poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana
mente (102)28. Tali 'voci',
prosegue S., poterono essere i nomi che, conforme al racconto biblico, Dio
attribuì a ciascuna delle opere della creazione al fine di renderle conoscibili
(106), e costituirono le prime astrazioni (111), in grado di mediare tra il
visibile e l'invisibile (107). Non
dovette trattarsi insomma di un insegnamento esplicito del linguaggio, bensì
della sua trasmissione indiretta unitamente alle verità della salvezza: «Quindi
le eterne verità furono, io mi credo, al linguaggio incorporate e con esso
insieme insegnate» (108), e con esso altresì, «nella forma materiale della
lingua quasi in arca ben chiusa», custodite e tramandate di padre in figlio pur
nel variare storico dei sistemi linguistici (114). La sapienza e il
linguaggio,dunque, «furono dati all'uomo congiunti nella stessa guisa, sarem
per dire, come furon creati congiunti alla materia i suoi accidenti» (112). Non
per nulla la Bibbia attribuisce allo Spirito santo il dono delle lingue: Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia
farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva
esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva
nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della
favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce
l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse
incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e
sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare
nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li
sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse (110)
29. Nel Nuovo saggio, com'è ovvio,
quello delle funzioni del linguaggio e della sua origine, nel senso
gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un tema cruciale che
sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro edizioni
dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa sede, e
riconoscendo che «S. non è tutto nel
Nuovo saggio»30, mi limiterò a qualche annotazione utile nel prosieguo
del discorso. Intanto, occorre rilevare
che la critica alla teoria sensista dell'origine del linguaggio non è
sviluppata nel capitolo espressamente dedicato a Condillac (del quale lì viene
discusso unicamente il Traité des sensations) bensì di fatto nel capitolo su
Dugald Stewart, dove S. avverte che il discorso svolto contro di lui, ovvero
contro Adam Smith, vale né più né meno per tutti i sostenitori del «romanzetto
di questo selvaggio» inventore e segnatamente per Condillac, al quale peraltro
riconosce il merito di «aver chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua
relazione della favella e del pensiero»31. E notiamo per inciso che alcune
delle contestazioni al «misterio metafisico del lockismo» (49 nota 2), e il
tono ironico con cui sono avanzate, torneranno molto simili nelle pagine di
Manzoni. Per mostrare come nel 1830,
data della prima edizione, l'impostazione S.ana siaancora sostanzialmente
quella del saggio poi confluito nella Teodicea, riporterò soltanto due brani.
Il primo è la conclusione di una nota facente parte della lunga critica alla
teoria della precedenza dei nomi propri sui nomi comuni, sostenuta da Stewart
sulla scorta delle Considerations concerning the first formation of languages
di Smith; il punto, osserva S., è sapere
come la mente possa pervenire alle prime astrazioni, e conclude: Ora la mia opinione sopra di ciò la espressi
già nel Saggio sui confini della ragione umana [...]. Io dimostrai in quel
luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosso a ciò da qualche segno
esterno (lingua), che segnasse la cosa astratta da se sola; e tale che fosse
atto a eccitare e tirare la sua attenzione e nella sola qualità astratta
concentrarla. E fu di qui che io dedussi l'impossibilità che avea l'uomo
d'inven- tare da se stesso un linguaggio
completo e accomodato a' suoi bisogni.
Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra nella dimostrazione del
linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e accanto alla presa di
distanza da Bonald, presenta una distinzione molto importante. «Avvertasi -
scrive S. - che qui non è mio intendimento d'investigare, se il linguaggio sia
d'origine divina od umana; avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa
manifestamente apparisca»; ed ecco la nota:
È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non
possegga idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad idee che
non ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, «che non si poteva
inventare il linguaggio, senza il linguaggio»; se non che conveniva
restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee
astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue. Non
essendo stata fatta questa divisione, Rousseau potè intravedere una verità
rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di
lui (né pure il sig. Bonald), data una
rigorosa dimostrazione. Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee,
e vocaboli astratti, io credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione
rigorosa che può tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da
sé ravvisarla e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul
linguaggio, e da ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana ragione. La distinzione in realtà apre nel tessuto
teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco oltre; e
Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per essere una
lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: «si è o non si è una
lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia soprannaturale33,
dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la condizione umana
primordiale, e scrive: Supponiamo
adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli
esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sé non
avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra questi stimoli esteriori
uopo è che gli supponiamo data altresì la favella colla qual solo vien tratta
all'azione la sua potenza di riflettere e d'astrarre, e quindi esce in atto la
sua libertà ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella tale che gli
bastasse, non potrebbe mai trovarla egli medesimo. La fictio speculativa si prolunga - poco
manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione intorno alla lingua
primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo. Basato sull'ipotesi «che Iddio
abbia il primo parlato all'uomo primitivo» (p. 27) insegnando in tal modo agli
uomini ad astrarre, il gioco ha termine con la conclusione secondo la quale «la
lingua primitiva è parte divina, e parte umana» (p. 28). Una conclusione
conciliatoria e però rischiosa, ma che permette a S. di non entrare in
contraddizione con se stesso, perché se è vero che la parte umana è, come aveva
scritto nel Nuovo saggio, la più nobile e formale', la parte divina è quella
primaria e fondamentale. Pur con qualche
sfumatura, dunque, la posizione iniziale del saggio del 1827 è mantenuta lungo
tutti gli anni Trenta, e la si ritrova immutata ancora al momento della
riedizione come primo libro della Teodicea. Senonché di lì a poco tale
posizione risulterà modificata in un modo assai significativo, se non capovolta34.
Possiamo fare un primo tentativo di ricostruzione, se non di spiegazione. Se torniamo ai due brani già citati della
Teodicea e li rileggiamo con le correzioni apportate a mano dall'autore
(praticamente le sole modifiche di contenuto in tutto il libro) su un'esemplare
dell'edizione Pogliani, troviamo un ragionamento più articolato e in definitiva
una tesi differente. Primo brano della Teodicea (le modifiche sono evidenziate
in corsivo): Erano necessarj all'uomo
segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli
poteva dargli a se stesso fin ch'era solo, ché per inventarli sarebbono state
necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può,
come dicevamo, possedere. E dato ancora che, aggiunta la sua compagna per le
necessità del convivere, avessero i due coniugi trovati, con un solo
attocomplesso, i segni e gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe bisognato ad
arricchirsene in qualche copia? e con quella scelta che era necessaria pel
progresso morale, e per elevare le loro menti alle cose invisibili? Dunque
Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune
voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni
insieme con esse contemplate; queste
voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana mente. Secondo brano della Teodicea: Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia
farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva
esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva
nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della
favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce
l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse
incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e
sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare
nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li percepiva, non li
sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui si mostrasse (110). Come si vede, la conferma dell'origine divina
si accompagna all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile,
formazione umana. Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con
le sole proprie risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma
ai fini dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di
Dio mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è
sostenibile l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi
simili mediante degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi. I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti
inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva un
adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo
corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo
brano del Nuovo saggio: Ora l'uomo ha
bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la
cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e
nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo
solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò
gli serva. Nel secondo brano del Nuovo
saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: «Avvertasi, che qui non è
mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia
d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della
possibilità»; ed ecco la nuova nota: È
impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle
idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la
sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il
linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio,
che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, il
Rousseau potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che
alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa
dimostrazione. Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e
vocaboli astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può
inventare il linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili,
nel quale stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri
agli altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo
umano coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si
possono fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio
prima d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni
prima d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo
negativamente. La seconda, «se potrebbero fare queste due cose
contemporaneamente, cioè trovare de' segni e coll'atto stesso formare delle
astrazioni», e questo non lo crediamo impossibile. Una considerazione più attenta della natura
costitutivamente sociale e altresì sistematica del linguaggio ha condotto S. a
modificare il proprio convincimento iniziale: non si tratta più di singoli
individui alle prese con singoli segni-parole, bensì di comunità che danno
forma a un sistema linguistico. Scrive infatti nell'Antropologia
soprannaturale: «Se prendiamo una parola isolatamente dall'altra non mostra
veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime. Ma all'incontro
pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole avvedutamente ordinate,
trovasi tosto una corrispondenza colla serie de' pensieri. Egli è per questo,
che le lingue sono sistemi di segni così eccellenti che possono esprimere tutte
le cose. Può aver contribuito al
ripensamento in questa direzione lo studio attento delle prime produzioni
linguistiche della nipotina Marietta, consegnato nelle analisi e riflessioni -
semplicemente straordinarie - del paragrafo del Rinnovamento della filosofia.
Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza manzoniana sul concetto di
'interezza' delle lingue; la si sente risuonare ancora, per esempio, nella
definizione di lingua data nella tarda Logica:
«un sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana,
adeguato a significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono
comunicare reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo
saggio siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del
resto la precede 37. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di
«offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare
e fissare l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee
astratte. Ora S. è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè
«con qual progresso e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi
insieme, possano andare nella formazione del linguaggio. Il momento iniziale è dato dall'istinto, che
spinge l'uomo ad esercitare le proprie facoltà vocali naturali e, mediante
esse, a produrre dei suoni indipendentemente dalla loro capacità significativa,
la cui scoperta avviene in un secondo momento; «questo - osserva S. - è già un
passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta
non c'entra ancora. Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali
umane? Riprendendo la tesi lungamente
sostenuta nel Nuovo saggio, S. ripete che la loro natura è di nomi comuni,
salvo a precisare però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione
di non poco conto all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith,
precedentemente avversata. Da qui la ricostruzione, al tempo stesso
filogenetica e ontogenetica, di come «un po' alla volta verrà a stabilirsi un
suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti » di una stessa classe, un
tipo di nomi che andrebbero definiti sostantivi qualificati anziché aggettivi
sostantivati. L'attribuzione dei nomi
comuni però non comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale
dell'astrazione, che è successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare
le quali, S. esplicita e spiega il proprio ripensamento sull'origine del
linguaggio: Noi abbiamo altrove espressa
l'opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure
astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che
deducevamo la divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto
più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile.
Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice
possibilità. È indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette
l'avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli
comunicò una porzione della lingua [...]. Ma trattandosi d'una semplice
possibilità metafisica, se l'umana famiglia (non l'uomo isolato) potesse col
tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso
tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di
segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello
stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso
l'umanointendimento. I «pochissimi
astratti (forse di divina origine) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono
insomma dal domandarsi come «l'umana famiglia potesse giungere d a s e stess a
agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi. La risposta di S. consiste
sostanzialmente nel fare appello al meccanismo cognitivo elementare della
metafora a base metonimica: avendo già gli uomini coniato un nome per il
braccio in quanto arto anatomico, per nominare la proprietà della forza che
distingue quell'arto dagli altri, invece di inventare appositamente un nuovo
nome, adoperano la designazione primitiva estendendone il significato.
Un'illustrazione nobile di questo meccanismo semiotico la si trova nel commento
al prologo del vangelo di Giovanni:
Pare, che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e
sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a
considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa
interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa
cosa interna significata in vece di imporle un nome proprio, vi adattarono lo
stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando, che il contesto
del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato
antico di parola, suono proferito cogli organi della voce a significare; e
quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello
spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole
vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro
cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché esigge uno sforzo
di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltrediché le idee
o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le idee o cognizioni
precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente
si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le notizie più antiche
e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già
sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e
proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole
vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo significato, e
ritenendo solo il nuovo 38. Ma restiamo
sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto vede la chiave
naturale per poter accedere alle astrazioni: «Ed ecco già trovato il segno, a
cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che
quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come
talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente
significativo dell'astratto. Giunge così a termine l'indagine sul modo in cui
«comincia a formarsi naturalmente una lingua. Ora, pervenuta la mente a fissare
alcuni astratti coll'aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla
natura,quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a
cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili,
e però tutto il suo svolgimento rimane n a tu -
ral ment e spiegato. Nessun
ostacolo logico dunque impedisce di ritenere la lingua un prodotto umano,
inventato al doppio fine, cognitivo e comunicativo, di dare slancio al pensiero
individuale e di socializzarne le acquisizioni: «Nel che - conclude S. - è da
ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa
invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano;
ma ne ha messo nell'uomo l'istinto, e di più gliene ha egli stesso comunicati i
primi elementi. La conseguenza del nuovo
atteggiamento di S. è che il linguaggio sparisce progressivamente dal suo
orizzonte speculativo. Anche a non volersi spingere così oltre nella
spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è paragone tra la ricchezza e
l'importanza delle riflessioni semiotico-linguistiche disseminate nelle sue
opere fino alla Psicologia, e — se ho visto bene - la scarsità di spunti, pur
interessanti, presenti al riguardo nell'immensa Teo-sofia39, che lo impegnò
negli ultimi anni. 7. Torniamo ora per finire
allo scambio epistolare del 1831 da cui siamo partiti. La mia convinzione è
che, dopo il silenzio seguito, non sia stato Manzoni a convertirsi all'idea
dell'essere, della quale poteva già essere ben persuaso, salvo ad esitare
davanti alla 'question di cominciamento'; è stato piuttosto S. - messo in
allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile esito pansemiotico
della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del tutto estrinseca
mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in sostanza avrebbe
identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca sulle idee la cui
origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più costituito un problema
- a ridurre la portata cognitiva del linguaggio esteriorizzandolo e tenendolo
sotto il controllo della ragione in modo da poterne postulare l'origine umana,
sia pure in uno con la capacità di astrazione.
Non per niente il ruolo del linguaggio ai fini della formazione delle
idee astratte passa dalla necessità nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio
per muovere la nostra intelligenza a formare gli astratti) alla utilità nella
Psicologia («fu da noi provata l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di
segni per la formazione degli astratti»: 1379), per di più con la restrizione:
«utilità che in altro non consiste se non..». E pur considerando che questo paragrafo
della Psicologia iniziadistinguendo il problema della pensabilità di un'idea
dal problema della sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei
nominalisti consistente nel ritenere che le idee astratte non siano «né
possibili a formarsi, né pensabili senza i segni del linguaggio» è in palese
contrasto con l'enunciazione netta di Teodicea 100 secondo la quale «senza i
segni non potea neppure con c e pir e [che qui equivale a formare] gli
astratti»; un contrasto non sanato e forse nemmeno rilevato, che del resto si
mantiene nella stessa Psicologia: «gli astratti sono pensabili per se stessi
senza bisogno dei segni» (1380), e contra: «le astrazioni hanno bisogno di
segni [...] per pensarsi» (1523). S. passa così in qualche modo dalla
coimplicazione di pensiero e linguaggio, o quanto meno da una loro stretta
correlazione, alla strumentalità del secondo rispetto al primo, chiaramente
attestata dalla Logica dove chiama i segni, o meglio i sistemi di segni, le
gambe e anzi le stampelle o i trampoli del pensiero (885). Per quanto riguarda specificamente il nostro
tema, riprendendo i termini degli studi recenti di storia del pensiero
linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di Manzoni, S.
parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne potrebbe essere un
indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse sfumature:
l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere umano,
l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso il
funzionamento del linguaggio in atto. Si
tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo esito
paradossale è infatti che nella Psicologia S. finisce col pervenire, come s'è
visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base
istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si
istituzionalizzano nella loro funzione semiotica (1460, e 1462 con applicazione
all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta
a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono
diventare segni» (Postille 15) 41. Ciò facendo S. capovolge anche, di fatto -
malgrado la distinzione fra 'natura' e
'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente
sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi
astratti» delle lingue antiche siano «forse di divina origine, spiega
l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente
fisico (1472): ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente»
(1473). Questa attitudine appare palese nella conclusione già citata di
Psicologia 1532, dove cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche
asserendo che l'origine del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi
on e immettendone l'istinto e fornendone «i primi elementi». In conclusione, mentre la propensione storica
orientata sui 'fatti' linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e
non solo l'origine umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa
di una questione di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla
confezione di un 'sistema' filosofico complessivo fece passare S. da una tesi
ad un'altra ma sempre all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica
originaria delle 'proprietà' del
linguaggio. Ma è la prima prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del Settecento alla storicità dell'Ottocento si è
rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del
linguaggio.Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati. Antonio Rosmini.
Rosmini. Serbati. Keywords: gl’agiati, Agostino, Aquino, la tradizione Latina
italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Rosmini e Grice,” per il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. Serbati.
Luigi Speranza --
Grice e Sereniano: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Sereniano was a philosopher who visits the emperor Giuliano. He
followed the doctrine of the Cinargo.
Luigi Speranza --
Grice e Sereno: la ragione conversazionale dell’ondella tranquilità dell’animo –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He belongs to IL PORTICO and is a
friend of Seneca. Seneca dedicates some of his works to him. In the dialogue
“On the tranquility of mind,” Seneca depicts them discussing the problems S.
has with maintaining his firmness of resolve. Anneo Sereno.
Luigi Sperana -- Grice e Serra: la ragione
conversazionale dell’economia filosofica – storia dell’economia romana –
massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Dipignano). Filosofo italiano. Dipignano, Cosenza,
Calabria. Mercantilista. Considerato il primo filosofo dell’economia politica
in Italia, e uno dei primi in Europa. A lui va il merito di avere composto per
primo un trattato scientifico, seppure non sistematico, sui principi e sulla
politica economica. Poco si conosce della sua vita: laureato probabilmente in
utroque, imprigionato nelle carceri della vicarìa di Napoli forse a causa della
sua partecipazione al complotto architettato da CAMPANELLA per liberare la
Calabria ma più probabilmente dietro accusa di falso monetario. Mentre e
in carcere compose “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li
regni d'oro e d'argento dove non sono miniere” e lo dedica al vice-ré di cui
spera l'aiuto. Riusce a farsi ricevere dal nuovo viceré, III duca d’Osuna, per
proporgli un programma di riforme utili al Regno. L’incontro fu infruttuoso e e
ri-mandato nelle carceri della vicarìa, dove probabilmente muore. Essendo molto
gravi le condizioni finanziarie del Regno di Napoli -- esausto il tesoro
pubblico e l'onere del fisco già così gravoso da indurre molti a lasciare la
città per sottrarvisi -- Santis propone di limitare l'esportazione della moneta
e di abbassare i tassi di cambio con le piazze estere. La polemica con Santis è
alla base della proposta di S. Dimostra con esempi tratti dalla antica storia romana
l'inutilità e anzi il danno di questi
presunti rimedi. Da ciò trae occasione per spiegare la vera causa della
prosperità della nazione italiana. Analizza la causa della scarsità di
moneta nel Regno di Napoli e il fattore che puo invertire questa tendenza
economica. Il primo ad analizzare e comprendere appieno il concetto di bilancia
commerciale incluso il bene di servizio e il bene del movimento di capitale. Spiega
come la scarsità di moneta nel Regno di Napoli e causata dal deficit della
bilancia dei pagamenti. Utilizzando le sue scoperte e in grado di respingere
l'idea per cui la scarsità di denaro e dovuta al tasso di cambio. La soluzione
prospettata al problema e indicata nella promozione attiva delle esportazioni. S.
segna il distacco dalla concezione moralistiche scolastica per passare ad una spiegazione
laica ed è assolutamente innovativa per l'epoca tanto che Croce la define
lampada di vita. Galiani a scoprirlo, tessendone un elogio in una nota del suo
celebre trattato Della Moneta. Chiunque legge questo trattato, scrive, resta
sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale
ignoranza dell’economia filosofica ha S. chiare e giuste le idee della materia
di cui scrisse e quanto sanamente giudicasse delle cause de nostri mali e de
soli rimedi efficaci. Galiani paragona S. a Melon e a Locke, considerandolo
superiore per avere vissuto molti anni prima in un'epoca di ignoranza dell’economia
filosofica. Egli, che in vita era stato del tutto trascurato e per
secoli, tranne appunto quell'elogio di Galiani, completamente dimenticato, dopo
molto tempo è stato finalmente riscoperto. Addante, Cosenza e i cosentini: un
volo lungo tre millenni, Rubbettino, Martelloni, Regno di Napoli e Terra
d'Otranto, Aspetti economici e sociali di una crisi, in Perrotta, La scienza è
una curiosità. Scritti in onore di Cerroni, Manni, Benini, Croce, Storia del
Regno di Napoli, Laterza. Avendo ottenuto di parlare al vice-ré duca d’Ossuna
per comunicargli cose utili allo stato, e udito, presenti i consiglieri, ma,
giudicandosi che avesse detto ciarle e chiacchiere senz'altro concludere, e ri-mandato
al suo carcere. Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra, Destefanis, Illuministi Italiani, Galiani,
Milano-Napoli, Galiani, Della moneta, Napoli, Salfi, Elogio, primo filosofo di
economia civile, in Addante, Patriottismo e libertà. L'Elogio di Salfi,
Cosenza, Custodi. Scrittori classici italiani di economia politica, Milano, Pecchio,
Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, Narrazioni tratte dai
giornali del governo di Girone duca d'Ossuna vice-ré di Napoli scritti da Zazzera,
Archivio storico italiano, Savarese, Trattato di economia politica, Napoli, Ferrara,
Prefazione, in Trattati italiani, Torino, L. Bianchini, Della scienza del ben
vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, Napoli, Andreotti,
Storia dei cosentini, Napoli, Accattatis,
Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza; Fornari, Studii (Pavia);
Amabile, Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia” (Napoli);
Marco, Teorie economiche, Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e
lettere, classe di lettere e scienze storiche e morali, Benini, Sulle dottrine
economiche, Appunti critici, in Giornale degli economisti, Economisti, Graziani, Bari, Arias, Il
pensiero economico di S., in Politica, Croce, “Storia del Regno di Napoli” (Bari);
Economisti napoletani, Tagliacozzo, Bologna, Einaudi, Saggi bibliografici e storici intorno
alle dottrine economiche, Roma, Schumpeter, Storia dell'analisi economica,
Torino, Rosa, I critici, Atti del Congresso storico calabrese, Napoli, Galasso,
Economia e società nella Calabria” (Guida); Nuccio, Rivista storica del Mezzogiorno,
Colapietra, Introduzione, in Problemi monetari negli economisti filosofici napoletani,
Colapietra, Roma, Aquino, L’approccio monetario all'analisi della bilancia dei
pagamenti, in Studi economici, Colapietra, Genovesi in Calabria, Rivista
storica calabrese, Manoscritti napoletani di P. Doria, Galatina, Toscano, La disputa sui cambi esteri del Regno
di Napoli, Rivista di politica economica, Rije, ed. anast., Napoli, Ricossa,
Cento trame di classici dell’economia, Milano, O. Nuccio, Il pensiero economico
italiano, Sassari, Il Mezzogiorno agli inizi del Seicento, Rosa, Roma-Bari, Alle
origini del pensiero economico in Italia, I, Moneta e sviluppo negli economisti
napoletani, Roncaglia, Bologna, Zagari, Moneta e sviluppo, Rosselli, La teoria
dei cambi, Landolfi, Valentia, A.
Placanica, Storia della Calabria (Roma); Roncaglia, Rivista italiana degli economisti,
Addante, Repubblicanesimo e mito di Venezia, Istituzioni e sviluppo economico,
Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero
economico, Roma-Bari, Grilli, Visto da Grilli, Roma, Villari, Politica
barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza, Roma); Roncaglia, S., in Il
contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma, Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino
di un impero, Milano; Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno,
Roma; L. Addante, La politica del Breve trattato (Soveria Mannelli). Mercantilismo
Storia del pensiero economico. Treccani Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Economia. Antonio Serra. Serra. Keywords: massoneria, circolazione degl’idee
massoniche, mito di Venezia, economia romana, l’economia del liceo, roma
antica, antica roma, Machiaveli, mercantilismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Serra” – The Swimming-Pool Library. Serra.
Luigi Speranza -- Grice e Sertorio: il deutero-esperanto nella filosofia
ligure – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library
(Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. S. partecipa
al dibattito pubblicando dapprima il saggio
“Elementi di grammatica analitica universale,” poi “Un esame filosofico
della grammatica universale,” e, infine, “Il problema della lingua universale.”
In quest'ultimo saggio, a proposito dei diversi sistemi inventati – incluso il
deutero-esperanto di H. P. Grice, S. individua tre fondamentali tipologie di
lingue ausiliarie. Il primo tipo comprende quella categoria di linguaggi che
definiamo a posteriori che riprendono alcuni, o tutti gli, elementi, non di
rado modificandoli, da lingue storico- naturali, come può essere l'italiano, il
francese, il cinese, ecc.. Il secondo tipo è costituito da quelle lingue che
definiamo a priori con le quali è possibile comunicare sia in via scritta che
in via orale, ovvero che presentano una forma ideografico-fonetica tale da
permettere non solo la semplificazione della scrittura, ma anche una sua
agevole e veloce riproduzione tramite foni. L’ultima tipologia è costituita da
quelle lingue che adottano delle scritture tipografiche, crittografiche,
numeriche, nelle quali gl’elementi fondamentali della lingua sono utilizzati
per trasferire solo l'idea della cosa che si vuole comunicare, ma che non
presentano un reale metodo di comunicazione orale. Della seconda categoria
discute ampiamente nel primo saggio dedicato al problema della lingua
universale, che intende come lingua adatta alla comunicazione tra persone
adulte, che hanno già delle idee proprie sviluppate attraverso l'uso della loro
LINGUA MADRE – l’inglese oxoniano di H. P. Gice. Qui S. s’occupa innanzitutto
della definizione del sistema numerico della lingua ideale, e ne propone di due
tipi differenti, sia a base decimale che sessagesimale, e, poi, del suo sistema
GRAMMATICALE – cioe, morfologia, sintassi, morfo-sintassi – (“Pirots karulise
elatically”) e lessicale (“pirot, karulise, elatic”. Le informazioni seguenti
sono tratte da S., Elementi di grammatica analitica universale, Porto Maurizio, Tipografia Prov, di
Demaurizi. Il sistema decimale romano –
I II III IV V VI VII VIII IX X -- S. associa ad ogni numero da 0 a 9 una
consonante, secondo le seguenti corrispondenze: 1 = b, 2 = g, 3 = d, 4 = c, 5 = 1, 6 = m, 7 =
n, 8 = p, 9 = 1, 0 = z. A partire dalla
virgola che separa i numeri interi dai decimali si pongono in ordine da destra
a sinistra le 5 vocali (a, e, i, o, u) e questo ordine è invariabile. Le vocali
vanno scritte al di sotto delle consonanti precedenti e, durante la lettura,
questi nessi di c+v (che possiamo allora intendere come SILLABA – ma, pa, da)
sono da pronunciarsi assieme (del tipo “be” e non “b – e” (prima
articolazione). Le cifre devono sempre essere raggruppate a gruppi di tre, secondo
l'ordine decine, centinaia, migliaia, milioni, ecc.) e laddove non vi sia
alcuna cifra a coprire le sedi di queste terne si inserisce lo zero. Si avrà
allora qualcosa di simile all'esempio successivo: 372,215,8976,340 -- 4 d n
g .cgb.1pr. n m d Z e
a ・i a u i e a. Il numero così composto in italiano si dicee
"trecento-settanta-due miliardi, quattro-centovent-uno milioni, cinque-centottanta-nove
mila, sette-cento-sedici virgola trecento-quaranta.” Nella lingua di S.
solamente "denagu, cogibe, lapuro, nibema, ducozi.” I vantaggi sono
molteplici, come dice Frege – nella trauduzione di Austin per Blackwell,
favorita di Grice -- se si riconosce oltre all’evidente brevità – cf. Grice,
“Be brief (avoid unnecessary prolixity (sic))” -- anche il fatto che in un
sistema numerico-alfabetico di questo tipo le vocali che occupano un posto
fisso permettono d’individuare perfettamente l'ordine di grandezza di ciascuna
cifra senza dover ricorrere ad altre parole per indicarlo. Cosi si sa che la
combinazione c+e+c+a+u corrisponde sempre all'ordine dei miliardi, c+a+c+u+c+o
a quello delle centinaia, ecc. Il secondo sistema proposto è quello a base
sessagesimale in cui ad ogni cifra da 0 a 60 S, associa una sillaba cv, del
tipo 1 = ba, 2 = ge, 3 = di. Nonostante anche questo metodo assicuri una brevita
d’espressione considerevole (centoventitré › bagedi), risulta meno convincente
del precedente per il semplice fatto che quello prevede uno schema di
composizione RICORSIVO basato su POCHE semplici regole – la composizionalita
com’essenza d’una lingua come il suo oxoniano nativo, mentre questo aumenta
notevolmente il grado di difficoltà mnemonica associato ad ogni numero a causa
del maggior numero di combinazioni esistenti e
dell'arbitrarietà delle stesse.
Per quanto riguarda invece la parte della SINTASSI, LA MORFOLOGIA, e la
MORFO-SINTASSI – la grammatica ragionata -- e lessicale della sua lingua
ideale, S. indica delle caratteristiche fondamentali che questa deve possedere
per essere di semplice comprensione. La separazione d’un MORFEMA LESSICALE (‘be’)
d’un MORFEMA SINTATTICO – “Fido *is* shaggy; Fido e Rex *ARE* shaggy”; ‘Rex is
SHAGGiER than Fido’ (One pirot karulises elatically; therefore, pirots karylise
elatically – in an elatic way. L’esistenza di particelle SINTATTICHE nuove, più
semplici, meno *ambigue* -- cf. Grice, “Do not multiply the senses of ‘if’
beyond necessity, Strawson!” -- di quelle
esistenti. L’invariabilità delle parole – cf. Grice on word meaning –
shaggy’. A questi aspetti deve aggiungersi anche l'esistenza d’un vocabolario o
lessico in cui ogni elemento possede UNO E UN SOLO SIGNIFICATO (O STRETTAMENTE,
SENSO) – “Senses are not to be multipled beyond necessity”: Grice’s modified
Occam’srazor --. La sintassi verte intorno al verbo o PREDICATO (“... is
shaggy”, “kaurlise”), che da solo e opportunamente coniugato (Fido is shaggy,
Fido and Rex are shaggy; a pirot karulises, but pirot karulise -- è in grado di
descrivere non solo l'azione, ma anche il SOGGETO (cf. Grice on ‘the’ –
discussione con Sluga --) della stessa, il suo NUMERO – cf. Grice on Peano, (Ex),
“some, at least one”; il genere, e le circostanze di modo (modo indicativo,
ecc.) e di tempo (cf. Grice, “Actions and events,” basato su von Wright). A
questo, se necessario, si possono associare ulteriori complementi di pro-posizione,
anch’essi declinati, per descrivere
l'azione in MODO più particolareggiato (non volitivo, ma ottativo). L'alfabeto utilizzato è composto di
diciassette lettere, le stesse che sono state utilizzate per il sistema
numerico decimale visto in precedenza. Ogni particella sintattica o parte del
discorso presenta un ordine vcvcv ed esse sono riconoscibili a seconda delle
lettere che vengono poste in ciascuna
sede. I verbi sono riconoscibili dal fatto che presentano nella sede della
prima consonante una «b» o una «g» e questa, assieme alla seconda vocale, forma
il modo verbale -- diviso in: «ba» INFINITO (‘to be shaggy’), «be» PARTICIPIO,
«bi» GERUNDIO (‘being shaggy’), «bo» INDICATIVO (‘is shaggy’), «bu» IMPERATIVO
(please be shaggy, o ‘is shaggy, please’, «ga» SOGGIUNTIVO (‘that Fido be
shaggy’), «ge» CONDIZIONALE, i. e. con-dictum (‘si Fido e shaggy, Fido e
amato’), «gi» MORALE (“Jones is between Richards and Smith”, «go» FISICO
(“Jones is between Richards and Smith”), «gu» MATEMATICO O ORDINALE). La vocale
iniziale indica la forma del verbo («a» = verbo IN-transitivivo (“Fido IZZ
shaggy”, «e» = ri-flessiva, «i» = attiva (Paride ama Elena), «o» = passiva
(Elena e amata da Paride), «u» = neutra»). Le ultime due lettere, consonante e
vocale, indicano il tempo, il numero e la PERSONA (Grice, “Someone, i. e. I, is
hearing a noise”) a cui il verbo stesso si
riferisce, secondo ua tabella:129tem
0. Particelle numero d del e personal 1R28 22 มา
สิ
1.ª TO 3."
Singolare IP838a 아비아비비이 2
Plurale 130 3.
Specificazione del Tempo = Più
che perfetto = Passato anteriore =
Passato indefinito Passato
definito Imperfetto Presente
Futuro Futuro anteriore = •
Dipendente = Indipendente = Persona
Numero. Così ad esempio il verbo 'mangia!' (Grice, hobble) può divenire
«ibupe», dove «i» indica la forma transitiva (eat a nut – Grice, as ordered to
his pet squirrel, squarrel, Toby), «bu» il modo imperativo – cf. Hare, “The
window is closed, please -- e «pe» la seconda PERSONA persona singolare (you,
not ye) del tempo presente. Allo stesso modo si compongono i nomi. La prima
lettera - vocale - indica il genere (del tipo «a» comune – man --, «e» sessuale
– flower --, «i» maschile (aquila macchio), «o» femminile (“ship”), «u» neutro»
(‘ship’), la seconda - consonante indica la declinazione e il numero, ed
esistono cinque declinazioni. La terza e la quarta lettera - vocale e
consonante - delimitano l'idea in ordine alla quale si riferiscono le
preaccennate qualità di genere e numero, cioè costituiscono la parte che
potremmo in qualche modo chiamare morfema lessicale, RADICE (v this little
piggy went to market) lessicale SIGNIFICANTE (‘the shag of shaggy) della parola
(cf. Grice, word meaning); l'ultima vocale indica il caso di appartenenza. In
questo modo poi si formano anche tutte le altre parti del discorso. Il problema
d’un sistema di questo tipo è che la riuscita di una buona conversazione
dipende in maniera non trascurabile dalle capacità mnemoniche e combinatorie
degl’individui interessati – Grice: “That’s why I say: who cares?”. Oltre alla
notevole mole di nessi consonantici e vocalici esistenti, oltre al fatto che
questi cambino significato se non SENSO in base alla posizione, oltre
all'enorme numero di combinazioni possibili, un aspetto penalizzante e soprattutto
la struttura stessa delle parole che, indipendentemente dalla parte del
discorso interessata, deve necessariamente essere di cinque lettere o di sei
lettere, in ordine VCVCV o CVCVCV. Per
quanto riguarda invece la terza categoria delle lingue inventate ad uso
internazionale individuate da S., si riporta un esempio di lingua puramente
ideografica, numerica. Esempio: Ne Il
problema della lingua universale, S. propone la frase italiana. Il grammatico
intelligente interpreta facilmente questa scrittura; perchè il significato o
SENSO unico di ciaschedun segno è reperibile istantaneamente nella trascrizione numerica seguente del terzo
metodo: - 12. 111. 15. 2101. 1245 - 27.
33. 72. 2152. 1151 - 14. 114. 18. 0454. 3293 - 3 - 364 - 14. 111. 15. 1564.
4252 - 14. 112. 16. 0435.1555 -15. 33.72
- 1533. 1265 - 1. Ad ogni cifra associa una funzione grammaticale, sintattica o
di senso (ad esempio il numero «1» finale esprime il punto fermo, la fine della
sentenza. Il numero «3» corrisponde al punto e virgola. Il «111» significa
'soggetto della proposizione. Il «15» il caso nominativo nella sua forma
singolare. Il «364» significa 'perché; ecc.. I trattini indicano l'inizio di
ciascun termine e i punti dopo le cifre separano i fattori che fanno parte di
ciascun termine. Esempio tratto da S., Il problema della lingua universale,
Porto Maurizio, Berio. La volontà è
quella di limitare (ma non del tutto) la fusione dei morfemi e piuttosto
apporre nuove cifre che siano ognuna portatrice di un determinato significato
(del tipo 'leone-femmina' e non
'leonessa', o ‘aquila macchio’ e non ‘aquilo’). S. è perciò convinto
che, tra quelli individuati, il più esatto dei metodi e il terzo, visto che: La ragione dell'evidenza,
che ammirasi nel linguaggio algebrico e che spesso riguardasi come un
privilegio di questa scienza dell’arimmetica, si è che nei ragionamenti
algebrici o arimmetici non entra mai un segno il di cui valore assoluto e di
posizione non sia esattamente definito. Cf. Grice sul formalismo di Peano e
l’informalismo di suo alievo Strawson. La sintassi, che attualmente più
soddisfaccia alle esigenze filosofiche è la sintassi algebrica o arimmetica –
Frege, il concetto di numero, traslato da Austin, read by Grice -- ed i
precetti di questa dovrebbero essere
comuni ad una lingua universale. Di nuovo quindi, l'interlingua in grado di
descrivere in maniera conforme la natura delle cose è di tipo numerico e
algebrico o arimettico e per essere utilizzata necessita di tanti vocabolari
quante sono le lingue storico naturali esistenti. Giacomo Francesco Sertorio. Sertorio.
Keywords: Il deutero-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Sertorio”. Sertorio.
Luigi Speranza -- Grice e Servio: la ragione conversazionale VIRGILIANA –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Nei "Saturnali" di Macrobio,
rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, S. appare uno degli interlocutori. La
sua attività filosofica ha per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esalta
come il maestro di ogni sapere e che commenta in un’opera di cui rimangono due
redazioni. La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di S.,
mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis",
dal Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del
commento d’Elio Donato. Si discute se gl’appartengano l’Explanatio
dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre saggi di metrica. Il commento
include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle
fonti usate da S.. Si è voluto fare di S. un seguace dell’accademia. Ma,
da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e,
dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono
proprie di essa, perchè appartengono all’accademia in generale, a Posidonio, o
anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima,
immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi
destini dopo la morte, teoria delle sfere. Quando, oltre alle tre parti
dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne
ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si
allontana dalle teorie tradizionali inclusa l’accademica. Quando S.
afferma che nulla esiste salvo i quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e
il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in
essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in
complesso la cosmologia del PORTICO esposta da VIRGILIO, che però cerca di
liberare dal suo materialismo originario. Del resto, esplicitamente S.
loda i filosofi del portico -- et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum -- che
contrappone ai filosofi dell’Orto, che critica spesso. In S. mancano
un coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze
mistiche dell’età sua. Un'edizione del XVI secolo di Virgilio con il
commento di S. stampato sulla sinistra del testo. S. Mauro Onorato. Grammatico
e commentatore romano. L'appellativo Deutero-S. o S. Danielino si
riferisce alla pubblicazione da parte di Daniel di un'edizione del commentario
di S. all’Eneide contenente alcune aggiunte rispetto all'originale serviano.
Tuttora è discussa l'autenticità del cosiddetto S. Danielino. S. ompare come
uno degl’interlocutori nella “Saturnalia” di Macrobio. Alcune allusioni
presenti nei saggi ed una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a S..
Saggi: “Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Commentarii in Vergilii
Bucolica, Commentarii in Vergilii Georgica. Del commento alle opere di Virgilio
esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve
e conciso, attribuito di per certo a S., ed è chiamato “S. Minore". A una
seconda classe di manoscritti appartiene un altro commento, molto più esteso,
infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di S.. L’autore
è ignoto. Questo secondo è chiamato "S. Auctus" o "S.
Danielinus" da Daniel, che lo pubblica. Esiste una terza classe di
manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la
diffusione di questi commenti. Per quanto riguarda il "S. Minore"
è in effetti l'unica edizione completa esistente di un romano scritta prima del
crollo del principato in Occidente. È una vasta critica al testo di VIRGILIO,
con critiche anche ai commentatori prima di lui -- in un certo qual modo ci
fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti. S. non usa un linguaggio
particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di
etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di S. contengono
abbondante materiale filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è
derivata da fonti di filosofi anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene
interpretata nel suo aspetto filosofico.. Commentarius in artem Donati, Raccolta
di note grammaticali d’Elio Donato. De centum metris ad Albinum - Un trattato
di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino. De finalibus ad
Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali. De metris Horatii ad
Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio, forse dedicato ad Atilio
Fortunaziano. Vita Vergilii. Enciclopedia italiana. Funaioli, S., in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pellizzari, S..
Storia, cultura e istituzioni nell'opera di un grammatico (Firenze, Olschki); Ramires,
S., Commento al libro IX dell'Eneide di Virgilio; con le aggiunte del
cosiddetto S. Danielino, Bologna, Patron, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. S., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S. su
digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Avogadro. S. Open
Library, Internet Archive. Opere complete di S., su forum romanum.org. V · D ·
M Grammatici romani -- Portale Biografie Portale Letteratura
Categorie: Grammatici romani Romani. The second version was named the Egyptian, which is a puzzling
name since the first reference to this particular descent/ascent concept seems
to come from a commentary on Book IV of the Aeneid of Publius Vergilius Maro,
or Virgil, by the commentator S. In S.’s version, each planetary sphere is
associated with one of the seven major vices. The list is as follows: I avarice
avarizia from Saturno; II desire for dominance and gluttony from Giove; III violent
passions or anger from Marte; IV pride from the Sole; V lust from Venere; VI envy
from Mercurio; and VII sluggishness from the Luna. Some philosophers differ as
to *which* vice to assign to which *planet*, e. g., sluggishness is often
assigned to Saturn instead of the Moon. It should be noted that each of these seven
vices, are all psychological characteristics as is befitting of a soul. Roman philosopher
and grammarian, commentator on Donato and Virgilio There is some doubt as to his
name. The commentator on Donato in the Parisinus Latinus codex (GrL) is called _Sergio_,
as is the commentator on Virgilio in the Bernensis codex. In
other manuscripts, the commentator on Virgil is called S. but no mention
is made of the rest of his name (Marinone). In the Saturnalia, MACROBIO (si
veda) gives a portrait of as him an
adulescens; and Daniel asserts, in a note to the Bernensis codex that he is one
of Donato’s students. If these indications hold true, it would appear that he lives
in Rome, where, according to MACROBIO, he belonged to the intelligentsia of the
ACCADEMIA. Of considerable importance are his commentaries on Virgil's Aeneis,
Eclogae and Georgica, surviving in two ms. codices of varying length. The
shorter is published by Daniel, who adds several scholia -- the Scholia
Danielis -- to it. It is commonly known as the S. Danielinus. Critics disagree
as to the contents. Thilo holds that the additions are probably a fusion of an
original text with parts of Donato’s lost commentary on Virgil. His commentaries,
based for the most part on his predecessors (Donato in particular), enlarge on
and enhance that tradition by virtue of the quality of the grammatical
observations and the comparisons of Virgil with other philosophers. Various
grammatical treatises bear his name but modern criticism unhesitatingly
ascribes to him only the Commentarius in artem Donati (GrL). Prisciano mentions
S. as the author in Institutio de arte grammatica (GrL). Other attributions are
uncertain. The two books of the Explanationes in artem Donati (GrL) are
apparently posterior to S. (Schanz-Hosius). The tract De littera de syllaba de
pedibus de accentibus de distinction (GrL) gives "Sergius" as the
author but seems to be an extract from the Commentarius and thus not a work
intended by S. to stand alone. Criticism is divided over attributing to S. De centum
metris (GrL), a treatise on metrics: Müller excludes S. as the author while
Marinone defends the opposite view. The treatises De finalibus (GrL) and De
metris Horatii (GrL) are similarly controversial; see Müller. In his
Commentarius in artem Donati, S. brings home two points which characterize Roman
grammatical thought, as seen in the artes. First, grammar is intimately
connected with all the disciplines dealing with language – philosophy –
GRAMMATICA FILOSOFICA – SEMANTICA FILOSOFICA -- dialectics, and esp. rhetoric (GrL).
Second, grammar has a distinguishing subject matter which consists, according
to S., of the analysis of the VIII parts of speech – Latin does not have an
article, but it has interjection. S.’s admiration for Donato derives, in fact,
from the latter's unswerving conviction that a grammatical treatise ought to
begin by defining the partes orationis -- other grammarians were hesitant and
inconsistent).‘That is why Donato is wiser, who starts out with VIII parts of
speech that concern the grammarians – including the philosophical grammarians –
specifically – UNDE PROPRIUS DONATUS EST DOCTIUS, QUI AD OCTO PARTES INCHOAVIT,
QUÆ SPECIALITER AD GRAMMATICOS PERTINENT – Commentarius. S. holds, together
with Donato, that the study of grammar, taken to be the study of the partes
orationis, is a prerequisite for literary analysis, i. e., for commenting on
poetic texts, such as Virgil’s. Although S. contributes to enriching the
discussions of the grammatical distinctions formulated by Donato, by citing and
criticising the work of other philosophical grammarians, S. leaves unsolved the
many problems inherent in the categories handed down by tradition. For example,
some grammarians considered the 'future' tense to be a separate MODVS and not a
tense of the 'indicative' mode, given that, properly, one can 'INDICATE' only
what one knows and not the future, by definition an un-known. “And remember I’m
a philosophical grammarian!” Grice: “In Rome, grammarians simpliciter were
usually slaves!”. S. expounds the question clearly (GrL), but does not venture
an answer. "Martii Servii
Honorati Commentarius in Artem Donati" (GrL). "Commentarius in Artem Donati"; "De
finalibus"; "De metris Horatii"; repr. Hildesheim. S. Grammatici
qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Thilo e Hagen eds., Lipsiae. Editio Harvardiana, Rand et al.
eds., Lancastriae, Ad Aeneam; Stoker/Travis eds., Oxonii (Ad Aeneam). Commento ai libri 9 e 7 dell'Eneide di
Virgilio, with introd., biblio. and critical ed. by Ramires, Bologna. BARATIN, La naissance de
la syntaxe à Rome, Paris. Id., CRGTL, BARWICK, "Zur S.-Frage",
Philologus; BRUGNOLI, "S.", Enciclopedia Virgiliana, Roma. KASTER, "Macrobio and S., Verecundia and
the grammarian's function", HSCP; MARINONE, "Per la cronologia di S.",
AAT; MÜLLER, L. "Sammelsurien", Jbb. für Klass.Philologie; SCHANZ, M.
e HosIus, Geschichte der römischen Literatur, München, TIMPANARO, "Note
serviane, con contributi ad altri autori e a questioni di lessicografia
latina", Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura; WESSNER,
"S.", RE. Keywords: Virgilio, Donato. Servio Mario Onorato. Servio.
Luigi Speranza -- Grice e Sestio: la ragione conversazionale del fallito
morale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds his own school in Rome
that draws heavily on La Setta di CROTONE and IL PORTICO. S. preaches an
ascetic way of life, which includes vegetarianism, and exhorts his followers –
whom he called ‘Sestiani’ – to reflect at the end of each day on their moral
failings – “if any.” Upon his death, his son, also called Quinto S., inherits
the school, but it does not long survive him. One of the Sestiani is SOTIONE, who
becomes Seneca’s tutor – Seneca himself is influenced by the school’s teachings
for some time. Quinto Sestio.
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale delle sentenze
trasformative – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. is a compiler – The “Sentences
of Sesto” are mainly of an ethical nature and show signs of a variety of
influences including traditional wisdom literature, and IL PORTICO. They
proclaim that wisdom is attained through the conquest of the passions. –
Chadwick, “The sentences of Sextus,” Cambridge. Grice: “Chomsky thought that
the sentences of Sextus were ‘transformational’!”
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale del’accademico
d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Antonino. Antonino regards
him as something of a role model and greatly admires the morality and humanity
of both his life and his teachings. Accademia. Suda thinks that S. is of the
scesi only because he confuses him with Sesto Empirico!
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studies philosophy with Stilio
(si veda). He becomes the principe di Roma when his cousin Elagabalo is
assassinated. His principate is not however a success and he is himself
assassinated not long after. So
much for the line of succession. Severo Alessandro.
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del’amico
lizio d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, friend of
Antonino. Claudio Severo.
Luigi Speranza --Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma—filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Severo rules the Roman empire
and it is said that he is well-versed in philosophy. Severo Settimio.
Luigi Speranza -- Grice e Settala: la ragione
conversazionale dei problemi sessuali d’Aristotele -- desiderio e piacere – la
scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Profisico. Studia a Brera
e Pavia. Insegna a Milano. Si prodiga in occasione della famosa peste dei “I
promessi sposi”. Manzoni lo nomina una prima volta quando parla del figlio, Senatore S., medico,
membro, insieme a Tadino del tribunale della sanità ai tempi della vicenda di
Renzo e Lucia. È tra i primi ad accorgersi che la strana malattia che si
diffonde nella zona lecchese, e la peste. Saggi: “In librum Hippocratis Coi de
aeribus, aquis, [et] locis, commentarii V. Appositus est Graecus Hippocratis
contextus ope antiquorum exemplarium, restitutus et emendatus cum indice rerum
et verborum locupletissimo una cum nova eiusdem in Latinum versione” (Colonia: Ciotti);
“Problemata di Aristotele” (“Commentariorum in Aristotelis problemata” -- VII
primas sectiones – secundam heptadem -- continens, ab eodem Latine facta”) (Francoforte
sul Meno: Wecheli, Marnio, Aubri); “Animadversionum
et cautionum medicarum libri VII quorum materiam sequens pagina indicabit” (Milano,
Bidell); “De peste et pestiferis affectibus libri V (Milano, Bidell); “De
ratione instituendae et gubernandae familiae libri quinque” (Milano, Bidell); “Della
ragion di stato” (Milano: Bidelli); “Cura locale de' tumori pestilentiali, che
sono il bubone, l'antrace, o carboncolo, ed i furoncoli contenente tutto quello
che si ha da fare esteriormente nellquesti mali tolta dal libro della cura
della peste” (Milano, Bidelli); “Preseruatione dalla peste” (Brescia: Fontana);
“Anti-rotario romano con l'aggionta dell'elettione de semplice e prattica delle
compositioni e di due trattati, vno della teriaca romana, l'altro della teriaca
egittia aggiontoui in questa vltima impressione auertenze e osseruationi
appartenenti alla compositione de medicamenti” (Milano: Bidelli); “Avertenze,
et osservationi appartenenti al curar le ferrite” (Milano: Cardi); “Compendio
per curare ogni sorte de tumori esterni et cutanee turpitudini, raccolto da osseruationi
fisice, e chirurgice” (Milano: Monza); Statistica medica di Milano Milano, Guglielmini
e Redaelli, Belloni, Borromeo e la Storia della Medicina, in San Carlo e il suo
tempo: convegno, Milano. Edizioni di Storia e Letteratura, Bartolomeo Corte, Notizie istoriche intorno a
medici scrittori milanesi, Milano, Argelati, Bibliotheca scriptorum
mediolanensium seu acta, et elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui
in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani, Sangiorgio,
Cenni storici sulle due Pavia e di Milano e notizie intorno ai più celebri
medici, chirurghi e speziali di Milano dal ritorno delle scienze sino all’anno.
Opera postuma, Longhena, Milano, Renzi, Storia della medicina italiana, Napoli,
Ferrario, Intorno alla vita ed alle opere mediche Cenni, Milano, Capparoni,
Profili biobibliografici di medici e naturalisti celebri italiani, Roma, Cava,
La peste di S. Carlo. Note storico mediche sulla peste, Milano, Ricerche Firenze
Ferro, La peste nella cultura lombarda, Milano, Cosmacini, Il medico e il cardinale,
Milano. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Firenze, Molini, Facchin, S.: un intellettuale barocco fra
scienza e arte Treccani Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Mellerio,S., in Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Patricio Milanese. ys id À L904.7. V WM C th "s
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PW pu ATAVII, ff: ypogi rrr dit
Ihuilii. [628., LE Projlant apud
Paulum Frambottum s. PER ILLVSTRLE et Excellentiffimo
Viro IOANNI PREVOTIO MEDICINÆ DOCTORE et Professori Primario.Paulus Frambottus
Bibliopola Patavinus. BAM A cít virtütis pulchritudo;ut dd cxtemisctiam fenfibusfubtracta,ex
veftigiis in precla« ro pectore
impreffis cluceJenscm/ r3 (cat, mirabiles fui exci» Ice leramor es. i Mas abibo longius, Te te,
Prevoti Perilluftris et Excellentiff. exemplum
ftatuo, in quo rarz virtutis,& folidz doMirinz grata quadam
confpirat harm 9e inia, ut commiuni
do&torum calculo, et falima: publice teftimonio apex eruditionis limeritó audiaris. Nec enim fola Philofoliphia
et Medicina, quam cum fumma lauide doces et cxerces, tead unguem expoli vit fed ctiam alie difciplinz tibi,
affiduo i 2 Dre 9
2 £ 94
fuo culto; (ingularia orriamentá fe debe-[U ic fatentur. udi res cm notior fit,
quaàmu] üt ego tenui ftylo et filoprodam
et pro-Jij bemitum omnesin tui amorem
tacita qua]; dani illecebra pertrahit;.
Ego vero; ut obi] fervaniriam, qua te
colo et veneror ; pübli-4) ] ce teftaret
; diu rnultumq; cogitavi : feci hufquam
mihi cómodior fefe obtulit oc: cafio,
quàm cüm novam,eamq; lorige e;
iiendatiorem editionem Cautiorium me:]
dicaium celeberrimi viri Ludovici Se
ptalii pararé: quam proinde fub felicis tui] nominis celebritate emitti cüravi,
planis perfuaías,opufculum hoc,mole
quidem xiguum, pondere maximum,
genüimump foetnm fummi viri;qui fibi
totícriptis moy numentis pofteritatem
devirixit ; tibi virqi"
do&iffimo, et de Medicina preclaré meg. renti, gratiffimum fore. Quare
fiferem]i; fronte hoc quidquid cft
libelli, argumeng tum niez in
teobfervátia.fufceperis, mee] folita
beneuolétia amplexus fueris, candiifi...
diore hoítia me litaffe exiftimabo, V AL E AS VIE uM «Iq ena o e942* 164937 C6 dle: XA FT : NIST be ees; AS ears; ESSE ev E£3£ t 223 2,
$9 "2; €2, -. s[EReps: iis t 5 c»
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ei S. y
^a à4d T axi à
: ^cr Via hein lo: fote,ut biclabot meus iri: h vatios (ctmones eorüm;
qui itüt! tatioSeimm averent
cognofce hs s res vel ccgbitam improbatent; gp üt o hominum geneti pfe tibfire era primm lom nium It anitno háb beo. Cüm ab juv
enillbus an jnisa d hofce jam e3 cXaCLz
etatistertnibos, ita tneddicam ! lianc f2ctitavilfem artemsut fimul alias
lio fiiine libero dienasartesaff BieXpoitulavete mecum amici fiotüni Iiéteratüm e2enere pius alic quantó
Viderer Mponete labo tis;ac itudii, quim
1n hac ipfa faculIlKite; dade nominis,ac virz z leaüdor nobis peti qxur uai verfus. Q iipp ) €; 1] *baut,moftros
in Hippo Ja ^ Cratem, et in cione P MA
ccn Corbin C. (cr v "m
- et colertem homines, quód
in t3» tATlIos.
D» tários,itemque de Ne vorum
varietate Commer tarium » quaimyis ad
ipfos Medicina fontes haudij'"
dubié pertinerent ; non tamen attingere confueesj o" tudjnem,& ufum artis,& equum etfe; ut
quadra:4i^ ginta annorum,quotfermé
contrivimus in how medico negotio,
fructus aliquis ad publicam utiifi"
litatem exí(taret. luíta omnino,« piena fenfu .humaniffimi vifa eft querela,fecimá ufq;
libenté: ind uraninium,&
cogitationem à noftri: oble Games tisad
commune beneficium avocaretmus. V erümpiuz
enimveró cum attenta meditatione mecum ipfi confiderafem, ecquis in tanta librorum
varietatufil vacuus locusinduftriz mea
celictus foret, 1ta regu periebam,
otània, quecumque vel (cientiaé petu
veítigatione, vcl differendi tubtilitare trademdigji effent, exp icaffe inagnos viros, quorum
nec virgi [1 gere, necequaregioriam
poffem: ltznova cutdibis
folicitabatanimum meum; et haud fané medicis criterangebar. Nam neque placebat actum
agegpiir do tempus conterere,neque
certandocum eXceepiü lentibus ingeniis
mereri reprehenfionem ; et capi
villos;& recté monentibus ; atque cohortantib»] atoicis animuserat fatisfacere. In bac
fluctuanij apim1 folicitüdine di
multumque volutátussari madverti tandem
»locis'aliis omnibusoccupat:) eum vacare,qui
veluti moresartis» et quotidilj nam
diíciplinam contineret. Nam etfi partez
hancipfam attigere permu'tl» veriüs tamen at gere, quà ad plenum funt exíecut; : Et
plerum que ità variantopinionibus »
atque fenrentilss haud fermé vera
ratio poffit extricari .Quamed geni [i
sh ilperfa, vel contraria concilíando;vel omnia com tem vel ínchoata perficiendo ; vel colligendo
di» wiMPlectendo via quadam, et ratione;
videbar aliiu] id conferre poffe viciffim arti, que nobis et vi ujee die nitatem,& commoda rei
familiaris, et gra iliam ;& amicos,
et vitam denique ipfam confett, drelut
zmula Fortunz, certé diving opis ad mint
wlkra . Cæterüm fcianr, quorum in manus hzc no ilEra cura pervenerit, fummam e(Te voti,ut
vergzen: 2 ihe jam ztate; patri&
profimus extremo conattis iatera
concupi(cere ; vel fequi defitum mihi effe. «sciant item, quamvis certifima hzc
fit; et (impli«hiffima experimentorum difciplina ; quam táàm AMiu tractando calamitates humani
corporis,int ldpfo pta (ertim
Valetudinario Mediolanenfi,thea ro
morborum omnium; haufimus, haud tamen
dupuenaciter nos defendere quidquam, et affirma idre.Sententiam mcam expono; inde fædum
nce» dpcusfædum exitu quod vitet,
fumat juventus,que alprodit nunc primüm
ad publice valetudinis cu jram. Primus
Liber zfeimad'verftomes et: Cautiones continet, qua ad Medi cum pertinet quatenus AMedicusi e$t ; et proamait loco effe poterit . Secundus, eas,quain reda vidus) vone,poti[simuin acutisocctmrat:) Tertiuseas, qua ad pbarmaceutt-) cum negotium pertinent. UATtHs, £45, quatn
fanguints mif s: 7ene ob'ventunt, n Quintus;easquain curandis febr'vh bus obf erwari delent . Sextus 2245s verfatur.qua ad mor9 bos partic nlares Acapite ad meti. bra naturalia pertinent . Se eptimus eA$ conmpre! hendit, qui ka reliquis morbis ob[e META Y i" REA T
e y9 TITLE Bnimaduerfionum, et Cautionum
Me. dicarum, Continens eas, Que ad Medicum pertinent, quatenus
Medicus ejV : quz proeezz loco e [Je
poterit - EDICVYVS pietatis, et relioionis .,M*4/* TÉ e. TAN c pietatis cul "4 maxume fit cultor, arque ad ean-
«n 4721/4. dem x2ros ccnetur
revocare. É 2. Habitu corporis in
omnibtis. 5, ;,, rp, fanitatem
praíeferat,, quantunx prafeferat
peculiaris ejus natura concefferit : putant enim. plerique horminum,;fiqui minüs feliciter cc
rp us difpofitum habeant; eos neque
aliis confülere poffe. Flipp. Zb. de Ædico.
namajunt : Cauet primum fesct tunc me
illi daba. RÆ IR 3« Caveant igitur
Medici, ne fe valetudina- ],;,,];:..
tios prædicent ;, et fi quando periodicis morbis. tentantur, cur illos
eyirare nequeant» often» dant ; quomodo
autein fácilé illos evincant ; etiam
doceant. . Sit ftudiofus externz
mundideismanibus Stadiofus ^ x : . Veg
PE ?/^* sotiffimüm, unguibus » capillis,
et barba. Ex sonnditiet ) qum Hipp. //b. de AMedico: oie Caveat tamen exceffum, ne in ttnolli-,
/ ; nsa datine,, ticmncadat,neve
excrementorum alvi, lotii, et excretorum "per- tüffim. confpectum
averfar1 credatur . nin ; 6. Veftitu utatur decoro . Hipp. l;b. de 7M
eVeilitade-. 1; 9. Caveat, ne in fufpicionem ampullofi artifi£0Yf45 e A. pow
ccn cis cadat,& Sophiftz, quem
depingit fuis coic ribus Hippocrates Jb. de deceztzornatu, bis ver bis : Jem
conventu faétosambitiosa queffuosa fna profeffione decipientessia urbium
circulis ver- fantur .- Quos ex vefhitu
(&* catevis ornamentas quis
cognofceye poterit « Quin etiam, quà [umptuofiusornari fuerit, eo majore odio
ave r[andi, ab RSS o oc eisquieos circum
[pexerint, fusiendi. Ex u[n au- iu tem
fuerit, contrarium in bis fpettare ; quibus 102
zne[t exquifttus, neque curiofus ornatus» ui [eje c cultus venuftate e frugalitate, non tam ad
fuperflum curiofitatems quam ad optimam ex fliimationem » prudentiam ; C
animizaoderationem compavarunt . Càm enimilli dodtrinà fibi au&torita- rem comparare nequeant, fplendore au n,veftium
cultu medico ; ac fervorum grege, eam A
comparare ftudent ; quos ridens Anftophanes
p ram *- ip INebul. joco vocat cOpatyldoyv e pyo Xo TES. ar adimi ' quód digitos ad ungues ufque annulis
erpent. y? Odoratis utatur; cavcat tamen,
ne morbi r, o45,;7. inde concitentur :
fepe enim mofchui, et fimi- qualis. lia.
redolentes, hyftc 'TIcas mulieres enecant .
Sintigitur temperata omnia . 9.
Qualis effe debeat Medicus in omnibus y,,4;77; i ftans, non aliis verbis, quim Hippocratis,
o5 ibus defcribendus videtur, Jib. de
deceztz orgatu . ti pra]is reliquo vitz
cultu muni mé fint diffluentes, auf quati ac
fuperfiu1 ; id eft . honefti in omnibus;f ftudentes, dicto, nec facto fuas actiones u]trà quàm
decet jactantes,; fed cum
candore,veritate,& inteeri- tate,
fepofità omni fimulatione, finceré omnia
reprefentantes; 1n hominum concurfibus oraves; ad refp da dum, et docendum
faciles,& appofiti ; ad altercantes graves, et pro veritate conftantes ; in fimilium amicitiis
con- trahendis s prof b 1C jentes ; cum
omnibus huma- n1, familiares, et affabiles
; in feditiofis contentionibus taciturni, eofque audiant patientet, et us in refpondendo, fi effucere non poffint,
mode- A fti et quafi cogitabundi
prudenter refpódeant; errores aliorum
ita corricant,ut non reprehen-- fionem,
fed veritatem ob oculo sfib1 pra fixiff e
oftendant. In occafione prudenter capta indà, et coenofcendàoculati. In victu fru cales,
e paucis contenti; liberales fint, non
fordidi ; aut petaces .. Patientes fint
in occafione exfpectan- dà, neque
finantfe, aut deri, aut.affiftentium
precibus; aut importunis verbis vinci, ant'ad e entum ante tempt Tene ores cibos ; vinümque concedendum .. Non à c
/ (4 m de À a fint i2 Qs
fint taciturni, neque loquaces
; f-d in eàzemo- derationem fervenr ;;
promptitudinem tamen; datà occafione, ad
ratiocinandum oftendant ; | nihil fine
demcnftratione proferentes;non bàr- ^
baré,aut populariter?oquantur, fed cum affi- M ftentibus; et zero eleganter; et pure, cum
Me-- dicis Lariné . R ectefaaàt
perfüadere ; nam Pfa AA ve m9 Qo pde Legibus,vodr, ut primum doceat, et , Æ - perfuadeat Medicus quid
fitxgrofaciendum, | i 4cnon priüs imperer, ita promptiüs parebit..i Quare dicebat Ariftoteles: Parebo lubens; fi
vera58 bacsqua dacts «
effe.demion[lraveris. Xlonores per. fe
contemnant, ambitione ca£entes ; fed ob vir-
tutem cujus comeseft edoria ;. pro1pfo.etiam et vtabtm - honore certenz, virtutem tamen
certà ratione "Non :nani gloria n 77.
fmi amore gentetur . ftabilitam
Hibenier admittant ;ine opinionis fuæ
nimiim ftudiofi videantur. Caveantmaximó, ne inani elorià, aut ni- mio fui amore rententur 5 1llà enim ; quod
ne- fciuntdifcere prz pudore
renuunt;neinfcitiam cum rübore-prodant
per ;dium vero có pervce- niffe fe
rerfuadent fibi, quó perzendum erat. 10.
'Ne fe alicujusfectz, tamquam 1nanci MIT À ; "i E ^ pu fi pium, addicant; necjurent inalicujus
auctoris feta. fententiam, fed nudam
rnaim fectenrur wer p «i Suvalis £z &walis £n
e» rreffibas. tatem, ilíquefchi
fübfcribant . 11. "Medicorum
cóngszeffus, et confultatio- : nes libenter admittant; iltud cbfervantes s ut
in| jis fuperflua omnia devatent, nibil
ad pompam i| proponant:contradicendi
ftudio non ducantuz; fed ciun f. ]um
fibi finem prafigant;ut mc rbumy £vin- f.
evincant, ac priftinam reftituant fanitatem. Congretfus hi, et plurium
Medicorum confültationes feclufis
arbitris fiant, neque affi- nes, et dometfticradmittantur:
liberis enim fic proferuntur
fentent&e, atq; facta à primo Medico » fi quando correcte ne indieent,
corriot liberé potfünt, fine rtot$
ienorantiz; qu v fi fir- mis rationibus
erunt firmata, facilc à Medico
admittentur; quz fi palàm, et domefticis au- dientibus proponantur ; ab eodem
mordicus defendentur, etiam fi falfum
defendere fe cos gnoverit, ne fi mors
fubfequatur,iMlTius caufa in eunr
referatur. Vnde perpetva diffidia inter
Medicosoriuntur, quod antiqui Patres noftri ir hac noftri urbe, et noftro €cleeio
obfervans tes, lege caverunt, ne
confültationes medic pu ibIice
haberentur ; unde etiam tanta conccr-
diainter Medicos magna Rujus urbis fempet perfeveravit, ut in£er tam mu[tos vix unum
re« perias, qui altum ad medicas
conífültatiores. non admittat 13« SyInam medicamentorum: praffantiffiTorum
ad morborum eenus quodcumq; prom ptamad
manus habeant ; ne ina2rverte morbo; ac
inducias non faciente, veluti in fàlo harere
videantur. 14. Vtfelectiora
quedam, et experta, fi- piifque ex
perientià confirmata habere eos có«
venit ; 1ta 1l[a in arcanis ita habere non decet, ut etiama iliis communia ncn faciant. 1j.Sit re ; et opere Medicus, non famá,
avt A 3 noml- $ Confalta-o
Loz 65 fang feciufis are bitris »
Sy'uam mo 4.€^826€5nf10e rumed ma
2/M5 habeot Secrefa Tr dia
noz ) b sbeat, fedi CQÓaAunittf. Qu enis de
et exciledus- nomine tantüm.; quod ut
affequatur,his omníbus przditum effeoportet;de quibus Hipp. /b. Y: de Lege. Nam excoli optime debent hominum ingenia, fi ad perfectionem in hac.
facultate ;ervenire debeant. Qualis
enim in terris nafceuum eft culturastalis euam Medicine cognitio. Indigemus igitur IVatura » Dotlrina s
Moribus genero[is, Loco ad di[cendum
accommodata, In[ltutione Apuero, Induflria s et Tempore. Natura no[ftva
veluti ager efl doemata vero docentium veluti femina funt . Infliturio à puero
refpondet opportuno tempori » quo [emina terra committi debent » Locus flIudiis aptus eft veluti ambiens æv,
à quo € terrana[centibus nutvimentum
accedit . Induflvia, € flndium cultura
e[t . "Tempus tandem bac omma
eonfirmat, ut perfecte nutriantur . Exercitationem medicam fub docto ;
et ds perito viro facere non dedignetur,
neque erud ha d befcat difficilia queque perfcrutari, atque de icd "^
obfcuris interrogare : fic peraliquod temporis intervallum in magnis urbibus fefe exerceat
; exa codea. non ftatim in vilibus
oppidis, ftipendio conftiA iwel. Lf. tuto, quod plerique faciunt ; ad medicinam
fa- E T ciendam fefe accingat. Modeftià.
quàdam accinctus zerotan- pus ingre
titm. domos ingrediatur; quilibet enim horà
distar. Virgines, matronz, occurrunt, ut
continentiam ómnibus in rebus et habere,
et reprzíentare teneatur. Cg gl. 18. Cumimpernts,& mulierculis de
mor- culis, chi» bor:m caufis, aut
prefidiis adhibendis non2 agat; E xerceat fe / 253
Mod» Íe ao Avw, GCL C [LE € Bat ; fed neceffaria folüm proponat : folent
peritis de; énim imperiti Medici, ut
gratiam apud multos rebus. snee
aucupentut ;, hoc medio mulieres et imp 'Cr1tos feducere; quafi illas multi facientes, ut fi
quan- do morbis tententur ; eos ad
curationem accer- fà nt. 19. Gratisaliquando medendum tum pau- peribus, tum veris amicis;ne aut fordidi
animi, aut minus grati notam fübire
coeantur . o. Neque tamen velim Medicos
mercedem aut datam no recipere, aut
oblatam quafi aver- fari, aut exhibitam
quafi cum rubore, aut velu- t furtim
excipere : fi enim prompté mercedem
recipere viderit ; fibieger perfuadebit, Medi- cüm illius curationem libenter fufcepturum., neque quippiam eorum omiífurum, quz pro anitate introducendà fuerint peragenda.
Mer- cede autem non receptà,aut
dubitabit, inre ani- mo curationem non
füfcepiffe,aut certé dignum illum eà non
fe cognofcere ; unde contemptus ; et exiftimationis
non levis jdn ra. Sunt enim, qui hac
raüone multorum curationes aucupen tur, quibus cum cxpeélationi pramium
ncn. oftmodüm correfpondeat aut
moleftiam, et I f],, onus illud fine fructu fuftinere coguntur ;
aut muffitantes, et in angiportu
deinerati animi vitio conquerentes,
quafi ridiculi, amiffis la- boribus, et laborum
pramiis, deferuntur, aut euam
exploduntur, alis in illorum locum.
poets . Impium eft ; magno morbo
urcente A ; de
A nie ditis non [ferat »
Gratis ali quando Cii. rand 26 ^
Mercedem. Bromptée ac. CibiAo
De mirede non pa- mercede pacifci:ut enim in nobih hacarte feres eifcatur. per hocindignuin videtüt, ita urgente
tDorbos impium : occafio enim mederidi
fepeavolat ; dumdemercede z$er dehberat
: hujus enim opportunitatis momenta
redire nequeunt, et cà elapsà,
inclinatio fitad mortem, autad de terius
. 43. Atneetiam, fi quem ingratum
futurum Ingeetos 1 arbitretur;in
periculis deferat; fatis enim fern-
seceffitati- per fait, ingratos etiam fututos humanitate.» us non de (crvare ; quàm inhumaniter
obingratitudinis ferat inetum deferere:
et nielius multó eft; à morbo evalefcentibus
exptobrare, quàm calamitose affe&tos
deferere . Hipp. zz Praceptionbus. M Neimmoderaté,
aut immodetfté nimià Non fit i4. cy, ya
tantià ninrim polliceatur : nimia enim
ét bund'h. tc cnrationem pollicitatio;exculationem poft e» nm! cutam requirit. : pollicitator. N A dis idein z4. Nec rationein curandis morbis folüm; Docheina, sitatar; nec ufu, aut nüdà
experienuà : claudi- C "[4p9l- cat
enim Medicus alterutro horum crure defti-
sini tutus, Ratioigitur ab experienuà incipiat ; et in eam etiam definat : Experientia autem
du- cem habeat rationem, et 1n eam
dentque termi- hetur 5 utra enim per fe
indigzens;altera alterius
auxilio'ecet. 2$. Non inhumaná
feverirate ubíq; utatur s Nox fii fe.
led fecundum conditionem hominum fe guber- .
veru; net; nonnumquam eratis
curet, vel ob eratitu- dinis memoriam,
vel pre(entem exiftimatione, né
avaridü » notam incurrat ; Quod fi occafig
exclexercende liberalitatis fefe obtulerit, vel pere- erino, vel eeeno omnino füccurrat: Si enim
ad- fuerit benignitas, aderitetiam
artificio cóm pa- ratus artiamor. Adeó
ut quidam eeri, etiam fi fentiant morbum
fuum calamitofum éffe, ta- men propter
Medici benignitatem, fibi perfua- deant,
fe ad fanitatemredire poffe. Hipp.sz
Preceprtozibus . Prolaborantiumvariá naturá, et condi- tione, in congrefTibus, et fermonibus
conferen- disorationeminftituat ; et materiam
fibi deli- gat : alio enim modo cum viro
philofopho eft differendum,&
aliocumaulico;diverfa eft ratio
alloquendi puellam vireinem, et matro-
nam gravem : cum bibacealiquid de
vino loquetur, de frieide, et limpidz aqua deliciis cum abftemio ;. et fic in fineulis., In fermori
bus varius pro agreráá VATRCÍATE o
PEDI b MEDIOLANENSIS, Animaduerfionum, et Cautionum Me- -. dicarum, Continens eas, Quein vetlavitlus ratione » potiffggum. 1n
acutis occurrunt. Vstlus 1n
acatis te- 20H55 CHI» c Vamvis acuta febre. laboranti- E busvictus tenuis conveniat, pro Xarietgte acutiel immutandus, ; E] Gut materie coricoquenda na- ; turamæis poffit vacare, atque morbo et fymptomatibus conflictata,
cibo etiam et craffiori, et plurioppreffa,
non fuc- cumbat. Virtute tamen debili
per fe1pfam exi- ftente, et ncn vimorbi,
aut forma vià üs per unum graduri aut
faltem quantitas erit augé- da.Si veró
vi morbi debilis reddatur, ut aliquo
Vidus'vtr- ule o fe dei b; d^ 4i-- ge duse:
foi Y723* ; ff vt bow folà modo
quantiras.augeri poteft; Itánumquai
quátitate . forma viclás crit immutanda. In virium imbecillitate, alia
fit ratio vi1- éüsin qua intitate, fi 1
per refolutionem fiat et alia.fi 1 per
acefava tic nem : in hacenr np árüm, et raró;inillà
parüm,& fepé cibus offeredus eft. ji
V ictüs forma, et quantitas, licecab Hip-
pocrate et Medicis prafcribatur definita; pro conditione morbi mpg cautio tamen ma- xima adh iben da eft, pectu naturalis
tempe- ramenti, cüm alios « di inedi. im
minüsidoneos M idea imus, alios Jejunio
ne tantillum quidem debilitart: :
Quareaugendam 1n illis quantita- em
dicimus; quin et formzx eradumaliquando
immu tandum, ut in calidis, et calidis et ficcis obfervamus;, in quibus nifiid fiat, et acuüntur ce bres, adgratirti humores, et exliau- untur fpiritus ; unde in animi
deliquia,fynconi et maraífmum denique terminantur cori. 4. Cautio etiam adhibenda eftin victu
infii- ti iendo, qualis fit corporis
habitudo, an mollis, laxa;poris pervia;
an folidior, torcfa;& durior: -
: I 'U:rYidufo YAYO » [4 per aggrauatie
(EP; J/! be tal rcf p»? (0x
e p? TY HZ, C 45€ € 6 Z4 7713 Viéiusiun-
JTHARAMS rattome 16é- peramone
tora it i
E Vicdlus ime mutandus
rattonc ba- in i]l|à enim
quantitas erit cibiaugenda, inhac £was co;-
potius minu crida L poris. $.
Habenda etiam maximé eft ratio ventri- V/«s imculi : $1 enim veegetus fit
calore, et multo fenfu
przditus;aliquanto plus HH: erit concedendum: fiad coctionem iners; et calore deftitutus ;
füb- uahendum de qi lantitate erit. 6. Viris, quàm mulieribus;iracundis, et ro- buftis, quàm poni animi ho muncionibus;pl
Us femper eft concedendum. 7. In&tatbus ; ut pueris; et adolefcentibus plura
mut TT Yattone diftofitionis ventrictlt e PS do
( ;bi. quan IHto$ 2114 da vefteéin
f Xs . M Ó / Puæris Co
gm tesa e RE :£z. adolefcensi plura funt concedenda,tum
ob difflaüonem ni] gri &us pluse -
miam;Scob caloris robur, et ob teneram, mol-'1::: bicateden- lémque fübffantiz compagem, tum
quód per-.] i dum quà cnni
quodamcorporis motu agitati, facile ex-- eii
fenibus-. hauriuntut:ita fenibus liberius etiam jejunium) i52 poteft imperari. Cave tamer, ne inter fenes
de- (ou: Decrepitis : áo abs e
pe" i Ai : parum, c. CEepltos
collocaveris ; hrenim;cum virium ime jr
fp. becillitate tententur; ac fpirituum paucitate;utr| ui pauco: cibo fünt reficiendi, ne paucus calor
ài yiii multo füffocetur ; ita fepé
cibandi, ne coníu--| iii mantur.r.
Z4pbor.14- griff ra. |. 9« Inquantitateveró,
qualitate; numero ex-4 oi tiopyo va-
hibitiorum,ac forma victüs, et confuüetudini 5 1 vietate con et regioni multum tribuendum
cenfebat Dicta-4 («« fuetudinis, tor
nofter 1.4pbor. 17.quia quorum ventriculuss| cj
€» regionis (emel, aut bis humefcere intumefcere, et con-J c; eit mutan- coquere con(üevit, fr defraudetur
; muratà con-4 ;j; di. füetudine,temperamentum;habitum;, et actio-4 nem immutat . Et fi mufta et ingerere, et con-4
i. coquere folito aut potionem
fimplicem;aut for-4 ».; bitiunculam
exhibeas, in marcorentcitó indu-4 Ces,
ac vires vitales quàm primüm deftrues . 9. Cavendum etiam in quantitate cibr
prz-4. fcribendà in febribus, nefemper,
et omnibus$),., gonceden-- » jade d n
"T. Dun 4i;, fed r4. ARI temporibus
eandem definiamus,cum hye-4;. vius;
4ifta 86)& vere, quód ventres tunc naturali calore. fe minus, làaximé abundent, vnica exhibitione
plus fii! ftd fapius . exhibend um :' hoc enim eff; quod
docebatur alli s. Hippocrate, 1.
Zfphbor. 15. Æftateautem, S, autumno,
cüm calor langueat, minor quantita:4?
fingulis vicibus erit concedenda ; fed fzepius re«4? p
Hyeme pi? TA Mur 3 petenda, ut calor, qui.diffolvitur,
poffit inftau- rari : quódnfinuavit 1.
Z4phbor. 18. IO. Cautio tamenfit, ut
zftate, fi partitas "A
cfilate exhibitiones, et quantitatem
totam, autnius 44modo dici ;aut integri
quatridui metirus eris major PI eonce-
fit quantitas, minar atizem hyeme: nam hyeme 4*24»m i» minor adeftneceffitas quód tunc minüs refo]-
^^'** partitis vicibus conceffo,&
imbecillirati caloris fatisfaciemus,
minus fineulà vice exhibentes ; et miim
refotutioni, fzepiirs Gibiuexhibentes:
quod Galenus infinuavit 1.4e rat. wit az acut. 44. ubrenumerans, quzad:cibi in zeris
fiibera- €tonem faciunt,unumid.effe
inter aliascribit, quód hycme quis
laboret;minus.enim tunccibi erit
offerendum : recenfens autem quz ad cibi
adjectionem faciunt, unum effe dixit, fi atate laboret, quod Avic. 1.4.7 a£. 2.cap.8. de
ciba- tione febricitantium in generali æens
confir- mavit. 11. Obfervandum autem, predicta non
per- petuam habereveritatem, neque
ratione cor- porum, neque ratione
temporum anni : vatur corpus; etate
autem coplofiori cibo, fed men "M^
* V7T^ ^V dt $ d o Hyeme
uandomi aliqua. 54; puryig enim dantur corpora, quorum natuiraliscalor
dug. adeo eft imbecillis;ut à
frieiditate hyemis faci- lé cvincatur,
calore veró zftatis quafi fcveatur: alia
etiam, five occultà quàdam, et nobis inco-
gnità proprietate, in aliquibus dictorum tem- porum annt; in robcre virium, aut
imbecillita- te; proportione non
refpondent difpofitionibus £X ann]
temporibus profluentibus; aliquos enim í
rci n Victus: for- a 12 4€H
is variarda pro vavietate véeft,
nc tinuà.; vftate
robuftiores reddi » quàm Ca lioe
fortlotes autumno, quàm vere. In his is
ratione victüs inftituendà refpectu
quantitatis, 1d; quod proximé dictum n
erit fervan düm; tum in quantitate con-
tà. Echyeme pauciora, fed fiepiüs
;eftate plura;fed rariàs erunt conceden-
«la ; et anni tempora, fi fi naturalem non fervave- rint naturam, victum inftituendum
oftendent cujus naturam induerüt. enim Récid hvet Inc
pro ratione tem poris; tum in
difcre potiffimu m 12. Forma etiam vids pro-regionum va rietate, et locorum confuetu dine; aliquo
modo eftimmutanda, et quidem càdem ferv
atà propor done per oradus rati
inetempol 1 le laud andi IS. ÁÀ ver.
7 s,utip quantitate variandà um obfervan dum dixin « Colieét.cap. 10. cim .Vnin fuà.regiope. ;nemp ein Hifpaniz parte
cali- dior, |, tenuilmam ditam effe aut
cremoremip hord a€1 l« s àl aut: dux mmum melice 3 X és fórma folà im] it angu autincifu m; aut friatum ex: ; cüniantiquis, et Galeno potiffi- omnimoda quatriduana ine dia ; fictamen, ut vi--Jiz : eradum unum i1mmute--Jffi rautem ied fiat non à eradu ad era 1
dum, fed à.tenüi ad medium; &.aliavando eti ip» ut pid aim n pof 280.48 ad E lenuü
In, Qua fi Pea cpLEIdJJMDUS Dac
VICI jo^te Péceaph,quod in mu duis
I Hp
Hi " * Y e k AJpTpX CI ILE
R4 iliz nobilif-, et Gallos eEa dà veró
s ium; etiam legendus eft
pul]-J Ccher x ha
eatur ratio, WEINE Copfi chetrimusejus liber-De zere.. aquis, G' locis, qui luftratus.
13. Ex vite inflituto, ex arte etiam, quam. exercent, defumenda erit à Medic et formas quandoque victüs; et quantitas,càque
utraque mutanda, prout magis, minüfve
et laborib folidiores partes colliquantur, et huimcres, fj finifve exhauriuntur. r4« In quantitate ettam fu [us benda À
ante- actz vitz rationem habere ;nonTj
'arvi Y0noJr.enpt ti eft : fi enim
laute altus fit, fi plura ingeffefit) anres
:: btrahenda erit quantitas : fi veró jejenaverit, et pauca,c:
aquec nCO ctu facillima afivimg pfit pr
aliquod temporis intervallum quantitas érit
augenda, aut forma erad us. 1 $.
Cuin à morbi lc ineitudipe, aut brevitate
diftantiaque flatus nx rb limaxime ác IDattr a EN rma victis, et alic uie parte qu
ántitas,tüt miris 1 d quam cinis victus
rátio ; CUN TRC fultum Medias, et Paris cenfemus, quod àb Avac. conftitutum
eft: Cum jenoras egritudm di » fubtilia
recen. id enim in morbisà materi
pendcnüibus cmnino intelligendum eft:
Bie eniti) lo tempcris in- tervallo
materia ncn auccturinec virtus-diflra-
hiturà proprio furgendo murere agendi in. materiam: interim enim fuis fc fio eple
miciBus, et materia faciens morbum.
facilét ficnect. 16. Vtveriffimum eft
Medicórüillvd pra- Céptum ; et commune
tani ditturpis mcrbis . Bo95d- |! eiiam luculentis Comm entariJs à nobis eft
il- dab. vs y 9,
€L ; is,9ui $e ali-, utm
banda e $ p Aser - EX! SÉ,
! e ien Acuttstn
fóribus te nutus ciba dum quá 1
elus acutis Tenutfs. vi dla medz
sn flatu se frg. Abb. 8S. veriffi--
9 de ffa1u benes f»mptoma- ?4. quàm acutis ; JI flatuytenuiori
vicluutendum e[- .| v. e, quam in
principio; quoniam tamen fx penume- ro
evenit;ob ingluviem in aliquibus civitatibus;
ventriculos primis ftatim diebus, qui principio || debétur, crudis humoribus effe refertos,in
lifde: etiam tenuiori victu, quàm per
principium li--| ;... ceret, uti, et aliquando
etiàm tenuiori, quàm ini| ftatu, cüm et inedia
aliquando omnimoda con--| veniat,
oportere cenfendum eft. Celfus /rb. 2..|
cap. 16.dicebat: Jzgiria morborum primum [amem.»,| fitimque de[iderant . 17. Laudanda illorum eft. diftinctio, inte-1
: nui,aut craffo victu inftituédo 1n
acutis, et d1u-! turnis morbis ; quód in
febribus acutis tenuior) efTc debet,
datà càdem brevitate, quàm in aliiss]
acutis morbis ; quodin illis magis coctioni 1a-4 cumbendum fit; quàm virtuti;ac majora
fubfinttj fymptomata : in diuturnis
autem. febribus mi-j fius tenuiter
alenduni eft ; quàm in aliis diutur--j
nis morbis, quodin illismajor;quàm in his fiatt virium exfolutio, et proptereà etiam magis
im febribus virtuti eft
profpjciendum.. m 13. Cüm Hippocraus aphoriftice fententia]? quàm máximé univerfales etfe foleant; ea
itidé;J que lib.r. propofita eft numero
8. quà afferitur:j Cum morbus in [uo
vicore con[Iteyit., teutlfimon ^ vitlu
utendum e[l. ut univerfalis fityomnibüfqued,
morbis conveniat;de ftatu intelligenda erit,quiil| " ex magnitudine fvmpromatü fumitur : fic
enim) tam vera erit.1n morbis non
fervantibus mate--«! riamad unam criucam
expulfionem, quàm in, ícr- L4
fervantibus, fecüs quàm communiter Medici crediderint ; qui Aphorifmum illum folüm
ve- tum effe ce .nfüer int in morbis
fervantibus ma- teriamad unam criticam
expulfionem, de ftatu. ^ arbitrantes
Hippocratem loqui, quià coctione céisndnit P
fu mitur : in quc D bfervàrunt, Hippocratem Et. de vitiu acuit. 22. 1n morbo non fervante
mate- riam ad unam criticam expulfi
ionem,ut in plev- ride, 1n ftatu sn ies
coctionem plenius nu- ciendum ftatuiffe.
Quod fi ftatum penes ma- anitudinem fymp
tomatum eti umin iis morbis fumamus,
utin plevritide, etiam tenuiffimo v1 tu
utitur eogezs lib.tex.a21. Cümos amarefcit, et ficcus morbus eft, tenuius ericalendum;
tunc enim,.etiamfi fit principium, aut
augmentum. penes coctionem,in flatu tamen
penes fympto- mata confütutus efti
morbus. Quamvis veriffima Hippocra tis fenten-
A bu "x Tenuisi- tia I. Zfp5or. 7. tenuiffimá. dira. utendum
effe, 1530 "viélta ]t ubi morbus per purse cít,ó TU EE soul bores; cxim end tamen ab his omnino erunt
donsdas 458 fcbres peftilentes, in qi ET
quamvis fummo raris, pe- fint
fymptomata, et ciaflime ad ftatum perve- gilestes ta niatur, quód vires in cis flatim quafi
collaba- se» feres Ícunt, lautiüs et uberiüs
eft nutriendum, ipfo fut excie- etiam
v190ris tempore ; ut abundé demon(ftra- 2:c74«.
vimus in noftro] ibro 4e Peffe. t4
20. Ad formam victüsinfüituendam, puta, "(257 an Ver coena tenul,anmediocri,anomni-
"^ 'TST da li nedi ?1 ;al (o k
)po yu all fo rbition! bi IS,an c 64 £ercu lis, pU La ; UC Xtà pt lan à, pane
coricifo, aut LA COR - Ü * den ^.
4634€44, C" po 4 770A" contritoex jure;quamvis virtus
primum locum fibi vendicet; Galeno
refte, 9. AMeth.smed.cap.11« (P 13. 1.
de.vat. vitl. 1n cut. 44. quod cüm.
morbus fui ablationem folum indicet,virtus verofui cuftodiam ; hac
potiífimüm victüs formam oftendet, morbi ramen difpofitio etiam ad hoc concurrit: nam ZApbor.7.dicebat,//b:
smorbus peracutus eft, C fLatim
extremos habet labores,extreme tem[[imo vitlu utendum e|! . pex labores, acceffiones ; et fymptomata intelligens,
que morbi difpofitionem conftituunt, ut
et colligi poteft ex 24phor. feq.
C" 1. acut. 42. 43« 44- (2. esic-
dut, 36. ubi ad formam victüsinveftigandam.»,
bud qu^ xewndicit neceffariam effe cognitionem et roboris E
virium,& difpofitionis morbi; et 3. acut. 61. Et jure quidem merito: quis enimncefciat, ex
lon- cis, gravibüfque acceffionibus, gra
ibüfque íymptomatis formam victüs
tenuiorem indica- ti, nenatura tuncin
refiftendo caufz morbificze, et (ymptomatibus
detenta, ad concoquendum cibum
diftrahatur ? Verüm nec virtus fola fufti-
cit, neque illi conjuncta morbi difpofitio, nifi iis diftantie ftatüs pracognidonem
adjunga- mus; nam,etfi ex conftitutione
morbi, et viadü robore folam potionem in
prfenti convenien- tem effe
cognoverimus;perfedlé ramen hocífci-
renon licebit, citra ftatüs przecognitionem, an ciboillo in pofterum fufficere valeat ; Citra
vir- rutisincommodum .: Obid
Hippocrates, poft- quàm morborum
difpofitionem recenfuiffet,. fi
fubintnlit : Coz];cere atttem oportet » &gvotamtem, fi feficiet, ANIM A4DFERS. LIB. II. i9 fi
[fficiat, cum vitlu perdurare, doge snorbus con- f ftat . Fi tcb 1d. Hippocrates in cc
onfidcratione virtutis, ftotüsn.eminit.
A morbi igitur difpO« sev» "Ad
fincne victüs fcrmam ei iemus ; deindea Oro- ew. tantis virtutem infpiciemus ; deinde ftatüs
di» antiam conjlciemus ;
demümzaftimabimus; an eo victu, qvem
mcrbi conftitutio indicat; virtus
zgrctantis ad ftatum, citramagnum vi
rium incommodt :, durare queat; in quá fen- rentiam veniffc G: ehum videmus r. "hor.
12. 21. Cümin vi&
üsinflitutioneillud maximé fita pud et antique
esp atrcs noftros, et recentio- tes
contr: verfum, cum d ces admodum ne- presaléte S ectio et fermo vic iis ; et qvantitas
determina- dicatióne ta prafcribi r« f:
t; ad quam partem przftet de- 555,
Errores 45 tenunatiu, clinare, vt minüs Izxdamus, an ad:
iumpliorem, fas. ders. in ad tenuicrem ;
cb locos Hippocratis co ntfO- riores, f im
Verícs, 1. 7 por. C07 2.derar.vict4z acut. acfecia. al:0s .1n €à cif cultate has adhibeat cau e
nes Medicvs, Cümà virtute primó illa
dicatur infütvi, et per fe, ; peradjectionem ; fecunda fio, ! peraccidens à morbo, per fü btrad
1onem., fi Medico 1n victüs ratione
inftituendà, tum i fcrmá,tum in
quantitate, viribus non ma validis, nec
morbo multin n co intrà Indicante,
contineataliqvantifpera recta victüsratione» defiectere Paucis Ito eft, pauló pleni r
vt) victu, et ad latus ( ut ajunt)
plenioris accedete, quàm ad t:nvicrem,
prevalente indicaticne s virtitis . quàm
rc A lav ctiam exemp lo cc nfir- iEaVIt
Gal.1.4cnt.a2 .Quc madmodum écontfà, Preoalegte
Bv a consoc LED. SEPT.4ALII M EDIOL.
anorbe funt contraindicatione morbi fübtrahendi przva- deteriores lente, et viribus validis,
ceteris enam morbum fei exctffd-
adjuvantibus, preftabitomnino ad tenuioremi
deflectere, acfi quando errando à recto illotra- mire recedat, minüs peccabit, fiad latus
tenuio risaccedet; fic enim ratio
dictat, prevalente;có quód fübtrahendum
effe indicat;morbo, quod ibidem Galenus
affirmavit. Ires ino 22.
Obfervandumautem fi pat fit indicatio
forma vi-- à virtute, « contraindicatioà morbo, in victüs dius pari i- formà inftituendà equale omnino
effe pecca1 5c 545a gutant, qua fortiora [untynocerent s qua
debiltora, prode[Jent.facilis [ant ves
erat : Multum emm de fecuro detrahere
oportebat, ut ad d ebiliffimum de-
duceretur . INunc autem uon minus delutum, nec oninus ladit hominem; ft pauciora,
defectuaftora, euàm [atis eft,
affumantur : fames emm magnam potentiam
in naturam bhomims babet Ci famandisce
dlbilitaudi, € occidendi : multaautema etiam alia wala diver[aquimedlen ab ii:,qua ox
veplettone fanty "mom quit : $; quidem igitur [inapliciter,
velut. aliqui ANIM.ADVERS. LIB. II.
2n gan minus autem gravia, inanirionis
[unt 5 quamee obremmulto variegatior eff,
et majorem diligen- tiam requirit s
oportet enipa modum aliquem cone qePlare
. Modum autem, neque pondus, ueque ne
Ier aliquem; ad quem referas,cogno[ces ; Cer- titudinem enim exattam non veperies aliam,
quati corporis fe fenfim... Quayropter
valde operofum eff, za exatte condi[cer
e, ut parum 1n alterutram pay- tem del
ling "AS $ quamquam ego eam eum AM edi-
cum vehementer laudarem, qui parum delinquat ; Certitudinem enim exatiam varo viderc contineit.
Mox comparat malos Medicos malis na- ARA
vium eubernatoribus ; qui dum tranquillum. Je na mare, etiam fi aberrent;ncn fiunt mani»
7^9 . eft eorum errores : atv bi tc mp
inoru erit; »iHa eorum det tceit vriencrantia : Ita et Me- dicorum errcres, dum falvbres my db OS
CUFahts etiam 1fi n hirixime
celinavant, ncn fiunt manifefti :atubio raves m« rbifefei1llis cfferunt
curan- di,tunc manifefte d leprel
enduntvr. Moxexem- plo (Litieiim docet,
non mincra 1nccmmoda,s provenireà
repletione, quàmab inanitione ; et loquitur non de quantitate, - de formà
vie étüs, ut patet ex pr imis, cum dk
151 que fortto- ya [unt, "0cezt .
quod ad fü nct ciborum pertinere
conftat. 23. At veró paribus, et ex
virtute. et ex mor- bo vigentibusindica
tionibus, fi quisin metlen- ^
"m $ Z Krrores i5
JENNSMAM e dà quantitate à
rectà ratione recefferit, 1ita ut fip les
plusin quantitate, quàm o pot teát, exhibest, 4445" quá aut et *a debità meníurza à aliquid ca
letraha p^ P uta, (1 e foy? P3 fex PT) LVD. SEPT ALII MEDIOL. fex uncias fucci ptiffanz exhibere debeat,
et aue . octo,aut quatucr prebeat,maj us
commtttet er- ratum, fi octo concedat,
quàm fi quatuor folas propinet: hoc enim
eft;quod Hipp.zex. 57 lb. 2.4CHf.
docebat: adjecticni autem cibcrü multó
minüs attendendum. Et rationem reddit,jnam quod plus eft;noxas affert inemendabil 65;
quod veró minus, facilé emendatur, nempe
fi virtus labafcere videatur, cibi
exiguum poffum: is mi- niftrare; verüm
fi in ventré cibus fit abforptus ; quod
füperfluit ; fialiàs, multó magis in acutis
morbis, tollere eft difficile. Vbi et Hip pecra-
tis, et Galeni verba non de formà victüs, "s d de quantitate effe, manifeftum eft. M [cüm
veró id refert, quot niam viciüs f
rme«&eradu, et fpecie diverfz
funt;cognofcique,& e iei, difcer-
nique Medico, in Hippocraus, et Galeni ope- ribus excrcitato poteri ^ SIQve in ea errores committantt: ir, neceffe eft, freciem mutare»
; sícque mæ2na erit muta ee etiamfi per
upum folum eradu m,aut fpeciem
tranfieris,ut à meli- crato ad
inediam,vel fic um pütfanz ; unde et parerrorcommittitur. Átin quantitate;cum» eonjecturà folà uti poffimus, an macis, an
mi- nus fit exhibendum, non eft rar ra
tio; ; quia ; fil tantam quantitatem
exhibe eris primá cibatio- lt « nc, ut
commode conficere poffit; nullo morbi
autin veh emen tià, aut In acceffionibus facto:| augmento,& eam quantitatem facile ferat,
Vi- dcatürq; majorem etizm quantitatem
citra in- commodum ferre poffe ; quia
inde conjicis, te: minus, quàm oportet,
exbibuiffe, in fequena oblatione parüm
adjicies, ita ; quod minus eft, facilé
emendatur ; quód fi plus exhiberemus ;
quàm zerotantis natura ferre poffet, noxasma emendare ita facile non effet : Nam hunc
erro- rem hec fequuntur
incommoda,gravitas hypo- chondriorum,
frequentia anhelitus, febriles in-
cenfiones, fitis, capitis dolores, et hujufmodi, quz omnia difficile tolli poffunt; nam
repletio- nem hanc dedi camento o
tollere non 1 licet, eum. nem. In
formà veró fecüs ied; nam fi à debiri
forma,vel fup rà, vel 1nfrà ctiam, per unum eræ dum tantum deflexeris, egrum præcipitem. æes in mortem, ut longa oratione
docuerunt Wppdersteo! et Galenus 1.
ACHT. 30.40. (P 44 Co" 2. ACHf. 19.
e ?* 49. Locus veró ^ "Apbor. $. qui
» determinationi € directo adverfari videtur, ull odi reptienat ; neque enim loquitur
de tenulori victu,quàm par fit, fed de
erroribus,& Izefronibus 1n tenui
victis ratione evenientibus, dicens,
efle majores læfiones, quz accidunt ex
rroribus in tenui victu accidétib js, quàm qua 5 x erroribus commiffisin pauló pleniori.
Vel m dici poteft, inillo $.
Aphorifmoloqui de totà victis rationis
formà in toto morbo, quse multó
periculofior eft, quia errores commifli
maois lædüt:at 2.4€41.237.loquitur de unicá;aut alterà cibi exhibitione in quatitate, quz fi
plus fuerit quàm oportet, plüs
lzdit,quàm fi minus. D 4 24.4 Ne LVD. SEPT ALII AfEDIOL. Giuspem 24: Ne quis errorem cenfeat,fi
Medicus ali- lb deterier quando ex
pluribus cibis non malis, minus bo- sod)
f44- num feligat, et per totum morbi decurfüum ino vtor conce fam ducat, fi
multó magis palato zorotanus v iia e arrideat five ex confüetu
linefiveexnaturàpes |! Fielligédi -
culiari, fiveex appetitu in morbo : Docebat 2d enim Hippocratés id omnino
preftandum 2. "Apbor.58. Sed
diligenter attendat,ne luxu, et
intemperantià ægri in Crrores ducantur, quod [itu paffim ab adulantibus Medicis fieri video ;
qui ut principum virorum cule tamquam
manci- pia inferviant, abutentes
utiliffimà Hippocra- tis fententil;aut
zgrotantes pracipites agunt in mortém,
intemperantiz, et dominandi cujuídabo prorogato libidinis poenas dantes ; aut mor arumenas fuas omnino 1mplentes ; cüm
fciants Hippocratem dixiffe non abfoluté,
fed pauló deteriorem prxftantiori, modo
fuavior fit; effe preferendum. ibit 25. Gratificandum preterea quandoq;
cgris ibis grati docebat Hipp.6. Epid.
fett. 4-tex.S. At id aliquid ! amplius
eft, unam enim, aut alteram cibatione:j
24 cdit &gris ce dis Had
Col eo eri contra. ÉCLpYCIC 1n quà
deje&toappetitu aut V1 morbt »
reglas. aut longitudine ; aut utobfequentem magis 3 reliquis habeamus; aliquid concedendutrb s4t
jj; quod extra limites inftituti victüs
etiam fit po-4 i; (itum, modó modicum
fit : interim plura pol- liceantur, ut
importunitatem cohibeant. Adoersstj». 26. Aliquando tamen eó ufque dejecta
eftin omaino vi- €grisappetentia,ut cibi
eenus omne refugiant: Ái aliquan. ac
averfentur; quin etiam,ratione fuadete» cun
v1m e Vini fibi ipfis inferant cibos affumentes ;
ftaum illos evomunt, et tunc Medicus
deterrima que- que concedere femel aut
iterum debet, ut vires cuftodiat, ne in
certiffimam mortem cadant : fepé enim
evenit;ut ex malo illo cibo affum pto
expetito natura inftauretur,& morbus omnino quafi conclamatus fuperetur. 27. Caveantin averíantibus cibum,
neali- menta przparentur ipfis
przfentibus ; aut enum major ex diuturnà
vifione fübfequetur verfio ;
autreculàaliquà minüs illis arridente vis à, in» majorem cadent abominationem .,8. Cüm
Hipp.t.-dphor. 16. tebricigngum victum
omnem puer n effe d debere fcribat cave,
ne cerfeas de humido folüm p iotentik ie
qui ; quamvis enim et illud requiratur, humi- dum tamen actu,five liquidum;effe debere
ma- nifeíté intellisit:nam alibi,ut 1.7e
D£etz,cibum humidum effe debere, id
eft, potentià imbecil- lum;fits
expertem, coctu facilem, et liquidum
omnino teftatur, qualem ibi ptiffanam confti- tuit: humidumveró potentia etiam
liquidum cí(e debere, docet et Cornel. C
ii 5. 3. CAp.6. CU EI etiam rei ratione
m re ddit Gal. Jib. de gpr. Seta ad T
brafib. 4.càm ait: Quoniam qua conco-
quuntur » effumduntur, ideo C mox diftvibu untur, 49 &grotantes nonvuulto labore in cibis
cor ncanes d /$ indieent. Et ab his
praceptum ua[citur, Iquidos ci- bos
omnes f'ebrici qon comvezire . Quod con-
firmavit t. acut. 38.69 1. 4d Glauc. cap.13.de UHTA febr. cont. fine euctie ; ubi cibos omnes
fe^ bri. * a)
do etia pep fima conte denda.
Cibos 4- vexfant tss
ne cibos praparare videant «
Vasiius Le tmidas fe- bricitantie
bus ofai- àus Cconvute£e nit acínu e£
"T 2115 talis bricitantium debere effe liquidos
teftatür;quiz humida actu, et facilis in
chyli formam redu- cuntur, et ceteris
paribus, facilius multó con- coquuntur :
cüm enim ex febrecalor naturalis
imbecillior reddatur, ea erunt exhibenda; que facile conficiuntur. V iderint ieitur, quàm
bene victum in febricitantibus
inftituant, qui Pe- P2 AÀ tronam
imitantes folidiora concedunt, et non us
folum clixatas carnes exhibent, fed affatas etiá, Y in quibus vix humiditas in potentiá
reperitur. Sed de hoc pofteà. ANS 29. Vtveriffimum eft, in acceffionibus,
id ? agi "s eft, principio, au
gmento, et ftatu, abfünendü d», d de,
declinatnionémque in continuis, et potius
quando cj 1ntervallum in incermittentibus commodum banda, tempus effe nutriendi, ut colliei
poteft ex 1. A phor.t1. C? za fige 1.
de ratione vill. in acut. ita.
declinante febre acutà, fi viresurgeant;forma., aliquo modo erit mutanda, ut fi ptiffana
hor- deacea fit forma, in fine ftatüs,
aut inchoante.; dechnatione;primó
potionem dabimus;ut cre- morem hordei,
vel jufculumrefrigerans, vel füllatum
carnium cum aliquá aquá refrige- rante,
mox interpofitis tribus, aut quatuor ho-
ris, cibum jam inftitutum concedemus, ut in- nuit Hipp. 1.acur. zz fige. jo30. In Synochis veró, quz uniformes
fint, In $550- . Camdémque à principio
morbi ad finem nfaue AS 242,- fetvant
formam, unicàqu e acceílione perficiun
72 cibsg--. tUt ; quandonam fit eger cibadus, docuit-Gal. dam . Yr. eth. fed. cap. j.nempe quando xger
faciJiüstolerare morbum videtvr, et quando;dum
fanitate frueretvr, cibum fimere confueverat: fiigitur et facilior tolerantia cum folità
horà ccincidat, hac erit eligenda : fin
minüs;femper pravalebit facilis
tolerantia, quz fi immanife- fta modó
fuerit, à folà confuetudine tunc tem-
pus nutriendi erit defumendum.
31. Quod fi contingar, in intermittentibus om intervallum nullum effe, et declinante» jorbo novam exfpectari acceffionem, ita
üt tantum temporis à fine ftatüsad novam
inva- fionem non intercedat, u t cibus
ingeftus coqui poffit, puta ; (p: LC Jp
trim horaru m tantüm» ia ut ne R^ m fit aut 1n fum mmo v19o renu- E, vel fequenti accefficnioccurrere cibo
in- co&o, et repleto ventricrlo,
quod fzpé in pra- xicxercend àoccurrit,
quid in eo ca Mh £a |Cjen- dumerit? Anne fatius erit vieenteacceffione - cibv m pro pin: I6, 2n potius viecreevitato,
fa- tius erit ; Cibo in ventriculo
exiftente, febri oc- currere ? Con mp
hiter ?b cmnibrs refponde- trr, deterius
effe mu Itó In principio cibum.
exhibere, quàm in ftatu; quód nocumenta,
principi! cim aliis temporibus ccemmunican- tur, ncn fc: artem nocumenta ftatüás.
Verümmvltó fecüs Gal. 11. A erb. sued. ult. rem banc M eerivir ; ubi, cafu p ropofit eodem,
confide- randum effeid docet, o uo d mæis
ureet,quod- que ma g1s noCituI 'um
judicaverimus, fuoien- dum : dox cétque,
eííe ccnfideranda locumaffe- (tum;
affectionem, princi pli et ftatüs naturam,
tum Cibare bre f2af12 fine
ffa1?, qu prote tnos ffonem ; c»
ouando. (4 / ul "424 h^.
ya. tum et morem morbi . Locus
quidem, et affe- éctio;ut fi ventriculus,
vel hepar afficeretur in- flammatione,
fi pauló ante acceffionem cibare- mus,omnino
effet perniciofüm : hepate enim affe
&o alvi dejectiones unà cum acceffionibus
folentinvadere : ore autem ventriculi vexatos fyncopes fuperveniunt. Vbi veró abeft
in- flammatio, et vires debiles fuerint;
ftatu om- nino evitato, propius
principio cibum iie cx pedit, potillimüm
fi mos mor bi; princi pii et ftatüs mori
refpondeat ; hic veró confideratur in
vigore, et principio, fiannotaverimus im.
fümmo vigore, an citramagnitudinem febr T. caloris ficeus t. [fu dens, an citra
[qualorem nurenss Priorem namque h
bumetlante vitlumade- facere quamprimum
oportet : In [ecundo.dum plu- vinum
calovis remittat » e. vfpettare . In principio
vero acce [ponis morem &[imabis, at corporis ex- trema perfrigeret, magna [anguimis
revocatto- zen ad interiora corporis
faciat, an omutimo corpus zn premat :
quippe [ecuedum bocscen faciles man-
fietumve contesanes y 1m priore diflinguas oportet. Nam [i ab[que vi[ceris pblegmone, aut
[uccorum. vedundantia, motus ad
interiora tin acce[[iontbus pollet»
zibil offendes paulo ante cibans ; fin vel
phleemone, vel redundantia [ubfit, cavenda eff ante acce[Jfwnem cibatio, ceu vesss AXIE
nóxia . Cüm tamen multó major fit quantitas morbo- rum,& habitudinum corporis quæ
expofcüt, ut potius in fine ftatíis
nutriamus, quàm prope principium nov
acceflionis, mæis laudarem, Cal ||
eam propofiuonem medicam, quà aflereretur;
urgente hac neceffhitate, praftare e 1n fine ftatüs nutrire, quàm etiam per duas horas ante
prin- cipium, quód major quantitas
febrium fit ex genere iride ex obítructione ob abun- ;] dantiam crafíorum humoru m, et ex interni,
vel externa phleeg: mone; in quibus, Galeno tc-
I fte, prai (tat in fi ine fta tüs nutrire, quam p roximc :| ante principium. EL . Commendandus tamen aliquando cibus X 1n 1 principlo, et inauemento, et ftatu,
et Booxined ante principium, ubi habitus
COrpo- iisaridusadmodum, à tque fc qual
lens fuerit; et 9 in febre admodum ardente ; biliofo
humore, rante, atque ad ventriculi os
trans- lit inedia, vigilias |i
d^ qp ] ee o6. di 4 M - (* ]
"m, c ws bu et ..
ininoadecratasltrititia, c folliatudo, auibus et exiiccatuim elit pius nilniO, c
excaicractutin p - Tp ^ 4^7 Ox "£X Ld "E" "e
-. COI1 pus » ir ILICQtiC CODn9 C111
a3cr« y s EX HII jdaaces A et 1 ME e£ a. dai 141 N t^ i E qu E o inunmores: proquarebpence inte iii£g ence
Mii Àet aus cit. L3a1C€hlis noitcti,I x. IM eti :2CG.
eC |» 1»211í0« ve dob: e N- í f. inqgi 1lDuUus caàlibDiis pI. (tabit a nt ein: y: 'nei L :
a d "111 ! j &in l DEYi IC11 LG
ASM-Æ Lu an |t Lt Verum cum hoc rarius
contingat, in caf pi /" ! » f1,,
Z " Xf». (17 ^ 44A Bm 1 $7175 *4
13^ 47 p 1 *Yy Poe polito, ub1 à itatu à
DI1nci Ji nOV. invalid nlsS nuum
temporis Jntercedit, ut comqiTnock CIDLi
n i1w vis 1illiitlooe«.iLA&LALCICCIC 3 Ai! liüs effe n n atüsnuütrlre, quàm pr ;Galen./z Com. multó plura referant
incommo- da, fi quis in principio cibum
offerat ; quàm fi in ftatu. Et hoc eft,
quod innuit 1. Zdphbor. 11. cüm dicit,»
acceffiomibus ab[Hinere oportetd eft; et ptoxime ante, X inchoante invafione . Mugmotà
33. Quoniamautemaut incomplicatione» acc
ejfinis duarum febrium, aut in unà ediamyin qvàtem- minus in- pora adeo extenduntur, ut anteqv àm
fup erve- commod? Sat declinatio, nova
acceffio fuperveniat, sic- ibat que
neque intervallum, neque declinatio repe-
quá flatus: v rariin quibus cibum offerre ex ratione pc ffi- mus,1n ambiguo Medicorum animus hzret ; r* quandonam cibum offerre expediat.
Auemen- ti tempus prusotes et minores
fecum invehe- re lzfiones cenferem ;
quód nec ea immineant damna, quz fequi docvit Gal. € 11. AMetb. 1.acut.penult. CÓ" 4.atnt. 39. neque eó
ufque ca- lor, et fymptcmata pervenerint
ad fummum, utin vieore. Non negandum,
noxas etiam ex oblato ciboin augmento
non parvas excitari 5 atindicatione à
virtute ur2ente,ccm modo teni pore.
morbi importunitate füblatà, illud elit
cendum cenfemus, quod mincra fecum inves- prium hiti incommoda . Plorg tres
D um CR acuoatione 34. Cav eant,ne rempus trium horarum
cen--|ii eant fufficere à cibi oblatione
ad novam inva-4ii: ad acc:fio fionem,
quod pleriqve cenfrerunt, Galeni au-Juj
nem » 20 faf cord durer. 8. AMe: b. 4. lH bi: d f(Terit/fatis effe, fiia.
fities horas aqu inoctiales, quatuorve, inter] balneum, acceffionffque tempus interpc
»natntzj ibalneo enim cibum exhibere
folebant ; cümm alioqui Gal. 11. 2etb.1 s. docuerit; maxime in omni febre coctioni 1ncumbendum efle :
quia fi adveniente acceffione, cibu s in
eric ) non fit confectus, ex retractione
caloris ad in- terna febris omnino
butsiiesü,; pefimma illas fvmptomata
producentur, de quibus Hipp.&
Gal.4.4cut.59. Et Avic. 1. 4. T racf.2. cap. 6. 1tà in febribus cibandum praci pit, ut vacuo
ven- triculo occurrant : hzc veró
concociio ne in fanisq juidem trium
horarum fpatio confici po teft, cumin
xeris natura ex morbo d« cbilis red-
dita feeniter coctioni vacet. S1 igitur fuerit "
forbitio, ut ptiflana, aut contrltus pan ida tus ex jure,aut idem concifus,aut hujus 5qi isi
WT i ., ; 211-3 4 1^ VEN NS I quinque;iox,al tetiam feptem ati onc
eden- A [| daxíunt, plus minus, prorcbcre ventriculi,«& :] A
22-594 I " - p! «conditione
Tebris int num [1$ pecccantlsS .
fantiCcriun, aut niicuium aiteératum, tres aGul1 ! EB É im MN 3 dem hor xquinoctiales fufncient; de qva
re "4Q "EM locu us eit 45» €ID.4. GC XCCCOCCO
€nif1n 1 L| raaicum apiiioquitur,non dCIcIDIUCRhC,
aut ferculo, quz non exhibuifle
ccpttat cb angu ftiam temporis ad
fequentem acccftionem;füb- dit enim : $7
vero ctrca ve[peram, aut duabus bo- yis
cttius acceffto iervadar um laville mane licea?, tum ciba[[e; ux evitecillaincommoda,;qua
fequi docet Hipp. 4.aczu£. 39. ubi cibis
incocts in, * ventriculo accefito fi
ervenerit: Pezter emm; inquic cær,
faflidit cibum, 1mtenditur bypochbonr
J^4244912 6Y1477 ; drium, 1atlatur corpus propter saterzam
tuyba- tionem, quens fixamon eft, dolet.
ager, lancimaturs -pellicatur, vomere
affeélat, c fi mala evomnuerit,
dolet ipo me[- 3$. Excipienda
tamen ab hac tegulà, et ho- c»weaad-
Yarum cibandi ante acceffionem, et non ofte-
do offre rendi alimentiautin principio;aut ante princi- eibi er" piumacceífionis, ea corpora,
qux et calidas 162,00 10. et ficca funt
temperamento, et habitu eracilt; jeibus^
quibus fpiritus facilé diffolvuntur, quz ore»
ventriculi admodum fentente, et in quibus acris humor, et mordax ad ventriculum
trans fufus ita egrum infeftat, ut
inipfius etiam in- vafionisinitio
fvncope indudià, vcl etiamins
fimplicibus tertianis intermittentibus fzpenus4 4A- meró mortem inducat; in llis enim ante
inva- fionem,velin illius principio
cibandum cenfuit Gal.1o.
7Metb.cap.2.3.4.€9 f. CibusgnA- 36. Adhibenda tamen ea eft cautio,
quód;,| do offerédus fi animi deliquia
in febrium initio fupervencejn principio tint, affluente acri humoread
ventriculum, &y acceffion,. os
iius mordicante, cibus vel immediaté ante
c quand? acceíffionem, velin ipfo principio erit exhiben-4 pauloante* dus, utadmixta cibo bilis minüs
mordicare. valeat. Si veró ex fpirituum
fübtilitate exfolu-4i V tio fequatur
in principio febrium ; nutriendi
erüntzeri per duas, tréfve horas cibis hujuf. modi, qui citó inflaurare
poffint fpiritus ; faciww rPa9vatm (couccommutarL, ut funt ova forbilia,
jufcula qux inftaurativa dicuntur ; et
fimilia, quibu: 4 adítringents fi
&onnihil addiderimus, ut fucc] era
eranatorum, aurantiorum, aut fimiliu m,opti-
me illis confultum fore exiftimamus.
;7. Inacidis tamen iis in ufum du cendis ;il- 4ciderZ s lud maximé cavendum exiftimo, ne nimio plus
fs iz febr: limonum fuccus, aut acidorum
aurantioruma 45 acatis addátur, quod
paflim etiam à doctiffimis viris stilis fed
fieri video; qui in acutis, et malignis febribus, shOÆTAT- in omnibus ferculis, et jufculis fucci
limonum Enn quàm plurimum adjungunt,
non animadver- voii tentes, tantá illi
ineffe acerbitatem, ut, fi modü excedat,
aut coctione non temp eretur, quod in
fvrupo de limonibus, et de fucco citri fit, aut facchari mixtione non moderetur,
obftructio- nes in venis pariat
inemendabiles, ideó mode- atéillo
utendum ; in quà menfura fi in ufum.
veniat,refrieerabit, et incidet;altiüfque medi- catas potiones exferere faciet.
Aurantiorum., fuccus aliquanto minorem
habet aufteritatem; c proptereài non
tantà liquoris miftione in- fier 38. Vidum omnem aut craffum, aut tenué, aut tenuiffimum antiquos conftituiffe,
docuit Hipp. lib.de prifca Medicina,
nempe cünrcraf-|. etu (à comedimus,cim
forbemus, et cüm bibimus: nw Quarttim
Galenus victüs genus addidit, om- ^ e
nimodam cibi, et potüs abftinentiam, 4- Com. ui vecipi? I oleum ent [mum 2 ppellavit; 2u5, c qui quód fi quz forbentur;bifariam
partiamur,n£-. exclades- e in tenuem, et
craffam forbitionem, omnes 45. victüs
habebimus ditfere ntias.Verim quatuor
fünt, quz acute febricitantibus conveniunt : E Craffa
Vicdlus tt- nauis (n 4-- s di à
"e b y ma e ACERO, REDE 1 forbitio,de
quà r. cut. 26. eftinteera ptiffana;
alica,panis lotus, five contritus, five conciíüs ; et conta carnium. Tenuis forbitio eft, ut tiffana colata, aut fercula eàdem tenuiora.
. buen funt autoxymel antiquo more
para- tum, mulfa, ftillatitius liquor ex
carne, jufcula cujuifquegeneris. Aquz
veró frieide potus, ju aut omnimoda
abflinentia, fümmé illum te-.i nuffimum
victum confütuunt. Quz omnes |i victüs
rationes, ultimá exceptà, vires augent,
atque inftaurant, quamvis aliquando imbecil- las vires reddere dici foleant, habito
refpectu ad corpora fanorum,qui fi illis
victibus uteren- tur; ad marcorem
ducerentur . Noftris tamen vidus ext
e-temporibus victus i1leextremé tenuiffimus, et me tenuit - quatriduana 1lla 1nedia,aut ob
confictudinem, we nee autobregionem,
exterminari omnino debet ; $ ww. Utpote
periculi omnino plena, ex quà et mors E:
zensinducitur, et Medicis infamiz nota inu-
ritur, fed loco illius potiones induci debent, fyrupus acetofüus, vel de ficco citri, cum
ftilla- ütio àliquo liquore, aut jufcu]a
alterara, vel cremor hordei . Viclus 39.. Cavendum tamen, netranfitvs fiat
ad eraffns i victumillum, qui extra
limites victüs febrici- 4CHII5 "^
tantium continetur, ne fcilicet que comedun- hi
tine». ear, sáintquefolidiora, non liquida, concedan- 1 »! OS P eur gr panis, carnes, et quod
deterius eft, ho- Orb ded [7- viri
fruétus, quod paffim extra hanc provin- t
CUT gam fierividimus. Herdesm40. Cüm nihil fit, quod
inzerotantibuscibandis,; et apud anuquos ;.& apud recentio Ies, antiquo more febricitantibus maximé recte
yi- Ccumaünsftituentes, magis inu fu m
ducaturipsà putt. lana ho rdeaceà, o
pame confultun |. Medicis in hisameis
Cautionibus pradicis cenfii ; fi ali-
gna OC loco mterp ofüero de rectà conficiendg puffanz ratione, de qna etiam Gal. 1. de
al. facul.cap.9.ab dep nf[anascapA. O
mde Colicit. I. 11. et Dàul. /zb. 1.
cap. 78. podffimüim cum adeo varlare jn
cà fcriptores dang 10s videam ;
recentiorum autem aliquos. doctiffimos etiam longé aberrare.In cà igitu1 Lprma fit in
clectio- ne hordei cautio, qt ód cüm
Bardqum fit du- plex, alterum quod
fpopte nudu n nafcitur, 1. dc M æne cap.
13.2" lib. EC RN: yicin, cap.6.
quod in Cappadccià naía fcribit ; ut ali-
cubi euam apud nos Infi; bres ; alterum vefti- tum, quod mæis commune eft ; ; poftremum hoc eligi debet, deglubitum ta men, et à
corti- ce exutum; quamvis enim ulti
primo illo po- tius utendum cenfeant, ۈ
forté ducti ratione, quod cüm Galenus
arte corticem adimat;fatiüs videatur
fponte tali nato uti ; fed non bono arpro ptiffaAna quale eligend& » Hordeum
«lind fine cortice eraffo na-
feitir, a- lttd veffs UG.
eumento: ro ieenim illu dicium noverltl.4e alim. facul. 13.e0 tamen non vtitur ; quin
fpecie ab alio differre afferit,
f;rtéque etiam faculta- te : Vnde
Herodctus. Galenoontüquior apud
Oribafium r1. Col/e£. dicebat ; illud plurimum Ruttre ; multum fuccum. habere, et proxime 1tritici naturam accedere ; quibus
rationibus minimé in acutis convenit :
quz enim nimis E 4 multum inultum
nutriunt, queve craffum, et eglutino-
firm füccum generant, ut triticum;inaácutisfe. bribus minimé convenire
poffunt. 1. dealipzfaa |i
cult.cap.4. 4I. Sed quáarte
preparandum fit; ut cum ^ fru&u,
fine damno in ufum duc poffi t; noh5
levem requirit diligentiam, multáque cautio- ne indiget. Farinàaliqui utunturaquz,;aut
ju- ri mifcentes, et pultem efformantes
; quam. tamquam flatulentam, et excrementa
multa producentem omnino rejicit Gal. /jb. de atre- emuante vitfus vationescap. 6. Cf 1. de raf.
vid. is acut.cap. 18.Freffo alii, et fracto
utuntur ; at re- felluntur 11 ab eodem
Gal. /zb. 1. de al TCI. cap. 9. ^ lib.
de attezuante vithucap.6. 9 1. de 2 VAI.
Vitl. 12 acutis, cap. 18. quód tormina faciat
hy pochondria diftendat, non levis fit ; non Tu- brica, quód denique craffos fuccos producat
. Leviter torrefaciunt alri, ut faciliüs
exter nà tu- nicà fpoliati poffit, et flatus
exuere: At fic ptif- íanam minüs
humectantem reddunt, iminüfveuu aptat
alvum folvere; collieitur id ex Herodo- to, referente Galeno; 1. de alim.
facult.cap.13.. fi pritenam ex ze torrefactà alvum cohibere,af- di ferente : Vnde Oribafius, 4. Collet]. cap. 7.
ex. Dievche, hordevumin polentà rorrefa&um al- vum cohibere atfferit5 quod confirmavit Gal.
) 1.de alizz.9. qninimó cap.2 2.
ejufdlen : frixa em- t n4 flatum quidem
deponunt, fed di "fficile coquum- iln
uv, Co adftringunt, craffun yque fuccurm, cenerant. quód obfervans
Trallianus /&. 8. cap. 8. voluit
in HKordeum quomodo
jaradum fro puffana. in
dyfenterià hordeum torreri,ne fi fine frixio- piam ne uteremur, alvum fübduceret ; non cohibee
etum. ret. Braffavolus hordeum aqvà fz piüs mace- rat, mox ficcat;& in mortario ligneo
illud Con- rundens decórticat. Atfi pro
primo cortice» expurgando id facit, non
eft, quód aquàail Illud prius maceret ;
fi pro fecunda briliori, malé facit,
cüm coctione fol ^ eximatutr. Galenus igi- vto vn ai cur capit hordeum Integrum» levi manu
contu- fum, et hoc modo decorticatum,
atque mox panno afpcro pe erfricatum, ut
reliquum corti- ^ cis fi quid reliquum
eft ; anod verifimile eft ; air levem
ictum, to lli poffi t. . Cautio autem
1n quantitate hordei ad zmerdei Pee m, &aquz ad etin m In pl ra paratione
quantita püffanz, maxima eft adhibenda ;
cüm variafit ad. aqua de his apud
grauiffimos euam fcriptores fen- pre ptis
tentia, aliis pro fingulà hordei heminà decem. ^4paran" aqua adn ut Dievches apud Ori- bafium, 4. Collect. 7. cenfuit, quam me fecutus eft Conftantinus Cafar,lib.de Re ruf.
9 Antvllus veró, eodem Oribafio
teferente» ; 4. Colle&£l. 11. pro
fingulà hordei heminà quin- decim aquz
adhibet;quam fententiam fecutus e(t
Paulus, /ib.1.c2p.73. Braffavolus autem r.de
rat vill. in acutis 18. pro fingula hordei heminá trieinta, et triginta quinque aqua mifcebat
. Galenus autem 1. de aliz. facult.9. € 10. c
Lb. de Priffana; nullius quantitatis
aqua» aut ejufd& proportio nis ad
hordeum meminit. Neque yero id prater
rationem, fed jure merito,quód G4 obfer4uanésíÍnu/
ex obfervatfet hordeum pro varietate foli aliud
- facilius coqui, aliud difficiliàs,et docebat ípfez iet /ib. de cibis bomiCP mmals [nci, cap. $.
tum etiánt pro varietate nature illins
erani ; ut paf- fimi1n ciceribus
excoquendisobfervamis; Sed et aqua non
levis habenda eít ratio, cüm aliam grana,
et Cerealia omnia facillimé conficere »
obfervaverimus ; aliam difficillimé, ut docui- mus 72 Com. 17 lib. de ære, aquis i loc. EH
ipp: Sitamen ejus eeheris affüumamus,
quod intu- [ Ra .ICcat, et coquatur
facilé, apiid nos Infübres mE pro
fingula hbeminàillius, quindecim, aut vi-
ginti aqua affumere poterimus; que quantita- tis aquz varietas erit pro várià conditione
hor- dei, et aqua. Propifa 45. Sed'in ptiffane præparatione quid ob- na cóuie? fervandum ? et in condiendà quid
cavendum ? da . 2^ Sané Galenus oleum,
et acetum addidit, et addenda, falem;
illa quidem 1. de al». facul. 9. 4. tuenda
va T9 valer, 4. Cf $, equ]dem. 8. lib. de M arcove, ult. 7. : Methb.med.6. S.eju[dem 2. 10.Mfetb.Y1.Orib. 4- Collect. 1. et Paulus rb. 1.cap.88. Salem
etiam indendum conftat ex 1.
2//9.9.& Orib.& Paulo loc.ctt.
Sed quo tempore hec addenda ?. Gal. r.
de alim. 9. acetum indendum cenfuit, cüm ad füimmum intiimuerit hordeum, deinde
etiam permittendum, utTento igne in
füccum diffol- vatur ; tumaddendum :
falem autem addi vo- luit pauló ante
tempus diffolvendz ptiffans :
olevmaddebat pro condimento ; nos, quibus placuerit; concedemus.. Placet tamen
potiüs; ut cx jure oprimo carnium
patetur,five integra paretur;five
colata, addità aut levi portione » falis
; autfacchari pauxillum plus; pavxillum
enim mellis addebat ptiffanz, 5. rende valet.S. cujus loco przftabit faccharum indere:
aliqua- to plus illtüs
etiamaddentes admifceatur ; prohibemus
enim admixtione» ilius nefaccharum 1n
bilem vertatur .. Quod fi quisaceti
ufurn refugiat, licebit [oco illius aut
fuccum aurantiorum, aut citri, aut etiam.
» fi aceti nonnihil . L limonum indere, modo fuccus is aliquandiu
guetud AC plus cum rcliquis ebulliat,
fecus quàm paffim. «^ v» fiat; cim indi foleat füccus immediate
tempore ?e/&- e Æ.
affumptionis,qui ob cruditatem ; et acerbitaté folet nonnihil obeffe; quamvis mixtio fine
co- étione nonnihil terreftreitatis
illius, ac adftri- étionis foleat
retundere». 44. In pane concifo, aut
contrito, pro fercu- lo parando
hecadhibeatur cautio ; fi febrem.
curemus acutam, aut ardentem, panem omni. Op rius effe lav andum,. "us. n tatà
frpiüs aquà aut füperinfpersà fepiüs
aquà ; fic enim et fer- menti vis
retunditur,« cibüs paratur m inus
nutriens;potiffimüm fi paretur ex jure fimplici pu Il: gallinacei; fiiccóque aurantiorum
con- fpersatur, fic enim parata
panatella minüs etiam nutriet, quàm
ptiffana. Cavendum veró, ne panis igne
pris cremetur, mox abluatur, quod
factum ab Oribafio videmus ; fic enim,
ienex partes concipiuntur in pane, sícque et ficcius alimentum paratur, et calidius,
quod E 4 per Panatella
1n ACHtis quomodo paranda «
C9 Cor fn 4«o per lotionem
minimé corrigi poteft; poterit tamen fic
paratum convenire, fialvi profluvio cum
febre eri tententur, addito aut ficco li-
monum, aut granatorum. In reliquis febribus ex pane conciío, aut contrito ferculum
conve- (niet; etiam non loto pane, et ex
jurecarnium aliquanto validiore. Confum- 45: In confumptis juribus ex carnibus
pa- yu Mu randis hzc obfervetur cautio
;. maximéà me; ex cargo lA dariea, que
ex carne vituli macrà conficiü- vittling,
üt » quód vix in eis elutinofum illud reperia-
tur, quod paffim in juribus obfervamus, que » ex pullis conficiuntur ; cutis enim
circumve- ftiens; et nervofz multe
partes alarum, et cru- rum, gluten illud
generare folent;quz vix pof- funt
auferri : in vituli autem carne, licet et fi-
brarum,& nervorum ratione, et capitum mu- fculorum glutinofa aliqua adfint, mrltó
tamen pauciora fünt;atque ex parte etiam
auferri pof- j funt. Quód fi quifpiam
gallinarum, ant ca po- num jus expetar ; cautionem hancadhibeat, ut alarum duz extreme juncture auferantur, et coxarum ultima pars ; quód fi cute etiam
pul- lum fpoliare poterimus, (alubriorem
cibum et potum procul d:bio
parabimus. 46. Sedentes in lecto
alantur;fi enim jacen- tes cibum capiant,
vix ad ventriculi fundum. cibum
effundent ; deindeà cibo fümpto fe mi-
horà fedeant, vel (altem erecti aliquantulum. femiJaceant.
47. Ante cibum memores fint expurgatio-
nis euem j- tum tenc-
re debeat, dá ciban- tur. IL- os alluen lhis oris: nam à febre plurimi vapores, et fuli- ipines furfum feruntur, quz limum
quemdam lin linguà efformant., .qui cüm
guftum pertur- Ibet, cibos etiam malà
qualitate imbuit: quare li: et lingua;
et os colluendum, et osfophagus;qui TENIS. N
lfzepe per febres areícit, madore aliquef1gan-. ex acels e£ Jac idus, cui maxime infervit aqua etiam cruda €x
- aw . aceto, et faccharo. EA 49. De potu aquz in febribus pro potu quo- .
P^vs 4c Itidiano, non pro medicamento ;
hec fitobíeg- ;"^ qua- ratio: fi in
xerum inciderimus,qui in fanitate it
affuetus fit aquz potul, etiamcitra noxam pof- Ife nos utiqu e Hone nop tmam,aut fcntanam;
BD obe aut pluvialem cifternin: mc
ncedere, aut CCr--,,5 f po té decoctam
fimplicem : fin minus affuetus poditn 2212
Qua cibus JL ma- AY »
49Ha no 7u$1nacmAd tuaque zeer fuerit, ne 1n ea 1ncommoda 1nci-
zi. dat, dc quibuHipp. 4. de rat. viel.
in acur. ali- qu id addi licebit ; quó
facilis ex hypochon- driis meet,
cruditas reprimatur, atque etiam. «cea "M eevias morbo, fi fieri poffit; A Hldd eios ve wis
adver- 9e, : canedio femur; ut fi add
faccharum.cinnamomum, E . anifum,femen
coriandrorum;authordeumin-- -.
Ccoxerimus. 49. Deaquà hordei,
quem ) potu Imantiquis 444a bar len Ar m
pleri quec enfent, quód nullibi Gale- deris æs
nus ; Oribafius, Paulus, A?tius; &aliiillius *5pro po- men tionem fec vei ; ita cenfeo, Hipp. 3. de
2 4 epiinide va) uiél.im acut. 13. (f a.
de ratione vilius, 71. po- "limum
autem librà à . de Morbis, ubi laboran-
tibus tor pore c: 1pitis propin andamcenfet aqua hordeaceam, de cà mentionem feciffe ; ubi
eti 1n"aua bor Kein Of.
nibus amar 615 n0 Con venit.
v qua ber dei Que pa 1Anda .
gue intelligere non poteft (accum hordei, quia illis! có fübjungit ; Maze. pro alimento. [uccum.
bor--|vck dez exhibeo, utnec in aliis
duobus locis, cütmi en potum aquam
hordeaceam appellet, füccumaj autem
hordei paffim non potum,. fed (orbitio] ji
nem appellet .. Neque veró rejicienda eft, po] jj tiffimüm in febribus exurentibus ; quod
flatu] ili lenta fit ; fi enim recte
excoquatur, flatulenti&il "T
exuit; neque fi diutius excoquatur, falfedinemi] «1 contrahit, quod ab aliis objicitur ; fi enim
ins] s putfanà, quz longiori tempore
elixatur, id nom] «s veriti funt
Hippocrates, et Galenus; nec expe-4 ui:
rientia id oftendit, in quà mæis hoc feqiiilo deberet,ob hordei majorem ad aquam
propor--| tionem, et quantitatem, quà ob
craffitiem faT- fedo in elixatione loneà
contrahi deberet, cufil idinaquà hordei
omninoaquosà, et potu ve--| tebimur ?
Cautio tamen eft adhibenda, ne eail In
omnibus morbis, aur inomnibus febribus ini
ufi m ducatur, ut aliàs fieri foleba 5 fed in iis! folüm, in quibus magnus eftus fuerit, ut
ubiil. abfterfioneopus et. At veró in eà
conficiendail ». magna adhibenda eft
cautio. Accipito hordei vcri, non fpeltz,
feu zez, ut plerique faciunt, libram
unàm duodecim unciarüm, máceretür
tantillumin aquà, mox panno admodum afpe--] IO Oprimé confricetur,donec omnis arifta
deci- derit, et quippiam etiam ipfius
corticis craffi fit deter(íiim;deinde
optiméabluatur,& omniforditie expureata, addantur aque libre quadra- Hi.
^ ginta, et tàmdiu claro ine
decoquatur, donec optime hordeum
intumuetit, mox depofito de aMesua P ám lever.
1ene decocto, permittatur perfrigerari, deinde transfundatur, quod perfpicuum eft, ac
valde clarum decocti;in vas vitreum, in
quofi quippiamiterum refederit, denuó In altertim vas transfundatur ; quod perfpicuum eft, et relin-
quendum donec refideat ; quod pro potu in»
paramus pro medicamento, aut faltem cibo medicato, aut pro potu. Pro
medicamento;aut cibo medicato, vel cruda erit, vel cocta; Gal. cocha.Qinimó etiam coctarum alieinteoré co-
(**^* étz fünt;alie imperfecte ; quz eciam magls ; && 4A. vavwe
Fat ufiim duci poterit. d 1 : Mulfa di jo. In mulfe melicrative compofitione ma: s A
; 77 (7; xima adhibenda eft cautio: Vel
enim mulfàm vj ^É pt an
''Ali0 » 3.de alim.f acult. 39.
€? 12. Afeth. cap. 3. Cruda.o -Á cds !
E, * . -Á eL. magis alvum [ubducit,
munus uutrtt ; contrá aute TLMN E . ec
* minus et nutriunt, et dejiciupt,
prout magis aut minus coctionem
füfceperint. Vtramque euam hanc aut
meraciorem conftituit, aut di- jutiorem
Hipp. 3.4e rat.vit]. in acut.t.33immÓ 7...
Gal.$. A etb.zzed. 4. 1n meraciffimam, medio. n 4»*« we S. 2
" " " . 1 $44 crem,& dilutam dividit. Sed quanam eft mel-
77*^* lis ad aquam, quibus duobus
folis conftát mul- jin fa; omnino
proportio ? Cenfentaliqui,
mera- ell; 1) A ciffimam efle ex una
mellis, et duabus aqua, LE fic cenfiut. Avic. /ib. «. et Diofcor. Mediocrem pum
idi ex una mellis, et quatmoraquz, ex 4.
de tuend. aud vál.cap.6.Dilutam autem ex
un mellis, et octo aquz, factà
ebullitione ; et defpumatis excre-
mentis ; donecfupernatent, ex Paulo £/b.1.cap. 46.Sic
vn b. ^£ ptu ex 06 Jh. cC
s ^f yr t ou *
Et .Sic Mefue, et Rafis 9. ad
"dIman[orem ; led: ante hos omnes
Oribaf.4. Synop[eos; Cap.39. Hac 1T
communior eft recentiorumopinio. Eso verós ut veriffimam hanc effe opinionem cenfeo.
in» melicrato pro cibo fimplici . feu
medicato : ita]; falfam exiftimo, fi
mulfíam fumamus pro potu: 'ad
diftributionem cibi parando. Quin. ceníeos
dilutam illam, de quà 3. de ratzeze vitius ; 13] mentionem facit; eam effe poffe, de quà
Gal. 3. de vat. vicl.12 acut. 15. ubi
dicit, mulfam dilu- tam fieri;ubi pauxi
illum mellis multz aquz ad- miícetur, ut
aqua permeare queatad diftribu- tionem,
ne diutius in hypochondriis commo-
retur; hoc enim munus eft potüs;utpotus, non üt cibus ; ; quam fortaffe di iveríam à
dilutà, de quà 8. Metl-meminit;credere
poterimus;quód diluta illa tamquam cibus
effe poterit ; ex unà mellis,& octo
aqua: at quz diluta eft pro potu ad
diftributionem cibi,diluta magis effe debet,
quàmutuna fit mellis ad octo aque, neque» enim pauxillum mellis una eft uncia ad
octo. Eritieitur mulfa pro potu, fi pro
uncià unamel lis viginti uncieaquæ
fümant ur,pauló plus;aut. minus ;
neque enim determinataaque quanti- tas
certó przícribi potett, ut etiam Galenum.
videmus feciffe 3 .acut. 13. 3. de alim. facul. 29.8. AMetb.cap.a.qui nullibi quantitatis mellis ad
a- quam meminit ; quód mellis videmus
effe ma- enam differentiam,càm fciamus,
aliud effe bo- numsaliud m: idum.
3-40nt. 2.3. C7 4. de tuend.val. 6.
Bonum celerrimé coquitur, et celerrimé definit fi pumam facere, inde minus aque
abfimi- Contrà evenit in malo; et prc- I fum effet;plusaqua a 'Inus;fimedium,medio modo. vandum eft,fi aqua forte crafficr fucrit;ut
apud lturin coctione. '[prereà in eo coquendo major indenda erit
aque ']| copia, qua ab fümi poffit; quà
in bonc;quód ex 'l|Philagrio colligitur,qui
referete Oribzf. s. Co/- letf.cap.17.in
cofectione 2 poivelitis.fi mel craf- ddi
voluit; fi tenuius, mi- tiam obferVbie nos Infübres putealis efle folet;quz in
melicra- ti confectione fumitur, et optimum
melindatUur,cüm ea aqua, ut attepuetu r,lc nglori egeat elixatione, m el vero
illud pau m antequàm illi aliquantifper
effe clixa ida um ttenuabitur,&in Sf
mellis ft Gitan- im recipiet, facil
iüsqu e hy| mel indarur, 'leniméa
tiam meabit. gr
Sed cüm f: ; fic cchondría peramfaccharum, ant iqu Is inCo1.
dre CM fd enitu m, faltem perfectum, noftrum in i
ufüitn od Aj$* medicü, et inter delicias
ouftüs fittradvcium, ancx co mu] Iía
parari poterit ? Vuq;,& Opti- ed part-
1na, ci m non tantà poll ! immo
in biliofisu ulior erit et fuavior.C extépc
eat acrimonia, ut m el, ilf
aliqui;non nifi crudam mulfam ex facch laro pazari poffe colliquatione, quod
jam faccharv m.. attenuata aqu: i permeab i hiinisarobo bus attenuatis.
rur ea adhibeatur cautio, ut prius aqua
clixeti Ó, coctum fit. Ego veró et crudam
colliqua i^f parari pofle crediderin.,
fed p rzftantiorem éffe fue cocfa . V
€octam ; quia Am cocüonem aqua permifcetnr atione,&melius per dXpcenond rm quàm
obtim.; 1 (UY 9 Cu cda ; quàm illiindatur faccharum,& i
in minori quam junii py . pitate; ita ut fepé prouncià facchari libra
aquai T fufficiat, potiffimum fi
affectus non admodumaliii a ftvans
fuerit; 1n quo cafu fucci limonum non--joit
nihilin coctione addi poterit.
^^) )]; A2 5 $2. Oxymel, et Syrupus acetofus ad
pen-Jn.: paraci ra. m veniant;qui et pro
pori ad fedádam fitimsdau 310 » et pro
cib: cibo in peracutis febribus, et pro medi-1u
catà potione in ufüm medicum fe penumero ve-4r«i piunt. Hiintriplici funt differentià pro
varic]y) q^ de ufu:vel enim funt valde
acidi, vel mediocriter;? vel minimüm.De
primo Hipp.3.4041.26. dc fe-4 m cundo 3
.4cut.30. de tertio 3.4€4.57. locutus eta
De tribus iis omnibus Gal.4.de tuzd.val.6.d O38. cens illorum mixtionem ex aceto, melle, et a quà
;aut faccharo loco mellis in fyr. aceto f|
emm ec Minimé acidum fieri afferens ex unà parte ace? EN ti, duabus mellis, aut facchari, et octo
aqua eDænl, De Mecium ex un ià aceti,
duabus mellis,.& qua: tuoraqua :
Valde acidum ex duabus aceti. d ecu
mellis, et quatuoraque. Galenum fecutus etj,
Oribaf. ;.Coll. 24. Paulus folius acris meminiifl..... lib.7. c. 11. Mefue folius mediocris
meminitij.. compofitic némq; tradidit.
Sed animadverterg,, .. dum,multüm i in
cocturà à Grecis differre . Gad. ]enus
enim ad quartam, aut tertiam exccqtp..
debere dict. Plerig; i ita
intellieendum cenfen]... donec remaneat
tertia, aut quarta pars, qv ibub.
fübfcribere videtur Mefue, qui feré hoc modi excoquit, ut pertotum forté annum
confervtd tur, quod etiam omnes
Seplafiarii faciun cV rüm A rüm illud veriffimum eft ; cenfüiffe
Grzcos, fo- ""tilamtertiam,
aut quartam partem effe abfiimen
"dam:docuit enim Galenus; o xymcel efle tempc- jrandum,ut vi inumibidem ; cüm autem
vinum, inumquam meracum biberetur, fed
tempera- tum ; ut colligitur ex Plinio
14. AVaruralis Hiff. Wicap. ult.
Ib.2.3.cap.1.& hocipfum vario modo
"temperaretur, aut pari aqu cum vino quanti- "Rtate affump A t plusaqua addétibus
:& hoc itriplici modo i£ duabus vini
tres aqua;aut u- mi vini vtm ruei
;autdeniqueuni vinl tresa- uæ
addentibus; ut docuit Plutarch. 2 3- Sympof.
Meuse[?.9. Athenzus Zzb. 1o. cap.S. C" 9. Siigitur o- Ixymel ut vinum temperari dc ibba atjnumquam jad duas tertias,aut ad tres ex quatuor
excoqui Jporeft "- lioqüin non modo
du pla, aut n Ja ad lim cleri, fed tripl
io;aut quadruplo à melle füpe- Jirabitur
: quoniam mellis R minus a- dqua ob
craffitiem, et vifciditatem abfimitur .
Exemplo fint;una aceti, due mellis, quatuor a- quz unciz in qu: irtam redigantur, erunt
una illincia cm dimidià, sícquetota, aut
penetota "eric mel ; fi ad tertiam
;€runt reliqvz duzun- "rim,quarumuna
cum dimidià erit mel, media &ijincia
erit a acetum; ncn gum ges duri imilec erit vino; quód fi unica ex
qvatuor, aut una ex tribusabfümatuor ;
optimétempera- Jfmento vini
correfpondebit ; quód fi ! War decoctio cumaquá,vis aceti et in fa flu odore cum melle " hnqvetur didiu coqueretur, mu po re,
lía fieret mexæifima . te .K » b
e VM^ Aon! UA - MK, ; quód fi tam- mee "v, yy in cra ^ . 46
evita m AAA ]- 9 quét note pode pod.
Ps V. v evæe"", e in extrinfecis erat in uft,non per interna.
|! Ac Ox nei
wen m tg Animadvertendum pratereà, Pharma--| rbi 4; Copolas,ut diutiüs oxymel ; aut fyr. «
cetofüm-.| Is rela 4 confervare
poffint;ex decreto Mefüz, pris a--
Galizico, quam et mel ufque adeo ex coquere;donec totajj quomod, aqua,aut pene univerfa abfümpta
fuerit ; mox i perttr,| acetum addere;
et iterü coquere, omnino quoc: aquz
reliquum efta abfümentes; sícqueoxyme:
non fieri ex aceto mulsá. Vbiobfervandum. |1ii oxymel hoc ita paratum pro potu nutrien te
Lin ub ufim duci non poffe : eft enim
potiüs forbitio,t: quàm potis. oxysel
$4. Cavendum prztereà,ne Medica coma] xi
rix muni noftro oxymelite u tantur ad humectani] Z0 btt dum ; cim exficcanti potiüs facultate
conftet: a dd cümaquáà carcat;in ufum
tameneetiam hoc nof x p fs leote is
ducitur, quod di uluatur;liquidümque, et «a.
PF i fluxile reddatur quadruplà fere parte
aqua: E. aut ftillatitia,aut decocti al
licujus addità. Quar! $$. Obfervàndum
praterei,in plevritide» T "fot bi
cra(fifcnt, et vifcidi humores, oxymel noo]
zanbectlle " : ri ; fn m
imbecilltus effe;quàm fit illud mediocreqi
inaididad cut m in €o cafu valde acri utendvr m docuerij ht »p.3 2.4C€HT.2. á $6. Obfervaridum pretereà,fi per
totum) nofirum morbi decurfum utédum fit
oxvmelite; aut fyri] 3) acutis.
acetofo,neqs acricrineque mediocri effe utem]
zit ac-, dum in acutis febribus, quód non humectet comfnoda potiffimum noftrum ita paratum ; fed
doce ad era[ia "- Hipp. 3. 4CUt. 37.0tendum effc eo; in quo
minii T y de Y - : J4À V^ vt vi 6 mum CLI'A9M .
cA MER w^ €
h 3 zx - &* mum aceti fitadmixtum, ucmultüm poffit hunectare.nec
inteftinis noxam inferre. 57. Cavendum
pratereà, ne in oxymcelitis 5.
autfyr.acetofi compofitione acetum illud acer- rimum fümatur.;aut ex vino Cretico; vel
alio potenti confectum : nam in acutis
febribus jin quibus, preter facultatem
obftruc&iiones tollen
di;abftergendi,& incidendi;requirimus et lhu- mectationem,& refrigerationem, po tiüs
ficca- refolet;& excalefacere;quàm
humectare: aut fi taleacetum in ufvm
ducatur,aquz cuantitas erit augenda ;tunc
fortaffe sentebaslenia des "
'erbis Galeni tolli pcffet;cóüm a.ze val.tuend.6. voluerit; ex unà aceti, et duabus mellis
fieri oxy mel mediocre ; acerrimi m vcró
ex zqualibus aceti, et mellis
partibus:cüm in cófilio pro pue- ro
epilepticoacidiffimvm oxvmel ex una ace-
)& quatuor mellis velit co nfici ; miniméaci- di m ex unaceti,& octo mellis. Nificum doaceti
pro oxysmnelie nó ftt acer
YImi,n6» que ex vis n0 pottne
tffiano, echa ifa CM.
&iffimo C iealino dixerimus, libellum illuzi (pen t effe quidem Galeni ; fed multis in locis
depra- vatum : potiffimum cümoxymel ex
favis confi- ci ibi tradiderit d. 9
oppofitum docuit (2 4.de val.tuend.6. €
2.de Fratt. 29. Qvod fi ex favis QUIS
dixerit doc ffe conficiendi m Gal. lib. dt med T her. ad Pa mbil. oxymel,1s fciat,librum
illum Galeni non effe, quod vel inde
collieitur,quód diverfo modo compofverit
ibi Theriacam, ac lib.de T her. ad
Pi[onemyac lib. de Aztid. Deinde conf
tat, confilium 11lud pro puero epileptico
efle depravatum,quoód dies Canicilarcs confti-, quat c E
jo. tuat quadraginta, viginti ante exortum Cani- cule, et viginti poft; quod Galeno repugnat,
et Grzcis fimul,ac Latinis omnibus
fcriptoribus, Caniculares dies ab exortu
hujus fideris in- choantibus, ut longi
oratione ; &" 72 Cons. lib.
Hipp. de æve, aquis, (f locis, in Com.in Probl. "Ariftorelis, docrimus . Colligitur
ternó,men- dofibm effe libellum illum ex
eo, quód pueris epilepticis apium
cócedendum, petrofelinutms -abdicandum
cenfet, quód petroíelinum lzdat
epilepfià correptos ; cüm oppofitum reperia- - mus apud omnes fcriptores ; apium
epilepnicis obeffe,nullà fa&à
petrofelini métione : fic Plin. lib.
10.cap.r1.fic Alex. Trall.Izb.1.cap.1 $.(ic Avic. lib. 3. T raft. 2. cap. $$. fic Serapio
/ib.Sigupl. cap. 190.& Mefvezn fua
Praxi,cap.16.de Dolore capi- tis.
Nifidixerimus, corrigendum effe locums
illum in confilio epileptico; ut loco, seii: par- res o£fo, lecamus, aqua partes oclo;fic enim
ccn- veniec cum loco 4.4e tuezd.
val-cap.6. $8. Cümin vino concedendo in
febribus, et Vin f? sotiffimüm
acutis,tottantzg; controverfiz ex-
&ricitant! entur,ob varios Hippocratis et Galeni locos ^
bus acut? ; v ips zoterd. intet
fe contrarios, de quorum conciliatione s;
emdi per 755 : : fe libi à nobis
conftitutum eft, nempe, numquam
"V ipuw in ratione morbi effe concedendum, aliquando arqtiscur vero ratione caufz, et fymptomatum,
tum eta aliquando ceorum,que fecundum
natutam dicuntur,& vi- concedz-.
rium . Quoniam autem alicubi concedi paffim
Lar. intelligo; ut in agro Neapolitano, et fortafle; frequen^ s,
cádémque controverfià quid fentiendumffit, a s frequentiüs,quàm
debeat, atque non apparens Æneis parue tibus
fignis cocticnis eftuantéq; zgrotantes
5. 9udA-vvemes ve quàm felici facceffusi pfi viderint; nos Infübres. 42447,/&
»d laborantibus febre acutà, € malignà
cmnino vinum interdicimus ; quod adeo
felici fucceffü fit; ut ex viginti
laboratibus maligná febre cum maculis
vix unus intereat, nifi forté, quod rarif-
fimé evenit; ratione virium aliquando conce- datur.
$9. Cavendum tamen,quantum maximé pof vis »- |! fumus, nein noftris his regionibus vinum
con-. 4az ; ne cedamus;etiamfi coctionis
figna appareant ; vi-. 9Pparéti- demus
enim plerofque ex quávis vini conceflio- 9! 4wi42 ne,quantumvis minimà, in deterius labi, atque
en eH ^ . Y et éh9n15, a- denuó materiam recrudefcere : quod cüm fx pé
ni Teis- acfepiüs
confideráffem,viderémq; antiquos ad- dian
eó frequenter vinum in febribus conceffiffe,, dido, |! non folüm ratione virium vitalium,aut
ÍymptO-. e; cur. matum, fed enamad
adjuvandam cocionem, vabcaomee Vi fud;
materie morbifice ; atque ad promovendamil- - lius per lotium evacvuationem, ut videre eft
11. 7 Meth. med. 9.5 1.2d Glauc. 1m curanda
tertiamay 73 C quartana febre;tumad fputum facilitandum, Ut I. AC4/. 22. 3.Aut. 1.C7 4. 4CHf. 37. non
aliam horumaptud nos infelicium eventuum
ex vini exhibitione canfam
effeconjcectavi; quàm vino-. «vsum, rum
noftratium conditionem, Rubra;& nigra vufAr«w foy - optima multa fint,quamvis primis menfibus et q
. auftera,& craffa,fed mfnüsaptaad
febres,quód nec urinas promoveant,
necíputum facilitent. Qua alba funt;
aut fiava, aut fünt potentia, aut * e
i imbeLN Vas ^ ^
ó1 €^ eot ue exéiu pa? n quet
^ D qua dijuatur; pel ne
itmbecilla: Potentia, quoniam maxime alba. ex- petuntur à noftris in aperto vafe, ubi
compreffis uvis reponuntursut fimul
ebulliant,non permit- rüntür tamdiu fitmari
; quamdiu oporteret ; uE debitam
coctionem in fe conciperent ; et id, ut
álbo colore oculis ; auftero fapore, quem pican- tem vocant, palato gratficentur hinc et aufte- titate coctioniofficiunt, obftructiones
excitant, neque urinas promovent, neque
fputum adju- vant; pratereà veró caput
petunt quàm maxiime ; ieneis partibus validéin ipfo contentis, ob terreftres partes admixtas : Vnde etiam
primis»j menfibus eratiffima palato
effefolent;,fi dulce-: dinis aliquid
cetinuerint,fübaufteris partibus cit:
guftui abblandientibus..
dulcibus duplicifapore Imbecilla
veró et tenuia alba hujufmodi funt» ut
numquam máturefcant, nifi maximo zftatis
calore füperveriente, et ne tunc quidem aufterz: partes omnino co&tione evincuntur ;
sicque m1nüsapta erunt et viresinftaurare ; et lotia. pro- movere:quod etiam incommodum alterum ex- cipit, quód, ubi quafi. maturuerint ;
aufterita- témque depofuetint, aut
ftatim ferà acefcát, aut evanida
redda . hant,vnde ad ufüm inepta
redduntur . "dusigitur quàm
maxime pueridis,maxime in acutis,
potiffimum enis, et etiam mæis in
internis inflammationi- bus,utin pl "debet, potentius potius eligaui, n malia
ET. Cau60. ntür;.aut corruptionem contrær Evitan-- B^
pud nos in febribus:
evritide;viniufus; et fiin ufum ducti
1 "ENS quod multa a-Cautio
prztereà in bibendo adhibenda. Bibende-
eft, in febribus potiffimüm aftvantibus, quam. fap, en docuit Ariftcteles 1; Problezz. $6. ut
fzpe,& pau- paulatim latim aquam, et
alios potus frigidos ; ad fedan- "bdl. T
dam fitim illam ex calore febrili excitatam eon- M iria ceffos;affumant: potio enim mvlta;&
conferum 5, e, affumpta, nec exficcatas
partes humedtat ; qui-. 5, c ca
buseftus, et ficcitas ineft,cü ftatim praterfluat; fori. nec fitim fedatzat fi (epis data fuerit; et paula- tim pitiffando hauriatvr; os ventriculi;
cefopha- eum, lineuam; et palatuni, dum
fenfim per eas tranfit,refrigerat, et humectatialiquà
ex párte» parictibus ; et turicisadhzrens:
quin et paula- um fefe infinuansin carne
confcendit,'& venu- las exficcatas
imadéfaciendo,& trrorando hume 7
&at;.. Quodaptiffimo exemplo docet :fi enim» c ri A. multa aqua.& confertim aut decidat;maximé
ft »/fe^ . ficca fit,in terram; aut
aliunde per cavum eorri- vetur.,
fuperficiem terra non permeat, fed prz-
terfluit,nullam noxam ducés ; at fi paulatimaut decidat, aut deducatvr, füuperficiem
paulatimo madefaciens,& ócclufos
poros aperiens ; viatfiz fubfequenti ad
penetratiorem parat.]Id veró zepiba
intellieendum eft deaquá in potim affumptà gt ad fitim fedandam;non veró de eà,quz in
multà quantitate affumpta ad
exauneuendam febremo ardentemaffutnitur,quz
et multa,& affatim eft affumenda;fed
de hac rezz Cozz. noflris im Probl. 4
wel illud, quidauid dicatadverfus Ariftctelem Hie- Mie S ua remias Triverius zz
lrb. Hipp. de vitu idtotarum.. ved. 61.
Quamvis fomnus in acceífionum febriü ES
v1 omnium E utens p 7 E Suc P AI á
S»m»»us Omnium principiis, confenfii omnium Medico--| aliquando tüm, et mulus rationibus id
perfuadentibus, fic] ^" in prizci--
fueiendus, animadvertendum tamen, aliquosi| ^
pio 4t'«[i? teperiri,quiadeó fenfu exquifito in mufculis, &] /! nf "C esrpofis partibus fünt, ur
faperveniente effifio-| Pind ne
materierum acrium ad illas partes, unde ri-| i
Tm" --gofem illüm concuffivum fieri Medici omnes: profitentur, tantis, támque magnis
doloribusi| 4! conficiantur, ut vitales
vires profternantur, &&| |! mots
fepenumeró fubfequatur; iniis non folümz] UU
in principio fomnus, eft avertendus, fed potiàss omniingenio procurandus, ut fenfus ille
exqui-- fitus retundatur,aut
fopiatur,rigorque;& doloij 5i mitior
reddatur. Somnus 62. Somnus in febribus
potiffimum acutis, ff; immodt- -yyodum
cxcefferít,licet majori ex parte malo &«)
74/1? ^ erotantibus cedat, et proptereà fit evincendus ;) i "aq : quoniam tamen,ut omnes alias à
naturà factat! € " 2 : ida €vacuationes cohibet, ita eam;quz
perfüdorem] i fit, omnino promovet, fi in fine ftatüs
univerfa.]. i lis febris,ant in
declinatione fapervenerit, eciafí
temporc modur excefferit, ita ut decem, aut e) tiam plures horas perduret, non eft
impedien«] ju . dus, potiffimüm fi
indicatorià die imminere crisd i fim
perfudores commonftrarum fit:fit enim fæ] or
penumeró, ut promotis per longum illom fo;] mnum füdoribus ex univerfo corpore, et ex
illeéd! ti /ode)e ves lomno inftanratà
naturà,& morbus fo]vatur, 8& nes
eger convalefcat : coenofcemus autem ex fienisdi i) * prafentibus bono ceffurum
hujufmodi fomnum] vornvwté $4. :, 4n
T /^ -. longum.fifine tertore fit, fi
lenis, fi denique il]: t lum / Ó
oil . y jum
non imitetur, qui in lethargo, comatosisve
affedibus paffim confpicitur : Videmus enim, aliquando excitatos zerotantes
hujufmodi,e- tiam Medicorum confilio,
impeditos in hujuf- -4r modi evacuatione
recidivam feciffe . Proptereà cauti
maximé in hac re Medici effe debent.
63. Inaére frigido admittendo in acutis, et 4er frigi- zftuantibus febribus,hec adhibeatur cautio:
Vt 4us acu? pro viribus frigidus quidem ær
ambiens in cu- febricitan biculum
admittatur, et procuretur, utomnino tibus quo et infpirari poffit, et interna vifcera
xftuantia, "ede ce» refrigerare, et
faciei oblectamentum boc affer- eedendus
re ; reliquo autem corpori ne nudo obveniat, omnino cavendum ; quin ne etiam nimis
tenui ftragulà;ac pervià operto:
circumverfante enim acre ambiente
frigido aut flatu, et calidus va- por,
exhalatiove,quz foras perfenfumeffugien . N
tem evacuationem promovebatur, ad interiora ^4? " repelletur, et pori cutis pervii
fcrtaffeadftrin- gentur, et internus
fervor adangebitur : immi- nuenda quidem in augmento, et mæis inftatu zn
v^ erunt cooperimenta, ut zftus ille
imminuaturz ewe per univerfim, et natura
inftavreturàtantola- ^ bore; at fenfim
id fiat,neque eó ufque, ut illa in-
commoda feqvi poffint. 64. Non
placet tamen eorum confüetudo, Nà zii:
qui quafi eeris vim inferentes, plàüs nimio coo- cooperien- pertos,& ftragalis obvolutos tenentfic et
tran- 4; fregu- fpirabile mæis corpus
reddere cenfentes poffe, ^ 4c? et füdores
prómovere : cüm alioqüi illud ni- f'^rieiran
mium effluxum fpirituum efficiat, et fübinde, '^*,, D 4 V)IeS eH) Viresimbecilles
reddat ; hoc autem violentiam naturz
inferat, et aut ctuidum humorem extra-
hat; aut qui per alias partes exitum fibi quate- bat ad cutim vi quádam ; naturá re pugnante
s attrahatur, xc ELA
LVDOVICI 4 PPTATITII.-. Baimaduerfi
ionum, et Cautionum Me- dicarum, diui
Eas comprehendens ; vorige A2
Qua ad Pbarmaceviscum negotium pertinent . e Ep
Vamvistáquam veriffima fit Hip- Medica pocratis fentéuia, 2.24pbor. $2.O7-
materia "ia [fecundum rationem
facienti. [i nom mutáda s [nccedat fecundum vatioriem,non e[f ^ tranfeundum ad aliud fiante eo, quod e principi o vifum ef? . Cavendum tamen, ne
diu- tius in eàdem materià medicá
infiftamis, potif- fimum fi in
alterantibus verfemuür ; fit enim fz-
penumeró,ut, dum longo temp« re eodem remé : gue Pm dio utimur,natura illi affueta ita illud in
alimen/Æxsa Área. tum vertat,ut
morbificam caufam evincerenon 7 valeat;potiffimum fi alexipharmacum fit;
pecu- harique qualitateagat. Immwutanda
ieitur crit materia prafidii, et quantitas
etiam ; quz adeó Certa przfcribi non
poteft : hac enim ratione et '| vii
cxiftimationi noftrz confülemus,& eegros obfe-qj quentes magis habebimus;ne tamen id frequen
|| ii tds fiat,ne ignorantiz notam per
inconftantiam || i fubeamus. Puean- 2. In
purgandis humoribus per medicamen- |.
dunagrg tum five [entens, fivefolvens ;ut multa funt à irte. Medico et animadvertenda;& przcavenda ; ita exptd't," huic
noftro Cautionum libro minimé inferen« q«o»do da,quód regule, et canonesilli
non nifi cautio- *45f? nesomnesfünt, quibus Medicum jam bene
in- £derit« fitutumfü pponimus : hé igítur in
immeníum (ec e A erctef. cat liber,
folüm cum Hippocrate ;z fræmen "
eile 4. t0 Ib.de medic-pareantibus,ilud admonebo,;4ebe- TT re AM edicum pre[cripturum phaymacum quod
far- frm» vel deorfira purgat, prits £m
'€YTOGAY€ y HHTA alias phavmacum
pureans bau[erit ; Cj num alvus ex pur
eatoris deor[im f actle fe fol'vat, ac cst oberug Parsvelporius dura fits hæc
enim erit cautio pur- € l "T : 4
AFEA CIAM 1 gatorla 1n metu hvpercatha 1COS, ut naturam /!| WU eoo, e. on epa 1 tí peculiarem cognofcat
eerotantis,cümnullisno- tis
idiofyncrafia cognofd poffit; quam fi cogno-7.
Ícere potuiffet Galenus, fe zqualem ZEfculapio cenfüiffer : adeó enim
aliqni faciles ad folutio- nem funt;ut
vel primo pharmacorum odore tre- .oa,, Pident, atque in fluxum folvantur ;
aliiita duri: alvo fünt, ut vix ullisremediis alvus refpódeat;^ fic enim ant mollioribus, et levioribus ;autvæ
lentioribus uti poterit. Purtame 3.
Atfinüquám pharmacorum alvtm fübs |. dum
inter ducentium ufumfe inüffe affirmet, rum demum exquiANIM.ADVERS. LIB. III.
f9exquirendum, num, dum fanus effet,officii me- 7?s4re o mor alvus füerit, pro conditione rerum affum-
ertet; 2» ptarum, et numà pleniore
cibofe in fluxum ef- !riea fit fundere
alvus foleat ; fic enim tutius zgrotanti pr
confüleré poterit Medicus. 4. In
lenientium medicamentorum ufü, cüm LexientiZ
videam Medicos adeó diffentientes,& in quan- «f ati- titate; et in hora exhibitionis,&
inintervalloab !5s:?ri» exhibitione ad
cibum,concedentibusaliquibus, 4?7mer-
puta, fucci caffiz ad minus unciam, tum et fe(- *91^?^ quiunciam, vel electuarii lenitivi, vel dia
pruni, per horamante cibum, et hunc
potiüs matuti- num, quàm vefpertünum, ut
fomnum fugiant, quem poft medicinas
imbecillas fngiendum;au- &oritate
magnorum virorum omnino probant, Je esce
vc] eà ratione, quód perfomnum et evaciatio-e Certo .| nes perfeceffum impediantur, et medicamen-
- tum naturz adeó familiare alimenti
naturam. fübeat;quod in Italis Medicis
Francifcus Valle- riola;2.Ezarrat. c.$.
maximé reprehendit: Nc- cantibus aliis;
aut hzc in principio morborum. effe
concedenda;aut fané admodum raró;in quo ;
numero Mercurialem noftrum effe video JEgo ww ^^ de hacreita cenfeo: Infebriumemnium,
&a- liorum quoque morborum
curatione,majori eX ;», (5,45 parte ab
initio lenientium ufüm convenire; et UA wav
excrementa;in ventriculo contenta, et in vicinis |.,. A 7... partibus, evacuentur, et ut commodiüs, fecu-.
riüsque incidentia, tenuantia ; et abflergentia,, auxilia in ufum duci poffint, fine periculo ;
nez crudi fucci ad intimiores partes
ducantur. 5. Quà NOS oe)
: " gras * mo lHh e urhe Kata VeTO quantitate ; diftantià à
cibo; et dt tempore ?. Sané nifi cautio
adhibeatur et diftindo, in errore
verfabimur : Aut erífmin» T bs. princpio
morbi ad. prefcriptum ufum exhiben-
dz,diffg. tU; ut progreffu morbi;ut alvus aliqua dejiciat éio. Andies,cum enemata, » quód aut renuuntur,
aut . leduntautnihil fübducunt;a aut
alia causa; in u- füni venire negueupr d
1$1 ob primm occafio- nem, et ad unciam,
et ad id fefquiunciam concedi zx. ;
debent, et a aliquanto tempore ante cibum ; et / potiüsmatutinum, quàm vefpertinum
tempus eligi debet, nifi aliter
acceffio febrilis perfua- deat.
Colligiturid ex Gal.2. Ze em facul. cap.
31. de moris, mox etiam de prunis agente, ubi alt : dl vups pruna movent,, Sinai f f
prandium gon ftatim. fed aliquamto poft
in* ervallo inchoetur, capo t[ola
comedantur ; hæc enim communia, omnium
laxantiumm przcepta meminiffe opor- Lax
Iet ; ut enim perfeinexiftentia excrementa fub- vunt edi qucant »fine cibo per fe concedi
debent;ne veró, tmc)en E ' cum naturz ea famil liari ia fint, 1n
aPRSCHÉ Ver- E d «t tantur, non multo
poft cibus eft 4llis concedén- d Dx 4t -
dus;ne veró fomnuminterrumpant,dum alvum
(s das p ád excretjionem movent.;c rd poft quatuor;aut fex horas fieri folet - po tis ante prarídium
erit Deb; . exhibendum. 1Q: [Quod fiad
ex xcrementa,que in. rsen jnteftinisa lagregaptur ex quotidiano cibo,füb- ducenda ex thibe atur, cüm ld fepius fit
oriítatt- we dum, multó min or copia
Mloru m erit conceden- da, puta, f (cmtu
[uncias antea deachnges dein facile folubili,
&e2 quidem. jim- mediate (WW dd 4
121] /Á, )1l eAVO (6: mediate ante cibum;vel cum ciboipfo;&
porius; cum cana,. quàm cum prandio:
ficenim cibüs : emolliens;&
lubricansredditur,& ferculum one Jtvculn
lud hquidum;aut ju fculum medicánmientofa m. UPC OBPINT induit qualitatem lubricantem ; et felectaà
nüs- turà parte nutriente, reliquum,
quod adanteftis: na transfunditur, et fxces
contentas emollit; et ^
tunicasinteftinorum lu bricat neque .cruduma: fübducit; quoniam ; cüm naturz ea
familianas fint; illa non averfatur, aut
cum crudis expellit; fec d co ncoctione
faétà, quod familiar '€ ma91s at
aahit,reliquum.cum ex 'crementitià parte ádin- teftina pellit; quod cum non fiat ; nifi
celebratà : coctione ; poft fo mnum
folet fiéri : et vut millies p Jy OMA
e2o ex pertus fum, et nof ftrates Mc dici meoe exg« "2 Ja 1o cognoverunt ; hoc modo au t famiuncià ;
aut ctia un duabus dr achmis
fierenumeró 1pajor ex- dg tetas
crementorum copia educitur, quàm cüm uncias ' &e etiam fcfquiuncia per horam;ut moris
eft5ane te prandium exhibetur : fomnus
potius adjuvat: coctionem illam ; et lubricitatem
; quàm impe» diat. Neqtie interrumpitur, quia
quantitate» à tardius agit,& non
nifi poft cocticnem . Auctos - A ritas illius fententiz-& VaHeriolà
adducz ; aut. 2^* de primo modo
exhibendi ea intellivitur ; vel v m
potius deveré purgantibus debilibus; de PME alis. G. :Ab affumpto autem medicamento: veré
1 viec d * purgante;an fomnus co ncedendusamrerandüf-
ZU AN z 91272 '4 vefit ala eft ratio ; neque unà refponfic né
po«^ 4072 b] e? eftíausfien ; aliterepim eft agenduniin
medime quands. CoIento ; utenchitt «améto lévi;aliter in valido:alia
eft ratio, fi me« dicamentum fimplex
fitmedicamentum, alia ft venenofi infe
quippiam contineat, ut hellebo- rus,
Colocynthis videntur : neq; idem imperan-
dum.fi liquida exhibeantur;autin boli formam mollioris, àutfclida concedantur, quales
funt : pilulesfiex ex blandioribus
fuerint, et 1n formá li- quidà, vix eft
füperdormiendum, nifi ventricu-
lusadmodum imbecillis fuerit;fi bolt molliores fuerint, et medicina fatis potens ; aliquádiu
fu- - él mela perdormire licet,
potiffimum fi naufeabundus emi 9 fit eær,aut
debili ftomacho;fic enim faciliüs ad
potnded actum ducuntur, et non evomuntur. |A pilulis " £^ * optimum eft dormire, et longiori
tempore, ut PIS etus colliquatz, ad
adtámque deduciz, facilé sol i - D PUS
fuum exferere poffint . A
valentiffimis au- E tem medicamentis
affumptisjin « quibus virulen- ti: nonnihil
ineft nullo modo dormiendum. ceníeo,
nevirusad principes partes, et potiffi-
mümad cor per fomnum means, qut ad cerebrü vapores transfufi nóxas pariant
in&mendabiles . yin m Malé iis
confülitur, quibus ab affumpto
-aMfumpto, pharmaco,;ne vomitus fuperveniat,calidi panni 2e / 07A 7v M
reet n - p 34A / 7" zeli cs hoc autem et calorem naturalem à
loco avocat, lida sop G fa penumeró
flatus excitando ex materià inis
fentappli ventriculo contentá naufeam promover. Gulz canda. igitur, et ecfophago potiüs frigida fatim sdmovcri
debent;ventriculo autem non r.ifi cüm dif-
ficulterad actum deduci peteft, aut dolor à fia- ^ £u congula y ant àut gule,aut regioni
ventriculi applicantur ; il-. y.gioni yg
10d enim potius vomitum trahendo conciliat. Concitatur, calida applicenuir.
Cavendum autem femper;ne calor
excedat,revocatur enim -.| potiàs fic
natura ab opere. 8$. Cüm Hippocratem
viderint aliqui ab ex! J| hibito helleboro, aliove medicamento validio- rl,cremorem
horde! exhibuiffe, E reliquie,fi ul quc
adh xererent medicamenti eefophago, fupe- ricribusq; ventriculi partibus,fü bh
erentur,aftüsq; ex medicamenti vi in ventre productus 'reprimerentur ; poft quodcumque
medicamen- !tumaffumptum poft tres horas,
fiveevaciare, jam ceeperit;five nullus
adhuc motus fiat;jufcu- lum pulli
propinant; adjuvari fic cenfentes opus
medicamenti. Quod omnino
cavendum ceníeo: ficenim medicamenti
vis hebetatur, aut preter rationem actio
medicamenti confunditur. Ino ^2e44- aod un
fine fané evacuaticnis fiquis id pr rxftiterit, opa- me illi confulttim cenfeo;nam et fiti
ccnfülitut, 5, -. et reliquie medicamenti, aut
humorum fübdu- cuntur, ehuitur
ventriculus ; atque vires aliquo modo
inftaurantur. 9. Purgante medicaméto
dato, fi fpatio qua- tuor,aut quinque
horarum non dejecerint egri, nec
bene;nec tutó clyfima 1njici poteft; quod paf-
fim à Practicis fieri video; nam diftentis intefti- nis pharmaco, ac ruentibus füccis ;aditu
prohi- betur remedium; ;fepéque deorfum
pellente na turà, et furfum propellente
clyfinate, pugnà ex- ortà,dolores
concitantur maximi, et aliquando volvulus.promovetur.
Glandem ieitur prafü- terit ex melle
impofüiffe cum fcmidrachmá fà- lis, Pbhartna-
€0 nj pto . son femper in-
fco p tres Loret exbsbéda.
HH eth . Mu 8U.A. oí " €
tædia. PLarz;-- co no €?
CHante s, chos 20 " dé sm,
Jw Qo df. Cun m o $2 C^fA64 lis, fellis bubuli ; et fucci
cyclaminis ; aut cum pülvere
trochif&orunvalhandal, fed cum filo . Quód fi clyfma indatur;fit acre quidem; fed fex«.
|... folüm unciarum. Praftattemen id
promovere. |; cum hauftu octo;aut decem
unciarum juris pul-: |.., Ii;addito
faccharorubro ad:dvas uncias; aut un^ |i.
ciàaddità mannz; aut fefquiuncià . :
Vomitus ^. 10. EO ufque mollicies noftra pervenit; ut: quet-NOmitivorum
ufus feré exoleverit,ut vel eam ef^ 1
plex, q'ii- fe caufam etiam credam ; ut raro rebelles morbi j.. £4; » C A nobis evincantur;ne tamen id
fineanimadver- . |. 4775? fione
relinquam ; animadvertendum ; cümdu- j.
V^ uley fit vomitus, arte procuratus,
Vniverfalis u-, sese Dus; quototius corporis conipages, fi quid malt" concepetit;evacuatur pervomitum :
Particula- ex eactrisalter;quo
ventriculus autà collectis per fe» .
excrémentis infe,autab affufis aliunde ;inani-
tur... In primoillo exercendo;cavendám ómni- no effc hyemem dicebat Hipp. 4.
Z4pbor.6.quod. «c cim czaffi humcres tunc exuberent ; et viz non. fintaperte ; corporisque compages denfior fit
; juàm ut locum humoribus attractis
concedat, difficillimanireddunteam
actionem;fecüs eft,fa. J. vacuare humores per fein
ventriculo ratos ten--. taveris : frequentius enim id przftare debemus |.
^ . hyeme; auctore Hipp. /ib. de [alubr?
Dietas quo- p). " mani inquitjboc
tempus ad pituitam f ecundins eft; V7 et
quamviseo tempore ventres ftatuantur cali. |.
dicres;r.2fpbor. 15. quoniam taroen pituite me-.| tropolis ecerebrem, ob aéris frigiditatem
1naXi- || iné pituita abundat; unde
defluxus illius ad pe- || ER Kus» bs
7 - 11 étuss et ventriculum ; ideó vomitus hyeme
ma- 21s conveniunt blandis iis
avxiliisqua naufeam promovendo partem
illam folam poffunt eva- cuare;ut docet
Ga ld. $. denfupart. cap.a.Atfi he- pate
fe exonerante, bilis recipi turin ventricu-
loquod ex amarore lineuz, et aliis confpicitur, quovisid anni tempore ex eniat, evomi
poteft; licet frequentius id eveniat
xftate . 11. Numquam tabidi;,aut in
tabem propenfi Vemitz: cvomant,fi fieri
p offit, fed per infer DONC cag tabidis i-
tur, ob graviorum fvmptomatum metum. nimtcus. 12. Cavendus itidem eft« vomitus,quibus ca-
; 11 E re eren m put c tolet; nifi ex recrementis in ventre
collectis quibus no id fiat;a ut quos
interna ph leo: 'neobfi idet;aut COWUeIT .
qui laborant moleftà aliqu à ham )ptoii 1, aut O- culorum morbis ; lipothy miz,aututerinz affeCüoni
expofitis etam 1ncommoda eft vomitio,;
ut et 1is,qui fracto;nau ife tiri ndoque funt ftoma cho, et denique cob ptis, et morboexhau- füus.
Q 13. Eoufque progreffa eft
hominum tnolli- P2area- ties,rt etiam in
medicir is pureantibus affumen : ca vefrige
disvoluptatem qu£&rant, dum illas frigidas a- '4t4» vet ctu; quin etiam.fi Deo p ;lacet;glacie
refrigeratas tlaciata n expetant,.X fzpé
ab adulantibus Medicis con- "Je c?
cedantur, non animadvertentibus, et multum NS L de naturá proprià per: glaciem corrumpi
i,igne: as partes, in quibus maximé
purcandi vis ine extingui, difficillime
ad actum deduci, dolos res fa epe
excitari, tum ex frieiditate; cum diminu
actione medicamenti;& fe penumceró adl j: L h uinc- humores in ventre
cexiftentes,.dum adhuc denfat
magis,contumaces etiam nimium reddit,unde.» repugnamus actioni medicamenti ; indéq;
tor-: mina,& inteftinorum dolores .
Phawnz- 14: Cüm noftris his temporibus,quibus Chy eor vali. micis, et Hermeticez Medicine locus
fepé datus dorum p eftillud inoleverit,
ut extracta virtutum medi- vinum,
camentorum perinfufionem in vino;aut in aqua
aut. AqHÀ. Nitze fere fiant nifi diligens cautio adhibeatur, U/'4 eX" errores fequentur
inemendabiles: ut enim con- MK cedi
hocutique poteft in medicamentis blandis,
lofa- et placidis;ut Senà,Ágarico,& fimilibus;ut etià in fimpliciter alterantibus ad calidum:ita 1n
venenofis,& fortibus non femper eft tutum,;ut it Colocvnthide, Turpetho; Cataputià, et fimili--] »" L L] . M bus;vis enim virulenta altius permeat,;&
cordis] palpitationes producit;aut fi
virulentia non in- fit; fed
mediantibusieneis partibus vehementiam habeat, adeó medio harum mæpnus
vi-] gor illisadditur, ut
füperpurgationcs, aut fané dyfenterias efficiant ; fitísque tanta exci-4 tetur ; ut difficillimum fit huic fymptomati
oc-4 currére. nLabarha 2000s Quinimó,
vel ob hancipfam caufam aliá info qua funt etiam blanda medicamenrta,qua
quód * . » vino ex igneis maximé partibus
conftent;ut R habarba- Eris k Y^ 2 llc i
- bibita fe-. Yum, fiinfufione facta 1n
vino concedantur, fe. ; : »WE- "
bres exci- bres fepenumeró inducunt non parüm a ftuán t4t tes: irrorari udque antequàm Infundatur
R hat... barbarum debet,ut ignez partes terreftribu] multis admixtz quodammodo ad
füperticien trahana ie Re i P QA í trahantur ; atinfufioin vino facta
nullo modo laudari à me poreft . 16. In. componendis formulis medicamen-
Pjarma- torum diligenter animadvertat
Medicus, ne ea «4 d mi« miíceat,quz
multüm tempore differant in ope- frétur, fint
ratione ede *ndà, i ta ut unum ex iis fit, quz non, (* 75 2"4 nifi longo pófttempore et humores peculiares
42^" fé OCC WIOSS: Pp re agite et attrahunt,& fübducu nt; ahud ex uis;
quie ve- locifiimé eadem praftant,ut fi
quis electuarium ex ficco rofarum cü
pilulis maftichinis mifceat: quoc d enim
citó vires fuas exferit,i jinteerum füb--
ducet medicamenti im tardius ad æendum, aut dum vix 1d humo res peculiares ag 'creffum
erit at bali iere,sicqi ic imperfecte
rem idrieb Unt actic- nes
medicamentorum, et tormina in inteftinis 5
ac dolores exorientur., 17. In
pilulis concedendis, et fecundum ma- Pilula
Inem,aut parvitatem efforn andis, ma- quando " da eft cautio : fi enim à capite, aut
»magza,et longinq s partibus attrahere
deb ent,craffiores qwando mao páttyd ine
formari debent, ut diutiüs in ven- ^orve con
triculo firmatz;& valentiüs $, et mæis à lo nein- ortén Otis attrahere poffint : atfi ad excrementa
fo- /!!If« pre lüm, qua füntin
ventriculo, e XC utienda voten. CAPMems
7 7s din Lorej, pro tur,ur
folemus de pil.alt ph anginis,«& aloe face- sdiadeula rc, minutulz femper effe debent ; utnon
diuibi. hare ant, fed qui àm primüm
abftereant ; fic ad iium cicermm
magnitud Inem eas pilulas exh ?221720Y
€ $a bemus; quamvis ex aloe lotà
cenfeéke pilla a- liquanto craffiuftule
concedi poflint, qu3m 1c ex non
iota:cim erumrcbvr vosti2 Ra ; i p. lil
Pilula va ld:fima f 7/774 WO
fmit. ma£4 Ciyfieves p £7 29 211
Js no f '£ [24 HY»
HH Í indaut 5 yfeeres
? pragna ^ 2207 excedant «
Clyfteres, por . laborant bus
ventb. [;2t parva 8
ille foleant;aliqua mdiu etiá plàs reuneri debét. In validis veró
pilulis concedendis,nimis magnz fünt
vità ande: cüm enim non nifi longo
tempore evincit à calore noftro poffint, atque» colli iquari; diutiüsibifirma tur; unde
nimis macna fzpé fitat tractio humorum, unde et fuper- purgatio.
19. Dealoes frequ entiori afu, deillius affu- inendi cenfuetu dineà con 3»de ejufdem
quan- titate maximé varià, ac de ejufdem
i in (cbtibus ufu,cautiones pluresaut
hic,autin aptiorem lo- cum erunt ad
dendz,defcribende eodem ordine quo fu
perius (criptz funt. :o. Declyfteribus
hz fint cautione s Ima, in eravidis non
mu Itàm frequens fit clyfterum ufüs:
fi Veana ge e e fint, progref fi teitifo:
ris per communicationem partes uteri, et adja- entes nimiüm la bande hinezid'in ferna
reple- tus uterus prol abitur; fi
acriores veró fuerint. et fetu noXxas
afferant magni momenti,& ex pref-
(ii, quem in ducunt, prolapfum excitabt partis, et fxpenumeró 1 cmorrhoidas maximé mole- ftas producunt " 21. Ingravidis ?randiori feetu
clyfterisnon multa fit quantitas,
preterquàm enim quód có- primit foetum,
flatim quafi etiam comprimente feetu
repellitur. Renibus calculo ; vel
infífammatio nela$55 PD LI, borantib
us, parve itidem fint quantitatis,ne repletis nimiàmiinteft inis compt imendo
dolorem adausgeant, In
prepingvibus non multüm calentes r, pay
pesada folent enim inteftina habere fenfi ma- guibns, e ximé prædita ;ita ut ab injectione quafi
fübitó ;zzefhinis expellantur fine
utilitate : hoc veró 1n omnibus subi fea
obfervetur, qui exquifiti fensüs habét inteftina. fusselyite- 24. In quibus flatibus maximé inteftinatur-
7*5 7enim ent,qui enema injicit, blandé
admodumidfa- ^4"'w m neque cum
impetu propellat ; inangvfta e- quens
' calentes e nim loca pro pulfi
venti niln n mdiftendunt par Initcflinis
2 eS, atque einde dolores Ízpenu
meró v ehem Cn- turgetib? tiflimi et excitantur.
flatib. cly 25$. lantumdem damni iis
evenit; qui et plus 62; LZ n1mio duratas
feces in inteftinis habent,quíaue 42 inácié
inteftipna iis nimium repleta habent; pavlatisns di. enim em ollise illas dcbent;atque mibdsacti
qua- Clyfferes titatc indita, et blandé
admodum. violenter. 216 Ch 3 res,quos
ex malvà, alrhzà,mercue 79? s: riali,
violarià, betà, et fimilibus decoctis parant ciédi que Dhn: I TN DS OUS ffinis fece patiim Ll'harmacopcla quos Ccmmunes appel$
al. ai. vcpletis « lant, vel- hac telis
ne femper fü n ectos habui, "prs,
Bey iz. quod decoctum 1llud p: v-
tum diu tius Confer- (25,55 ven i Gc
quamvis cleo diutiüis fervare incorru- incommq- hujufmodi decocta
rrofiteantur,fi tameno da. affim« cl
ervaveris,putridas& malé olentia ef-
fc coencfces : quo nidore fxpenumeró uterus in mu heribus commoveri flet, in aliis dolor
capi- tis excitatur. Qvare pra ftarct
mulsà bene mel- lita; et cleoid pra
ftare ; aut ex urinà cum melle
defpvmato.& o leo e dem praparare, aut fané recens fcmper decoctum 1l lud parare. 27.. Magis veró iidem cavendi erunt, fi addle
4Jisd go Ea tà un 70 LVD. SEPT ALII MEDIOL. eumdem, tà uncià caffiz fiftulz, quam
vocant, aut diacaí- incomto- (iz; pro
clyfteribus parentur : eam enim paffim»
dum. |." parari fcio ex recrementis caffiz abiutis face a- liorum medicamentorum exoóletorum, et fyru- pis jam corruptis loco mellis, aut
facchari;ut fe- é et magnos dolores
inteftinorum inducant; inalvo folvendà
nihil proficiant . Clyferes. 28. Quantitas
enematum major fit in mulie- pro mlit-
yibus. Oribaf.8.Colle&f.cap.24.funt
enim ventri- ti^45 44À. cof v meis,&
ventre capaciori;ut cüm uterum. Htate T^
ferrentminüs premerentur . af 19.
Salemrecentiores femperadjungunt, et $al
clyffe- a a [ .O v ribu: 45; f quis
11lum omiferit, tamquam fi piaculum»
indédum . Conuififfet; derident,fed prater ufum antiquo- yum,& rationem: quoniam illo addito non
d1u- tiüs detinetur; cüm etiam per
noctem integram. aliquando probé
detineri fcribat Ætius 7 er. 2. fer-1.cap. 129..., Clyfferi-30 In puerorum clyfinatibus olei
ufüs intet- bus puérá- dicatur, et ejus
loco butyrum füccedat ; ne ver- "i
ole nó mes;fi qui funt;(urfum ferantur:sícque Sebeften indatur. juri,autferoincocti maximé erunt ex
ufü ; ex Paulo //b. 4. cap. 53- Clyftere ;1. Vt ante vene fe&ionem
optimum aliqua- in indéd^ do eftalvum
clyftere evacuare, neinanitz vene
jid /*- crudamillam, et feculentam
materiam ad fe» P072 V 7 vci bant : ita
non placet ftatim fere ab injecto iln4) QU& 6b f: er VAMA . lo venam fecare: praterquàm enim quod et fri- gore tentantur aliqui ex furrectione; et aliis
de- liquia animi füperveniunt ; fit
etiam fzepiüs, ut naturá adminiculante,
noa femel tantum, fed bis, ter,& quater,& fiepiüs dejicerefoleant:
un- de aut in ipfo: fedtionis actu alvus
perturbatur ; aut edam artifex in ipfo
dejectionis actu, ne» tempus conterat,
ob lucrum vena fecticnem. exercet. 32. Cüm morbus caufe implicetur ; cave; ne
Morbs morbo evincendo infiftas causá
poftpofità ; fi e- caw/e com nim illud
primó tentaveris,quamvis interdum. ?!tato,
mitior reddatur morbus;manente tainen caus, ^^^ vm aut non evincetur integre, aut fané
renafcetur fe T proximé majori cum
periculo. biens 33. Incaufisremovendis,
externa priüstol- Cawfi; latur, fecundó
antecedens; tertió continens : fi- "mitis bra quidem cüm alia ex alià nafcatur.nifi in iis
evin- tibus, cendisis ordo fervetur,
fruftra quod primó ex- € ie petitur, fed
poftremó intendimus, nempe mor- ^ ' itd
bum füperare;obtinere tentabimvs . aL dai- eon 14. In comnliran diete endis ;4/
ferv&dnis 34. in compiiceus morbis
removendis,fiita ^, difiideant, ut
variæfedes occupent, nec unius,,,;. 5.
curatio alterius curarioni officiat, fimul curari, plicatis et eodem tempore poterunt, atit etiam diverfo,
morbis y neque multum refert,ab utro
curationem exor- quomodo diaris.
procedens 3$. Siveró unius curatio
alteri incommodü 4v. afleratrmaximé erit
cavendum, ne dum vni ftu demus affecti,
alterum exacerbemus ; SOUUNU. "rt merece
att e15qui mæis ureet,miaximé infiftemus;alte- ?"!r25 - CDM AF $i " quomodo ro nén neglecto; autfàné (quod potiffimum ob-
ELE fervabitur,ubi zqué vrecant) otique
mediocri-,,, tate quàdam, et contratiorum
permixtione erit fuccurrendum. A
E 4 36. In rra 2&. : ; 31^ Rd Y "osi 3» multis. 36. In decernendá remediorum copià
he fint ji remediis animadverfiones ..
Prima 1n levictribusmmorbis jiu gio
proct- par fit remedium, ac (emel, universimque mor- :| é^ dendum - lumfübmovens; cüm enini leve üt ;
nullam na 115 ture viminferet. 2 nu Extrebis |. 37, Atincxtremis,&
periculofis morbis lineal morbis [^
eunte morbo przftat valentiffimum aádhiberea 55i 2 7, remedium ; quia cim mortis immineat
pericu-i: yep lum;nifi univerfim remedio
evincatur, præt pesi? rendum. CC in
mortem agemus . Hinc extremis morbis: ni
extrema remedia adhibenda ; confülebat Ferdi Mobi Ppocrates. auediotri- 39 Quod fi tnediocres
fuerint.fenfim,& blà-4ic bus las» dé
melius depellentur; niillam enim fic contxa- ga
d? occuy- rie qualitas noxam corporiinurent. INec ta-4 rendum.
ynenádeó lentz eorum remediorum vires effe nte debent; ut illas morbus non fentiat; exafperatulfo
ixi enim fiepé morbus ; et acerbior fit;
cüm morbüs €4lid; fo- talia remedia
facile füperet . ius nólon 0:39. Tn fovendis externé partibus, üt incaleej
n go tépore lcant; prudenter fe cerat
Medicus, ne diucius 1r i» ufum
utatur;fcripfit enim Hippocrates: Calidüsfi quii ducendi. diu,multimq; eo utatur,zgris damnum
auget carnis effoeminationem
invehit,laxatis. carnium] fibris,
diffipatoque proprio carnium pabulo; 54
indu&to humore excrementitio;unde etiam nerun voróm fequitur infirmitas ; nà eorum robur
in.Ji mediocri confiftit ficcitate .
Cerebri quoque affi, fert ftuporem,nam
fensás,motüs,cmpiümque- Jio; cerebri
a&Hionum quafi refolutioné pari et hæ
morrhagias concitat,laxatis venis;& fanguine Jh. | fufos wj ma
itf fufo; et lipothymias; diffipatis Ro paient) &reil folutis
membranis, qua mots 1pfa excipit. 40.
At veró nec multim f rigidis diu utatur ;
i| nam frigidum;ide manquit E Hippocrates, fi quis incófideraté €o utitur, fpaífmos et r19i res
affert; nam exitu omnia corporis
inquinamenta prohi- 1l ven et ofhibus;ac
cerebro bellum indicit. Ad prohibendum
faneuinis flixum ubi- i] que osos
frigida; nifiin pectore fue- sl zit
malum: fümmé enim frigida pectori fünt
inimica; etenim fanguinis, et fpirituum vias in- tercipiuntjlp fiüfque thoracis naturan n,que
carulaginea eft, labefad ant ; quod multo calore ^ atad v Ita m fo )venca lam ^
42 In yehem 1enti sok ^: vel ex multà copià t C aig CCurrat;cavet dotspnerni ident
O- ij rusutamvur;fed noni mihl.
eorum,que diícutiünt, eritadmifcendum :
quz enim adf'rinsendo re- 4 pellunt, cum
tunicas ficcando exafperent,majo- d rem
inferunt dolorem, hinc potius influxum.
j| augentsquz v« TO ÍO là refrigeratio ine id przeftat, 4d. ut: aqua f
r1i?1da,nix,2lacies,narcotica,cüm ma- ]
teriam nimis craffefacia nt ; Mb conden-
M. fent;etfi dolorem minuant, curati. tamen diffi- ] ciema fec i Im reddunt 43« INarcouica qua í J| ne temere in ufum ducantur s fed non s in
ve- I hementiffimis doloribus,vbivires
concidunt;ut 4i cetfantibus doloribus
robur recollieant. Adi la Eori$ vero
Medici erit auc auram momo 1 ^ 7815/15 tu poret
Coma En CERT T) cn diia MN NEQUE T m
Exterois f igid; $ di nom
utendum. AÀ (angus eb ios
ns fiuxf frigidi. 0b1124
praterqua i2 thorace. Solis rgpel
leztibus in printr- pio quado
A a, 7 0n fii£fie€ Je
£144]73 9 Narcoti- ca nntm-
quam sp- plicanda fiétuvis ca
ptis - IN arcot: cea mnum-
quam in- 1Ya Are. Narcott-
ea num- quam in pueris
Natura quo ver- git, 0 du- cere opor- i5 quo-
apado :inzellicedzt. &» ;4 . captántis ; ca in levibus doloribus in
ufum du- cere. 44 Numquam commiffurz cot 'onali, utin cxteris fit; ap plicentur in vehementibus capitis affectibus.fed temporibus; et fronu. 45* Numquam in aurium doloribus intra auris meatum;furditatem enim fepe concitant
; quidquid R hafis contrà fentiat. 46. In pueris narcoticorum ufus omnis
füfpe étus:fi enim intüs fümantur, cüm
aneuftis venis Bi 4
adhuc conftent; quafi ftrangulantur; extrinfecüs: lits .autemad fomnum conciliandum fi admovean--lj een reliquam vitam me morie multam
Jactu--bo: im faciunt. 747. In quácumque evacuatione moliendà à Medicojfive non Operante naturafiv e
imperfe--p« &e agente, qu :amvis et quó
maximé natura tüil s» partis,tum humoris
verei it, có ducere oporteat, per loca
c »nvenientia, id eft poffunt;& à
naturà etiamyf tentione fünt inftituta,
q aut inflammatione;aut alio morbo. Vnde Gal.
1. 4d Glauc. cap. 11. dicit
teftina laborent vel vulnere,vel infiamma non effe evacuandum per illa Joca. Tum etiam; fi vicinus locus ille perfe conveniens parti
ali- cui laboranti fuerit ; per : fi ventriculus, velin-p tione;
»per quz evacuartiflor tem
fecundarià inc-e oni eft ventriculus
;,d0/ vefica, inteftina : Cautio tamen
adhibenda eft dii quia fepe evenit; qua
per fe fnnt convententia 5, ex accidenti
talia non effe; ut fi hecloca laborét:
eciJe. accidens non erit con--P veniens;ut quamvis thorax, et pulmones ad
ex-4i cipie cnP € c
" ww 3 EE " WA. M reu im. iC s Pv lll /
Kipiendam materiamà cerebro transfufam apti! Ifimi fint, aborante cerebro non eft per eam
viam "JEvacuandum;quia tracheg
arteria, quz pulmo- '^ Ini juncta ef;
cerebro maxímo eft proxima; et fic
Ipericulum effet, ne ad pulmones irruéret, ut te- "^ Mtatur Gal. 2.27 6. Epid. 52. ( 49. Quamvis, que ab Hippocrate Medicin? cj»; jparente r.24phor. 22.propofita
eftfentétia:Coz- -edicari "I:rotfa
medicarz oportet, C" cruda non savere, nifi. opatercs, Ipsateria rurgeat.qua alioqui raro
turget;hujufmo- c eruda iii fit, ut
maxima curandorum morborum fatio 79» move
"i lieà nitatur,ut felicitatem, quà in curandis eeris Vogt? '"Jper quadraginta feré annos fruot;in
obfervatio- siu A inem hujüfce canonis
maximé referre foleam.; dnd. [quoniam
tamen unicam hanc exceptionem ad- (æe
"I Mgecit, mft materia turgeat. tunc enim cruda funt
eorlatieii- i ipurganda;cum alioqui et in
plevritide HIpp.2. troverft "acu.
11. 6c in anginasa. acut. 30. et cüm lotiutmo conciliati "Wicraflum eft, et nebulofüm, 4. zcwr.
43. quod im- perfectæ coCtionis fignum conftituit Galen. t.de » [iC rif. 17.& in quintá die, fi venter
murmuraveJitit; Hipp. 4- 4€Hf. 64. et in quartà in plevritide, (quz eft principium, 4. 2c. 76. medicamento
yiflufus fit pureante: ut et Gal. 1. Ze differenti: feb. "i ja-in febribus peftilentibus ; ($* 1.
de compof. td. lier loca cap. 2.
S.curans alopeciam; c 2. eju[- wilden,
cap. de curatione doloris capitzs, (9 4. Metb.
omlemed. c. 4.1n ulcere;fuperveniente eryfipelate; c qh1. Meth. 9. quod ita puttidum eft, ut
Corriei «Ainequeat;ab initio
evacuandum;(£ c. 22. in óph- Wkhalmiàa;
et linguz inflammatione, ftatimi nitio
41 c firm t4 ÀA1ULA lo
6 LFKD. SEPT ALII MEDIOL. fluxüs medicamentis purgantibus ab 1niti0
s. quod eft; ac dicere; crudà
exiftente materia, ufn funt;in quibus
certum eft,non turgere materia 3;
E bo ;
] 33 et forté
eà ratione, quód praftet aliquid. cum.
periculo experiri ; quàm a grum defütutum re-4 mediis fineremori. Vndetamquam in falo
ha-4., rent Medici,cüm confirmari
fententiam 111a mo «4... 232. 1. Sel.
videant, 1. Zdpbor. 24. 4- zpbor.Con;
1o. 4. ACutt. 22. 2. Prorrbet. $8. 3. de diebus decret o. Iib. Quos, C quando purgare oportet stum
fine, pen), longum proceffumm. quomodo
in hoc negouo om: nium, quazad faciendam
medianam faciunt maximi momenti, fe
gerere debeant ; dubii hæ: rent ;.&
quid pro conciliandis contrariis iis fen
tentiis dicendum fit,dubitant. Ánigitur cum. antiquis Patribus evacuatione diftinctà1n
era epe dicativam, quam in crudà materia
numquamy convenire;&
minorativam,quam convenire afí&
ferunt, fatisfaciendum erit? minime; quód unn ecríalis fit reaula cum unà f0là
exceptione; e 4 ACHE. 22. dicit
univerfaliter,non convenire, qui cruda
non cedunt ; at minüs cedent minoratiyl
debilioribus. Nec raró in acutis in principl uteremur medicamentis purgantibus.Et
ratio Gal.in Com. 22. tradita ; quód.
non fit in crudi tate feparatum bonum à
malo, in minorantibu locum hàbet.. An
potiüs canonem intelligemt lo
ewvacnatione 13145 fat C112 41 ert'à ET x "ep «c 28 de evacuatione,qua fit curandi eratià? et præf vationis eratià cruda ab 1nitlo evacuare
poter mus? AtHipp. 4. acut. 22. reprehendenti
Meq dicos cruda ab initio. evacuare
tentantes ob u fiamba f !
Euh 77
lamma itione;refponderemus;excufàti p Te eos, Iiceremufq l1e;1d ili )s ME IP d pra cautionis erati preftitiffe non € à. At nec placétiiqui cüm ivacuationem aliam conftituant
evacuativam 3 1^ tationis,
Iblum;aliam revulfivam:1 PEE IV ànumquam
Iruda in 1! » rincipio etit evacuanda ;in evacuati- à fimplic ialiqi ando pofk dif erunt
;cumin Mevritide;in anegirà, et aliis
inflammaticnibu [$5 Llamus eo tempore revvlfionis eratiàfieri
eas 4 IVacuat iones. Pratereà,incommoda, quz
fe- qu fcribit Galenusad crudorum
evacuationem, "I^ Ts iRAdlfi æm In
evacuation ;VvCta fünt; lotiffimuüm
cumabfolute, et fimpliciter reeula 'to, nifi t urgeat, BI LL ciim dus A bobo £02 3 bDiubppocrare ponatur. Minus r« ecipi
endi,qui ki À A Vacuatione cruaa materla ]
Ippecratemire]cere centent ». 2Z2pbor. 23. alibi IT M camdem concedere,frà parte folum
áliquà ia TT . " 213^ * f5 /5(« I T o: f C PN ' d'a Mat: Quoniam rationes Galeni non folüm 1n to-,
; TET UT j^w* I PP LEN. X. X mer Ik IT
conv eniunt,;fed et in partiali1. LUA.2CHT. 2.2, . leat m5
u'atione ioquit L5 KCuUa c AITCG fit,
i t11, ? f 4 Lf 1 Cieccw n * 1 CIICCLLI CIutcoo1 Cal 5 I. non ad totum evacvuandüum; fed ad n27teva
ef non ad ictl1 L- uandtiun;iéeaa«d
partem ei- 1LP DS ] iuin eit.( jDCCctandaarm cvoraumm. vec dicenc Y;
DCctlonem ordinata C Lal üuratione ; coacta veT OW WM a 7
€ )primatur zeer,cruda poffe
evacuari,ut E. - "* PTWORTAWN P7
2888 C5 on nid I1quibus vifum eft . Nam coactam effe tureen Scruda matel Lr paries pd ivo ; d
s] A" là 4Hh^ lam in 22.
Zdpbor. excepit, ni mini on d A Pm c E
Jeperaddic. Minus etiam dic potefi
n liis numquam licere cruda
evacuare, ififerte tureeat materia ; 1n morbis autem fine febre ss f cruda poffe evacuari;quod aliis vifum eft .
Con--fni vincit enim eos Hippocratis
auctoritas, 2. zcst« pi 11.qui in
plevritide morbo cum febre, five cur-- putt
centiàà principio purgat. Vt igitur jam tandemnafam. in difficillimà hac controverfià;quid
aciendunmfan fit,eruamus,non pigebit
longiori uti oratione nsn &k preter
inftitutum cautionum píacticarumnpui t
tradendarum;cüm res hzc bafis feré fit curatio-4oni num omnium, in quà tamen omnes feré aberrà-4ul runt. In primis igitur memoria repetendum efti
cruda, et co&a in duplici effe differenti ; aliat enim cruda dicuntur; qua coctione mutatà
in. 4liti fubftantiam verti poffunt;alia
veró non ves ré cruda, aut veré coqui
dicimus, fed per fimilupi idinem;nam
licet nutrire cocta nequeant ; tod
melicrem tamen conditionem ducuntur . De. Bd duplici hac co&ione, et cruditate etiam
prime locutus eft Ariftoteles 4. /eteor.
ubi non folürig cibum, chylum, et fanguinem,
cruda,& cocta; aprellavit fed et lotium,
et excrementa ; vt T Hipp. 2. 4cut. 44.
ubi bilem crudam appellat hio et Gal.
lib. Quos ' quando rc. C lib.de
conjMy art. med. 16. Diftinguuntur autem
hzc, quefhi, qua concoquuntur propric ut
nutrianteamde-fi, qualitatem, et fübftantiam
nutritze partis fufcdfug., piunt;quaz
veró improprie, et per fimilitudinenps.
cruda. cencoqui dicuntur, non. fufcipiunt ais qualitatem, aut fubftantiam, fed fufci piunt
tail cüm quádam fimilitudinem caloris
concoqueqe, tis:znam chvlus albus fit in
bepate ruber, et faclo. culs feuis ruber albas partes nutriens fit albus.
Tn. iM brudo veró cocto, cüm putridum
effet, non fit 4muratio fecundum
fibftandiam, fed in qualità- "Jte;
ut faneuis putridus cru dus dicitur, pér co-
j ctio nem albefcit in prs. Hinc Galenus varié
illvariis modis coclionem d efinivit. 2. enim de 5 aparurel. facul. cep. 4. Concotlio; inquit ;
eff alre- patio, C mutatio epus; quod
putvit 2 [rli dier egus quod zutriir :
Quom ctiam recepit Hs. de fTrzpt. caufis
y Cap. 3. Aiverfam tamen ab Ihac p fiiit
aliam 2.77 1. £ pid. cap. 46. cüm di-
jJlcit ; C ocf10 eff viltoria inbsds leden: 25$. Et 2225 uuedrte zzed. 89. inquit,Cozcoé lio eft -qua
finit purre- edulzzesz, manente [. «bf
antia.Ter primam enim il- dam ver a
coctio definitur ; du: n Us 11 isalia ; qua
uper fim:t; tudiné dicicur,quec; putridi htimoris ir S. de coz zpo[.
sed. 72 uridup 1 loc.ca 4p.7 dicit: li C
oz coc? 70 eft, Al! era 40 fec: AH0Gb57277. kr 741 Fattoncem » iud /rriztudrmezz.ut vtramcue cc
n.prchenderer, Jiquód in utráq; fiat
mutatio ad fimilitudinem; afed 1n p rimà
fecundum fimilitudirem aualita- itis. et
fubftantiz; in fecundà veró tantüm fecun:
pidum qualitates. Secundó füppcnendim eft; aAMiquód inflammationes ex Gal.2. Ætb.zed. c.
3. diiduobus modis fiunt: vclà
tranfiviffo fà neuine» (ikb aliis
partibus ad partem 1nflammandam: vel dnb
attracto (a ing: ine: à part eipflammatà. $1 in: ilflammationes primo modo fiant, ut faneuis
ab anliis parti busa vo - artcm In if:
immandam tranf- qlimattatur,dupliciter
etiam fieri poffUnt;vel quia qpartes
afficianturà multo fanguine : ve] quias
T)!)]!10 n. r
eIAAZUCAÀA" puncantur ab acr
rifanguine. Cüm enim multus KG partes
infurgunt ad illum expellendum, atjue ita expellunt ad partem inflammandam
; n iuten a fangu 1$; SOM taræn dici
nó déteste aptus eft, di iguotiiteto x
xced citt neque improprià cruditate, we
P utre dini eft.qu ia fiin toto
abundaret, Íync hum ger nerarét; cüm tamen nulla præcedat f zepe febris.
51 vcróin parte mittente 'compnutru ifi
;jat min eà parte inflammationem produxi
iffet; fanguis igi- cur ille transfüfiis
crudus non exat . Idem dicen- dum eft de
fanguine ex pulfoà parte 9m punctio
nem;ex acrimonià bilis fanguini adimixtze;cru da enim nullo modo dici p oteft bi lis 11la:
neque» enim cruditate alimétali cruda
dici poteft quia et ; f21
bili « nó nutrit:neq; putredinaliquia antequàmi k
fluat,facerct fcbrem ardentem, vel eryfipelata 5;] non igitur crudus fanguis ille dici poteft.
Vbi vero fangi iis ifte'influxerit in
partem inflam- mandam, cüm extra venas
eft tcranfiniffus; incipit caleficri, et putrefcere, tüncquecri udus ffi citur cruditate putredinali fenfim veró à
calore: natu rali cum €o,qui prater
naturam eft, pugnate incipit Conco qui,& ex rubro fit albus; u nde
dl... oritur pus. Hancautem d li(tinéctionem elicimus cx fonte Medicinz Gal.1. Proezoff. Cor. ult.
ub reddensr ationem,quomoc do fiantin
flammatio nes,dicit,fansuinem,vel
humorem non nutr 1e1 tem fanguim
mixtum, priufquàm influ xerit 1
cridumappellar non pofle :nam tum p rimün tántum incipit alterat1, et à fia natvrà in
al leni peumut AT1,c üminfluxer It; nam fa nouis
excidés propriis vafis, in priftinam
naturam revertere non poteft. fed
putrefcit;& mox in pus vertitur, et proprer
obftructionem ili calor prarernatu- ram
accedit; et immutat;càdem de cansa a. de
pat " part.c. Fexvfipelata !
LS preter nituram ex 1 turam fieri dicebar,quód ad retentionem
obftrn |éto fequatur;híncque cal
rfequatur przter na- turam, qui ulibsieni orfutmp It ; ex quibus hi- jyuftmodi affectiones producuntür ; ut I
calidà ^ )| propte er dictas caufas,
M" vtr lereddità 1 cryfi- pelata
generantur; et qui priis male ol nsnon
jberat; factida tandem redditur : de ACHT. 44. Quà p
(npp fitione etn CItur,t itin quib icumque infià- i: 1 A
i mationibus à biliofo ve
hiceatàbinitio pur ] 1 é » ^ 1* ^
yedi2 sgare,quia humor non eft crudüs ;
et proptereà non comprehenditur fib Ar
Sh rifmo 1llo 25. t. DIOIIl " Section: b 077C( oCcta "eaicarz
ó)CYUda verà nan i 9/70 vere oporter,
quia bilis in prin cipit ipflan nmatio«nis non eft Mone Ab initio ver« )
pure $. - . "cj
E. Telle in ervfinelare «|
hovenos " nto 1 winteiii9go 1n
Ccrynrpceiate, nerpete', et ca teris InI flammationibus,& fimilibus;ubi
minimum eft, f E - xit; plurimum
veró;auod influxutum apett; ut
influxuri humoris pars mat r repcllendo Biitic
titt fi multura inttuxiffet; p lus peri-, pue ex "à bhai armaco pbtean eretur;ob influ- nateriam, quàm commodi propter fluxt- td
*-^ 133 r Lili
dgrams;utdocuirl [tp] ). 4. AUCH. 2:2
i 1.€111 convenit materiam
defluxam detrahere ; quód pro materià
noxià bona evacuetur,;vires debili-
tentur,& in morbumadducatur. Quibus pofi- tis,facillimum erit intelligere, cur in
plevriride abinitio purget, 2. 2C. 11.
et cur in angina 4. ac4t. 30. quia
bilisin principio fluxionis non eft
cruda. Át44.4- 4cut.in lotio craffo, et nebulo- fo puzgat,quia jam«rat cocta materia. 1, vero
de Crif. 17.càm craffum louum cruditaus
fignum dicir;intelligit de craffo,&
turbido . Qnód ve- IO 4. 4CHf. 64.
quintà die purgarit, crudo mor-
bo.optimé fecit, quod ex hiftorià conftat, fuiffe turgentem. Galeni etiam loci illi reeulz
non. refragantur: nam quod de
peftilenuali dicit 1. de differentiis
feb.4-nihil eft; preterquàm enim; quód
in peftemajori ex parte materia turget
undequaque mota,;nullum przfigens fibi locum determinatum;dico etiam,vere crudam non
cf- fe,ut aliàs docebimus: cruditas enim
coctionem (üpponit ; atin pefte majoriex
parte eó corru- ptionis materia devenit,
ut corrigi, concoqu ive ^ : 1 ^ nequeat;de quà putredine locutus eft 2.
Z4pbor..].i 17. lib. adver[us Iulia.
cap.6.Galenus,quamesy. nonnifi
evacuauone tolli pofle docuit. Aucto-]..
à . X " IR - » ritatesali:
feré omnes funraut de biliofo fan-
euine, in principlo inflammaticnum, aut ervíipelatis affluente,quem ab
initio purgari poffe», jam docuimus,
quód adhuc crudus non fit aut à * ^A A
l4 ' de materià alià, que nullo modo
cruda dici po- reft,quód non
computruerit . in w/o 49. Cave ctiam, ne inter lenientia,
potiffimtj rs inbiliofis naturis, et febribus, tum veró
maxi- mein acutis veris mc js IS,fV FI
im rcf. folitivi- zer Je2i6n recenfcas,
qnodà rlcrifque Medicis factum viz:ria n3 ca-
dec; cum enun obfervasx
IutivMus $vcrim fe penumeró, aut. z,"era- fimplicem, aut ex fer idis ]: he mi
tumtantam. 45/4 :m - » y fo 1 z bumcrüm copiam evacu: 'abtam vix inte-
"t" f ves i ! ( 5 1 j." ftina;m CIaralCz vene «X ventrici luscap ere
£i-. 4o! [f L N ow 2419212 d
mul pofic nt.femper fum arbitratus ; ab nniver- CHO
fo corpore ; et venis majoribus humores attra- . 4 hcre.
59894 evi et $0. INc 'n negaverm
tamen,in aliis febribus, $4 AN * [T1 ul
»inteítinls, é p rimis VC- ?A€ 287 niscrud. fun hi mcrum cop1a fubfit, quód al-
quando ia t1.:5 vires fuas exícrere
nequeat.ta mquàm abfter PA liS.. í«11..m
za f Léntum,anel rcf.foclutivum in. Lai
lí CULICIH 1 (fc. da . NS .*
$1. In fcri lacüs ufu: i uz eP rM plis
modo feparetur aquofa hzc lactis fubftantia à bunt es reliquis. Modus enim, quo paff: m no firi
utun-^ Jndkan QM Oo ET,Ut CC cl I3 f Da
l'éntur,.ut facili icr eft, ita mi. Bo. weit
nus falibrr :; rzftat enimfeparare ut Diofc.do-. "7 * CCt; Ib.
2. Cp. 276. quod fit ducbns modis : Pri-
mo, fi dec qu: tur lac donec effervefcat, dimo vcatürq; ramis ficuli iium
S,& Ubi bis,aut ter defer e
bcerit;confpereati r oxymelite, pro fingulà he mina,quz eftoctovuncarum;cyathum illius im- «
aH^u/ esL mifcend: id eft, fefquiuir
ciam . Secundo modo, r4 a1t; ferum feparari,
fi ei cffervefcentiimm erga- tur vas
argenteum aqua frigidà »lenum. Idem.
docet Gal.4.zcut. 7.& Orlbaf.1. E ypor:[toz, cap. 9. Sed multó diligéuus Accius 4b. 1.
Quat.Serg. - e RÀ
^ m S4. 2: €. 96. qui tef it efférvefcat, et ter
defervefcat vafculo aquz frieidz pleno
voluit;mox oxyme lite, vel mulsà
afpereendum,& percolandum effe,quod
etiam docuit Paulus lib. I.CAp. 99. 52.
In ejufdem feri affumendi quantitate»
B seriladis cautio maxima
efto,aut enim fv mitur ad univer
Wni^;; ritas Perbiriasquo fum
corpus exp ru E et tunc maxima il- me
lius quantitas hauriend: xeft,fic fecit Hipp. 48y.770de con EL act. 29. dbi cotylas isad minus duodecim
propinandas voluit, que tunt centum 2: cé&o uncim ; "* quód fi valide fif on 'es,etiam ad
fexdecim pet - venire pofle;id eft,
cétum quadraginta quatuot
iasyfcribit;fic enim interpretabatur Gal. lib. iovorvas ex. dlc [adubri Díata, » Ap 28.
ubi Copeium. poticnis e Tiles am)
fimilis propináffi t fcribit ; id eft, centum et octo a pec uncias M ÆEEA 1 ad ventr pue «m,&
inteftinao 44 velim abftereenda ;
evacuanda bibatvr fe erum, ea» £Mroevex
Viii is fue quz tradita eft A Diotc.z5. I.
ct eh CA]. 276. nempe qu inque heming. Heminam Pvgon enim prius hauriendam fcribit, iens
deam- bulandum,rvrsus aliam bibendam ;
iterum de- N eLambulandum;ufque ad
quinque. -Hánt (equi- Mace ace gnaviow
tur Oribaf. r. Evpori[foz ; cap. 9. addens, hanc ef o jen quantitatem T pos deratam. tam Ætius
1r. Quat. Ser. 2. cap. 96. Paulus lib. 1. Cap. 43* tradit (xa quantitatem dide em tenden remad Ihuc
parcio- 4C Tem, tresaut quatuor henunas
trà .dens; ps Ic ex- -- plicans cap.
89.etate vieentibus,triginta fex un-
cias;junioribus folum decem et c&to, id cf,Ca- v/evam pyo
tylas quat ER: t duasconcedens. Aliquando nafta ww :atite m fero lactis utimur, tamquam
materia i in£e ^ fufio ini5 $;
fufionis, aut maceraàtionis, tunc multó minot jl. lius « pla f fufhiciet: et fic Mefüe lib. 2 :
Cap. 9.à fex unciis ad duodecim
concedit. Neque objiciat else fn à
quifpiam Gal. a. act. 7. aflerentrem,ferum inte- 777 ftina a folum fübire, illàque evacvare;qvod
repu- enare 1]! videtur, quo ;d primo
dicebamus, ad unck is Cent!m et octo
dariab Hip P. 4- 4€ut. 29. "T ad
univerfum corpus expureandum. Cum ew -
menipfe tantam quantitatem non pr obaret ; 1, conftat ex locis propofitis,cüm folüm
inteftinao evacuare fcribit, de moderatà
alià intelligenLedicus, n declinatione febrium Purgap- puturidarnm femper medicamento purgante» 45
55 natcria2,qua me se m facie bat,Cvacuationcin
femper 17. acere ; quamvis enim fzpe
hocneceffarium fit, febris nequerelin
quuntur irs Mi ir 2. "Apbor. declinatio
12.Ía pc tamen in * udiciis naturz nihil relinqui-: 7e: tur: iun À dotar indo, eciamfi nulla crifis
fa- : 5 iir: (A12. . cta fit,aut recta victüs ratione; et debità
abftinen /| tà aut infenfibili per
habitum corporis factà evacuatione, aut
paulatim er c]yfteres cadem. martcrià
evacuata, ^ evacuare1n fine medicamen per (]
to tentaremus, colliquatis humoribus bonis; et / carnibus, et fpiritibus cxagitatis, ac
excálefa- CLis; nribuqu c deftruciüs ;
agrum præcipitem. aceremusin
mortem. fai JA 2. ndoigit r cognofcem
lus, pureandü pz, (fe corpus in ü e 1
fcb ris? Docuitid Pip poc. 2. quado i ad
pbor.8.ci cit u8z quis a morbo cibum « Jj" Wes declinatio non corrobor, ng ^ ium g [locorpus pleaoriuti
ili: ge feria : "L2 / 24 EP putridge mento. Quod fi nec capienti id
cóptingat,vacuá- sm. tionetumopuseffe procerto habendvm. Vbi ^ sdàome Gal.dicitintelliecre;fi i:bum multum
afiumat, é&cumappetenta;que fiadfit;non poteft
abun- dare pravis humoribus
relictis:sicque non indigebit evacuatione;fi mültum cibum,& cumap- ;
petentià affumpfcrit; et corrobcretur: fi veró nó n ge- multum cibutn fumens
non córroboretur, indi- raarua i eec
evacuatione. Animádvérténdum tamen. !
2tela . corporis hanc confirmationem non ftátim coenofci, fed trium, aut
quatuof dicrem fpatio poft quos dies,
nifi fequatur et apperentia, et Co£toboratio,evacuationé per
medicamentum. . purgari utendum
eft. Purgate $$. Animadvertendum
tamen,pureaticnem diinibfa iam et ftatum
morbi intermedio illo tempore»
delin* (ypponere,& apparcre
fiena cocticnis perfecte t9 ^ Yn
ufina:fit enim quandoq; ur ceffante febre pér
2 diemwunum,autalterum, febris ante quartz m» . fedeat; nion quód non défierit ex ratione
conco- &à materià, quod quandoque
fit étiam per ccto fe cde, . 165 ;
neqve tamencrmunatus m. rbus dici po-
4. eb . teft; quia adhuc cruda eft materia : et 1n eo caftü FI ficn eft in éofpatio pureandum, qnia nec
cocta eft materia;néc feparata mala ab
uüili;tenc enim et totmmina,& vertieinés produceret
evacuatios colliquatis carnibus, et fpiriiibus
evacuatis. 2. "Apbor. 3 $.«&
36. Vnde n intermiffione hac fal- (flo
fn. - sà putantes aliqui Medicieffe verám declinatio T bem, poftcoctionem materi factam
evacuan- tes, corum interimunt. $6. In
In iis, qui durà admodum fint
alvo, aut crafsifque multüm
füccispotiffimüm in Ventricu ulo, et inteftinis
ies ne medicamentum veré purgans
concedatur, quin priüs clyfma ve- Ípere
injectum fit;ut facil liüs fübducat ; et dclo-
res non pariaG;,exitumque per inferna ncn inve: nientes humores, et medicamentum, ad
ventris cclum regrrgitent ; quod docuit
Ruffus apud Oribaf. 6.Colle£t. 26. Criucis diebus;qvarto, feptimo, vndeci- mo, decimoquarto, vieefimo, fi nihil anté
judi- catum fuerit ; re di bitet
Medicvsavt purgare, f6. viícid lis
avtíonevinem mittere:critici enim tunc ii dicen dl ncn fi nt
Tj LM : ind1Caterio die menftratum fit,
naturam cl |facturamsnectair en faciat.levi- bus remedii, QqUæctian In mant noí ftrà eft f
:b- trahere, manusadqutrices porrigere
eàdem die euam poterimus. $9. Cavetamen, nein deficiénte natvrl
in, materie motu per alvum id facias, ne
major qvam fitfiatevac uatio;fi
auxilium medicamen- ti tencadjoneas, cüm
femel hauftum pharma- cum revocari
nequeat;nec illud amovere liceat:
natur& enim 1$ eft mos, ut aliquando cunctetur aggredi evacuationem,& aliquando
cunétanter moveat,mox ren validéalvum
excludat. Quare poftridie potiüs erit pbarmaco utendu m,quo manv sqnaf adjutrices fatifcenti naturz
porri- garus ut quod reftibile eft à crifi imperfectà exclu iens
k 4 60. Quid 3-;
[ T 4; y
Clyeseps indédum fp? in al-
"Uo daro» ante pnr- gationem.
de Crincás d b. qua
do purgan nU . Crifi
defe Ciente S 240m edo
proceden- dum. Cif die
Critica di- ficiéteyea- dé die zii-
[il fnovesn dum . $8 LED. SEPT ALII MEDIOL. 8ymptema |. 60 Quid fi natura ate codionem fy
mpto- sic zatu- MOS LIGE evacuauonem
molitur? Die ud k intut ya obtran. hic
Medici docáffimi. Ego fic fenuc:fi fiat pet
quid loca naturz diffentientia; omnino co hib endams Medo cum Gal. 1. "Aphor. 21. At fi per
co nfentanea. fe- Pref adé* eatur,
cohiberi non debere:nam.fallit interauni
e *« : quz mala videri poterat» bene : iiquando ce- ge dit.4. zdpbor.47. utin Metone cótigit, r.
Epraczz- Sect. 3 X unde fi cohiberetur,
pravi humores co- pi, vcl qualitate
ftimulantes, qui evacuantUr » ad partem
aliquam. princip em calamitcsé rapi
poffent. Et licet et cruditatis,& multitudinis ; et pravitatis hec e vacuatio fit argumentum.,
et fienum malum;rauocne tamen cavufe
bonum eft, vel minus malum: nam minüs
malim cft,humo res educi.quàm p
principem partem ferri, S1in otio
quicfcerenti 1i fu cci, przfta ret eos ncn ex-
cerni,fed cum pra viadeó fint, ut partes irritents praftat eos exclud i. Symptoma &1. Cautio tamen adhibenda, quód
licet ta- lici natu- Æm evacuationem non
convenia t cohi ibere, mi- va operan-
nimé tamenà Medico eft valde juvanda, cin,
16, cant? fiatà naturà non omnino bene agente, etiamfi agetdum. fucrit diminuta. Imó ubi diutius
perfeverave- rirtalis evacvatio, et vires
profternat, omnino erit cohibendas. ^
- " giu AM. wf Ll p C
4 Animadverfionum, et Cautionum Me- dicarum,
S, Continens eas, Ova in [angunis miffione obventunt : faneuinis evacuatione per fe. can
quinis tam venam, licet illi d fit
obfer- miffioni andum, ut ventriculo, et
venis ao» séber mefcnteri] crrdis
humoribus, premitten excrementis IC|
letis ; DOhnL 4a alvi le pni I hr t;
quàm ea abftereentealiquo,aut le- 7t? niente fLbducantur: cavendum tamei
ne.fimor Ibusita ureeat, ut mortis
periculum immineat, Mid faciamus : ehe
enim miffione fanguinis 1]li
Joccurrendum eft;ut in anginà,& vehementi ali- quà inflammatione, et febre : meliüs enim
eft, 5 mmunenrem mortem pravertere cum
aliquo i damno, quàm czerotantem à
morbo op pprimi fi- nere; pouftimum cum
Jevioribus iis noxis non, ditfioo difficili
negotio occurrere poffinus, Sovguime 2. In faneuine detrahendo cavendum maxi- ilo mi- mé,ne quanto putrior em,&
deterioris condi- er ditas tionis
fanguinem é vena p rofluere viderimus,
"uanti'4s tanto majorem quanttatein effluere finamus ; e»4c422- quod plurimos facere obíetvanuis :
tali enim. jo$ exiftente fà inguine, et pauci
tores 1 fubetfe fpiritus VM i£, et vires
facilltme folent collabafcere. Coloris
$n .. Coloris in fanguine, qui evacuatur, mutaf ^. gnune dios qua in
evacuatione revult fivà; potiffimum in
muttio ? internis Inflammationibus fp ectatur,,non fit ter- " [1^ minus,& menfura quantitatis.
detrahendz;nam [22027755 in febribus
fepe primus fanguis;qui detrahitur,
ruber eft,mox niger;atit [acidus;cujus mutauo- nem fi quis exfpectare voluerit,
pracipitemr- Cols, &grumagetin
mortem. TY Puworb Quin nec in 1inflammationibus internis fanmuine iuidén perpetuo ilfa col oris
mutatio exfpectan ia inflam da eft vaut
enim vix à parte, et circumfufis ob
pittionib. craffitiem quandoque extrahitur ; aut fané tan- on etiam tà. illius eft copia, ut, fi cole
ris mütationemo exfpectan exfpectare
voluerimus, vires o mnino fimus de- da.
jecturi. Colois i^^ «, Mfutatio
hieccoloris ab Hipp. 2. aca. to. ioi
tradita intellieatur; fi prinium albidicrilleflu- aii ite xerit, mox purpurafcat ; vel cuim primüm
pur- lirenda, PUfeus exierit poft
livefcens fundatur ; tunc Colori; ji;
€nim fupprimendus eft, modo dicto.
fanguine 6. Hocautém fervandum
erit; vbi vena pro- aziutatioi xima eft
affecto loco ; alioqui fi in alns cafibvs
reviilfrone Aaflamminationum 1dem quisæcre vellet, ni- inia
809 séper f, AP ex[becian
da 4 * ac Bed Lyc tios æt RN. ..... gr Ræ eros
J| mia foret evacuatio,antequàm
fanguisà phlee- /gizqua, I
moneabduceretur. - "am cxfpe 7.
Inanginà tamen, et hepatis inflammatio- 474a.
ne, copiof fiü: s fanguinem extrahere potetimus, I» agma quàm 1n plevri tide, et pulmonià ; Guód 1n
11li maxime et evacuate, et revellereopus
fit; in hi le I vcro preterc A od
reliquum eft,vbi füppuratü "bos
Mfuerit,excreti^ne UTI ERIE E ones olt
Jetfi onvs fit anim dlis pie UT
lbeallà exiftenre, cenftareillanon p teft ; quàm im S. ni pueris fecto venaz, qua evacvandi offi-
alis, c cium folum adimplet,utrariüs In
ufi fumes de- eur. Ibect;ob eas,quas
Galenus,& fequaces c is C
bepatis /j lamta- ATIS
P Quis CUAien 1m- Ccuart!
fàt, usaddu- P»er's et xerunt caufas;non tamen adeo perpetua hzcre-
!*væuauo Mv J : T J " ora eula ette debet; quin alicus rdi ante
decimum- 7^ r4 "t1T11153 313244 E
LI ^ (n ome e ^ At^ an-- quarium annum
hoc remedium prafcribi pof- q dosis D.
2 2um atuar fit ; et debeat: tum quód pu
bertas fepé tern Inü j ; 4 s (2223:
C12 all: m pra veniat;potiffimüm in
mulieribi s;tum P dd : à : : 2472 fca quod multos folidicris habitüs, et VIgOFISantÉ,,
porofi : e dM deci blu. 1 t "m pus c« nfpiciamus ; tum quód
a aliquos tanta fai nguinls COpJà
rcfertos np "T L]
cbfervemus in. acutiffimos morbos
incid Cre, quorum plenitu- bdinem, n1fi
fectà venà ftatim (olvanmius certum
Jimortis impendere peria Tt cimus. Vnde»
lI tPpenumeró natura 1 przveniens (quam omnino Jibene operantem imitari debet M edicus) copio- ("
ia pcr nares Mon Rao pun (ubitó m Wbos-Ruz jufm odif5lvit. Et euai nvis huic fententiz
re- fracari vic ide atur Galenus,cum
tamen Cornelius ICclf fus, Mauritani
féré omnes, Hifpani.& Galli
"Melerique, et ex Italis quàm ; lürimi in hanc., de1*9 o
VvAlilils ei Lvenerint
fententiam;his affentiri potius plævia
atque experi entis pftopemodum in finitis; fpa- no quadraginta annorum,quo in nuign àhac
vr- be,& in magno hoc UG. Va igi 'udinario medi- Fund excrcui, firmare p lum. 9. Quód fi de fanguinis mitlione per
fectam.; Patris P? «cnam loquamur,qua
revulforia. eft,qualis ett ure qua
adminiftr: atur pro internis UE umatoni-
femi om bus curandis ab initio,quales fü nt2 incina,phre- nitis,plevrits, peripnevmo )nlà; hepatis
inflam- matio,omnino in pueris ante
quart Hunac cimum evacuari angnis pacctam
venam j rit,.cüm X ftatim, nifi xetr i
atur f: antes ju verde cümimp dry dee eire in tT: dixe vcríq; nequeat; neq; ex tra ifpiratione per
mol- lem, tranfpirabilémq; habitum
fperari pofbig materiam retrahi pofle
e,etiamfi concedatur, per meabilem illum
habitum evacuatonis vices füpplere pofle
; revulfivum n tamen numquam. confütui ;
otcrit veré reme di uim. ro.
Preftattamen in pueris a d fextum annu
festen- hirudinibus vena: perta fu guinem extrahere; à o
3 à x E 2 " 1 f sdi aan
VAL zum pre cuin enin uíc q; ad
ieptimmnim annum ob excei- &at bira-
fun humiditaus,vena;arteri |DCrvus ferc fimul
dizib4sconglobata png »ericulum fübeft;neloco vena, fanguine aut fi: nul cum € À nervus aut
arteria pertunda- goacaitar e, " 1
"o 2 Rudd s rud PUcPT tuf. Qu Ó d
fi eagam manie Íte 1€ exfera sl 1inCccoe9 CAY AU d. Ee ud : : "i là pertundatur quidet nfed amplum
potius,qua profundum vulnus fiat. i Dm næ vore oer eve Tempore Ir. feb ribu S, fi tc tipo mittendi
langute-4 anittezdi l jOI puce cnni, IFhoides fluant, quamvis doctiffimi aliqui
viri IFenfeant.non priüs quippiam à M
edico effe mo- E ddun: quàm evacuationcs
illz defierint, etiam I fint im erfeéi 4
qi "Y nefciamus quantum. o IWelit natura evacuare, et cüm imperfeáé
ali- Inuando 1n principio: igat, verfus
finem autem. [uüppleat ; unde fi
evacuaremus; periculum im- minerét, neex
exceffu vires deficerent : cenfen- Irium
tamen,melhis effe; cum verfus rid vide-
mus naturam deficere ; manus adjutrices porri- Ibere,ut ex conjunctis natura, « Mcdici.
actioni|bus, facilius evacnemus quantum opus eft ; fic Nf ] AY. 31351 14 363 9913343533, Enim Méetoni aimiftivte fanevinem narium
eva- I. 1t] l tX v"3 H1 Loel-4 4 (
e« Ct 3. CAD. 24. F5 ( ] €C4K ] er11111 EX acu1 2 0, i ( O. 1)77 Sect. 2
vC. : ^
3 3 " 1 n " exeuntem
humorem unà,dicebat.debere Me- r I l
£21 ptt n ei CIC3quod etiam « .In
Coma, x pitCcabat, Id eft, dum
imperfecte natura ope ] i "v^ d / "t 1 " l'atur:;non autem dicit.pefft. Sc quod
omnetmo Fall l4 ("n.f ! L FOI11C difiiculit: tcn, Asa . js. ! Ci LZ D €
Ubi nac - ! 2 1 A IDIOD ecu e Ct, quod 1n eo ca BE Lo ecorncids4 f: todminic fecta Bit
mus ilu imt! CLLIS 11 uen 1S aneulinl
Ípect Dnoaus cit.Qqtm? I fatis fore v
rideb ütur,totum neectium permit-
llrendum erit natura;fin minüs,tantum Medicus IHetrahe tquantum fatis videbitur, ut ex c
njun ttis ambo bis tanta flat evacu
atio, quanta pro Tbvincendo " it
neceft ria. Vbi duo funt, bx quibus
facili : coll Ieitui rnc life esf ectare.»
incm motüs n2 ture,edamfi nperféctus fit.Pri- Inum.quoniam dict /; rir Fal vide "Dh
quod hon ceflatum motum oftendit, fed
dum in motu eít; DE
( o I! aunnf,
f! men, fnere r
" gtrit;j pt I C€UACitiaat an i a
adeft A£ 001H$ o Grecibt.
f Zdo Í ed ie cce Id E £hr 4A ( át ZT« TT
€t c RUP ÆRE mulium yum
(lac e iu, 1f, 2901/8
d M P^ £ 9)4 LFD. SEPT ALII
-MEDIOL. eft, conjectándum effe ex
impetu, an fv fficiens futura fitilla
evacuatio: Secundum, qucpnic m» fruftra
"x impetu 1d con jectari doceret, fufhice-
rct nien ceffato motu videre, an adhuc et mcr- s magnus effet, f. ngrin
isfubeffecabundan tia; MÁDS n: valétes:
cüm autem imp eium fiuen tis fanguinis
sfpcétandum Jufl trit; id non alià de
causa à faciédum volvit, qu àmut ex impetu con- jectari poffimus;an fi ffeQ ura fit hujuf modi
na turalis evacuatio;ut, fi fuffectura
fit; pi yen pater ono cemimpetu effluat,
totum negotium nàtu- ra relinquam us;fi
veró lenté& guttatim, ante- quàm-c
'cfinat manus ad jutrices porrigete va-
leamus; ü rutrifque con) junctis»ofhi mus tantum evacvare, aranrtumopus fit; ai à diligentià
ad- hibità,ea e" cjemus p
rericulayqu eadcó vercban IUur;q" ]
contfa fent dunt. r2. In finevinis
metiendà quantitate ex babitu corporis eracili, cartio mæna adhibencai eft,atque diligenter confideran dvn
|,ànànatt- à eracilitztem nac ttus
fit,an à confi Danis: l- u. me
rbove.2.de Temper Tibe im avt obo.
vichüs parfimoniam, ap iml curas, au it fimiliass4l quia verifimile eft parum fanguinis ip
venis CCn-» tineri, minor extrah1 d
teb jet euantitas. In 11s ve-4 rÓ Qui
ales ft ntnaturà, quia fieri pcteft, vt et liberaliori victu ufi fuerint; et pf ptercà
fa neut ne abundent, plus detrahi
poterit. 1.42 6 luc eft à do^ i fincHbs
. Idemin craffis animadvertendum:Difan]
Oi ridi culi erunt carnofi à pinguibus ; in car: nofis;
«à G lau 14. cu iix inftituto
video multos Medicos rra: exrare, plus
fanguinis in iis detrahentes, qui la- Msi s:
boriofas artes exercenr, utin fcfloribus,& fimi- i libus,quàm in iis; qui in artibus fedentariis
tcti bes da fun ntque iin illis
plusinfit fanguinis; viribüfc jue ^^
'aleant;n llispi iritus, et fanguinem
exhauriri:róbur ve- in folidiori fu prà
repofitum effe, et ex quoudianoalimento
fuppeditari, cim alioqui VCDa n n multo
faneu Inc rei erta fi lO px Ot1u« CAM
períectan 1 I
aiiquan l CUla C1 Cuerit (x;
M X6.fi terti i nCccei (li 3 int L
ftabit bis facere duo bus diebu:
1 Áni /*
«u€;,inrev 1 NJ IM Al an repetitam fanguinis ternos cgi M f
f lV cna In Oeadem d 11^? T5 th:
A&IkLIOLLhD tasm ittci
P^ madvertendum, pra MEMRUSol P. ue - de curaa. vat. per [aug. sail] .cap-21.fi
repetitio fiat ulfk OnlsS, ] «ütterendam. fe 1 d Quód f
acta fit,interpoínto d1ein
DNEERS. XAB.JXr. of nofis,quia
plüs fanguineabu: ndantp lus fangui7 nis
deu ihi pe 'terit;contrà in pinguibus. Gal
' 13 "i nt
Lt1lO «ile, noir Lh Iib. .dátc
£14 YaHnád VaL. i £1 T» iq. nmt]. Cap. io
mplex fuerit, Urgeat veró
ían« termiffionis fieri poterit
feprem horarnm. fpati )( Peine, in terrium differri pc teft.In quart I6.
[^ evac aticnis gratidorer etenda n potiüs cadcm. ; B »
h.n n ER Is DA d 3/2 2221 ) :
^ I*t* bins [27, CH» (d
Qf41 1 te$ Lac
^ ani ) làdv ertrentes, etiam in
itridis febribus Curadis » £471
Saliqu indo Icquenzi, ahüs pet
terpofito, faciendam do- "à
o Ulnls, biscadem die inpatio
uentecm à hem etla Im
'CIcr- i 1 du- joris invafionis, Iürtana veró pra- intermiflionis, ^47" 7 MED Po)
rl auralterum efle, 2a. : ^
E I7. Cave Miffwnis
fangumss vevulfrua sepetttio
quádo £a- denm die Pace uud
jácienaa . In cruris dextri in-
; f. amma pone qua pena fece
da pro »&- sulfione qai y
ETNUNA A "HET jan 9€AUTIS t
ks É 2A04 tt[que dei: Cave
tamen;ne in pracipiti morbo revul fionem
ex pofcente id ferves; cüm enim affiuxus
fiat vehemens, utin effufione fanguinis per na- res,aut uterom;,aut hemorrhoides;autin
inflam. matione gutturis, hepatis ;
pilmonum, nifi eà- dem die fiat; fruftra
fequenti die id tentabimus ; quód cum
fanguine anima fit effufa;aut füffoca-
tio có pervenerit;ut nulla amplius fübfit fpes fa lutis.
13. Cümin revul(ione perfectam venam fa-
Gà, et rectitudo obfervetur,& venarum confen- fus,unde laborante inflammatione crvre
dextro nunc fecandam jecorariam dextri
brachii ; nune faphenam internam cruris
finiftr1 pracipiebat Galenus . Hac
diftinctione in harü alterutrà feE ^ ; L
lisendà ego utendum cenfeo ; fi ex interna catt» o6
à, calido fanguine affluente, fiatinflammatio 5 feccanda omnino erit vena jecoraria dextri
bra chii; ficenim verfus originem, et fontem
retra hemus fanguinem.fervatà
rectitudine, et à cor- pore extrahemus.
At fi externa aliqua caufas
puta;vulnus;contufio,aut quid fmule inflamma tionem pepcrerit, przftabitex crure fanguin mittere, ut fanguis, qui ex vicinis ad partem
laLi borantem affivit,faciliüs per
venarum commue- p, nicationem et revellatur,
et evacuettur. 19. Cüm fanguinis
miffionem ad anim ufq; deliquium
concedat Gal.2 5. 1. Z4pbor. in arden-
riflimis febribus,;maximis inflammationibus;& Inorbi
a sadimittédum efle hoc zenusau
nifefte vehementiffimis doólotibus,
nonnifi in extremiss| xilii,ma-4 em. pi
JNTM. ADVERS. . LIB. IP. nifefté
oftendit. Verüm cümad illud exfequen- ro ja sa dum tot requirantur etiam
conditiones,nem- ducendz, pe ut
adfit.atas juvenilis ; temperamentum. «$4 qtsi- calidum et humidum; regio
temperata, cor- às» et pus faniguinis miffiom affuetum, anni tempus.
&^r* temperatum; quas vix in unoxX
eodem corpore reperiri poffe conftat;cavebit juvenis Medicus ; fanguinis
miffionem ad animi ufque deliquium aceredi, fed eam perias Medicis; et plurimüns
inarte verfatis relinquat;quia, cüm vix tot con- ditiones in uno
concurránt;& fiin. uno repérian- tur
; vix cognofci poflint, potiffimum à juniori ;
necdum multüm inarte exercitato, przftabit il- ]am omittere, et maturiori judicio relinquere
. 20. Non femperante fectionem venz
lenien- $474 Vena om da eft alvus; vel leniente medicamento,
vélcly- 5 «Sn ftere; fed ubi crudorum
humorum colluviem in i aput |!
ventriculo, et venis mefenterij adeffe coznove-
rimüs;aut ex praterità victüs ratione, velex co- lore linguz, vel ex
&ravitate partium illarum. jp juxta
ea; qua tradita funt à Gal. 4. de ?wzd.fa-
aut. c. $.ócanté ab Hipp.4.zenr. r16.ubi dicit; $i Wfecanda eff venas C al'vus fluat, prius effe
adferin- E oim. At ft ad [tr il/esihiol
serere gal a fol- || vendam ;,nefczlicet
inanitz venz crudos humo- Morzo £y 165,
aut etiam corruptos ab illis locis fugant; ac præcipiti attrahant. fanguis 2r. Infebribus putridis,in
quibus diturindu mici de tcn, ptzmitti,
ubiadfi int crudi illi humores; aut bep ante
p putridi in primis veni s, clvfteres debét;aut lenié 4!vi e*t daalvum:atin przcipitimorbosà fluxionefan-
!//79?* G culnis
beat facit inAnitto e "mas
J*enis bua €bit in fe- viendis,
qua cau- iones ad- Libenda.
Catutiones £2 mitten do faugut
2e alia,à quibus pe tenda euinis facto,vená prius fecato;nó alvü
emollíase 22. Caterüm; omnibusin
pertundendisina brachio venis hzc adfit
cautio, utbafilica feria-
tur,poftquàmfe;junxerit cephalicz infrà eundo per digiti latitudinem ; cephalica: contrà
fuprà per diciti latitudinem ;'nam
corporum fectio id doce: nam maximis
nervus qui ex cervice in- ter primam
coftam;& claviculam permeans;toto brachio fertur, bafilicz? fübeft eo loco,'quo ferit digiti latitudo furtim eundo ; fi
confocia- tioni bafilicz ;&
cephalice imponatur :? tunc fi
digitkálterà latitudtinead axillas abieris,eo loco fuperd áreditur bafilica eum nervum,
dumnem- pe curfu fim ad cephalicá fl
etit; ibi pericu- ium. Quod/fi infrà
pergas;in altum fe abditnervus. INecetia tutó in ipfa cójunctione vtriufque
|. vene fit (ectioscui plerumg;
validiffimi tendines fabfunt; cephalica
auté fuperius, ut dictum eft; erit
ferienda; nam ibiab. arterià, qus ei vicitia
eft; longus abeft ; nec quidquá periculi habet. QE» Plures fi quis in fanguinis
miffione,& ve-^1 nà fecandà
expofcat cantiones, et animadverfio-
nes; Avic.legat 1.4. cap. 20. fed potiffimum .Nicolum Florentini »
Sermone 2.T vati. v. Summa ^ 2.Capi
1.17.0 tn ' 18. et recentiores, qui
defangui-à nis miffione per íectam venam
ex: profetfo fcri- [e píerunr. Dum
enimregulas quafdam ad hane:[^
materiam pertinétes tradunt, cautiones pleras--|*& que attingunt, quas,neactumagamus;in prz.
nm fentià pratermittendas cenfemus,
potiffimum, p cüminanimadverfionibus
circa febres, et raor-- pa bos particulares. quàm. plurimasad-hoe. nego- tum fpectantes infrà fimus propofituksi. 24. Incucurbitularum ufu, frlocus fcarifican
Cucurbi- dus fit, nop adeó multo
igneopuseft; nam prz- r4; pA 77 terquam
quód fepenumeró vefice. in cuuculà fzarifca-
elevantur aqnà plenasqua fcatificationem cutis tiene,sffi- intcgrz impediüt;attractum ét fanguinem adeó
gaztnr ez condenfant, ut mirum non fit,
fi incisà cute fàn- £44ce d guis non
effluat, potiffimü fi diutiis adhxreant. £7*» et 25. Infcarificandà füb-cucurbitulis cute ad
Scarifica- evacuandum fanguinem,.non
eodem modo fem- " quado per
incidenda eft cutis: nam in cute fuübtili et al- profunda, bà,intenul fanguine et bilicfo non profundis
;; quan de incifuris eft utédum, fed
fiper&cie tenus eft fca- 17v; f-
rificandum : vbi veró in craffitm corium incide- ciezda. rimus et nierum;crafstisque fanguis, et feculen- tus erit evacuádus,profundiüs crit
cütis,& fülz jacens caro incidenda,
ne evacuationis fine fru-
ftremur;cümalicqui artifices quá plures videa- mus,qui in quovis corpore vix cuticulá
tráfetit, folümque ichorofum,tenuem, et in
extrem fu- perfice confiftentem
fanevinem. extrahunt, ut Inanus 391115,
et vix ferientis.nomé adipifcantur. 26.
Caveant quàm maximé,ne diutiüs cucur Cuenré;-
bitulam;carnofe potiffimum: et molli part, ad- f4/a moa hære fipant : càm enim. vehemens fiat attra-
diutitis vf ctio, et multa carnofa
fübftantia cucurbitulam., /*4 Pare
ingreffa fit, adeó coarctatur, ut fpiritbibus ncn, ^mi permeantibus pars emcriatur, et eanorzna m,
"^ quin etiam fphacclum fibeat;
unde maxima vi- tx pericula
fequuntur. e z L VLl arm d" je?ri- bus interznittentiZ a DAS f^ d üTHU) provo Y2yHiai$.
Qontinais febribus top 2dior
evAaCttalto La Lam
per lot: et à P, ,
Animadverfionum, et Cautionum Me.
dicarum, Eas complectens ; Que in
F ebribus curandis ob[evvari debent .
f. T vcrumeltin febribus putridis fiu-
doris,& urinz provocationem uti-
lem effe ; ita in intermittentibus ;
maximé autem tertiànis, fudoris
$99 ctülioremcenfemus quàm urine. [uu
Nam cüm fineulis harum acceffionibus videa- mus feréad ambitum corporis portionem ma- terim transfundi à naturà per fudorem, motum|
4i illius imitari debemus. ». Oppofitumin continuis fiat: quód in
inti-0 miioribus venisineis humor
putrefcat, ex qui-- Jui ., N . - bus perlotium aptiffime ex pureatur;nifi
forfani«f ferofi nimium, et tenues
humores praváleant »» Bs: et zftas cum
madórefit ; tünc enim etiam fudo--E ur
fibus evacuatur . I c Alec
REED F. IOr 3. Intertianà febre verà,& ardente,
hecins Teriasis J| clyfteribus
adhibeatur cautio;ut ficut molles,& €$rden^1! refrigerantes potentià effe debent ; ita
actu vix. tib»s. elj- teporem habeant.
feres ioc 4. Vtintertianà refpe&tu
fui; aut materieil- J"*e"tes
lam facienus, numquam aab initio ante coctio- ^as nem eft medicamento purgante evacuandum.; ita cüm quandoque ad ventriculum bilis acris
jh. icit transfundatur et mordens;
eraviffima invehens ionem pericula,& fzpe mor tem; po otiffimüm fi
eger ad quádoque,vomendum i Ineptus natura fuerit:ut illa preve- sargadz ; niamus,licebit purgatione uti refpectu
fympto-- e quado. matis, ut
fyr.rof.folutivo ex fero vai odit "
vel cui incocti fint thamarindi ; aut et valentio- ribus, ut electuario rofato Meu, aut de
fucco rofarum ; quin inacceffione ipsà
fymptorate» urgente, ant liydkelz osten;
velut vomitum adjuvemus;vel ut decrfi im
ducamus;aut fané ut acerrimam illam
qualitatem à .ttemperemus . $- Vfusrh abarbari ut omnino Inter principia V fus
rba- harum febrium eft interdicendus,
quód e eleétivé ^ar? (Stt purget ; quod
non licet crudà materià ; et quód cun calidum fit, «& ficcum, qualia omnia
evitaridaz, mod E ante concoctionem
docebat Gal. 1. 2d Glauc. ita ad
deturbandos biliofos illos hum ores, et fyn-
copen cx morfu cris ventricult;& vehement n ma alia accidentia;in p rimis tribus, aut
quatu«c acceffionibus ante cocticnem
cmnino fug len- dus : humores enim illos
ferventes ma?is exa- cuit; partem
phlogofi quádam afficit; cbftrucio nes
in venulis mefaraicis poti&sadaucet, fit?cuE (GG ? (C^ et f TN " l.l 2
s^ uci ix losofque denique eeros
redditi Inh 6. In purgatione 18 biliofis
febribus molien- febrions dà,caveat
Medicuss;ne deciptatut.fiypoftafim ih
pro pire». urinà albam,;levem, et az: qualem exfpectis: cürn tione [aff epim im biliofis affectibusfola
nubes illas habes eit a".
conditiones ad concoctionem oftendendam füf-
tubem es ficiat»fi exquifi aora illa figna exfpectaverit, re- pea E e facilé occafionem prebebit, quitem^. . Inbilein eftuofiffimis iis
febribus evacos- Ya deeli- "Y licet
rhabarbarum primasapud omnes Mc-
4atops;
CYcosteneat;animadvertendutn tamen omnino küuA»HE CIIt, fl caloradhuc vehemens in
declinatione fibriz rba - v elin
ventriculo, ve] in hepate, vel in univerfo
barbarum, Corpore, et folidis partibus relictus fit, et fitis ez pro j3neens,quodin vehemenriffimis
terrianis ali- bile. pur--
quandosfiepius in continuis, et cavfbnecontin-
ganda fu eit, preftareillonon uti ; undein illius locom. fpium (übfirere poterimus decoctuim
thamatindorü CH, . cum fyr.ref.folütivo,& portione mannz,&
fimi dibus. Rhabarbarum enim caliditate
fnà, et ficcitate;ac ieneis partibus, ut
calorem peracci- deris minuit, evacuatà
calida materià ; 1ta per fe in hujufmodi
corpetum condidone "calorem,
exacuit;ficcitacem adauget;ac fitim inducit:un- deaccenfis denuó fpirinbus, denuó febies
exci- tantur ; aut folidioribus magis
ficcatis, hecticte introducuntnt£, quod
multi non animadverten- tes,non levem
1enominie notam fübeunt, quod go vel
declina ata; vel ceffata febris nova corüm
Lione excitetut'; GV uonedo Nujvandoautem
etiam inis cafibus rhà bulbs. P wi EIS y
Würer iride case MEET c AS a0;
barbaro uti placuerit, autintertianisipfisadeÓ ;j454724 || non ardentibus, ant in corporis temperie,aut
e stipof-,J| conftitutione fic catidà, et ficcà, quód praftan- //mus pro J| tiffimum cholagoeum fit, ac maximé in
biliofis purganda ;affectibusab omnibus,
et à me commendatum, ^» etis pe ts uA 1
torto ve xA $n «ff uofis potius dilutum, factà in aquis refrigerantibus, bribus
aut fero infufione,commendo,ut caliditas illius, fei, et ficcitas retundatur.
et ignez partes repriman tur ; aut ex facchoro in fyrupum paratum cum cichoraceis,ut
eft fvru pus de cichoreà cum rha- barb.defcript. Gulielmi. Qvódfi potiones
quit- piam averfetur, in. ufüm in
pulverem quic cm ducetur, fed ad mixtà caffià, ejüsve fuccoad un- ciam, facilé
enim fic ficcitas ejus retundetur,&
lenez partes compefcentur. 9.
Scammonil ufüm ut in biliofis omnibus Scammo- febribus fifpe&tum habere
convenit, et non nifi ? &/vs à
refracàillius caliditate mixtione aliorum me- 4 fe Idicamentorum refrieerantium;, ut in
electuario ion jr .Frofato Mefüz,&
de ficco rofaxum,& admodum po » raro ; ita in ardente febre omhino
fugiendum MM ieriet tcenfeo:hazc enim
febris magls, quà quævis alia,
hrefrigeranua expofcit. Quapropter per caffiam, imannam,.fyr.rof.folutivum ex fero, violas,
tha- imarindos,fubducere hv mores
peccantes conve- Imiet, vel etiam Actio
Z'errab. 2. Ser.1. cap. 78. lid
perfuadente. 10. Poft blanda hac medicamenta ;Optimé. s/74; "T, Ifaadet Avic. dormirealiquantulum ; cm enlm.
furis. lletiam alimentofam habeant
facultatem;etiamfi medica- iportio
aliqua in alimentum vertatur, refrigcra- mentis, pa G 4 bit,
« t f -
v/ B AA. Caufone laborante
T Psrgato » J&€ €
: (asi ardentierum la- ePi opti-
222473 « Sacchart vofati ti-
f5 » post pegato- zem in
Qogadl 915 » ion qrebádus. Ju fbre 9»
gerttana eti mter e» [onis
eie,vtilus à Gal. c^ alüs infi
11445, «- bud noftra zes pericu-
lofuts " xo4 bit; neque
tamen evacuatio impedietur ; natura ;| 1^
per fomnum refocillatà... 11. À
purgato in caufone humore ; fi.quis la--| 0^
ctis ferum ad frigidum alteratü per duosstrésve:| i dies fümpferit;vel lacafinz;illi maxime
confül--| iu tum cenferem:humedctat
enim, et refrigerat corr] d pus; fitim
extinguit, atque fi forté hectica ince10
perit;omnino eam reprimit. NI
12. Vndeetiam non adeó probanda eft pra] ui &icantium confuetudo, altero à purgatione
diez] fem per faccharum rof. ex aliquà
aqua refrige uiti rante concedentium, ut
calor, ficcitásque v1 ex-- tu purgantis
medicamenti facta, et ex febre reli-4 it
&a et fitiscompefcatur ; càm
experientiffimuss ux Rhafis, 3. T rat.
contin. 27. eos, qui calorem, &q qu
ardorem in ventriculo patiuntur;illud comede-4 it renullo modo debere teftetur,& maximé fi
eftass, ii fuerit;calefacit enim;inquit,
et fitim inducit;idls jc quod-etiam in
multis experientia docet . Quareq a.
praftabitautfero ; ut dixi, uti, aut aquà horde] iu cum füccoaurantiorum, aut julepo rofato ;
autij gui violato. 13. Lauté etiam nimis, etiam intermiffionis]
un .tempore;cibari mihi videntur
tertianà laborans]. .tesab omnibus feré;& à Galeno ipfo:qui cibarg ni; .di modus fi apud. nos 1n ufum duceretur ;
omne: qi ex tertianà fimplici in
duplicem, aut etam com] iy; tinuam
duceremus. Atque hoc fépé; ac fepiu: un;
juniores Medici;&üm ex fcriptorum inftitutà vid oj Ctüs ratione victum prafcriberent
egrotantibus:| ex perti funt; cium
egrotantium periculo, unde ld uj; mutare
WE. 3 A s P». "e *. E n TO ix A S (1À5.
mutare fententiam coacti funt . I4.
Quinimo, fi vinum pro potu incipiente»
co&tione curh Galeno,& antiquis cócefferimus, onines in deteriorem condit0nem ducemus ; ut
^ vixin ipsà declinatione concedere
illud poffi- mus ; five hoc corporum
noftrorum conftitutio- nitribuatur;five
vinorum noftranum conditio- ni; five
utrique; hoc unum fcimus ; fecurius per
totum morbi decurfüumabdicari vinum.
15. In quotidianis curandis febribus anim- advertendum eft; quód, licet in febribus
aliis in principio uberius fic
nutriendum, paulatim ver- fiis ftatum
progredientibus imminuendo; ;inilhs
camen primo feptenario tenuiüs funt alendi z- ori, ut et crudz in ventriculo contentz
materiz attenuatz;excalefactz,&
exficcatz;aut in bonü fuccum vertantur,
aut faltem abfumantur, aut per fe,aut
ope Media, le 'nientibus,& abítereen-
bus fübducantur;in quà re Rhafis, Avic.& re- liqui omnes Mauritani conveniunt, ut
nempe» primis feptem diebus tenuiori viu
utamur; quàm etiam in ftatu5qui omnes à
Tralliano mu- tuari videntur. 16, Siramenà falsà pituità fiat; potiàs
vomi- tu in principio expulfa, aut
dejectorio abíter- gente per inferna
educta, cum nutricatui inepta
fitevacuabitur ; neque dixta adeó ab initio erit attenuanda, ne incalefcat magis,
ficcetürque minüfque eductioni apta
reddatur. 17. Quamvis vomitum in hac
febre Galenus Jaudátfe vifus
fit;apparentibus fignis ccétionis,
quod Vino i€r- tianarti
apad nes per totum morbum
interdicé- lw quoti- diamis i5
principia fnniAus A- lesdum e-
tamqua in ffatu. Pituita
falfa ab danteyvte u$ ab ife
2it0 nom adeb attee nunndas »
fid evæ cuanda « Iz fcre
enuctidis« 2A "vem [^
X e tus utilis ab tnittio,
eo quomo do« Siwotilia
na in bre, prater qUmiupn
ab initio, valenttor evenit i
Satu,e€x Gal. . Mel.vof.fo
dutivii,l- - «et £n bi- liofo ab i-
3211:0 non €OQventat, 22 pituito
Js optima eff veme- dium, c
eur. "Aloe 15 quotidia-
$5, C a- liis febri- £ns locis,
optimum remediis. e/ P
d ZI) Í ^
y^vs /9 €.
:06 quod in ftatu evenit ; id tamen decà per vomi tum evacuatione intelligit, quà univetfüm
cor- puscvacuatur radiculà, cui veratrum
album 1n-. fixum fit: cümenim majori cx
parte primis die- bus ventriculus
pituità fit refertus; fi ad vomen-
dumneptus non fit; aut natora, aut. ftructurà corporis;optimium erit,blando facili
vomito- xio tentare illius
evacuationemsaut fi fit naufea- bundus;à
cibo . 18: Quamvis mel, et fyrupum rof.foluuvum
in biliofis febribus,abinitio,cradà exiftente ma- terià,in ufüm duci non poffe ad fubducenda
ex- crementa communia,jam docuerimus;in
quoti- dianà tamen, ad abftereendos
vifcidos à ventri- culo humores.
przcipué mel preftantiffimum remedium
cenfendum eft: attrahens enim facul
tas.frigiditate,& vifciditate humoris primo oc- currentis evancfcit;& quafi emoritur;
valés au- tem maxime facultas
abftergentibus relinqui- tur. jars 19. Ne quis inamphimerinis füfpectum ha- beataloes ufum,ad.deturbanda communia
ex- crementa, et pituitam in ventriculo,
et primis venis exiftentem fübducendam,
vel ob eam ra- tionem,quód bilem
potiffimüm illam fubduce- re fcribat
Gal. 7. Æt b. med.
a4-& S.de compof. med. [ecundum loca,
cap.2.. C lib.de T ber. ad Pz- Jonem,4.
et Paul. £b. 7. cap. 4.vel fané,quia eam-
dem calidam in primo;& fecundum eradum at- tngentem,& in tertioficcam;idem
Galenus.có- füituerit;quod quàm fit
febribus inimicum,qui- libet; aloe efle facultatem: alter NIMADFERS. LIE. libet, qui febris naturam examinaverit,
facile poterit intelligere: Animadvertat,dup
P. 107 licem ih . 41e, dy 4 am à
totà fübftantià jx faci ductam;quá
bilem potiffimüm,tum etiatn pitui ;as. tam,fi
non à toto corpore, faltem à venis etaim
" ^, Circa hepar attrahere, et é corpore pellere con- fievit ; de quà locis propofitis etiam
Galenus z alteram deterforiam,&
attenuantem,quá et exe crementa, qua
funt in ventre, et inteftinis, cue jufcumque fint generis, per inferna fi
bducit ; cümqe potiffimum inter feces
evacuantià», ÉxxbebeTiXxo d dicta,principem feré locum.occu- pet facilé propofitas omnes difficultates fü
peras re poterit. Cum enim tamquam
bilis pureatós rium medicamentü
affimitur aloé ad drachmas i'edüam duas,
et non nifi raró, utalia medicamefta longé à cibo fummo mané,quin 4n febribus biliofis concedi poteft : fi etiam raró
veró aloén Hu letjectori
medicam 1 üÜte Humamus, ut dejectorium
medicamentum, üt "" ^ . - ique deterfione quádam ac attenuatione,
quid quid per viam invenit, fibducit, et
frequentiüs llafiumi, cum cibo
permifccri, 1n mini ri quantiateaffumi,
et febribus loneis; tertianis hothis,
»& quotidiánis, quàm maxime auxilio effe pote- Iit; pouffimüm fi lota fuerit; nam quamvis
jy. e£ IG. de ruend. val.Galenus 31 Oocf neque ficcam, ne' l|Ique melleexceptam
fenibus concedendam fta- ftuerit, nifi
maona aliqua neceffitas ureeat, c^ 8.
Ie compof. med. fecundu loc. cap. 2. bili fis,& ficIE15 corporibus alo€s ufüm non
mediocriter infe- Ium docucerit;In aliis
(anc corporibus,five moctbo tenLorgis fe»
byibHs a loes ufus cópmodus .
i^ MERIT æn gant ei (ix iQ1o8bo tentátis,five fanis, ub! vitlofis
füuccls utcumqs bent infeítentur, aloé
non fine magno commodoin. ufim ducitur, potiffimum ubi ventriculi villisii
adhzreant:fic enim Oribaf.7.Col/e£l.cap. 27.abfinthio alo£n cóferens,ftomacho
placidiffimam juu effe contendit et fumi quotidie poffe à
ceenà ; depu. aT ME aie quod.
Ewporiffon cap.9.übi de evacuanübus; eju
in fanis corporibus conveniunt, agit; quan-
titatem enimiis przfcribit,qui quotidie eam afAAloes va- Pia quanti
345 [umen 8A s [7 pro $urgato-
o, C f $ro dei- éforiosat-
dicatméete. fébducit euim.»
Yaquit c ciborum vis nou bebetat, Mi
erattvea fitim uon inducit, C" bominem ad cibos fu-. à anendos facit promptiorem ... Ex quoniam
proximé f ante hzc verba dixerat;aloén
ad duas drachmas. furi fümptaio,
pituitam,.& bilem fubducere: cüma jen
addit; [omi e riam quotidie poteff cama.non intel- i: licit de càdem quáütate;fed alium ufum fumits
Ki fümunt;trium cicerum mænitudine.Idem
eti3; et longiori oratione explicuit Aét. 7'etrab. 1. Serm. 3-c4p.24.cüm enim ad trium
drachmarumiJi;, etiam quantitatem ad
multos demoliendos mot; ' bosoptimam
effe ftatuiffet, commodam etia malos.
effe (cribit fanitati confervandaz;fi quotidie antep... coenam fümatur,utante prandium mane: id
au--]i... tem effe non poteft in càdem
quantitate, fed adi fcrupulum, aut
femidrachmam. Sic ex Mauri-1,. eàdem,
ut medicamento purgante; agit, ut et apud Mefuen viderelicet. 511g1tur
tamquam... deterforium medicamentum, €
ventriculum. i expurtanis Avic./ib. 2.
cap. 45.de iis.qui fecundà vale-4t.
tudine conftituti alvum movere poffunt ; de de-4.. terforià hac facultate loquitur; C Jib. 7.
cap. a. ded. n h i
ad LI " » E- AA
LM, Ixpurgans fümatur,& in minori
1llà quantitate, li ftatim à cibo, vel
etiam ante cibum ftatim fu-. fimatur,
febricitantibus iis fepé concedi poterit,
"lin quibusaut crudi multi humores febres: pro- fluxerint;aut certe ex diuzurnà febre debili
red- flito calore ventriculi;multa pituita
congeratur, Int in longis febribus veni
ire docet Gal. 1. ad IBlauc- Sic 8. de
compof. med.fecundum loca, bens 'JlBc
Oribaf.Joco czt. in febribus hujufmodi, potit-
dMimuüm fi lota fucrit; aloén quàm maxime com- 'Ilmendàrunt, non lotam tamen in iifdem, fi
edu- 'Jcendi indicatio pravaleat; etiam
concedunt. '«KCócedacur igitur intrepide
in iis febribus; cüm; Iguz ex febrili
calore defümitur ; indicatio nona
'Iprevalet ; fed qua ex craffis humoribus in ven- lrriculo coneeftis o b diminutum partis
calorem, Irum ubi roborandi ventriculi
viget indicatio, [quod in longis
febribus;& ex pituità cenitis, et lWtertianis fpuriis fepiffimé evenire dicebat
Ga-- b en.1. 4d Glawc. Vnde v ^, cmus;
Maurit; anos, à Weam fcholam fectantes;
et pilulas ex hierà Gale- ni comendare,& alephanginas bis in hebdoma- ddàin paucà quanutatc à 'canà fümptas . 20. Ínufü attenuantium, et diureticorum.., hzc
efto cautio, ne tiene eorum ufi nimium
jl fint calida attenuantia, fcd moderate aperiant; 4 neaut materia nimis liquata;& fufa
majori.mo 3 le tureeícat, et dolorem per
univerfum pariat ; :raut exhauftis
tenuibus partibus,quz relinquun- ur
fontiiob esremancant;& quodammodo lapi-
Wi defcant;& ininvictum fere malü gri decidant, Als ill ud : (4€ I bÓA. Atenas tia m p 2m
ter calefa- Citntia s, Purgátia
valeterra non multüm in febribus ufum medicameétorum. Illud certiffimum
eft, 1n Galeni doécteinà 14.4 *5i» Àri
pareantium commendari;cüium $.44erb. 1. abío»
bus in 45 lutam putridarum febrium curationem trades, VON .
Purgatia Iivia repe
nta sque ti dianis Covent .
ne verbum quidem de purgatione habuerit. Et Il. AMeth. inrefolutorià illà :methodo
curativà. earum, cüm putridum humorem
evacuationeo effe propulfandum
doceat;ftatim fübdat, eligeix dà cffe
medicamenta, qua fine calore educant ut
funt mulía ; ptiffana;clvfter.| Et
1. 22. G/ane. etiam in continuarum
curatione purgantium., medicamentorum
non meminerit. In tertianà vero
praftare ait medicamenta alterantia,quàm. ||
quomodolibet evacuare: id veró, quód fe penu- meró per urinarum copiam;aut per füdores,
in- fenfibilémque tranfpirationem
morbifica caufa fit evacuata ; ; quód,
fi qua füperfünt, craffiores potiüs
alique portiones erunt, non multz, 111a
medicamenus noftris blandioribus non. calidis tolli poffunt;cüm in eà quantitate effe
conjecta- bimurquzad alios in putredinis
communionem attrahendos apta fit; cüm veró non fepe id in tertianis, continuis, et acutis
contingat, raró etiamin fine earum
purgationem exercendam. cenfüit Hipp. 1.
Zdphor. 23. 2.2dpbor. 29. € lili. dé
diua pura. . In febribusautemà pituità
venitis, qua : |." intermittunt,
levia quafi medicamenta purgan- tia
tantum, eáque per iptervalla admittit Gale-.
nus, quem fecutus eft Alex. Trallianus; magna:^ vii aüctoritatis,/» I2«£ap. 7. d€ hacre
differ €n$5, cüm dicitzVerz oportet
auteso ipfos tmiverfrm pur- ) [reete
vices, C ftmplicioribus medicament is.
1! €'c. Vnde fortaffe recentioresfuorum mmoran- 9 tiumufüm defumpferunt. quod 1n aliquo cafü,
et aliquibus febribus; et poft coctionem
conce- dituf ex arte, ad omnes febres,
et quocumque, "f tempore, et in
principio malé traducentes J^ z3. Levius
etiam;cautiüfque in febribüs om- '|
fibus purgandum efle conftat, quàm in alns
vifcerum,cordis nempe, et hepatis fervor, calor ex hiimorum motu contractus, et deleteria.,
vel faltem fatis calens medicamentorum
qualitas in causa fünt, ut cü timore in febribus pureemus, in: morbo autem non febrilr audacter
evacue- mus;id quod Hipp. Jib. de
rticuliss in fige, cla- rifhimis verbis
o ftendit. 24. Verüm purgare corpcra in
febribus cüm opus eft, inclinante morbo,
vel poft illum, quo "| tempore
vires majcr1 ex parte fü ntimbecillz, et E fpiritus multiüm exhaufti ; cavendum
maximc il Medico eft;ne ex affureendi
frequenti; aut ex humorum evacuationein
fyncopen incidant fui M ueri quod vel in
pureandis iis, qui à tertianà |fünt
évacuandi; niaximé timuit Averrocs. Qua-
] propter jubeat excrementa 1n lecto exonerare », vafe aliquo huic ufti 1 accommodato füppofito, aut findone plicatà, quod innuiffe vifus eft
Gal, : 3.de Cri. cap.9. r s:
et ( ÀÀ - E-
HÁ ÓMà Pureadg
Mone 2 morbis à febre fejunctis
: calidiffimorum enim. fZre 444 2:3
alus "orbis e? 471
Debiles dum pur- gantur, e
leto 207 furgant. 25. In quartanc febris rectà victüs
ratiorie », Quartana d&in quantitate;1lla
fit animadvcrfio; utin prin- rin prin
CX plo £iplo va- yu; Ui-
es, ch quemodo sariadus.
&alfatné- 42a quartz ^
Jod: 2 944 LADOr a znuàbuscon-
zcdenda, "n parece ; emer.
Quaia(cipio non in omnibus fit eadem;neque enim fefe per à craffiori eft incipiédum, quod ex
commu ni regulà 1. Z4pbor. colligunt
aliqui, in ftatu at- tenuantes. INeque
etiam femper per primas tres hebdomadas
abftinendum erit à carnibus, et pullis
gallinaceis, ut ctudi humores poflintat-
tenuari;& abfümi,quod magni alioqui nominis viris placuit; fed diftin&ione opus eft.
Saneui- nci,& carnofi, quique
lautiàs vitam per multos dies
traduxerunt, et qui crudis multis fcatent
fuccis, et qui ex fanguinein melancholiam ver- fo febricitant, primis quatuordecim, aut
viginti diebus,tenuiüs alendi
erunt,atque ctiam.fi fierl poffit ; ab
ufu carnium funt 1interdicendi,ut et crudi humores in vétriculo,& primis venis
exi- ftentes concoquanturattenuati, et in
fanguinem mutari queant, névealtius
permeantes obfttu- €tionesadáugeant. Qui
veró in primà regione cruda non
acervàrunt;& biliofi funt;macri.faci-
]é refolubiles;tum et pueri; aliter funt in princi- pioalendi,atque concedendze erunt carnes,
ut diuturno morboobfiftere poffint ;
atque ad fta- tumufque cum viribus
valentibus pervenire. 26. Quód
falfamenta iin quartanis laudentir à
Galerio,cavédum eft,ne multo eorum ufu mes
Jancholicus ficcus in corpore adaugeatur ; con- cedendá igitur erunt parcà manu,ut
medicamen tofa alimenta attenuante vi
predita, et utappe- tentiam, quz primis menfibus omnino folet effe dejecta.excitemiüs . 27. Sànguinem quidem in quartaná
miffufia pa per fectam venam, fi opportuné hoc auxilium
xis vez adminiftretur, Galenus cenfuit
optimum reme- /eclio 2u& dium ;
opportuné autem fiet, fi multus in venis 4ecozve« fanguis fuerit; et craffus, et fceculentus,niger
et "^ craffus. 29. Vnde jure merito Medic prafentia ne-
Quarta- ccflaria eft,dum talis actio à
venifecà exercetur, »3labora qui
qualitatem fanguinis confideret,ut eo infpe- bus di Cto, fi niger, et craffus fit, liberaliorem
permit- /?guis tat evacuationem,habità
femper virium,atatis, *"4^44-
plenitudinis, temporis ratione . Quód fi potius //^» Mess tenuis,& clarus fit, et potis ad flavum
vergat, gere fupprimendus erit.
shi. 29. .Adhibenda tamen hzc eft
cautio, ne fta- Sanguis 2 tm ac
perrubentem faneuinem,& bonum exire "miffione viderimus ; illum füpprimamus fieillatà ven;
fenguini fepius enim vidi primas illas
duas uncias effluc- z: quarta tes bonz
conditionis, quód non ex penitioribus »i» zé fta educantur,fed ex venis brachicrum, quorum //7
fuf- fanguis ob affiduum eorum
motum,quandoque PW, purior redditur ;
progrediente veró evacuatio- ^"»*'-
ne,nigrum, et craffum cffluxiffe. Quapropter ó Pes, faltem due, aut tres unciz vt effluant,
finendz funt ; antequàm certum de hac re
feratur judi- Sauguts 7 e» guis optimus é venà fluat, permitti debeat
effc /^ 24? ;1 1
"v 3 - . /* A i - * ^ 22
54071 xe;neque fif oporteat.fi forté ex antéactà vità, ^^^ et fignis
plenitudinis ad vafa cognoverirous, ^ - d
tantam fanguinis copiam conoeftam in venis cf- dm Íe;ut nifi folvatur, periculumaimmineat, ne
avt. 7/ Á HOovVvuS 114
LFD. SEPT ALII MEDIOL. novus
aliquis morbus magni momenti adjun-
gatur,aut Certe ex multà illà fanguinis congeftà copià obftructione genità aduratur fanguis,
et inatrum fanguinem mutetur, addatürque
in, caufam quartana . Ságuitin ..31. Etlicet Galenus deloco, unde
in quarta- quartana p fanguis eft
evacuandus, agens, cenfüerit ex quád? ex
Axillari,five internà brachii finiftri venà effe edu 4t? cendum, illud fumés, quod majori ex parte
eveFM. nit,originem quartanarum ex fplene pendere; du, praftattamen hacin re Actium fequi,
cenfen- tem, confiderandum effe priüs,an
potius vitio hepatis,multum
melancholicum fuccum eignen ris,vel
affato fanguine;vel aliquà alià occafione»
fiat:tunc enim potiüs ex dextro bracbio,; quàm é finiftro;fanguis effet mittendus. dnpefefa .32- In peftilentibus febribus,fic
didis; quód j» mini pefüferas
emulentur;ut verum eft,ma]ori ex par
potest fan te mittendum effe fanguinem fectà venà,confen[ élam vt-
dictis,rariüs id auxilium in ufum duci debet:nequa ex acris putredine, nifi
magna fabfit pleniperpenfis i gqnisper
fe tientibus viribus:ita in pefte;peftiferífq; fic vere fr. 747), C queenim umquam, fi à pravis cibis
in annonz '| : e " Md ^ quando, penurià fiat, fanguinem mittemus ;
neque in cà tudo,& humorumzftus;
miffo enim fanguine »» |. et füperfluum
fanguinem evacuabimus, et eftüij.
frenantes ; ceris occafionem fübtrahemus multi, 7 æris trahendi ; neque periculum imminet
tanti). " collapsüs virium, Át cum
peftis contagioaliun--j. ^ »
de delato alicubi ferpit ; qualecumque fit primüij ^ nrincipiem, miu intrepide poteft ; 11s
omnibus "tM perpenfis et obfervatis,
quz in reliquis febribus 5 8 putridis
confiderari folentquód ezdem vieeant
"Rindicationes. Confentit
Gal. 3.7 1. Epid. 26. in Critone.& 3g 3.cap.76.in Calvo Lariffe, in
qui- I bus voluit miffionem fanguinis
convenire ; cüm * E pefte laborarent,
2.77 3. Eprd. iz proezz. Quin et ERuffus;referente Oribaf. 6.5yzopf. 2 5.in
pefte», Abi fanguis abundaverit ; vel
ubi alii humores ']Rdmixu
fintfanguini.fiátque genus aliquod ple-
Inicudinis,jubet effefecandam venam.Idem Æt. der. f. cap. 95. et Paulus, b. 2. cap. 36. ex Ruffi )ffententià. Ex Arabibus Aver. Jib. 3.7 bezf-
T rad. dB- cap. 7. Rhafis 3.cont. T
ratf. 13. cap. 2. c? libro / Me
Pefle;cap.6.8c Avic.lib.a.Fen.1.1 rat. 4«CAp«A.
jit ii fatiseffe poffint adverfus Fracaftorium, et Inovitios aliquos,etfi magni nominis. Neque
ve- Jró faceffit negotium, quód haufto
veneno fàn- 1IIBuis ex venà non
detrahatur,ne bono faneuine ; "Ur
IPX venis evacuato, in venas trahatur, et perfan- "fBuinem difpergatur, non fecüs, quàm de
feclá "lrenà crudis in venis
exiftétibus humoribus: Dif- ü)ffPar enim
omnino eft ratio ; nam hauftum vene-
i'ifiuum quamprimum eft vacuandum,;dum in ven- eliriculo;& primis venis continetur, quod
vel vo- it /llnitu, vel pureatione fit,
venz fectione fieri non Uifboteft, quia
fanguis bonus In venis exiftens, de-
ullra heretur,venz veró inanitz fugerent, et attra- ""ilrerent ad fe venenum in
ventriculo, et mcefcnte- i! RÓo
confiftens, quo nihil perniciofius cffe poteft.
silDuare Diofc. b. 7.de curationeab haufto ver.e- jillloæens, non meminit venz fectionis; quem
fe- 5 H £ cutus Mri. -ec
ln Pt le s 33 J : ; : gnisad a- nem, et aliorum Mauritanorum
fententiam ea-4t. nimi deli ynus,qui
in aliquà pefte ad animi ufq; deliquiunogiui
quid no». fanguinem detrahunt;cüm in pefte potius quanagui enittédus: tas minor effe debeat fanguinis
detracu, quàmgu : &utus eft Act.
Ser.13.cap. 45.X Paul.//b. cap. 28. Ai
Atin febre peftiferà venenum, five materia pe-/7 - ftilens,non confiftit in ventriculo;aut
primis ve-4t nis,fed jam ineft in venis
cum fanguine commix-Jur ta ; proptereáque
detracto fanguine, pars illiussiui
materie peftilentis fimul cum fan guine inanitureduii Hinc Paul. Jb. $.capit. 2. dixit, veneno in
venissfii exiftente,(angmnem effe
detrahendum . Difpattjnu, jcitur eft
ratio curandi haufti veneni, et febrissp)
peftiferz evincendz .: fu ;:.
Cavendum tamen,nein Rhafis opinio«jtt:
inaliis febribus putridis,quód vitales vires in edm: magis. faciliüs concidant . i| In poffe fo. ..2 4, QuinimO,ne
detrahendus.eft fanguis pest in 9? H7 fe
tam venamdn brachio,fi morbus jam invaluufi;
MM rit ; quód vires qua f in princi pio miffus e(fedin, 2 jeg x fanguis,vegetiores factz
effent;,exonerata ab ona, re natur,
jam ex virulentià fradte fint, et propteyri;
reà refiftentibusmagne putredini;& alexiphar TM macis potilis eritagendum. ! 3$. Quid veró,erumpentibus,aut eru ptis
maur, culisillis;aut puftulis? an
mittédus erit fan guisslius. 'an potius
ex fpe&tandus exitus nature? an jamais,
eruptis ? Egofane, dumoperatur natura,à primfs.. -cipio fum fpectator ; mox ; fi feeniter id
agit ; 6. plenitudo magna adfit; et fervor
humorum;eve., cuo fanguinem fe&tà
venà; et fe pe miteftit mor, bus ANIMADVERS. LIB.F.: try jus, æftus imminuitur, validiüfq; reliquum
ad gutim expelli fepé animadverto .
Neque enim Wiericulum illud impendet,
qucd vulgus etiatn» nigj-iedicorum umet,
et adeó exhorrefcit,neífcili- get
humores ad cutim impetentes; aut delati re-
ulrahantur à circümferentiá ad centrum ; quod Wnifflione fanguinis fieri tamquam
certiffimum. Juffumunt;& tamquam
affertü à Galeno 4. zuezd; Ital. 1o.
Miffio enim fanevinis per fe potis fane
fjuznem à centro ad circumferentiam revocat,ut "ixperientia docet, et Galenus apertis
verbis tta dudit a. de ruezda val.4.quód
fi oppofitum c. 10. aMuu[æm libri
atferit ; id de multà fanguinis eva-
quauone per accidens intelligendum eft. Cüm Jinim per fanguinis mediocrem
evacuationem.; ginguis;qui in venis
internis reperitur,ad exter- J| » €
extra corpus revocetur, utin intetpisin-
qiammetionibus manifeftum eft ; fi ulteriüs pro- Jirediatur evacuatio;cüm interne ille magnæ
ves («hz exinaniantur.natura provida; ne
partes majo Jis momenti deftitutz
remaneant fanguine, ex gccidend, et fecüdarió
à carnibus et venulis am- ditüs
fanguinem iterum contrà ad interna retra-
liit. At i mediocris fiat evacuatio,tantum abeft; Nit mifhio fanguinis per fectam venam kedat ;
aut levocetut doceerit Gal.6.Fpid. Sec.
2. Com. 30. in latis illis puftulis
Simonis cujufdam;fanguinis dniffionem
maximé futuram proficuam.Neque :
Niicant; Oribaf:7. Synopíeos 7. €) 3.ad Evnap. 21. jum hac verba ad verbum recenfet, omififfe
feAMtionem vene; ut proinde ceníeant additum effe "M .3 in Antbra
eibus, t^ bubenib. apparent:
&us f«can da vena, € 4o
do. LFD. SEPT-ALII MEDIOL. r1
in textu Galeni, cüm in omnibus Galeni codici- || ci bus illa pe reperiatur, ut potius ab Oriba4
dti fii colle&ore omiffam per
oblivioné dicere poffi- «| 11) mus ; aut
aliunde defümpta verba illa effe, càümug m!
cadé difficultasin purgatione etiá fubfit . Quam] tuii opinionem confirmavit Æt. z. Quar.Serm.1
.cap-- Vit 126. puftulas, five vibicesin
principio peftiferæimo febris
apparentes, fanguinis miffione curans . 7
36. Inanthrace;furunculo, et bubone; potif- rs fimüm fi in emunctoriis cordis;aut cerebri
fiants, lunt nullum effe præftantius
cognovi remedium ; fiilüni vires
conftent, &cin principio verfemur,maximé3 ji fi plenitudo; et fanguinis copia adfit ;
fanguiniss[ yn: evacuatione, tum ratione
febris peftifera, tum) ratione morbi
particularis:càm enim fiant à fan- we;
guine craffo adufto, bili flava admixto; quidli equé fanguinem evacuabit peccantem 1n
totaxXir corpore, tum et dolorem illum
intenfiffimuma d mitigabit, qui fiepé
vires dejicit, maximé cümzdliny partem
nobilem obunuerit ; tum et materiam;
evacuativà revulfione à parte retrahet? Scio;hædin inre, ut et in füperioribus experimentis
certari sj; et contrariis quidem. Ego
veró in pefteillà in-4n. figni 1475. et 1576.
noftrz hujus magnz civita-4fti, tis,
profiteri poffum;ex octo illis Medicis;quibuss,
pefteinfectorum cura erat demádata; inter quossii, et eco unus erá, càm unus;aut alter vene
fectio-Juj. nemin fuis zeris aver
(aretur,Fracaftorii, et alio-4.. rum
doematibus infiftens, nec ex fententià cura-J».
tiones füccederent, mutatà fententià ; aliorumz p, exemplis, et felicioribus fücceífibus utique
ex-J citati ^w
Dd citati,quàm przftaret
fineuinem evacuare, tan- demcognovére.
Vndeetiam comimuni confen.- fü in pefte
hujufmodi nobile remedium nullo 4 modo
pretermittendum effe,decreverunt,modó ftaumadminiftraretur,
et parciori manu, cíáque adeffent, quz
in co remedioadminiftrando pet- i$
pendendaíünt. Eratautemnon ex acris COrfil-
' 4 ptioneuniverfáli peftis ea.fed contæione,& có- d municata ; et ferpens,falubrialioqui et cælo,
&e anni conftitutione faluberrimà ;
et rerum om- nium, quz ad vicum faciunt,
maxima adetat abundantia ; corpora autem
noftratia veré fucci 4 plena conftitui
poffunt. 37. Caveant tamen, nefemper ex
ehdem aut. 4,5, ven, aut parte fanguinem
hauriant;fi enim poft cius, eh d aures
parotides exoriantur,aut füb axillis buboe. 2u£ez;- nes, aut anthraces, furunculíve in trunco
füpes bus aptæ riori eruperint,ex
brachio ejufdem partisftatim *enióus
tundetur vena. Quódfiininguinibus bubones ^ £4fe; gU erumpant, et inflammatorium dolorem proei-
p^» Pd d gnant,;intalo ejufdem pedis
fe&à vená faneuis - Wevacuabitur. Si
veró anthrax, aut forunculus 5^
(fapparuerit, ex oppofito evacuabitur ; illà enim Mectione venz et naturam onere levabimus, et qananus adjutrices natnrz porri&emus,ut ad
emü détorium illnd humores detrudat ;
cüóm enim à dcorde plurimüm recedat,
vidimus plurimos ex jf f bubone in
inguinibus curatos ; pauciffimos au-
gJKem.fi poft aures per parotides; ut fere nullos, fi JMfüb axillis materia detrudebatur. Atfi
anthrax dnaícebatur in dextro; puta ;
crure, evacnandua H 4 erat - i Xe
X rj - 1
E E PLN 4 ULEIXBE
2e ZLPD. erat fanguis ex
finiftto, ne majorem molem ma- teriead
locum affectum traheremus,unde et in« :
flammatio major fieret; et dolor inrenfiffimus ; unde vires collabafcerent ; praftatigitur in
con- trarium revellere, evacuando,fimülq;à
princie fi pibus partibus virulentiam retrahendo. Do&rn- :
nam hanc licet colligere ex 6. Epid. e£. 7. tex. tun ubi
dicit;in anginà peftilenti fe venam fecuiffe in 1 cubito.
Scarifez- 38. Sed cm in pefteomnia fint inprecipiti. fut tis cur occafione pofita, et aliquando
Medicus ftatim . (ite in pefle [^ non
accerfetur ; aliquando etiam vene fedio ab [ui
Iuberri-. 4]iquibus non admittatur, cuperem ad manus j|: T4* artificem habete qui fcarificationem
malleolo- rumfciret adminiftrare :
commodum enim effe remedium cenfüit Apollonius
apud Oribaf.7« |: Colle&l. c. 19. C 20. quo etiam, cüm
aliquando jur pefte effet correptus, afferuit effefanatum;
quod. |ui remedium pro plenitudine curandà, quafi venz.
. pnr» fe&tioni zquiparaturà Gal.4.
val. tuend.4«O 20«. fii Qua actio omnino
diverfa eftà noftrifcarifica- tione inloco cucurbitularum, ut conftatex Oris
pat baf:7. Collet?. 18.ex Anvylli
fententià;fiquis ca- fun put illud, et modum
exercendz illius operatio- Bu; nis
confideraverit, et quz à doctiffimo Profpero Ju
Alpino de hac re fcripta funt ; ib. de Medicina Wu.
"Ægyptiorum, quidquid contrà f enferint Avic.I. fü lib.
Fen 4. cap. 22. et ceteri Arabes Media. 1
Cueubi-39. Verümfi jam aliquátó progreffusfit mor-. fan tula feri büsis peftilens aut nefciamus, an
vitales vires fav. ficata ali- fixing
fatis fint; quod aut vereamur,ne pertenta- - P
K1S alSfi: apr! ANIMADVERS.
LIB. FL. 124 tis arteriis peftemin
nobis contrahamus aut le- quiido vi- pe
cautum fit ; ne primis quatuor diebus Medic zs fe- Ipulfüsarteriarum tangant,ut apud nos
confütu- Zioz;s ve tum eft : certé
folebam egoin noftrà pefte .aquà. z«.
-icalidà ablutis füris;in internà parte cu curbitulas linjungere cum profu ndlori fcarificatione ;
iom Ikca evacuare fangvinem ad fex, aut
octo uncias ; pro fienisaut plen tudinis,
aut robore Yinubis Iquamvis enim
immediaté f; nguinem ex v cnis i fIhon
detrahant, fed ex carnibns, neceffe tamen,
Ie ft;ut carnibus inanitis, ex venis fübeat alimenA4 ; fum, et confecuenter eiiam totum
1nanlatut . 40. Quinimó et frequétius,&
tutiuseft prz-. c,;,,5;. Ifid: ium hoi
'Cc,cum et evacuet fanguinem. Citra» re cum
imultam fpirituum exfolutionem, ab he pateau- f'arifica- ftem, et corde, ad longinquam partem vi
irulen- tione in fia j;ftiam avertat ;
nec verum cft, quód non fint pro- 75 ? peffe
Futurz,quianimis diftent à corde ubie: na mina- f/equen- AN ft-
Inità plenitudine totius corporis ; ipfas quoque» p "i A72 €-
[cordi vicinas partes necefle eft inaniti., 1:21 0
4I. Quid fi inanito cor pore urgeant fy DABIO: ou eniin [mata,& exanthemata lenté prori
IDpant;COr V€-,,j, $ doy ro aneuftiis
prematur in pe efte, et animi eps fo qua ida
Itieliquia, autin fie nis do lor capis UIgeat, QUC zpJicam- Inmil lefvmp tO ma» quod fa penumeroó in
" efte» da, d jronungere videmus;
erità nobis przftandum ? quádo ni. An «
cucurbitule dorfo erunt admovendz Quod
].deó con troverfum inter M edicos video, aliisil- las omnino exhorrefcen übus;aliis paffim, et in, ljuocu mque cafu illas in ufum ducentibus?
Cen- jico;fi nihil aliud urgeat;non effe
temere, et fine. diíftnVeficitia i5 pesteo
aliquado gn ufum duci pof-
funt, fed ?AaYD.5 quande*
Veficátin $m fobrie bus peiti-
lentibus fone. tefle $n ufum
duci non debent . p f/" wt F.heitta
pavtibus f'spevnts y comatofrs
eff cliens - ia $2 LES 5 diftinctione admovendas, fed negotium
natur: effe permittendum. In illisautem
cafibus, turri (carificatis, tum fine
fcarificatione uti nos poffe, et debere
judico; neq; periculum (übeft, ne ver-
fus corattrahantur humores; propter totius cor- oris premiffam jam evacuationem, potius
enim é corde in füperficiem hümores
evocarent,cutm» manifeftà internarum
partium utilitate . 42. Veficantia,
utin huncufum antiquis ino pefte non
funt ufitata, ita, fi extremis partibus ;
potiffimum füris,poft univerfalem corporis eva- cuationé applicentur,non fpernerem,modó
eftus illein corpore non adfit,
peccétque potius fero- fus humor, et pituitofüs;fic
enimad inferna Viftle lenti humores
principibus partibus retrahétur. 43- In
peftilentibus veró febribus, quz cum»
efte non fünt, fed fic dicuntur, quód infignem quidem habeant putredinem in humoribus,
fed non hujufimodi,ut veneni naturam jam
fübietit; cüm putredo corriei poffit, et
per codtionem emendari, veficantia non
in ufum ducerem ; fed non fécüs, quàm
aliz febres putride curande
erunt;excellentis tamen putredinis habitá ratio- ne,ex exficcantibus aliquo addito, et corde
non mediocriter roborato. 44. Animadvertendum tamen tam iniis fe- bribus improprié peftilétibus, quàm in veré
pe- ftiferis, ratione fymptomatum,
potiffi muüm ]le- tharei,&
comatoforum affectuum,nullum effe»
przítantius remedium veficantibus ipfis ; aut parti brachiorum verfus humerum, aut
etiam íca pu- fcapulis applicitis: ferofos enim humores » et
usse le- frieidos cerebrum opprimentes
citó, et facil- thargo cà limé et attrahunt;&
extra corpus evacuant:Con veziuzt. ftat
hoc ex Antyllo,referente Oribaf.zb. ro. cap.
1 3.1n peftilentibus affectibus maximam fzpenu- meró effein fomnum propenfionem,in quà
fina- pifmos convenire (cribitymaximé in
lethargo;& magná fané ratione : nam
in lethargo confiuxus fit materiz ad
caput, unde opus eft revulfione »;
cümque perpetuo dormiant,expereefacere fimi li ?ravamine medicamentorum eos oportet.
Ide defendit Æt.-4rchbicene
Ser.15.cap.181.& Paul; ain,
/[7b.7.c.18. Hinc Aretzus Medicus, his et GalenoantiquiorJibro 1. de curandis morbis
acu- 115, c. 2. curatutus lethareum,
dixit, tibias urticis effe verberandas,
aut etiam valentioribus medi- camentis
effe utendum, denique etiam finapi. Cum
veró ii omnia priüs tétari voluerint, quàm
ad veficantia veniretur,oftendunt, quanto 1n er- rore recentiores verfentur, qui protinus in
mor- biinitio veéficantia effe
admini(tranda cenfüuerüt. 4f. Aliuseft
cafüs, in quo tutóin peftilenti- Veffcdtia
bus veficantibus uti poffumus : cüm univerfum ue corpus exterius aleet ; et egre calefieri
poteft, ^ bases non quidem fi
refrigeratio fiatob virium extin- Pura venies
ctionem; tunc enim inftaurantibus Opis eft: fed: ^70 rore . Kain - ^ . (02/2 27 p; PP fi ob alias caufas, tunc adminiftrari poffe
docuit V efic attin Antyllus apud
Oribaf. b. 10. Colleé£]. CAp.13. et in beffilen Archigenes, Aétio tefte, Sy»zma a.c. IS$1.
tüncq: ^ -) 13 tibus, abi et tibiis, et brachiis funt adntovenda »
Oribafio corbus alV referente;Zoco
addut£o, et Paulo 4E cin. lib.7.cap. getuiliaSce nT : ; ESO NST ME, Le ;.9 PNE ni EE bor be diii Me n4 Quibus locis con fat duobus folis iis
cafibus s in acutis, et pefte,
veficanubus nos uti poffe ; et hoc eft,
quod Oribaf.ex Ruffo //b.6.5 ynopf.- 2$»
ocebat ; in pefte calorificis quandoq; effe uten- dum,ad evocandum calorem ex profundioribus corporis partibus ad fuperficiem; ut et Æt.
5er. $.c.95.& Paul. lib.2. cap.36.
Vndeneque inom- nibus peftilentibus ;
neque femperin pefte vet cantibus
utendum cenfüerunt magni ii Medid; fed
aut in foporofis affectibus; vel cüm externa
Veficztia a|oent,& interna zítuant;cüm novatores ii fem- in peflilen Ser, Gcin omni pefte;
peftilentíque febre, quin dipsihar et fi
Deo placet, in principio veficantia adhi-
Lui 3d beant. Sed non eft mihi in bacre tempus con- m pajfm terendum, cüm à doctiffimis viris res
hac abfo- ufurpata . lute, et ex profeffo
fit pertractata » et à nobis 1n» libro
4e Peffe; annis juvenilibus, dum totusin cà
curandá in patrie mez calamitate verfarer,com- pofito difputata;quem librum Amanuefis
meus, ; homo exterus, cüm emendatum meo
juffu tran- fcripfiffetad
editionem;fuffuratus eft; nefcio quo
confilio,cüm ftiret;apud mein fchedis ca omnia T remanere,licet multis in locis defcedata
. parenhe- «|. 46* Evacuatio pravorum
humorum, caco- me utendi Ch ymises per
medicamentum purgans affumptü in pefle,
t On minüs,quàm fanguinis evacuatio,in pefteo [wj cur
convenit, et fortaffe frpiüsinufrm ducitur:ut [tn
enim venz fectionumquamin pefte;que ex pra» qu vi
fücci cibis fit. convenit ; et non ita fepéineàs [|i qua ex corrupto ære, fepiffiméineà,quecon-
tagio ferpit: ita in lisomnibus purgatioinufüm [i vcnire
. 2j venire poteft, licet multó
rariüs in eà, quz per contagium
vagatur;quód f penumeró virulen- ta
communicetur hominibus fnis,& optimis
humoribus præditis ; quibus fi medicamenta, purgantia exhibuerimus, et carnes
colliquabi- mus, et bonos humores
evacuabimus, fpiritus exhauriemus, et denique
vires vitales deftruc- inus. Quod
firefertum pravis humoribus effe corpus
conjectabimur, purgatione omnino opus
effe dicemus. In cà veró, que cx ingeftis malis cibis fit; purgatione omnino opus eft; licet
etiam ratione virium maxima adhibenda
fit cautio. In hancopinionem Medici
omnes Graci, Arabes, et Laüuni venerunt
; locis adductis ; ad demon- ftrandum
venz fectionem convenire; inter quos
Gal.1.de diff. feb. 4. Vnus ex antiqvis Celfus I;b. 3- c4p.7.& ex recentioribus pauculi
medicamen- t15 uti purgantibus in pefte
judicárunt inutile, quód non
putredinem, fed venencfam qualita- tem
fimplicem in pefte fübeffe putàrint ; quód
veneni naturam medicameta propemodum om-
nia, et igneam naturam participare cenfeant ; quód alvi fluor iis concilietur, quo
plerofque in pefte illàinteriffe
teftatus fit Gal. 3.27 3. Epid. J 59. cüim nequeCelfi auctoritas przponderareo
poffit tot magnorum virorum auctoritatibus,
neque recentiorum illorum rationes convincat ; quód atate noftrà tot medicamenta inventa» fint;
que nequevenena fint, avt venenatam na- turam participant,neque exceffi caloris
ieneum febris x(tum adaugere ; neque etiam alvi fluo- rem
effe im z10 i 4)
DinvOniüit f Hnveca D ue rem concitare folent; cm non in otrini
pefte» fymptoma hoc füpervenire fcribat
Galenus; fed in cà,quz fuo tempore
vagabatur. In quam pe- ftis
conftitutionem fi quis inciderit ; cauté fe ge-
ret, et iis uti poterit; in quibus vis aliqua ineft et adftringendi,& roborandi. 47. Invento auxilio in morbis, illius
exhi- bendioccafio eft inquirenda, quod
maximé in pefte eft obfervandum : cüm
enim 2. Z4phbor.do- cuerint Hippocrates
et Galenus ; vel ftatim ab initio, vel
poftquàm matu rpnerint humores;co- fint;
in declinatione humores effe purgi- dos
; difficultas in hoc cafu maxima efle folet
etiam inter dociiffimos. Ego, quid prz-
fiterim in hac noftrà peftilentià, liberé dicam, et quibus ductus fu ndamentis; cui etiam
even- cuim felicem fücceffiffe,
fàn&? poffum profi teri, quantum
peftis effrenis rabies cócedere poteft.
Evacuandum igiturin principio ftaum aut (e- &5 veni cenfto, faltem fecundaà die ; fi
putrido- rum, autimalorum humorum copiam
füb effe coenoverimus . Neqve
"Apbor. 22. 1. Sect. quo afferitur,
Concotiæ ffe ved: canda, €t cruda non
movenda, nifi materia turgeatsraro autem tuveet ; nobis repugnare cenfendum eft. Quod ut
in- tellieatur, confiderandum folüm
erit, an fub evida, contineri poffint
humores ilh 1 i
) "mE ES: Ciique
b ^41 0 CLAÀM
1( VV YT/^111 2
Cil il Tii t tia Nol d dcó putrefadii in principio febrium
peftifera- rim. Egofané non video;
quomodo materia, qva nullam patitur
concoctionem, neque 4li- mentilem; neque
impropriam quee pttride materix gmateriz convenit; cruda dici poffit. Crudum., enim, et coctum correlativa fünt
;itautcrudum Ifit, quod coqui poteft,
fed nondum hanc perfe- I ctionem per
coctionem eft affecutum . Atqui fi
gBradum eum putredinis affecutus eft humor is, jut peftem gignat, quo major vix dari poteft,
ut jam veneninaturam inducerit, et ad
benignum fgmplius reduci non poffit,
certé eum numquam Iveré crudum dicere
poterimus; aut coctionem [ejus pro
purgatione effeexfpectandam. Eóque
[iagis, quód majori ex parte materiam hanc, [turgentem effe obíervatum
fit: quare càm tur- gentem materiam
excipit ; utique peftiferam., E materiam
exceptam effe cenfendum eft, Iquód
fepenumeró primá dietureeat, aut pro-
Ikimà die, aut alterà turgés fit fütura;hancenim IFuam perturgentem intellexiffe
Hippocratem Iconftat 4. Z4pZor. 1o. ft turgeat in
acutis, eadem fue effe purgandum,
atierentem . At acutiffimum Imorbum efle
peftem, in quà materia plerumq;
Iturgeat, quód acris fepé fit, ardens, virulenta, IQueque undequaque mota principes partes
im- Ipetat, quilibet, qui morbos
peftiferos viderit, jac diligenter
obfervaverit, facilé cócedet. Nos lin
noftrà hac peftilentià fepenumeró vidimus in
jtodem grotte, eodem tempore à naturá mul- Jas.ac varias tentatas effe excretiones, per
alvü, per vomitum,per füdores, per urinas, per cutis Wefflore(centias, et per carbunculos quoque,
et »ubones. Docuit hoc Ruffus apud
Oribaf. €. ]Wynop[eoscap-2.5. et Æt.
Ser. $- cap. 95. SON Q9 Peftis tnn
feria turgens fapeDnuta2eràó. Jib.2. cap.36. qui adeó varia, et vehemétiafyms-
ptomata in pefte dum referunt ; nihil aliud re-.5 vrafentare videntur,quàm tureétem materiam
hinc inde latam; nec certam (edeníhabenteimn: j
Quz fi, dum venenata eft, purganda ftatim eft.(iu abinitio, ne repat ad princepsaliquod mem-
[0 brum; multó magis tunc evacuandærit,cuümo
|t veneni natriram habet;cujus
proprietas eft prin ful cipes partes
petere. Oftendunt 1d 1pfum pefti-| ti
lentes cafüs, quorum libris de orbis vulgar. 10 meminit Hippocrates ; colligimus enim mate-
jm zias in eis fuiffe virulentas,& veneni
participes; [itm væasitem, et certam
fedem nó habentes : cám] aun enim varias
fedes peterent, varia etiam fymco-| var
promata induxiffe fcribit; in multis papule ap--j t; parebant, qua mox retrocedente materià adl
t; internas partes delitefcebant, quz
pofteà alias» iti inducebant feva
fvmptomata. Neque quif-4 ui ! piam
Hippocratem obiiciat dicentem.zz9 zz4-4 tui;
Turg?5 -geyjag rursere,nos autem afferere,in pefte fzepe-4 ui mæt, DUDmero tUTgere; fi namq;
confideraverimus; p e«t quomoto - A n
raro evenire,utiq; materiam raró turgerezdt
peftz [epos &n peftefiepe türgere, non effe contraria, autif
ois. JE Contradictoria juidicabimus:
tureget enim mate, ria,cüm natura à
multà, aut pravà qualitate afíjti
c&ta.materià concitatà, tentatJnter initia eamuaJi: v. xpellere ; qua mvis importu né:
fcimusautemujlu, peftém femper
àpravà,& veneni naturam faxis, 'piente
materià fieri: Non tamen credat aliquissphuii.
nos putare, ubi nonturgeat materia evacuanedly, à 7* * . . h
dum non.effe : nam cum virulenta fit materiai morbum
y4r0,0ov 1n ra i c *
: d d. ^" C- morbum
faciens, et timendum fit, ne ultetiüé
procedat, reliquos omnes humorésin fidendo; venenique participes eofdem reddendo éx
cori- tactu portionis illius prim: ex
contæltone ac- quifitz, pureandum ftatim
erit;ne ad terminum eum ducantur humores
omnes, de quo locutus eft Galen. /ibró
adver [us Iulianum,cap. » Quod ubi totus
fanevis putrefcit,vel alioqui vitiatur;
morbi; quiinde oriuntur, curari nequaquam; poffunt. Inquit enim: ZVoz pollictztur M
edici 3 Je omues morbos ex vitiato
bumore, 0Hmmeizque pu- tredinem
curaturos, [ed eos tantum, quibus corpus
t"dhbuc validum eft . C2 vires robu[le ; non aute, quamdo [aneuis penitus corruptus, G"
fachus arugi- nofnssut affumptum
alimentum in corruptelam tya- bat ; et quz
feq. Cüm prétereà morbus is acn-
atffimus fit; fi declinationem exfpectare volueri- imus, inanis omnis noftra opera erit, non
folüm. quód fruftra exfpectetur coctio,
quam nullate- nus humor poteft admittere
; fed quoniam cüm J| declinatio tunc
fübfequatur ; càm aut à natur j| extra
corpus pulfus fuerit humor,quácumque.; tandem v1à 1d fecerit, aut ope Medici,
aut mit- 1! fione faneuinis,aut
alexipharmacis,& fudorife- I
ris,fruftra tunc Medicus tentabit in fine propel- lere. Non negeaverim
quidem,;aliquando ex pui- a eandum
eftfe1n fine corpusà reduviis, ut renu.
di1riri poffit, atque à recidivis fefe vindicare qu 4 przfervatio hzc potiüs erit,quàm vera
curatio . Ij Purgandi igitur potius
erunt ab initio humore: J qnod cüm
emendari nequeant; quamprimum. : !
exrclli Wes ctr tuta raa nns rs crie
RCM EE ette Matteo 129
NE $5 ATDAIAC: S expelli debent : namapuffimo vini exemplo
ex* plicuit Gal. 2. d pbor. 17. quod ubi
acefcere cce- peri5adhuc vinum eft
acidum;& tunc emenda- r1
poteít,& ad priftinam natnram reduci:fi verà corrumpatur, et naturam propriam amittat,
nó amplius vinum eft, fed acetum;
tuncinon am- pliusad prittinu m ftatum
reduci poteft: Ita fan- guis,caterique.
humores,cüm pautrefcunt;ad be- nignum
ircrum,autíaltem ad conditionem,quz non
multüm noceat.coctione.deduci poffunt; at
cüm. compurrucrunt, jam naturam mutarunt s ncque corrigi amplius den dy fed tamqua
om- nino deletetia ftatim.expelli à
corpoze debent . Eít infuper prater
morbi cauíam conninentem ; quzeftaut in
venis prope COE, aut 1D partibus cordi
communicantibus, alia quædam vitiofa.,
in ventriculo,inteftinis;&.circa præcordia adhe- rens,dolore,colore,aftu;naufcà;amarore,
aliísv e fignis manifefta, quz.
neceffarió quamprimum. purgationem.
SREPI cH aMiquie declinationem po- teft
exfpectare. Qua fane.eriam efficit, ut alià
rationein principio euam expurgari debeat: nà fiin hoc morbo per totum ejus. decutfi fum
alexi- »harmacis., .& medicamentg à
totà fubftantià utendumeft, ut etiam i1,.qui
fecus fentiunt de hac purgatione,
concedunt nonne nccéffarió MES qe
concedent,in impuro corpore pracedere debere
ps, gud purgationem ? Hxc namq; vel 1pío Gal. tefte ; fit expui-. lib. $.de Janit. tucnd.cap.6.ante
non fnt affumen- qa? cr. da,quàm totum
corpus inanitum fuerit : cüm po impuro
torpore nó Ju enim.€a vel
itaanuüpharmaca;vel antidora dican [uL
., ANTAIADFERS. - LIB. V. 131 tur, quód totius(ut ajunt) fübítantiz
diffidio 1mmutent yenenatam illam
naturam, frangant, obtundàntque, atque
prorfüs cxftineuát;&. €Vàec cuenrtà
corpore per fudores, atque cutaneas ex-
creüones ; nemini dubium effe poteft; in corpus noftrum hzc minime praftari pofle, nifi
prius Inanitum.fuerit corpus ;: non enim
ad cor vires fuas emittere poterunt,
nifi meatus fint SEPhn eati; neque à
corpore per- cutaneas excretio venenum
expellere poterunt, nifi pariter be fit
evacuatum .. Quin neq; e
atcuationem per cuum ullam effe diu in
eg i totum corpus inanitum fucrit,ex
Gal, 8. IM eth. 4.
CQ" 11. M4 e- th.1o,at nec
rarefaciendum prius, quàm fit eva-
cuatum, 11. 74eth. 9. colligitur. Atinquiunbid fieri fanguinis miffione . Verüm quomodo
vim argumenu effugiunt;qui illam
refpuunt? at om- nes faltem fatentur,in
multis non convenire, ut in pefte ex
pravis cibis, et in cacochymis cor-
poribus; in quibus ex fpecta r1non poteft conco- €io ; faciendum igitur quod jubet Gal. 4. dé
2 tuerrd. val. 4. Quod alienum à natura
efl.nt ad pri- flinam bonitatem vediei non poffit protmus evacue- |fwr. Huiusfententiz fuifle Galenum,
colligere, poffumus ex Ib. 1. de differentiis feb.4. ubi dicit, impura corpora in principio ftatim effe
purgan- da; et ad fanitatem deducenda .
quod manifeftis verbis confirmavit 2.77
$i de morb. vulg.in Si- monc;in quo late
puftulz efflorefcebant;idq; in libris
Methodi medendi TInonftratum efle a
f- firmat;quod vel $.Ætb. sed. c.12.
conftat, vbi * habet : habetzCarerum,iiinpe[le
facile [omari funt, pro- pterea quod præx[iccatn
vis» prepuratumdq; corpus otum
fuerit;quizppe quod evomuerint ex Tis tonmul-
li; onmibus venter profiuxeritsatüs cum ita eva- euati effent qui evafuri evant siis pu[Inle
quas exan- phbemata vocant, mpra
foto.corpore confertim mul- te
apparuerunt, ulcerofe à quidega plurimis, ommibus certe ficca. Cuibus ver bis vel cecis
mamfeftum eft ; pureanda etfe corpora ab
initio in pefte». Quid.énim per pureanda
effe corpora fignificat, nift in
principio effe-evacuanda füedicainenm
purgante? Nonne pratercà conftat ; excretio- nes has peftilentes nuHas fere effe criticas,
fed fymiptoníaticas; qua in
principio;vel augmento 3ccidunt?
Atnihilominus prepurgatum effe »
déberefcribitcorpus, antequàm apparerent; nó icitur exfpectavit coctionem. Secutus eft
hanc fententiam Avic./ib. 4 4. Fen
1-Tr.4.capit.4.cum inquit: Summa
curatioms hurus febris eff exficca- tio,
C 1llaftat cum purgatione, à qua tocipere de-
bens -& Kver. 3T bet1fit. T ratl. 3. cap.1.qui in, principio pilulas ex fimocolumbino, aloe, et agarico commendatin pefte. Et R hafis tum
5. Continentis, cum lib. de Pefle ; quos
pofteàfecu- tus eft Aver.2.Collett. 56. Éx recentioribus
etiam plerique feré meliorisnotz, inter
quos Manar- dus Ferrarienfis, 5. Epi. 3.
et 13. Eprff. 1. et Vi- &or
Trincavellius zz l/bro de febre pe[ilentialin
hane venerunt fententiam. Quod experientia etiam confirmar e poffum: Mihi enim.
&fociis in 1nænà hac peftilentià
magne hujus urbis fehet- CCY ; dag ter ceffiffe, (ciunt et præfecti fanitatis,
et cives noftri, publicéque etiam nos
laudárunt pro bo- nà,& fedulà
preftità operá,cüm purgante medi-
camento ab iniuo feré curationis ufi fuerimus. Quod et Gentilis ille Fuleinas fibi
experimento conugifle teftatur 1.4.
ubiinquit: Ego vidi focios zoftrossviros
expertosqui 1n prava pefhilentiaspri- pa
» vel [ecunda die,"velin quarta ad [nummum s » quam citius poterant, dabant pharmaca
evacuan- L4, exfolueudo materias, ficuti
Rbabarbarum, vel "A garicum,
aliquando dabant auedicinas Y1g0- ratas
cum pauca Scammonea ... Et vidimus plures
evafilje per manus 1ftorum, quàm per manus illo- VU, qui gon purgabaut, mfi cum levibus
cly[fe- v115, C quandoque [ola
caffia.Neq; rationes, quas contrà
adducunt, multüm urgent; quód enim A
phorifmü 22.objiciunt;jam docuimus;aut füb
turgente comprehendi, aut fané veré materiam 1llam crudam dic non poffe, quód nullam
co- Cüonem admittat. Neq; caliditas
medicamen- torum vcrenda eft quz non
avocavit Galenum ab corum ufu;ob majorem
utilitatem in turgen- te materia ; minus
autem nos Impediet in pefti- lenti;in
quà fx pé minor eftus fübeft; potiffimum
cum mitiora quàm plurima medicamenta, mi- nus calida ; vel vix caliditatem attingentia,
et fimplicia, et compofita ncftris his
temporibus fintinventa. Neque vercnda
funt mala, et in- commoda, quz fequi
docet Gal. 1.24pbor. 2 24. € 2.
pber.9.ubi quis crudam materiam in prin
€iplo,& non przparatis viis edu3 crit;cb majora E. :3 enin
"$a enim mala fugienda in
tiizgente materià ; noti» veritus eft
ftatim evacuate, ;Ob eandem etiamo
caufam nos in pefteidem preftabimus. Néque alvi profluvia;quaz in pefte Hippocratis
tempo- re ubi fipervenirent, mortem
inferre folebant, debentnosab
cxhibitione niedicamen torum in
principio deterrere: namietfiin ea conftitutione |^
id.eveniebat; in aliis non femper eft cum pefte» cotijunctum . Sed veró etiam nulfa vis
eftargu- menti; nam fluxu illo siulti
interierunt, quod nimis oppt effa;
acirritata natura fluxüsZ exone- taré
tentabat ; fed et füccumbebat; et materias
quafieffrenis facta plis jufto fluens vires deji- ciebat,undem ors fubfequebatur; at ftatim
pur- gatis himoribus. periculum hoc
evitabimiis . Sedatgumentantur preteteà
auctoritate Gale- n19. de fimpl. medic.
facult. cap. de terra Letmnias
tibiinquit, illos; qui tetre Lemniz;ant Bohli Ar- inehi affumptione cnrari non
potuefunt;plerof- queinternffe . Ovafi
Veróy five manifeftis agant
qualitatibus, five cccultis;in ufum hac tutó du-
ci poffint, non praimifsà purgatione ; cüm jam. ji Galeniauctcfitate c onftitutum
fitjanupharma- €á ; et antidotos tutó
exhiber! non pofle impuro corpore..
Peftiferz avtém, ac virulentze mate-
rie cum venero coim parátio,quà probare nitun- [ wir;in principio non effe purgandum, nclla
eft ; 1 neque convincit: Affumpto enim
vencno, cim.» matcria.ea in ventriculo contineatur,vomitorils quamprimüm ex xpelleretentamus; aut fi id
ob- üncrinon poffit;emollientibus,
lenientibus, vel lubri* T * Ex DRM LS od UBL.
mts tte S sni eii e s in otn c lu
bricantibus per inferna ( fr bducere conamur.
Ita 1n peftecüm primüm corafficiatur,omni in- genio Gmnino tentandvm eft, 3 nobiliffimà parte
1llam revocare, ac quamprimüm ex corpore»
pellere. 13j 49. Caveat autem Medicus.ne; quod iri pefte
Peffilétes conftitutum eft, in iis feb
ribus; qu et,quódinfi- z/,, 5. gniorém
habeant putredinem, ;quàm vulgares ze peffe »
febres putridz, quóodqvein aliqu ibus fyrnpto- cockienens matibus peftiferas veras aiu léritig
Peftlentes expe fttt s dicuntür; quales
font;qua maculas, qua les puli-. vecz prin-
cum morfis »aliáfq; etiam cutis efflorefcentias cdd junctas habét;idem obfervandum cenféat : cm
£244 - en1m eó nfque non fit in eis
progreffa putredo, ut ad priftinam bo
"nitatem revocari non poffint
humores,;ait fané cü m per co&tionenrad quam- dam temperiem et mediocritatem reduci
pof- fint, ut mitéfcente eorum ferocia,
autà naturá, autarte a Iv Medic pelli
poflint, exfpectanda om- nino crit eorum
ccncocto, sícque non in princi- pio »
fed in declinatione érunt vacuandi .
49. Qi 'dunvi Is autem eorum Opinlonern recee Purvatia
perimus, quiin peftein princ pio humores effe v4//2a ;» purgandos cenfüerunt veré cathartico medicà-
peffe sem mento, inter quos diximus
fuiffe Ar abes; et in- c?veziit. ter hos Zoarem,;& Avertocm: ; 'ecipi tamen
ho- rum duc rum op nio non debet, qui validiffiinis utendum, et calidiffimis
medicamentis cenfie- runt. Nam Avenzoar
3. 7 be; "JIr.cap.4. commen- dat medicamentum ex ev phorbio, et aliud
ex fimo colunibino,::Aver.veró
2.Colleél. Cochias ]4 exhibet .
Mediocria enim,necimpense calida, potius
in ufum duci debent, tum fimplicia; tum
compofita ; in quibus etiamfi ícammonn nonni- hil excipiatur ;adeó tamen aiiis
ingredientibus orrigitur,ut ad mediocritatem
reducatur. Stibii vi- $0. Vitrum ftüibii
; quod tà »ntopere : probatur mm in
aliquibus, nullo modo admitti debet ; quód ve-
p«fte P*[f nenatà fuà qualitate majorem in humoribus in- 0471 . ducat malignit atem,& ferociam;
tum quod ex- perientià compertum fit ;
infcliciffimo eventu omnes in bac noftrà
idi e: qui confilio Em- a ne um eo ufi
funt; ad unum interiüiffe. . Neq;
tamens ego fum, qui multotutr. goeerroe
crrorem fequar ;utrumque hoc vui magnum
auxiliumin pefte, ut &i in reliquis fe-
purgatio, bribus putridis,cxe 'rcenüum; cüm Hippocrates e fangui altero folüm- utendum fuadeat
aliquando ; ali- nii mif. quando autem
utroque; aliquandoauté neutro . Suderum
$2; Sudorümjn verá pefte, peftilentibüfque
provota- etiam aliis feb ribus promo tio, frnaturà duce fu tio i» j*- (cepta fuerit ut tuta eft, et perplacet;
ita difpli- fte: M cecomnino cüm natvra
prorfus defes, inérfq ue» ^/P2P4/7
wullatenus munere (uo fungitur, videtürque»
ii malo prope fu iccu mbere. Intempeftiva enim» et audax
nimiüm efteorum curatio, qui miferos
zorotantes fruítra fatigant, alias excitatis toto corpore fudo ribus; aliasadhibitis
cucurbitulis ; aliove quovis ezeeza e
:x9y auxiliorum genere; quód aliud nihil
facia int, quam inaniter egrotan tium
corpora vexare;incertámq; pro certà cura-
tionem füfcipere:; que omnia ocioforum funt homiPefe jte
vantib. femper co tem
i]lum gradum putredinis;ac ad exftineuen1 ! E
ma m "Y. . * hominum,atque vires, valetudinem,vitámque alienam pro nihilo habentium. Quantumvis 191turro buftz fuerinta erotantium vires,
num- quam admittenda füdorifera hacab
initio cre- diderim, nec Medicus
Galenicus sumquamJma- Smudores $
turabit exp xilfionem per cutimtentare,exfpecta 7efzequa bit potius,dum aliquid ipfa perfe natura
molia- 4o promo- tür,animadvertétque
curiosé;quorfüm ipfa ver- vendi gat,
quàve parte infenfz mareriz quarat exitü,
alioqu 1 naturz motus antevertere, incerta pro certis ageredi;contraria moliri, et ab
incepto re- vocare,non fine vite
difcrimine poffet: quinimó, ne ftatim
quidem per eas partes cevacuare debet,
féd folum ubi imperfecté operetur natura. ] heriaca, et Mithridatica ma ignacom-
TLeriaca pofitio, ut femper,
nifiautaftusineens autin i» peffe. cem
pore;aut in corpore fuerit;ad p refe rvandas quado uté corpora à pel íteà me commendantur; ita
procà- 47 et quo den Pn dà nonita
frequens earum ufus effe modo, ien
poteft: quamvis enim ad cohibendum excellen- reis Triend&. dam^4 virulentiam convenirent ; fi tamen
ardens éebris (iib fit;a ftüfq; maxim
"E humoribus, et Ccorpore,non ita
tutó concedi poffunt, ne, dum. venenoobfiftimus,
ita febrilem calorem aucea- mus, ut vel
ex eo folo mors ipfa AQOISAGRIP S
À Iquacumque vcró de causà mors
fübfequatur;idé cít. Obfervandui n
Igitur erit, "PN valeat bilis kin
COI orgia eique putre do illi virulenta fit
Iiconcitata, przftare femper, poftpofità Thcria- lica. et Mesià ficcifa; antidotis iUis,
C&fclls ut), used DRE c Ft ah ma P
str rre i iy i om aue T Mace
Lapillorz jrecioforz uus 6d s
0mmmino ve gtciendas, nrc paf-
Mim yu* fit, Yecipiendus. Pulvtfen
loru» CAaY d acoyz117») ^ f. aJ p
8$[us ocu eibis y fed 2014210 YLo 224€ bo re * e
CipleAus . quz refrigerandi ; et fiecandi
facultate, preter alexiphar macam, prædita
f unt, ut acido citri, la- pide
Bezahar,margaritissX fimilibus. $1ve cro,
quod in plurimis obfervaviscalor £ebrilis fit nu- tis.nulloq; mmodoaftuans peccétque aut
pitui- tajaut melancholia,in iífq;
cóceptà potiffimum fit putredo,vir üfque
inde en aftatur;tutó et The riacà, et Mithridatica
compofitione, et fimili- bus antidotis
uti licebit ; quibus etfi calor febri-
Iis nonnihil adaugeatur, major tamen erit ex i]- lorum ufü utilitas, tum in evincendà vi
veneni illius, tum in attenuandaà materià;,
&cad cuum, temi ; $4. Vt lapillis preciofis,& gemimis non
om- nino fidem detraho,
Sapphiro,Smaragdo,Hya- cintho, &c.
quód multis, et magni quidem no- minis
viris eorum ufus receptus fit, &in multis; et magnis antidotis receptas.ilfas íciam,ut
in. electuario de zemmis dicto, et alioà
Concilia- tore nomen fortito;ita nec
eifdem mudltü tribuo; ob eas rationes,
quz à doctiffimo lo. Bapt iftà Svluatico,
primo Medicine Profeffore in Aca- demià
Tícine enfi,amico fingulari ; inlibro huic
rei dicato propofitz funt . fos
Si quandotatnen in ufüm Medicum dv-
cendi funt, communis error erit fugiendus ne ante cibum immediaté ejufmodi pulvifculi
ex- hibeantur, ut nec marearitarum: ex
illis enum» cibo commixtis cementum
quoddam obftructio nibus e1enendis
aptiffimu m 1n ftemacho eene- ratur.
Preftabit igitur ; fi modo iis uti volue ri-
mus, € et -
m mMENEEEE TALL 2 P
GÀ mnÜáPmÜP pe mus, 1mmediaté ante dulcoratas potiones ;
aut fullatitios liquores, fummo
manéfolitos propi- hari;illos
concedere. 56. Auri ufus et ad
ADIHERTOCROTOM et adatra- Aaturi ufus
pllarios affectus antiquis et recentioribus com- Pres lai mendatur,quoód, citm fpiritus recteet;cot,
nobi- 447dns. uffimum vifcus,robora ire
poteft: neq; enim Det- [enil opinionem
recipio, qui non nifi in aureà IM
lexandrinà rec: ntiorum Græcorum ant!do to,
D. n fecipi, aut pro »poni afferit ; cum alioqui I Nicandet;an tiquiffin nus et Poet a,&
Medi- rus, auro peros affum pto in
alexiphartnacis vta tur; et Diofc. [;b.
$.c. 69. de ateento vivo;auri li- atam
fcobem mirabili effe aüxilio fcribat. Mo- T
lis Veró, quo uti oportet, eft, vel eo i tenuiffi- 4^" E fii - "d es affumé niim pollinem redacto) et comminuüto; hoc p4-
j ni tto: Defæcatifffmum,&
puriffimum autum eli- mal : featur, et coptufüm
tn foliorum form3, aquà ro- jaccà
afpersa, fub Porphyrire, aut matmore, ad
pinimenti inftar redieatur. Sunt etiam,qui Pan- Phonicos ducatos;u itpote ex purior e anro;
fub la- Pide piclorum [xvieatos quàm
tenuiffimé acci- pant. Alnafperolinteo
condnué affricant, et E s ;in quà
defcéndat. Quód fi I. hymicà indufttià
in liquorem fólvatur, modó Wimis 1eneas
in (d non habeat partes, fortaffe ts 3
commehdari poffet : $7. Stultum veró, meà fententia, eft, aureas T UE -Bionera s,annulos JAUT ca .tenas Intra
capones, ju- Wrula;aut ftillatiti s
liquores;aliofve quofvis co- eà teræ;
J[uere ; cum in his nihil aliud abfumatvr,; quàm. món: multa$, ^ net aí $,
Ex avfent co placéta pro corde
in pefle de tefland«. incequere, multarum manuum fudor
adharens;nihil enim abfardi. ponderi
penitüs detrahitur poft illorum elixa-
tionem : necetiam quidquam aurum aqua im- primat, nec etiam faporem, odorem,
aliüdveo adjiciat.TE 58. Placentas Iacobi Carpenfis ex
arfenici cryftallini partibus duabus;
unà autem parte» rubri, ex albumine
ovi,& tragacanthz mucagi- ne
exceptis, quas facculo fericeo, aut ex aliqua
tenuiffimz texturz materia obvolutas,& cordis rceioni appofitas, anosà contagii labe
immu- nes, omninogq; illzfíos fervare ;
«eris vcro ad fa- ]utem magnum momentum
attuliffe;creditu m. eft; neq; recipio,
et longa experientià in noftra, hac
peftilentià doctus omnino rejiciendas con-
fulo: neq; enim experientia ; cuiii tantopere in- nitebantur, pollicitis refpondit ; quinimo
gra- viffima aliquibus fymptomata
induxerunt,ut in aliquibus etiam mortem
preci piti quodam im- petu concicarint.
Vidimus fervos ; quiin magno illo D.
Gregorii Valetudinario ægris; et infectis
hoc morbo operam navabant, et Chirurgos hac placentáalioqui munitos;brevi fatis
conceffifíes, quinimó multos vi hujus
remedii 1n graviaad- có fymptomata,
animi deliquia, fyncopales fe- bres,
tremores cordis incidiffe obfervatum eft »
utfe per illud vim peftis effugiffe fomniarent in vehementiora fortaffe accidentia, et mortem ex remedio incidiffe certó cognoverint. Multáq;
exempla in hac noftrà peftilentià afferrezs]
poffem,nifi et ratio ipfa 1d perfuaderet:nó enimesp ^ qucd
M !
S Ami Joiha CJ PP, 1 $t. Huod aliqui afferunt,
conferre poterunt ; quód arfenicum
occultiore vi venenis tamquam vene- num
obfiftat, cüm arfenicum non occultiore vi,
fed corrofione conftet effe lethiferum. Ex quo etiam colligitur ; nullam eorum efferationem, Qui cà ratione afferunt conferre, quód cor in
pe- ite primo affici folitum, veneno
fenfim affuefa- rlat, undenec tam
repente, nec fine negotio po- teft ceca,
violentáq; pernicie corripi; cüm ratio
nzcnulla fit; quód et experientiam habeatad- yerfantem, nec arfenicum hocmodo inter
venc- 14 connu merari poffit. $9. In variolis,. et morbiilis curandis,
cüm Jecoctum lentium, paffimapud Medicos
AraLentiz de €ockur t2 »esmaximé commendatum, etiam apud mul- see,
ge os in ufum veniat; cum abuftm
potiüs illum €^ ia vaenfeam, hocloco
nonab re effe credidi, etiam *ielis, ip;-
iujus erroris inrer medicas 1ftas Cautiones me- prebad . Ipiniffe. Arabesiegitut omnes fcriptores,
inter [uos precipui R hafis 18.
Coztinentis, € 10. ad IMlman[orem cap.18. et Avic.4. Cant. cap. de cu- Wizndis variolis. ad materiam ad ctim ex
pellen- 'Mam,& ad evocandas
variolas;ex lentibus folis, I ex rifdem, lacchà, caricis, tragacátho,&
hu- qiifimodi, decoctum parabát.ídque
cetera omnia -. ]
irefidia ad hoc munus obeundü parata füpera- PÍcripferunt; quo etiam multi ex
recentioribus à peftiferis, et pefülentibus
febribus ad mate- iam ad cutim
propulfandam;acad fuüdores per- novendos
paffim uti folent : Verüm non fatis et Wpo conjicere poffum ; quà ratione lenres
aut I fudcres
Lentium qu ilita- Ie5. fudores promovere poffint;aut
invariolis; pefte, peftilentibüfye
febribus concedi ; nam fi earum naturam
recté confideremus;eas mali effe fucci ;
atque melancholicum fanguinem generare dice mus;inactivis qualitatibus mediam, in
paffivis ficcam temperiem in fecundo.
gradu foruri ; 1n» fecundis veró
qualitatibus varias ; imo contra- rias
habere facultates: nam primà earum adhuc
integrarum, et non deglubitarum elixatione cie ri alvus folet;quód in extimá füperficie
virtus fit: irritandi;& deturbandialvum;cüm
é contrà ite- rata decoctio, aut tota
comefta alyum adftrin- gat;unáq; opera
collectos in ventriculo, et inte ftinisfuccos ficcet,ur que vires corticis
internass et integram lentium
fubftantiam reciptat ; que vim habent
adftringentem;vehemenuus tamen lensin
cibo fumpta fimul cum cortice adftrin-
citminus veró decorticata, Hzc funt, quz de» lentium naturà ex Galeno, Gracis, et Maurita- nis fcriptoribus colligere potui . Galenus
quide 3 frmpl. cap-1 5,9. eju]dæm
cap.de..Lente.1.de com- pof
omedic-local.cap.8.1.de alim.cap-1.C7 1 8.2.e]u[- dem cap. X8. 44. $. 1n 6. Epid. 33» 1. de
vitu tit acut. Com. 19. 4. eju[dem y
cap. 4: C lib. de [alub. Diata.cap.de
Leute... Oribaf, 2. Synopf.cap. 1-7 1.
Collell. cap.17. et A€t.lib. 1.cap.de Lente.Pau- Yus; /ib. 2.cap.7 942" lib. 7.cap.de
Lente, et Actuat, lib. de [pivit.
animal. nutrit. cap.5.Hos fecuti funt: f.
in omnibus. Arabes, praterquàm in tempera»: mento, quod frigidum, et ficcum ftatuunt »
for». taíffe Hippocratis fententiam
fecuti,6..Epid. Sets. f j: LX TTA [- tex. 33. ubiléntem frieidiffimum cibum
fta- iuit; quà inte étiám à -Galeno eo
loco arguitur Hippocrates; quód in
àctivis qualitatibus mce- lium
tenereindé collisendum fir, quód et et ad-
tringenre,& (olvente facuftatefit pr&dita;cüm llioqui duplici ratione frigidum cibum
confti- 'uere potuerit Hippocrates: Primó,
quód cim. tdftringens fit facultas in
pluribus partibus, et n majori mole
fiibftanue,mæis frie1du m ci- pum poteft
conftituere : quód fi poucnes é.con- rà
ex lente factàs confideremus, quz folvunt,
primam nempe jill: im càctionem validiüs cale- acere dicemus,quà àm fecunda refrigeret;
quód Qualirates calidæ facilius in aquá
exciplantur, juàám que
terrenefürit;& frieide:Sect e for- C
frigk dit ffimam ftatuit lenteim Hipp. non ratio- e qualitatum primarum fed quód, cum hu
imo- em, et fanguinem proeignant
relancholicum, dam.qt latenuscibi funt,
frieidiffimzx dici po- I. erunt,squod
fuccum produc: ant 1n noftro cor- pore
friaidii (umum. Qus .cümita fint de puru-
imis, e fecundis lentium qua htatibus ftatuta,, lon video.quomodo Mauriranorum
fententia, lhacin re admitti poffit. Nam
fi primumeorum Wilecoctum, non
delibratis iis; pra beamus;.cüm. iklvum
moveat, potiüs à peripherià ad centrum.
numores trahemus.,. Quód fi decorticatas, ut JA vic.jubet.imponamus;cüm tale decoctum
va- jenter alvum füpprimat, atque
fanouinem me- lancholicum reddat
valentérque adftringat, at- Ijue
obftruat;maximé tragacantho X caricis admixtis, quando ad cutim perfudores, vel
aliquo.| alio modo humotes virulentos expellere queat4 non fatis intelligo, cüm auftera qualitas, quæ
im. lente perfentitur, etiam Galeno tefte 1.4/77. 18. interreà maximé parte
Confiftat,ex Gal. $.de |.,
fimapl.medic.facul.cap.26.V nde adftringen tüiqua- |." litate et obítructiones augebit; et craffitiem
hu- morum, qui ex eà generantur,
magisimpinget. jj Pratereà, fi crafsum,
et melancholicum fuccum cenerat, fi flatulenta eft, et eà ratione fzpenu- meró morbos comitiales excitat ; ad quid 1n
pe- fte convenire ullus umquam affirmare
audebit ? Quá ratione etiam ex tragacantho,&
lacchà de- coctum, aut fvrupus ab Avic.
paratus ad materias ad cutim
propellendas, 1n., variolisrejici debet,
quód hu- mores noxios potiüs intüs obfepiat, quàm foras expellat, et cor- poris po-
ros obftruat, non. laxet . gud,
3E d , «ll Animadverfionum, et Cautionum Me. dicarum,
9S 1 X d. V. C ontinerts eas, Qua; 4d 200r bos part: culares E capite ad
membra. naturalia pertinent . e A UG PR LG
vOSQT E: ld lt Ne d De dolore Capitis. actu frivida efle de bent L Oxyrbods
natn capi N capitis dolore, ab
zftu,.Sole, tis dolere iene, et fimilibus,
curando, cüm prosit ima oxyrhodina in
ufüm veniant, et £'»J^ **
frontalia;illa femper magis laudan ^
' tur,quz ex alto dela pfa füper fütu-
ram corona lem decidunt, maximé fi ad intern cerebrum intem peries pervenerit; quz
zft alto deci- Ant»
Oxyrbedt 4» pis appli- AlC cata ze frc Ce Iu 47 ec 2. In u(dem ftupis;vel duplicatis linteolis
ap- «x cif K 463
ynaterta mpplicen- $4r»
Oxyrbod: sis narco fica vix
admi[cen dla » NartoticA
8 Capitis dolore vo- ? 2;€
doloris 20 adbibe dla. fed ali quado vo-
ne vigilia THU. INarcoricA
3m dolere capitisper fe per os
zon a[fa- geuda. Infigaiter
vefrigerau da44C4 puta non
fear. plicandis,caveant.ne craffiores applicentur, aut exficcarz parri-nimis adhareants
conttariuimL enimeffectum pariunt
excalefaciendo;& infen-
fibilemevaporationem prohibendo.
3. Oxyrhodinis narcotica non mifceantur ; vel leviora : frontalibus autem etiam
valentiora miíceri poffunt;ad cerebrum
enim vix,& refra- &à vi per
hanc. partem perveniunt ; per illam
veró, futurà viam prabente ; integrisviribusad cerebrum pervadunt . 4. Quinimó in oxyrhodinis,&
fimilibus,num- quam narcotica admifcenda
effe cenfeo ratione» dolorum.fed cim
vigiliz inde fuccedant;undes maxime
vires collabafcunt ;in ufum aliquando
venire poffunt ; íed tamen futuris autznulla, aut debilia applicari debent, fed fronti potius,
et temporibus. $. Multoque minüs fomnifera hzc per os erunt fümenda,in intemperie calidà fine
mate- rià,ratione doloris,càm inde
nullum vite impen deat periculum. nec
ullus fibi ob capitis dolore manus intulerit,
téfte Galeno, ut ex aurium, et oculorum
dolore ;'ob diuturnas tamen vigilias
fumi poterunt. 6.
Animadvertendum autem;aliqua effe cor-
pora ;'quorum cerebrum ferre non poteft ufum infieniter refrigeratium;Pueri, ob exceffum
huet miditatis,ne
congeletur;autincraffetur;indéque in
morbos comitiales;& fimiles incidant, tum et ob fübtile nimium craniü: fenes, ob
imminutum calorem, et excrementorum
copiam: mu liczes molles; ANIM ADVERS. molles; et candidze:& qui cararrhis fzpé tentan- tur,& qui laxas nimiü habétfuturas,ex us
funt. 7. Aceti pars in doloribus
mitigandis cx in- temperie calidà fine
materià.non major fit quar
acerrimum continebit . 9, Oleumitidem rofatum in eo dolore cali- do;ex olivis maturis fitne fi ex acerbis fit,
cutim et,ac difflatnionem impediat,
potiffimum cüm revulfione non egeamus,
nullà affiuente» materià; in tali enim
cafu omphacino uti licet .
Sitoleumrofatum eoanno paratum
oleum fit ejufdem anni :illud. quidem, ne rofa- rum vis refrigerans exfolvatur;hocautem,ne
ex vetuftate calorem contrahat . r1. In dolore capitis à frigidà materià,
qua ad mitiorem reddendum dolorem
applicantur ; non fint foetentia;2ravíve
odore przdita; reple- re enim craffis
vaporibus cerebrum folent, et dolores
augere . 2. Indoloribus capiüs ex morbo
Gallico, errhinorum ufus nullus fit:
five enim ex bile fit ; five ex pituità
putri,ulcerain penitioribus nafi
partibus ex iis excitantur, et fubinde offium nafi COIrru pt lOoncs. . Inacutis febribus; LIB. FT.
n tà;cüm nullus hic fit ufus.
repulfionis ;fed ad re- frigerandum
addatur, et ad penetrauonem, jus levis
portio fufficiet, cum «& calida in eo
partes reperiantur. $.
Obidacetum ne potentiffimo vino,igneas
enim multas partes fic Anh ah, op
SERES LO, ando vehementiítK a fimi fit, neg; ex Dolete £x
fite ex t5 téberie ca lida, acete
porto im exyrhbodi- 2i$ fat par
va. AAcetd 19
oxyrbodi- no quale CO veni.
Dolore ta- pits ex in téberte Ca^
ltda, olesi ofatum ft £X 0lí-
Vl 5 VIAL Yi$. Ole us vo fatum
fnt Yeceo 5 » NO foeten
ua fint, quá capit applican-
Iu. Errbina
perniciofa 17; dolorib. capins ex
"iorbo Gsllica. I )i ii . A44 gapitis; et
xebemetif fimis,im- 9ninente
erif, fu- sieda ve- pellentia .
Grifi im- tnpinente, quando à
capite re- peliendá e pilsle ca-
" ^ puta: es 4 i 4:24 200
r4 ] GBA e M aflzeato
yia q4AD- dono con codenda.
Errbina, € feauia8torta snala lakun Soo rx por A. 10113 FILAS
L2 ; fimi dolores capitis
füperyenetint pulfaüles, cü rubore
faciei, non ftatim oxyrhodinis repellen-
tibus utédum, potiffimüm fi fie his coctionis prz- fentibus: fepe enim füperveniunt inftante
crifi» et faneuinis é naribus profluvio proficuo ;
quo in cafifi
infrigidátibusrepellatur,optimo ope- re
naturzinm € aut augefcit morbus, aut 1n
cerebro firmatur materia, et cerebri mofbos 1n- vincibiles Spe 14. Quód fi enam crifis i eat dolore» magno füperveniente, fed non ges
fanguinem nariun fed per vomitum, ems
quomodo di Íícer natur, ex lib. de Cf.
colliei p tei ; tancrepel- lentibus,quin
et adt Lringent abus uti licebic ne» per
vomitum cerebro repleto; dolor per idiopa-
thiam reddatur. 15. Non
recipienda eft communis multorum
confüetudo, piluJas ad humores à capite t: rahen- dos inftitutas exhibentium ftatim à coenà :
aut enim cibos corrumpunt, aut illorum
vis retun- ditur,aut fimul cum cibo é
ventriculo eft fuo fruftrantur. Praftat
igitur aut incen cedere, aut fummo ma
iné exhibere, fo autalterà horá
concetfo. 16. Si dolor capitis fit à
bile, vel àferofo hu- more calido, et falfo;
tenuíque, mafticatoria fu- ROT erunt ;
pcr 1culum enim umminet ;ina pulmones v
ica influxa;aut phthifes p Adel cat, aut
pu Imonum alia vitia. 17. Siitem oculi
imbecilles fint,'& fluxióotüi- bus
obnoxii. errhina ; et fternutatoria fugienda
in ie ? j11 fine latis C con-
mno una e** h AAA
ym TO 11
bmi vv et : DEÆ NUM.
ANLM.ADVERS. LIB. VI. 149 18.
Incontumacibus,& diuturnis doloribus; y«frcztie tbi non cederent aliis& potentibus quidem
re- optima; e£ mediis,antiqul et Greci&
Arabesad puftulan- capit ap
tia,rubificantia,& dropaces,fi inapifmofve attra- p'icatasm : 1 367
hentes confugicbant, ut ab internis evocarent vthemer dir. "vt tiffimis do ta(íam materiam, atq; attenuatam perinfenfiloribus
£5» bilem ev aporationcm evacuarent:fed
cim cutis ubt capitis craffior fit,c
quàm ut liberum humori adi- am tum
concedat, ncque ulla fenfü patens fiat eva-
cuatio himorum,.eco fzepiffimé expertus fr m., pra ft: ure derafis cap illis vefican
itiamponereaut pa rü« lolenti,auttcti
etiam Capiti ; fic enimat- Lracta ad
exterpa materia evacu res f maxime
ea,quz tenuior eft, et calida, et acris; vix enims, etiamfi ciuturnus dclor à craísà materià
fiat, fie- i potefl DUEV chementa
dolorisadfit;nifi portio aliqua illius
humoris fitadmixta . De
Phrenitide. I; Dhbreneti- I9 Ixin pbrerindelenienti perosaffumen ^.
i à MCL$ flattors TOP T ! * cL » p " V RE L y. do;ad detu rban« 2 €3 (crementa, in. en
imr tr1Culo, et primis venis
exiftentia, primà die lo- dæ cus datur,
fed mclli clvfinate injecto, fi ejus eniá
commoditas deti r,m ittendus eft (anevis, fedà in brachio venà : cüm enim influxus jam
defie- Faut majori ex E factus fit,
fruítra hocau- Vosa lum tentamiüs Dbrenett^
20. Caveautem,ne in Trollani et alicrvm. cis fribra errorem Incida iS,
Qui cüm ob maniacos motus «ebio sez
fàncuin iem e brachio detrabere pDequeunt,ve- feri 54 I
Y» I 24 na itte em qam RENE IDSU,. dotdncap
M ei 20 poteit,
noh fecam 8a eft ea, quainfio
18. Pbhrenett- €i5 SAgHIS
non mitte dus ad a- ntmi ufa5
gdoliquil In frontis vena fec
da blandé gula aá- f Y27 41v s
Aut brevt z82p0Y€ . Pbrenetiz
€is, CHCHY bitulis ap 4 E -
politis, qud fa&iendum . In bbrep huy T1 si run
Ho LVD. SEPT ALII MEDIOL. ram frontis fecánt; fi enim copia adfit
fanguinis in láborante ; ut in hujufmodi
morbo majoriex parte
cóntitigit;tantumabeft,ut laboranti opem
feras, ut potius ; atttacto ad partem laborantem fanguinesmorbum ádaugeas: revellendus
jeitur potiüis, atr fcarificatis
cucurbitulis ;aüt ; quód melius
effet,venis fedis apertis. ii. Néqué
etiam iri Hioc cafü ad animi ufque
deliquium mittendus eft fanguis, quod pleriíq; placuiffe video; quód; cüm repellentibus
friei- dis ab initio etiam ufi fimus, refrieerato toto; ac à capite rettactoadeó multofanguine
calido;fe- penuimeró aut phrenitis
hectica inducatur cura- tu impoffibilis,
aut lerhareus fübfequatur . 23; In venà
frontis fecanda adftrictio illa gu-
[z?*, quz fit, ut vena intumefcat, aut non multum fit violenta, aut quim breviffimo tempore
per- fidiatur ; ne quodammodo ad füperna
repulfo fanguine, ubiad' cerebrum et meninges
perve- nerit, morbum adauceat, aut fané,
eodem in- cratffato,eunderm mætis
contumacem efficiat . 25. Cucurbitula,
qti breemati,fronti,& re- liquis
capitis partibus ; poft evacuatum corpus
afficuntiir,ad extrà trahendam matetiam, aren- tes non fint et cum flammà, fed ex aquá
calida; nec loneiori tempore hereant ;
et fi fübjacens parsin rüborem abierit,
leviter eamfcarificabi- mus ; fin minüs,
fpongiis exaquà tepente fub- ftratum, et
elevatum locum fovebrmus. 24.
Cavendumin hoc morbo, ne in eorum.
errorem incidamus; quiab initio non effe purgandum cenfent, fed ex
(pectand am effe coctio- nem,maturatio
enim putredinem jam factam.
fupponit,quam corrigat; quo in tempore ; facto dum ab
£2ttio, C q440t23080» jam apoftemate, morbus evinci vix poteft:
eo- dem igitur,vela idtero die pu
irgandá, vel ex Hip- pocratis przcepto;
4. Z4pbor.10.
imminet enimu periculum,ne tota 1lla
effrenis materia fein par- tem
laborantem effundat t,apoftema perficiat
t; et vires profternat. Neque tamen crudam
evacua- bii fade cei us preceptum
Hippocratis. 1. 4- 22. ve] enim turgens
erit, vel nondum putefadta; fic nec cruda fanguini admixta bibsin- tra propria conceptacula adhuc confiftens,
ut fecidle Hippocratem videmus 2. acur.
16. cm fluentem humorem ad plevram
ftatim ab initio medicameto purée
fubduxit;tamquam non- aut crudum, fed
coctum. In iis, du 1alv o duzioti funt;
R habarbaro non ita facilé utendum: fi
enim fimul cum biles effervefcentem m:
1e1s bilem red- eredi ay rnis
partibus;ob igneas pat- t:& ob hanc
unam caufam dum ) putridun non edu CItUr, tes,communicari Avic. ?ranaà cato aut fex fcammonii
medi- 1ndidifle in ph: quidauid dicant Grz- culi quidam, acriores Mauritanorum
Íctipto- rum reprehenf. res. camentis ex R habarbar: carandaà cenféndum eft, 26. Quamwvis in hoc omnes feré
conveniànt, fimpliciter refrio
erantil bus primá tantüm dic Eur ipifaébeiiepus a fime et par bus,f. PIRE repellenti- 1n utrepella-
ris, et influétium
Rbabarbs rii tn phre auide ia
ii54H dis riorz funt ALUO 422003
maltum im ufum ducendd o
Solis repeb lentibus Aliqua do
Sotds 775 eSI pt iit "NE
-U humorum temperetur; dolor
fedetur;& affiictee arti robur
addatur, fequentibus veró diebus
mifcenda effe aliqua refolventia ; fepiffimée ta- men aliter faciendum effe,quód urgeant in
aug- mentoadceó fymptomata, etus,
dolor;vigilia- et mania, ut frieidiffima
etiam progreffu tem- poris in ufum duci
debean t, Aretzus admonuit . In phrene
... 27. Cavendum tamen, ne nimis affidue iis
fiis nón. utamur frigidiffimis;aut narcoticis:tiam dicebat dintis fri Aver.3. Colle£l.3. caput tutó
calefit ; at non citra gi [imis pericula
refrigeratur ; periculum enim impen-
utendum. det,ne quem dormire volumus, poftea excitare non poflimus, ut ait Celfus:fepé enimain
lethar- eum calamitofimabire folet;ex
folà mala cura- tione phrenitidis. ultraprin
epum $ Q PE 3 . » Á Eu * 28. Intop
icis, etfi acetum 1n aliqua perucne
get admifcere expediat,ut et refrigeret repellat, et md penetrationcm adjuvet ; neque tamen
multum plicaydi « admifcendum eft,ne
ficcauone vigilias ccncitcts neque
acrius, quod calide partes,& ficca ni-
mium pravaleant . Acetiloco
;:.29: Nequetamen placet, quod à plerifque»
in oxyrbo ICCi pitur,ut aceti loco, acido citri; aut limonum dinis aci- Atamursnimiüm enim adftringit; et ob
acerbas, d& citri, terreftréfq;
partes neq; pervadio neq; admifto- vel
l.mo- rum penetrationem adjuvat : quinimó externos nem uo» wiestüs conftringendo,refolutionem
humoris 1n indendli ^ Jis temporibus
omnino impediet. F 22i DNI",
E ibd » 4 TN "c De. Lethargo. v
M MA .
lfiinlethargo.fi perfe, et cum febrefu- ropa gi- pervenerit, fanguinis evacuatio per fe-. eis
quado PEétam 1n brachio venam, viribus
cenfenuenti- fecanda f bus cmnino
conveniat ; fi tamen, quod fxpius vez2 e:
l'evenit ; vel ad conunuamn febrem fübfequatur ; qu ádo n llvel ad phrenitim firpé etiam male curatam, lomittendam ceníco, neq; fclum dejcétarum
vi- Irium ratione, fed ob materiam
potiflimum à put. e fejunétam . . S1 hecexerceri nequ cato bal ]UamcCaU-
(uen Ma: n ". apn it tamen repletu
mfi t et nonnihilfían- ;4là in le-
lleuinis a« Im ixtum cognoveris, cucurb iru ]leino ££ me ufum venire poterurt,nontamen dcrío, et hu-
quado » Irmeris, aut fie bis, ut Md ain
vifum eft,fed licanda, li lateribus
potiüs pone aures; prope venas
applicitz: illa enim fübtilem, m: iie ; fluxilem lian: guinem trahentes, rebellem maois, et frioi- bdam, difficiliüfq; diffolubilem red lent in
cere- bro contentam materiam . Quód f €
proximic ribus eo auxilio eamdeim talos
ARCEM Jumpactz etiam frigide materie
aliquam à cerc- -Biorevelferni IS
portionem. Eir32 C avendum maximé, ne ab
initio h iujus ilimorbi ad excitandum à
fomno fternutatoriis Iiramur;ex intempeftivo enim hujufmodi remc- d1o mæis funditu Ir materia, m. igifque
fubinde ;, 5ri»c;- limpingitur ; unde et
ccntv max mcrbus fit ma- pio 10 » [Ei nn .pople xlv fequuntur. Errbine- fs . Errhina in veternooptima funt; in iis ta-
pw» Afni» men Stermuta-
fortis 20: utendum A IM ee os oir M : gum Tm
m Er E i LetLavgi- cis vepelle
3i barc applican- d&; et [ane «d[trin-
gentibus. Vefrcatia 25 letbar-
g^ opti- 722,0 qui bus parti-
bus appli€22da»s Memoria deperdita
vemedia 3200» seper calida, fed
varianda, P YOvart - tate Catifa
Y 4777. 6 r$4. men, qui
longocollofünt, et angufto pectore ; uno
verbo dicamsqui proni funt ad phrhifim, et qui fepé morbis oculorum tentantur, in ufum
traduci non debent . 34 Inrepellentibus
applicandis ; quz non nifi ab initio, et
etiam non fumme frigida admi- niftranda
fünt, adftringentium ufas omnino 1n-
terdicatur, ne et craffior pars huraoris 1nfluxa-» reddatur, et ejufdem evacuatio,quz per
infenfi- biles meatus fit;
impediatur. 3$. Dropaces,X finapifini,
utin ufüm venire debentad attenuandam
materiam,eámq; à cen- tto ad
circumferentiam attrahendam : ita vefi-
cantia mæis coràmendari debent,tum fcapulis, et humeris appofita, ad extrahendamà
cerebro pituitam,& aqueum humorem
irrigantern;tum derafo capite
vertici,& fuper füturanrcoronale.
De Cautionibus in la[a, aut deperdztasmemoria curanda. "T. Icet abolita;aut imminuta memoria
111 A, folamfrigidam intemperiem
referri vie B deatur à Gal. 2. de
fyzapt. caufis, cap. 7. (e 3.dc.2 loc.
affeél. 4. $* s.cüm tamen frigiditas hec non- jum numquá vera fit cerebri intemperies frigida
fim-. I plex fine materià;aliquando veró
cum materià [1 potiffimüm pituita ;
aliquando veró ex defectu ||. caloris
parti infixi,aut fpirituum à corde immif. . f
forum,& hoc caufas quàm plurimas omnino in- Bii ter fe diftinctas,quin et fpe contrarias
habeat : utà fümmo externo frigore
ambientis, fric iditatem pofitivaminducente;autab externo calo- re,innatüm caloreém,& fpiritus;unde pars
vivés calefcit;abfumente: in hoc morbo
curando pro- catarticas, et mediatas
caufas Medici animad vertere debebunt ;
nec femper medicamentis. niant,
càmoblivionem producit frigida mate- ra
fimilem in cerebro inte emperiem introduces
Vbi veró fimplex fuerit intempeties frieidà, et internis, et externis validé calefacientibus j
et ficcantibus erit agendum. Quod fi non
pofiti- và frieiditatetentantur, fed
défectu caloris in- nati, aut fpirituum
parte frieidà redditi oblivio fequatnr
Loses: intibus fpi iritus uti oportebit :
In remedii ; vero habenda erit ratio caufze ante- cedentis;cüm enim hac aliquando calida
fuerit, bt 15 1][o, cujus meminit
Galenis, qui cüm ve colendis vitibus
diutiüs füb Sole conttitiffet, inedia
ufus effet, in hunc affectum incidet: at;
in conflatore vaforum vitreorum, qüi ex fi ith 1- cis immenfo caloré
memoriá amife 'fat;qui, cüm !in eo
Medici calidisutereritur, et imo rbus in de-
Ecerius rueret,embrochis fr igidis ; Capiti à mme ap phatis, ed Irt1o 3t!ol )e ex dec IS ju o
frigido fadi à. D. cibis optimé fanevinem,&
fpiritus inftauran- s,ad fanitatem eft
reftitutus. In aiidBiéer n, I 1 O pA)
Jeruinin mé? norie deperdi tione m nC] -
Iderat.folüm cenfirmatoantmo, 3€ fpiritibus vi- o « ais Optimi fici inftaur 4tl$ ; CUFAC1O
perfecte Ia memo"1A deper- purgantib us curationem uitio, aut caput-
dita curd purgis, fternutatc riis,
errhinis, mafticatoriis 4a rar? utentur,cüm
hiec folüm in ufum commodé ve-. *vænat;o
2:26 - eff. Opus
in COTHA:0 fis, primis diebus ma
lé oleum cbamame linum cx
aceto Ab- plicatur. Comato[is
fométa cx oleis nen £sto adbtQe D» f
a6 eftadimpleta. Non igitur íemper
purgan- tibus, non femper cáput
purgantibus, non iem- per
excalefacienubus utendum erit in curanda
. Hors : : ^. memorià aut
abolità;aut diminutà . In Comates C
fopovo[ts affcétibus « m N.
iisaffectibus,ubi aliunde ad cerebrum
delatisaut craffis vaporibus, aut ferofis humoribus affectiones ez excitentur;non
veren- dus eftufus oxyrhodini ; neq;
ftatim ad calefa- cientia et interna, et
externa crit deveniendum; quinimó aceti
quantitas eft augenda, vel dupli-
candaadoleumrofatum completum,vel ex Avi- cenne et R bafis fententià,ad diem ufq;
tertiam: quin et acriori in iis 2Ceto
utendum eft,ut citra tefrigerationem
validius repellere poffit. Neq; placet
Poffidonii fententia ab Actio relata, qui
primisillis diebus chamemelino ex aceto uteba- tur;cüm ab initio repelléda fola fint
adhibenda, non autem diaphorcticis fit
utendum, fed poft- quàm affluxerit
materia ; quo etiam tempore 4 la addi
debent valentiora,difcutienti,& ficcan
LECCE e M u facultate prædita, ut caftoreum, abrotanu
mos;
lavendula;ferpillum;verbenaca;& fimilia . [8] LI . . " » . 39. In.topicis 1n hoc morbo applicandis,
non Med. ^an
[Tu $5 « 1Cacodlis,quia humectatio fiepé actualis ex
ole mbrochis quandoque vincit virtutem
med n eó tutus eft ufus fomentorum ex oleis; aut
de-... E Eu
imentorum incoctorum, nifi validà facultate £:c24 cante predita fint;qualibus etiamfi utamur,
peu- qe ló poft 4 D57 I[ó poft lineo;aut cannabino panno caput erit
ab- (tereendum. dn Pervigilio y[tve vieiliayuz ex 'ce[fa
. 29. Y N narcoticorum exhibendorum hcrá
eli cenda E- S0nminui fa cüm diflideant inter fe ferip tOres, "a
qua bo aliis poft cbum é
ventriculolapfum, &anteex- ra exhiIhibiuonem alterius per "bus; alus cum cær ; aliis veró poft
coenam per 'lhoram. Egofic cenfeo ; fi
ex fomniferis fucrit 'Iwehementioribus,
quale eft Philonium utrum- Ique;&
recens T heriaca, pizftabit priorem fen-
Ireciam fequi;ne coctio turbetur, et cibis admix- dra pom Apes at ' Cüm omnino medica- menti da fi in iss nullam nütriendi
facultatem. habeant. Sitamen maxime
necceflitas üreeat., Etiam à coena per
horam concedi po (unt, v ipo- Aribu: s
cibi fa cilius ded ucentibus vi m íomniferam
üd cerebrum: fic horà fomni P ilulàs ex.cynoglof- Ilo aliquando propinamus. Si veró
fomnifera. Kuerint leviora, aut etiam
alimenti aliquid con- Mineant;aut
cum:cibo:exbiberi potfu unt, ut emul-
IMBiones feminum papaveris albi ex aquà lactuca, Iiolarum,nenufaris, et fimili m,.thvrfi
latucze ffaccharo conditi; autfanc à
ceená per horam,ut |lyru pus de papavere,.de
nymp Pha ex aqua la- jd tucz:fic enim
blanda illa cf fftumatio ex cibo Foi
Wata nidiori illi, et aliquo modo
fr ig1dz ad- à fiepenumet 'ó fomnum con
o «mm: ^deratas 1llas vigilias ex fumidà,
et t CX h d tres horas concedenti- 2ez4a. exhalatione productas; aut ex calidà et ficcà ce rebri intemperie factas demulcet, et íomnuma convenientem introducit . 40. Quotidianus tamen, et frequentior
illo- rü nfüs,nifi nimius partis Caior
id perfuadeat;fuSomifz- rortt Af45 frequéenor. eendus eft ; ne, dum cerebro
fuccurrere tenta- efft i02 4€ ius; et illius
fymptomati;aut contrarium. introedis ducamus affectum;aut ventriculi coctionem
im- PR minuamus. 507322116- . b f^ f T n 41. Pueris parce admodum formnifera hec per os funt concedenda; rariüs fortaffe
valentio- a;folent enim quam» ra extrinfecus applicand maximé memoriam labefactare. 42. Non priüs inanito corpore;aut repleto
ni- mium capite;nó funtinufimm ducéda:
contuma- vationem Ineptos » ya parcins
$n pueris 2n ufu "m ducenda.
Somnuife- ya repeeto corporeo, cesenim humores; et ad evac aut copi" peros fiexhibeantur, omnino
reddunt ; fi veró: 10,00» ^^
capitiapponantur. in comatofos affectus &gros minjir9 deducunt. somnife-
VA d et - - f Mee) blanda evaporatione
cibi meliüs officium iuum *, la * : ^ »
E 43. Átenul admodum cænà exhobeantur; ut! complere quean parcat
mole obtruatur. Narcotica o
non Hàáda jn princi-
turalis;atq; impeditur, ne calor fecbrilis quam- pio pire- primümex pandatur. xy[mi í
"ode t:ita tamen ne aut coctio ci-j
poff c0 A. que Pepe : Y bi
impediatur à frigiditate, aut vis remedii ài
44. Cave; nein principio paroxyfmi narcoti-JsT! oss " «^v . A 0^ E ; ca exhibeas;ex iis enim fæpe fuffocatur calor
na-4 In Coneelatione . 145. T IN catalepfi; five congelatione, cüm
vi- r» carale- AA. deam Praécticos omnes
ftatim abinitio ca- ;// coz- lefacientibus et ficcantibus uti;in errore«eos
cmc- zs. cal;- :[ nes verfari exiftimo :
cm enim in iis peccetma- Za ipea teria melancholica, ab eàque morbus is produ-
5?furen- '| catur;fi in principio; et auemento
morbi calidis ^* |iis impense,« ficcis
utemur,craffior reddetur ;'| materia,
ficcior, et ad diffolutionem InCptior ;
'J pre ftabit igitur calidis temperate uti ; ac hume- Cctantibus, ut
materia attenuetur, fluxilis redda- tur, ad evacuationem magis apta, quin ut
per -J fenfum effugientem evaporationem
difcuti ; et TJ evacuari queat;
progrefTu quidem tempcris cali- diora adhiberi poterunt ; ad rcliquias
materiz abfumendas,& intemperiem à
parte auferendá. [99 quet 4: In catale. 46. In topicisitidem remediisinchoclocoace
5,7 7^ i; eÍ ns. : bft aceti tumnullibi 1n ufum veniat; tumne pauciquifü-
2 : cet : j ]4g1e7»da., 'J| perfunt ; fpiritusexfunguantur ; tum
.ctiam, ne ifatri humoris ficcitas, et acoradaugeatur. In Vertigiæ . i47. T Llud folum in hoc morbo curando
obfer- Veytigino A vandum, cavendum
cenfeo;cüm ex hu- 55,7, immoribus in
cerebro contentis elevati va pores,& tatorias cin jexhalationes inotdinato motu, et in eyrum
cied- capurpur ftur;fternutatoria non
effe in ufim ducenda, ne- gia fagiz- que
valenda illa per nares attracta caputpurgiaz da. quamvis enim aliqua materig pars
educatur, xr1*3^ iIVII
YÀÀ ) Qr (91S
NA OlS, Cv icrfiam m
j y "LA 2n pavoxyf 2320 0 CO
catiendt. I bilepr:- / 1
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nz Fi6€3Ais. ilept iEt €1$. "'UO62213M5 "72vEpi'epti- €15t pa"T v0X y[7720 liosu oot
gon nden T». ea 0, ^ Ww
fymptoma tamen fepe jJ E aceto;aut finapi;aut fucco ruta perfric: augetur, concitatur ma- .x motu fübito materie morbus isine piutatur. In Epilepfia . acet,quod [, "Ntempore paroxyfmi non pl tif
Pu paffim à plurimis fieri video, qui fta 4
VU. corpus concutiunt,quin
etiam ipfum caput : fe- u ad
numreróenim magis recurrit ex eo mot
pe lus perdurat 1nobftruendum
materia, et di vafio. 49. Fugiant etiam, et omnino caveant, ne
; dum.turpitudinem faciei, et diftorfionem,
ac fpumaumjoccultare tentant, capite, et
facie pan- no cooperta, refpiratione liberà impedità, zeros füffocent.
$o. Cave nein paroxyfmo vomitum provo-
ces ; vidienim aliquos in invafione hocrentan- tes,ftriptorum quorumdam auctoritate
ductos; przcipitem in mortem :egros
duxiffe:ex violen- |, to enim illo motu,
magis repleto capite, ac con--| citatà
materià in cerebro exiftéte, ad perfectam
cbftructionem faciendam deducunt, unde apo--,.i plexia fequi folet . «1. Vt mirificé placet in principlo
patoxy--], finiori aliquid, et mediis
dentibus indere ; ttj: hiansos effe
poffit, ne lingua intercidatur; fpu--].
ma educi poffit, et palatum realiquà attenuan-], te, puta, Mithridaticá compofitione, caftoreo
exu, " iti poffit; ita
1f ut Fw
"RT iE E us Je VÍA ita lignum folidius 1mmittere nonita tutum
eft, Í» penumeró enim inde excifos
dentes vidi. Pte- ftatigitur facculum ex
corio,vel ex craffioti telá, repletum.
atrenuantibus multis, et validioribus
quidem, finapi, evphorbio, caftoreo, rutà, aut ejus femine, et fimilibus, ita parare, ut
illius vi- ces.poffit fupplere : fic
enim et voti noftri com- potes reddemur
fine illo periculo, et morbo ad-
verfabimur. In brafei- $2. In prefervatione ab hoc morbo;hzc fitin-
vatieze. fecandà venà cauti j»fiinftentacceffiones,nifiex
4^ epile- fu pprefíis menftruis ;aut
hzmorrhoidibusori- P qu o)nem morbus
fumat m uttendus erit faneuis ex gum bra-
venis brachii (fs veró femel aut iterum, vere, vel. ^^"? » e iutumfo fipervenire foleant ; aut. hax
motrhoides,aut menfes fint fuppretfi, fecanda erit veria ; in talo.
aud s lud.
quádo cx talo f^x- gai ?21Íf-
tendus. $i ex aurà virulentà
aliunde elevatà-ad. rpilepti- mel morbus
fiat; nifi infignis plethoraid «iex an-
perfuadeat,mittifanguisnon d debebir. ra tieva- $4. Cüm plerofq; videam; Aretzo,& Ttvieen
fa » o0 nà duce,in-przcavend æpilepfià
validiffimisuri "7742s medicamentis
purgantibus, tum per vomitum, / "£5
tum per feceffüm ; ; egó longa experientà doctus Lys profiteorme numquam morbum hunc, in quo- quam per proprium cerebri affectum producti
HAPE validiorib jus vomitoriis curáàtum
vidiffe fed ex... :o 11s omnes ad
deteriórem ftatum deductos:valc: üora
autem per feceffi e cducentia aliqua:
proi "u flec bfíerv AVl, nod ónon lta B EE uium ducta fuerint; à frequentiori epim
eorum A CLLA L ufu,
» 101. L/D. SEPT ALII
MEDIOL. ufiexhauftis fpiritibus
animalibus,a poplexiz facpé concirantur
. n yeéicia $5. 1n confirmata epilepfià per proprium ce- in capire rebriaffectum, fi quis derafis
capillis, veficanti- eptimum. bus
peruniverfumcaput utatuf, atque ad peri-
epilepfie pheriam humores
virulentos trahat, diutius ul- setsedié
- cufculis cuam capitis infeftantibus relictis, ut perlongum tempus ferofiilli humores per
ulcu- Ícula emanent, optime curationem
irftituet ; contumaciffimos enim capitis
morbos hujuífmo- diratione ctiam curatos
vidimus. In poplexia. Ataplecii 56- Vamvis excrementis
alvorefertà, non eis flatim fit
evacuandus fanguis. perfectam ve-
voittédus nam, ne ad venas crudi humores trafanguis. hantur;in apoplexià
tamen, cum ex niorà confir- metüur
morbus, quamprimüm fecare venam ex-
pedit, fi abundetfanguis, aut rnixtus fit fan cuini humormorbum faciens. Apopleti $7. Quin fiindicatiofecandz
venzadfit;pre- cis repeti- (abit
repetitóid agere: fic enim neque refrige-
£o [279415 cA bitur corpus;aut vires imbecilles reddentur,& mitius. id obtinebimus» quod maximé exoptat
Actius; nempe,materiam morbificam
commovebimus. ;8. Concudiatur/ blandé
corpus, perfricetur ^osdun Calidis, et potiffimumbrachium,
unde educen- 25 pof; dus eft fanguis, ut
et revellatur, et áttenuetur, emdum quicraffior perfe eft,& factusex
refrigeratnione zu. adhuccraffior, facilius effluere poflit
. |. $9. Neq; Ap oplecii
£s COnCL- Neq; vulnus anguítum fiat quod aliqui- bus placet, uit motus diuriüs perduret, fed
latum fieri dcbet; nam craffior cüm fit
(anguis, ftatim, quafi reftagnat. 60. Venamifrontis aut pone aures ftatim
ab Initio fecare quod aliquibus placet,
ut quampri- mum prafto fimus, non eft
conveniens, nifi pra- cetTerio
univerfalis evàcuatiosfaltem per quatuor
horas;admitti ramen aliquando poteritfi pletho rà non adfit, et aliqua fübfit fanguinis
copia in, capire. que tamen duas non
admittat fanguinis cyacuationes;. 61. In cucurbitulis in hoc morbo
affigendis cauto fit, ne parti
pofteriori thoracis applicen- tur, ne
rcfpiratio umpediatur fed lumbis, bra-
chiis,& fcapulis,quin et occipitio,& jugularibus quandoque venis. fed poíftalias ;&
tuncomnino Ícarificare cutem fübjectam
expedit. 62. Inligaturis-dolorificis
non diutiüs perfi- endum,ne pars
gangrznam incurrat; fed partes modo
ftringantur, modo laxentur,;precepto Ávi-
cene,ut et major fiat revulfio, et motus humoris. 63. Cauterium in commitfurà coronali,
quod laudat Actus, et alii, nó anvltüm
probatur,quód przfentaneum pon fit
remedium, multáque alia - ^ E, Á € iam
invehat incommoda, de quibus aliàs .
64. Praítat, evacuatione factàsneque nimiüm in exrimis rübefcente parte,cucurbitulam in
ver- tice ponere, et repetere, abrafo
capite, vel validum medicamentum veficas excitans capiti ap-, poncre,
L "A bopledts ct$ dn fec
da. vena vuln? fat ataplum .
"A popleckt Cci$
"vena frotis qua do fecanda . Apoplectz
€t CHCHY- éitula quande,et
quomodo Abplican- da.
Apot lecis Cis lgattt- r& QUALESo Apopleciz
C$ CO MIC Ya? 1 Có mif[ura
coromals nate. Cucurlt-
'ula rs/0 '"titeyvel mie
adpoplect; €i qua quantitas
€byfteriz. In apople-
fitis vo- enitus fu- giendus.
Antiimi- "minuta fa- £UODHHID.
Purgátia frat ex va lentiorib.
Gterzauta- toria qua do adinim
Sranda. Ilo inuduo oibus ab
ipabecillio v btts m "EE
i4 Inclyfmateinjiciendo hzc fit animadver- fio; fiinjiciatur primó ut revellamis, et peralvü fübducamus, ea quantitas erit infundenda,
quie id praftare poffit; et hociis
obfervatis, quz aliás docuimus : fi
veróutinteftina mordicanübus, et valenter excalefacientibus vellicemus, et dolorem
incutiamus in dimidiatà quantitate 1nfundendum erit, ut diutiüs retineatur :
quod fi diu- tius retentum tormina, et inflatimationes
in in-« teftinisexcitet;balano
elicietur. 66. Vonitus fugiendus;tum
quód egerin hoc motu feipfum adjuv are
nefciat ; tum quód, cüm fe erigere
nequeat; potius fuffocar etür;tum quód
in repleto corpore vomitus caput replere folea t. 67. Sribii igitur ufus 1n hoc morbo,
potiíTi- mümin paroxyftx 10, eft
fugiendus. 69. Sed valentiora tamen
deje dtoriá d: xhiben- da erunt, ut
paucà quantitate affümipta etiam à
longinquis attrahere, et educere poffint. 69. Sternutamenta ut maximé ex ufü
füntin., hoc morbo, et quidem
valenuffima ; ira-non fta-
timadhibenda;nifi priàs corpus fitinanitum . 70. $i caput. derafum oleis calidis inungen- dum fit; cautio fit ut à levi oribus priüs
1ncipia- mus, ad valentiora progrec
lentes . 71. Vt veró diutius hæreant;ceré
aliquid fem- per indendum crit. 72. In merin Chymicà arte in üfam:
duücendis hec fit animadverfio: non
iis folis t tendum efle », fed ipis me
edicatis effe admifcenda : cim enim. ieneà
fubftanua conftent ; 1n fuperficie pofita ftatini ^
"9c on. dc RE d RU ANIMADEERS: LIB. tim diffipantur,& in halitusabeunt;nifi
aéreis,&& 5/7; fj; oleaginofis
quafi lieentur; ac coérceantur . In
Paralyft . Pf. fed. oleis
zneédicatis VAIXTA e ] 73
]Ifi monet Avicennas, quem omnes fe- 7^fare^quuntur recentiores, in paralyfi in
prin- ^
efle purgandi um, n ifi tranfactà quartà.; aut feptima. et netunc qu cos. validioribus
me- dicamentis, quod etiam cipionon c habet verit cítn )ateria rs (lefacta,
Iancas;cgt. 4- M VE TENUIT
L] dicis in ads 4 promoventibu d fudcres movent, de e $9.85 -
ha P X l 111 uberiorem bum bhuncvrinis rerentén 11 »^,
ki 7 ; rt ptrs- exío) naptibusin deterius rvei é ficra-qucouc edi tím. mon vePe* A PEE tCnll lléXiolUutaà à Pa
iltis, fudoribus autem : Queda
m * 7 * 3 ! *noc et i €1l í Q4 d res ;craíffior mæis 2
C1 "Iles. 5 cum UID
lo obfervatum vi1- demus; jdtai
nen,mée A (ententià; perpetuam non, : fv
enim primà ipsà die accerfi- tus Medicus
fv ici m nondum nervis impacta adhucin
motu eft;dum nondum ;] otf Litmateriam
quamprimum. e medicamento fatis va ve
ai IC. Atu b )LJà m firmata f alvum fubduce- It; perfectéque obítru- ctionem 1 (€CETA; priüsattenuanda erit, et prapa- àm evacbetur.
us comm ittiti r error paffimà Me-
urandà,c um cmuffis urinam. lea
rromptiüs accedüno; quz coctum
Guatiati 'etia1n .Sarza pari- p nea artificia» alioqui
eS 27 Nace wer doit InOr-,& ebundé pro- cónfcrtim. ma- A » a
crat- autem parte callefcat, cxaf fiot
f quando ab initio purga o
Paralyti- €i$ fndors fera inu-
ülta. roe LAYGUfI-
jv, C5 dl ren i Paralyti-
eis oleav$ fyeri ex oleis nimiümrcalidisj& ficcis,faltem folis; ?i$ Cali-
dn mala. Olea ff:i- sata
fola éputilia. Paralti-
g1$ vera 115 utilia. Paralyti- :
€i vubif- €atia qu do conve-
PIAB? . Rubifican Ha guo
ufque cuis adbarere debeant .
Paralyti- eis cuctur- àiule u:r56 D. fior
reddatur;magisobftruat;atq; difficilior red-
datur ad motum;& ad'evacuatióoriem .
7$. Quà etiam ratione inunctioncs non debent periculum enim impendet;ne materia nervis
ad- hietens nimis exficcetur,& la
pidéfcat: quarellis femper pinguia
mifceri debent; unde edat vis ignea
illorum coercebitur;re exhalet, et diutius
adhzrefcent, neque titium exficcando contu- maciorem morbum reddent . 76. Vtin paralyfi curandà aliquando
vefican- tia; poftuniverfum corpüs'
evacuatum, fca apuhs, aut brachusapplicat?
debent, ut materia à cere- bro,&
principio fpinalis ad extetna attracta eva-
cuetur;ita rubificantia folüm poft illa& t progxef- fü temporis ( Avicennas trieinta poft dies
iis uti- tür ) fpinz dorfi applicare
convenit, tim ut reli- quias materia
extrà vocemus fpiritus 1terum in partem
revocerütus, ut ea revifaneuinémque dod
7. Cavendum tamen tenc, re rvbificantia e e adhareant, vt veficas, aut puftulas 1n
cure indc cant;fic enim fpirittisa d
partém non revoca- rentur;fed
diffolverentur: có vfque foitur finapi-
fint, dropacéfvectti adhærere
quamdiu rubida pars prefía d1eito not
fcd robida perfeverát. 78.
Cucurbitularutmufaüm quàm maximé com
mendat Avicennas' poft ex purgatum corpus, ca- pitibus mufculorum partis labcrantisápplicitaé
permittendi fint, n albefat, &,qui,- rum finefcarificatione;nen
quidem ad extrahendam . "E 4 LOT oe Jnireda, o eas aa SER: intus eos f nnm ANIMADFERS.- LIB. V]. :3€7 ; dam materiam morbificam, ut cénfuit
Geritilis, dot: qus fcd ad evocandos
fpiritusad pártem fere demor- texas ap-
tuam:quod ut obtinere poffimus, animadverten-P/ieanda - dum, cucurbitulas angufti oris effe debere,
cima multo igne effe applicandas, ac
divtiüs non effe,, permittendum ut
adhzreant;ne diffolvatur quod ab iis eft
attractum. De C onvulftone .. 79. Y N fpaífmo; motu irruentis materize
ceffan- Wie : v . es CHC tc, ut cucurbitulze mediis mufculis affixze,
^4 rhitie p ome "- la quado, et fcarificatz extra ufi m funt ; ita cavendum
eft, ubi af 3e f£nibhns mufz Wr "n
! -- 5 bnious muículorum ubi tendines
funt, affi plicabdá. gantur. $c. Addit Aretzus, in illarum applicatione.»
e 15], Cucurbi parce ttammam excitari debere;nam que à
lab cucurbitz fit
compreffio.dcloris,conv auctcr efTe
folet:molliüsi adhareant. FIS (ule i
ulfionifque jj; fms gitur
trahant; et diutiüs qZo zppl;-
canda. 81. Cavendumetiam, ne pars
fübjecta; detra- Ceci Cus
cucurbitulissfrigore tentetur; pars enim rare- '/!!s faé- facta facile frigido a£re admiffo riecret.
latiss p^ $2. Cuftodiendzautem quàm
maximé ab am- ^um biente frigido partes,
que calidis balneis pro- visis xime
1mmcrfe fucrint ; qug perfricatz, quaii
gatz,que deniq; dropacibus,fina pifmis;aliífve » ingeniis ad ruborem deductz, au nes calr-
t quovis modo 4j, foe rarefacta;
quód nervis frioidit aS fit 1nimica,
ma- zz. £eriamq; convulfionem facientem
craflefaciat. $3. Quapropter etiam
fupervenierte füdore» ossis L. 4 cb dofe
fador.fu pervene- rit, quid
agendum. 1698 LVD. SEPT.ALII 7MEDIOL. ob doloris vehementiam ; maxime
obfervandum erit ; ne mador ille adhæreat
; néve frigefcat, fed omnino
abftergendus erit ; fed ne rneatus 2 aperü
frigiditatem admittat ; Béve effluens fudor virtutem exfolvat ; calente
aliquooleo partes erunt MelZcho- licis :pur-
gantia li- quida ma gis conve
9UADE S Cuando "altéAus
fangnis 5, et qua do fappri-
auendmus, f(E9A JE54, ttnhá .
delinienda blandé. In AM
elanchelia . Vamvisnon negandum fit,in
hoc mor- bomedicamenta, qux exhiberi
debent ad evacuandum humorem, füb
quà- cumque forma concedi pofle ;
veriffimum tamen 94. -eft;fi liquida gunntegekuss multó magis
utilia effe;necin omhibus ufum pilularum admitti poffe, Ob ficcitatem melancholie; quamvis
contumacia materiz ad eas nos revocet :
nam robuftius agunt combinatà
vi,diutiüfque in ventriculo hzrent; et vehementiüsà capite prolectant . 8:. In miffione fanguinis per fcétam
venam, quamvis fciam, plerofque Galeni
au&toritate in- nixos hac uti
diftinctione, üt viribus confentien-
tibus, et morbo masno facto, fecetur vena, « fi ater fanguis effiüat;educatiür ad debitam
quanti- tatem ; fin fübtilis, et rubens
; ubiad tres uncias effuxerit; fu
pprimatur: petpetuo tamen ho cfer-
vandum non eft; aliquando enim aliquà datà oc- cafione, cüm ca perit morbus 1: sin cerebro ;
opti- mo fanguine exficcato, fiin
univerfo ab undave- rit fanguis, et torofz
fuerint venz, (aneuífque in iis nüllam
conceperit labem,;fed copi fc làm pec-
cet MÓ M -ANIM.ADFERS. LIB. FT. T cet, fecanda quidem ierit vena, et fanguis,ctiamfi fübtilis, et rubens effluat,omnino in
debità quai titate erit evacuándus, ut
revellat à ca Dite, 1m- pediatur, quó
minüsin nleram bilem vertatur, aut
melancholefcat. Galeniieiturfentengia ve- « "P € ra erit ; ubi non adfint fiena verz plethorz
;tunc D Y, enim pro revulfione expedit
fecare venam, et f1* n iorum cundi
videris nus,Cümin venis mænis í abundare nierum fanguinen n viderimus,cfflu
cre finemus; fir veró fübulem, et rubrum,
fiflemus : quod p« otiüs: i ptus fit
imclancholicum fanguinem in fupernis
exiftentem attemperare, et ad benionain naturam revocare, QCoffa 7 r
D Ss $474 U y Leute ru ED D e 2 Y eR ET iunt 56. Foramen tàmen femper amn»lurm fit, ut, fi, i i CIS
nA210»T2c* In craffum faneuiném
incidamu: s,prompte efflue L3rbabess
mw». cH i Ab. re pofht;neque
tumor circa fciffuram excitetur. Jit ampla.
M e OW *K»TS P T714 ^ y ad. 3 m
957. Admonendus etiam eft venifeca, ut difle- Fzz4547 A5 ven: TP 1113313 7? 3 ^ * lc la f 1^1
T Veto v wap Y incutu 111 mi iquai [a im
ud AVL ;Lh€ Crai- vintuli $ fioris fanguinis
effufio impediatur. incifa ve- 24,0
me hne f ÆS 2L antLeli- In Epipboi A "IZ C6 p10J0 ad oculos bur
u22101- lancholi "hn . * 4/4 ATtflt1 4 C$ e Li ^ 3
Au LJ PUER MMPEAMCTOCNGI TEMOR b
epibbo- $8. Vamvis, cumocculi fluxibus
humorum. p? f fle : " cenfherir
Cial D 2 4 fA0Culort -4, tententur,
cenfherit Galenus nmm 6.2d- qni,
"we Db0or. 21. Efi 13« AM eb. tilt. ob ad- t "mn " X ) X FIDUS tete) bd d^ 2d dd d í AAA VA-LL4t wr LER,
NEIDRU- ftrinzenuum ufo effe abfipendum
; 1n epiphoráa gz As uet y ". : I E
ED tamen multoófecus faciendum docet;
poufimu "1 -- ^ TR we ^A^31 E
" Mood 441 EU in Lema
Oo:cumenimailiuxus nuimorls iit €exC» uy).
P Re 014115, Ct" In fluxio et materia in Intimioribus
recipiatur,& ab exter--| sibus alii;
nà tunica quodammodo repellatur.aut faltem abi]
ad oculos cà nonadmittatur, cui aqua ex rubi fümmitati- abitinen- bus, ex foliis teneris quercüs, ex
fragis, et (imili--| dum 45 ' bus, vel
compofitis, aut ferrata convenit :at ad--|
«dri»? ftringens ficcitas numquam admitti debet, ubi]. QÓAS. C
conmimaciorem et folutu difficiliorem efficiunt affectum, et fiepé etiam actioni visüs non
leve af- ferunt detrimentum. 99. Notant recentiores viri doctiffimi, et poft multiplici experientiàà me comprobatum eft,
in i Via 9laucis ocu l1s,ubi etiam vene
ampla confpiciun- agbla i, ; 'ü f
mitioribus remediis agendum effe, quod forG'anmcis 1 "Herila, affe magis fint pervii. agendum.90. Mafticatotiis,&a
pophleegmatifmis uten- In epiplo dum.eft
potius, quàm errhinis ; quæ tamen pro-
va errbi- grediente morbo, et frieidà affluente materià, ?5 ra^ modo validiora non fuerint, in ufim
aliquando venire poterunt: fic enim
averfio materie fietà æatibus canthorim
oculi ad nafüm. 91. À fternutatoriis
cujufcumque eeneris o- mninoabftinédum:
impetu enim propulfa mate- cul»us LTiàà
Cerebro per nares, et pereofdem meatusa
poii; f, 9010s promovetur,& ab internis, et meatus ma- gis aperiuntur, *,
247 t2au» SK FA dita- dPor:a $9 v
gten ida» - humiditas ad
internas tunicas, et intra corpus; p^"
T A In
Opbtbalmia. 17 92. Y N. muliebris lactis ex uberibus
recenter emuléti;aut ftillaa ufüad
demvlcendum. vehementiffimum oculi
dolorem, ut principem, ; locum inter hujufinodi prefidia femper
obtinuit; ita cautio adhibenda;ne eadem
lactis portio diu- tius parti àdlizreat:
fepé enimab zftucc rromp- tur, et à
vehementi calore oculi acrimoniam ccn-
Cipit;abítercenda Icitur blandé eric, aut novo la- Cte afperfo fn bluenda. 93. Opiinfusin inflammatis ocvlis neque
fre- quens fiGneque multus:quamvis enim
ip eo prz- valeat refrieerand! vis,cüm
tamen amarotis non- nihil habeat, fepé
mordet, et dolorem adauget. Qiód fi ex
longiori morà prevalente frieiditate fenfus torpefcit ; et fübinde dolor
imnünaüitur, tum et per frigiditatem temperatur zítus,craffe- facto tamen affluxo humore contumacior
reddi- tir morbus, curatüque difficilior
; tim et visüs actio hebetior fit, vt
etiam Galenus cbfervavit, 3- Meth. med.
c. 2. GO" 2. de compo[. med. fecundum
Mocz; c.1. 94. Obquasetiam caufss rejicieb IAM etb.med. ult. ea,quæ vehementer Jeuamfirefrigerent, et re Imibus oculorum,utaca t'Gat. 175 J
rineunt, ellantin inflammatioad [0
^ ) I
ciam, et hvpocyf ^ tin; n6.»
fiuxit,exituü p EN "T (31*5
ITOnlmateria morbifica ; qux eó in
lbeatur. 9$. Et quemadmodum
remedia in hoc morbo ILeni: Ha effe debent;ita ullum lentcrem ha- bere
Laéle ent liebri qua cauttone
utenda us obhtbal- UMA e
(N n TWIA 06H tbalmia Obt! nfus
2e9u fi 4 Lj guens, 25€
Qt mult» $ Is,
Adífrtn- gentia va lid 1 op L thalmia IL. gie da.
Leztortn LabentiA bereoportet, ne pertinaciüsadhzreant, néve,
fiij epbtbal- 2 xulvifculum aliquem ex pompholyge ; Cadmià,
3C IH- esindda plumbo;adjungamus,arefcant,
acrimoniammye.»] vel ex admixtione acris humoris, et calidi
adíci- pun Allami- fcant: Quare licet
albumii naovorum diutiüs cone--jati Poi.
quaffata cum aquà rofarum, vel my illnm Mis
fondi va- velfimiliunr, .acípuma yes atq; iterum detra--] i4 :io, € cZ. Ca, maxime omnibus pro
"bentur, acin ufum du-Joniic qu2
c4- Cantur, cum tamen tenacins, adhereant ;ut huic "pene * . incommodo occurramus, foleo
ego ovum recenssit: ad duritiem quamdam
c3 «coquere, et detractáil Andes - flavà
parte, per expr effionemex albo aquam ex-4» 1
- 4 À trahere et i illà uti cumaliis; aut fané in loco cavonlile mA UE EV Ta cc iari albi, tutiz, et aqua
rofarum por rtione P impofità, in modum
cementi ; per duplicem pe-tam expref tione fact, aquam, fuccümve extra-y DESEE o BB li TRE tisocults fine moleftià,
&9 maximo cum. fructu utLfolco . ! pios
Cod æreis cum Gal. 1j: ELS ) Emplafi jb
onmbd.22. emplaftica um vimchabentia, et refri- fut eis in eph cerantia in lHippit udine conyc
'nire., ut diu itzusad- d.) tbalmia Y
ereant, loi |gtoríque te porc refrieerando re-Jio pellant;ubi potifimim: iit ophthalmia fit
ficca «Jio. aut humor effiuens
tenuis;necadharens; ubi vedi rÓ vi dior
fit, et mordens, füpcriorem cautio- nem
adl übe bin BIEN FH: a9 Obf: Van zu
pratercà, Galenum e MEM eb nti»dü -
AMeib. xit Ad de coni of. med. lecundum loc... 2 em itpitu interlenientia do lorem in oculorum
infian ^E 3n dine, nog tione,
cumalbumineovi,& lacte collocaffe deco
feine. Cur. de xnu iugraci;id veró plerique Medici paranij ex fek i1
1T S 1
Gianao utendum. 2 x
femine; cüm dn mm id mæis fit ca idv mi,
nuam conveniat in oculo rum inflammatione »; [um calidum in fecundo gradu, et ficcum in
pri- jJmo pofüerit Galenus femen 8. de
fmpl. »td. fa- ^ s.d ind. affumi
ieitur pro parando hoc decocto ad fc7147 YA
Jrendos oculos debebit herba pía, et ejus folia, AS Mond A
ilioqui augebitiir inflammatio. v
98. Quinimo in illius ufu hecfit cautio ex Ga- Fzzugrz- enoibiderü, nein ufüm ducatur, nifi priüs ab-
cz a&/sen uatur diligenter-; ne
pulverem admixtum ha- dum ante |beat;
femináque etiam erunt excutienda : sícque 244 Zeco- Iromimunem errcrem - E^; to
99. Infinita propemodum remedià, aquas;
|ptilveres ;&alia; cum videa im& paflim pro )jpe- 1l 5 et fcrib! ) placet iili ud h MC pro
CaUutloneadnc- i 31 4ÀAC ; quod 1 Goctrliitno Mercato lib.
Iu Jepii: Aii orb. curasi. c. 30. fcribitur . In oculorem
curat M vilia ad- ie animadvertendum,
quamvis pluri rima pra dpieiited
lcripra fint remedia nono '5, àut
plurimis j aut femper effe utendum
'Serim boni promut- Jtunt; quàm
praftenr, ut a1 G ;alenus . Scio profe-
I5, pl ures inom 'dam cocecit atem ded
" Ctos piles "vo Í^
p(le copia mdalium um potiüs, quàm defect tu 3 ex Attn Jnequeunt enim ocoli ; quz. proficua fant,
citra: Jdamnum perferre; ide Le quz
inordinate; et ci- Jtra rationem
adhibentur rco. Iníüuffufione perfectà;
quam Cataractam I» eatara
barbariappellant; curandà;4 aci removendà, 4a oculi
drautio hzc adfit, ut niinauam tali cutationl ma- 464 rere inum admoveamus,fi tuffi xoer laboret. Si e- ve742 &o. Ph
l1: Planen sleid SZICLA dina stes deed TE PTP RENS. FEET inim acu introducia Íiupervenerit ; perf
rationis / $ LESE DCIlCll-
jexicu ide E Go CE "P A E,
x T" ZU cdet ubl CENT -
. AN e E -m w4Ot-periculum impendet: fi veró tunicula depreffas ju: Bre Ciesa, ex.concuffione veheméa dimota
recurrit »ut WA. - Sternuta-
gneuto 1m pediente ; 90 1705?-
dirtpoji. Catara- éfa, ante-
quam aca cp 1- "TP quid
cavenda. Auribus. fS x
si fim - 2106 labo vYaOAIlibus 'Ui Cone
nin! . ror. Si veró jam
deprefsà fternutamentuma,u( immincre
zger perfenferit; unde aut recursüs pe--$io
riculum immineat, aut inflammatonis in oculo s; «ri fummitate dieit dextré majore oculi angulo
có-- oui preffo, et perfricato,
periculum hoc evitabit im- do pedito
fternutamento. 102. Quoniamante
curationem hanc per acüs fuii Medici fe
pius ut periculum faciant, an fatis in--] i0
craffata fit, ut actioni per acum factz cedere pa- jeu rata fit fine ruptura ; digito pupillam
compri- Jii munt;cauté id facere
debentne fi valentiüus id fa-. fis: ciant, nimis tuniculam attenuent, facilémq;
red b; dant ad difruptionem. Cautiones ip " MAurium morbis curandis
. N. aurium internà
curandàinflammatio- |». ne, à
repellentibus,& oxyrhodino abfti--.,,..
nendum omnino cenfeo ; cüm eniminternarumb. |... cerebri parcum repletarum foboles effe
foleattk c. materia eó detrufa, fi
repellatur ; ad prinapemos.c partem
remeabit,& debrium quandoque pariet, kr...
aliquando
veró alios cerebri affectus... Quód fij...
Galenus, 3. de compo[. med.[ecundum loc.xepellene-..... tia, et oxyrliodinum in doloribus aurium ; et
1n». |. inflammationibus earbimdem
cócedere vifus eft j,5.. id intellizendum potiüs
eft de phlogofi,quàm de:j verà
inflammatione. Si tamen non magna
fuenit;;| atque non multam in
particulà,& cerebro fübeffe:| materiam cognoverimus, repelient ia aliqua
in ifum venire poterunt . 104. Qualiacumque tamen hac fuerint; qu.
5,5475 "lid leniendum dolcrem, et refrigeranduminfun-
44,245 "entur,edamfi xíftus maximus
in parte fue nt, applicita iumquam
frigida appli licari d lebebunt ; nam cuüm a4 æm 'Janguiais fint expertes aures;facile ad fibi
co 'gna- fsat frigi-. " am intemperiem frigidam
flecti poffunt : tepen- 44 3a 1gitur
fenpercum Galeno adhibebusm. "y
tof. Quód fi dolores contigerint à frigidà ma- /?, «urs 'erià partem extendente, qua actu calida
funt, et 4^'»r/óws "potentia omnino
inftillabuntur : fic enim et fri- pu ridam intemp »eriem evincemus, craffam
mate- ume iam magis difcudemus, «
penetrationem adju- lvabimus. Loth
ind 106. Intinnituaurium à lue Venere,
alioqui 4ucezds. paturá fuà rebelli, et vix
fanabili, cauti fint Me- Tionieui lici;
neque vehementioribus remediis utantur : asm
one& enim experientià obfervavi 1ma]jori ex par- f« morbo re;dum tinnitum hujufmodi nimis cbftinaté
evin. G?^"t? rere tentàffent,
omnimodam fürditatem induxif- "^'^"
ie. Siquod autem remedium illi auxilio eft;uri- 1a afini,jn quà per noctem maducrit
lienum. porem X pont] caftorci, et mentaftri
fafci-,,,;,, Ifrulus, diftillata; et auribus
inftil lata,aut per eva- ex »ior£o
"dboratorium excepta ; maxime 1d praftat ; aut Gallico e Apleum Gvajacinum eoffy pio exceptum ;4X
auri- modium. pus bon nó . !
calefaci éra nó ap-
plicanda. It221t43 Canter
£2. CO0YORA li fatuva 1 catarrlEo
Pun. ., j De Catarrhbo. 107 Vamwvis optime fciam ;.ab
aliquibus etiam praftantiffimis in arte
1 medicá viris in catarrho curando
cantera proponi inurc ndaad fituram
coronalem,quo lo» co illi committitur
faoi Ftajits ut et caput expur- ectur ab
excrementis,& ab infernis ad fupernas, et extra corpus cadem revellantur : quoniam
ta- men vix greg poteft, craffiora illa
excrementa» aícendere poffe, afcenfa
vero per futuras permea- rc;
vcrifimilius autem eft, externe producta per
cas deícendere pof dn omnino re ejicienda,& 7 ab ufu inedico repellenda effe videntur ; quod enim
ali- qui (ibi fingunt
tfufpendiyintercipique materiam, ne ad
pectus fiuat, tidia ufum eftzquo modo enim
fufpendi queat ; quod graveeft, nullo retinente ; ne mente quidem concipi poteft: cüm veró
hic neque occlufio adfit vafis sali
icujus $, neque delica- tio, aut CO Vii
lle nc iba mor intercipi dici poteft. At
veró nequetxev d eft,cüm nul- 1a fere
fit diftantia latera í zuleiteg
E enim denudato cranto periculum nof
: neque derivatio, cum hac adl].
i&t- qiaminniius t cjuseritufus. Atabufuss]. cognofcat ? ? quis adufto pericranio
fecuritatem.s] pollicebitur? quis
1nflamm: interna periculum non
vereb! ibi men ibas T externa cum inter
"nis per nervos, "2 D 1 T^ "£/51^*vrnmt c 1^5 (^17 dba venas, perat "V Ci pericula viíà 2^ doc ntanum.Coz[ilio 36. pro atio nls et externa, Itür;aduíta parteis. eria: sjunguntur ? Atl :2end: met.
io; ob multa» pro Nobili Veronen[e 143.
C" 170. Hieronymum Mércütia lem zz
T omo 3. Con[iliorum; [aptus, 8c poft
omnes Fabium Pacium,z eruait:Jf[imis Com
mentaris in lib. Adetb. med. lib. $. cap. 13. 9 "Appendice ad lib-7.omnino genus hoc
auxilii de- teftatos fuiffe. Ego veró
libere affirmare poí- fum, me
quadraginta horum annorum fpacio s quo
in magnà hac vrbe medicinam facio, nul-
lum ex iis quibus cauterium hoc inuftum eft,vi- diffe à tali remedio adjutum, fe d aliquos
etiam inflammatione in parte excitatà
effe periclita- tos : potiffimüm primis
annisjuventutis mez» quo tempore aliqui
adhuc ex iis vivebant ; qui barbaram
fectantes Medicinam, frequentiüs Catarvbo
senus hocauxilii in ufum ducebant ; fed fübfe- ad pulmo quenti tempore, Medicis fpe fuà feaitlitia
fa. "t5
et tho piüs,exoleícere tandem illud, et pofthaberi
me- 74/0 1r I1to CC pit. Vente s 108. Vbiad pulmones, et thoracem, quin.Mam et ad fauces irruit materia, five tenuis fit,
five lofr, craffa, eargarifmi numquam 1n
ufum veniant ; Gargari- ex motti enim
attracta materia fepe fuffocatio- fmata fa»
nis infert periculum, 109. Quin
et ubi partes fpiritales jam reple- tx
funt materià crafsà, à uad abftinen- dum
; cüm non leve inde fuffocationis (ubfit pe-
riculum. IIO. Quód f fi homo
tabi; aut afthmati obno- xius fuerit ;
idem genus auxilii fugiet. Iri.
Solümtuncconvenient;cüm fluens ma- teria
acris fuerit ; et autexulcerationisin parti-
bus M gienda, ve
pleto bo- YaCe . Aft bmati
aut tabi chbnoxis gargorifmmaf fa 451 .
Gar, ear ft ^5 ; eatarrlo. bus gule,aut aneinz periculum
impenderit 5 quádo con t&ncque et blandé
id erit preftandum ; et addi- veniunt -
tisrefrigerationi adftringentibus,
Catari Y12. Quoniamaliquos effe
fcio, qui, ut con- non [ft^ timacem, et moleftum
morbum brevi tempore di narcc!i (e
curate poffeoftendant, ftatim nullà urgente»
055» ?7^. geceffitate, ad fiftentia. catarrhum accedunt ; $OAgDA HT nA a 31.5 : TET. d CV. Juste ue Theriacam novam, Philonium, pilulas
ce cy ecffitate. nogloffo, et fimilia
exhibentes; animadverten- dum erit, iis
uti eosnon debere ante humorum
expurgationem, et revulfionem;tunc neque fa- ciléad hzc veniendum, neincratfata materia,
óc refricerata, fi diutiüsin cerebro
contineatur;ce- rebrales aliquos magni
momenti morbos pa- tiat. Ad earamen erit
veniendum, fi eravia ur- ceantfymptomata,
ut fiita effündatur humor in pulmones,
ut graviffimam tuffim, metum.
fuffocationis, exulcerationis, vel rupturz vena, acerrimà viafferat; tunc enim miffo fanguine,
fi opis fit, vel enamillico, et ante
purgationem fiftere licet hünceffrenem
motum. De Zdngina. PM Voniam in hocmmorbo miffionem quii, loboranti dem fanguinis per fectam venam
o--] bus que mnes neceffarium
auxiliumeefle fa--], vna [it tentur,
fed in loco deligendo variàffe video.aliiss],
ficanda. ex brachiis femper emittendum cenfenübus;.f aüctoritate Hipp. 4. de vif. acut. 30. et quodi] fecti$ in brachiis non folum univerfum
corpus:| prom- proniptiüs evacuatur, fed fimul.eiiam non
pa- rum fanguinis à faucibus
revellitur:alus ex par- tibus infernis,
faph hanà, vcl e.- venàtali, quód
fluentem fanguinem in fluxio nis initio non ÍC- lum ad contraria k ci laborantis, fed et fontis transfundentus, «x ad OM i regula à
Galeno tradita revellen dum eíle OQ
(tendant : cum.eitHr laborans pars fit
collum, fons'autem transíun- dens fit
jecur, pracipua íanguinis officina ; fi
fanguinem miíerimus (célis venis 1n brachio, tantum abefi ut ad contraria fanguinem
retra- hamus, ut po ;tiüs ad partem
laborantem av Oce- mus: vena fiquidem
cava indelata in duos ra- mos fcinditur,
levium, &.dexuum, qui in jugu- lares,
et axillares dividuntur: at à jugi axbus
externis lary n91s v afa ortum. ducunt . Sanguine joiturex vei nis brachii tracto, certum eft,
ad v e- ias juguli edam trahi ; sicque
potius morbum. augeri, attract o
fanguine ad laboratem partem, vicinià.,
et inflammatione fanguinem trahente In
hac controverfià ceníco ego,on nnino animad-
vertendum efle, an Corpus mk iximé affiuat fan- cuine,five natur " mies ibanteactam vita
mfive €x folità ali iquà evacti tione
(up p reísà ; tunc enim ce níeo; f
inguinem velex vena pop nus; vel
malleoli effe detrahendum, eàdem autem die, urgente morbo, vel fequenti, Jecoraria, vel
ce- phalica erit fecanda ; et fi non
cefferit morbus, rübor autemadfit
faciei, amp »liüs etiam venicn- dum erit
ad fectionem venarum fub lingua Á Quód
fitanta non premat fanguinis cop la, In-
M a Ltaci1s Mani om M tactis venis inferiorum partium, przftare
credi- derim, ftatim cubiti venas
fecare; moxq; ad fu- pernas incidendas
accedere. Inamgina Repetendaautem et ex
brachiis fangvi laboranti 31s miffio eft
; non folüm quód mæis revellat; &us
iteri- minüfq; vires debilitet ; fed quód obfervatuum, da fa? $*i 3t Ce pius ad partem laborantem
affluxus novos zismf?- Geri. aut parte
aliquà ; ut onere; quo premitur, levetur,
transfundente ; autob dolorem, et ca-
lorem laborante parte attrahente.
115. Cümautem aliqui ex moleftià medica-
Wrlires mentorum, aut quód naturà medicamenta ab- potias dà horreant, facile medicamen ta
evomunt; preftat da, quà lemper potione
uti, quàm bolis ; aut pilulis : fi in
folida €nim- contigerit pilulas, aut'bolos evomi, cm. foma.
conferüm, et magno impetu ad anguftias op- preffi ab inflammatione tranfitüs
propelantur, fuffocationis, et ftrangulationis
periculum non leveafferunt. "ngincfis116. Quiad difcutiendum
ininflammationi- fæculi ex bus. aliarum
partium ex arentibus pulvifculis
difcut:éi parantur facculi ; inanginà numquam in ufim., &ns mali- ducantur, quód denfando
externam cutim po- tiüs curationem
impediant ; humentibus igitur porius eft
agendum. 190 r L)
A notpof[rs De Plevritide. qa slewi- T13. Vamyvis in plevritide curandà
fectà [ ^ . . " vide, dolo- venáà,majoriex parte
exfpectanda ve deften- fit coloris in
fanguine mutatio, €x Hippocratis et Galeni precepto; 2.404f.10.mO- dente,
$5 .dó eger ferze poflit ; ficenim et antecedentemo fa»guizis
inflammationis c: .ufam avertemus, et conjun- miffone ctam amovebimus; id tamen p erpetuó,autin, 79
e5 exe qu l'àcumque plevritide
obfervandum non eft: fiie aliàs enim
docuimus, fervandumid effe;ubive- "975 pa; quz fecatur, proxima eft loco affecto :
pro- "P! prereà dolore defcendente,
et infimam thoracis partem cccupante,
talis non exfpectatur muta- t10: nam
tales partes, ait Galenus,nutrimentum
fuum bauriuntà venà füb corde ; et cordis par- tes nimiüm Inaniremus, antequàm
fanguinem. infiammauorem facientem
evacuaremus . ! 11$. Quin necfemper
quidem in plevritide Neg. viri« partes
fu€rnas occu pante 1v itti eó ufquefan- bus debsli guis debet, quó coloris in co fiat mutatio :
fepe ws enim dum coloris exfpecta mus
mutationem, Vle tales vires concidunt ;
nec zger valebit ea € pe- ctore vacuare,
quæ aut refüd: int, aut diftupta Vomicà
in pu Imones defluxa collecta funt . ;
119. Etevenit etiam, ut, etiamfi vitales vires Ne; ime confiftant, non exfpedtari poffit ulla
colorisin, P^per- fanguine mutatio, fi
infederit loco firmiter fan- "!/^"$4-
guis, et in denfiorem membranam infederit . dn 120. Licet plevritidis curationem primo
ten- tandam docuerit H1pp.2. zest.
fomentis, ut; an iis curari morbus
poffit, tentemus, et dolor miI» blevri- tide foti- |bus quan tefat;idtamen
neque femper, neq; in qui US doueer- plevriuüde, aut in quàlibet corporis
conftitutio- 44, ne,autquovis fctu praftai poteft ; fi enim Jam qwinus morbus auctus cft; aut v ehemens cft
inflamma- M 3 to, (5o
CZ tio. &dolor; zftüfve
magnus, aut corpusimul- to fanguine
repletum, non alio hujufmodi re- medio
uti licet; quàm aquà repente ; ne 1na-
jor eftus ; dolor ;.aut affluxus materie ad lo- cum fiat.
2r. Át magni etiam in iis fotibus; qui ad nzo1 4emulcen dum dolorem in ufum veniunt
;adhi- x a. bendis cautione opus eft: fi
epim ad fupernas t^, fons DATUES
pertingat ; et verfus claviculam ) dol lor,
ftntbug; €um et materia acrior, et maxime calida effe ; di. foleat; calidis; et humidis actu potius
res crit uanfigenda : fin ad inferna.
vereat dolor,qui Dolore 4; €tiara
nonadeó pungeriseffe folet; quiquencn,
Jeendetey ]eveus flatuum copiam adjunétam habet; ficca, f«ti- . ediaminufüm duci poterunt, et fané
commo- dius ; attenuant enim máagis,
exficcant, et di2e- runtzex humidis
autém attentiatur quiden )ma- teria, fed
crafliores flatus ex fimili materià exci-
tad non 1ta commodé difcüti folent.
Sarculi fo ^ 122. Sicciii fotus, üt ex i ii lici materia vétes [jg parari folent; ita ea mæis
prefertur, quz levis lv, lit5 ficmilium ceteris prafert Hippocrates,
pa- nicum, furfures, femina, et flores diftutientes ; : falis autem etiam portio aliqua ob
exficcatio- nem hcet admifceri aliquando
poffit, minus ta- menilhus addendum.
quàm folet, tum ob gra- vitatem, tum ob
àcrimoniam. Mirfeeg 123. Quod fi ex fotu etiam dolor mitefcat
; zé dolore, DO proinde tamé ftatim
evictum effe morbum ni flatipg,
Cerifendum erit, aut à eenerofis remediis ceffan- &[iia- dum,puta.miffione finguinis;fepé
enimad pri- mum Ix plevrt
! M À I
9 bum, paululum etiam tuffis fuperfit,
et corpo- ^7 mee | risadfitaliqua
caliditas quz aliquando magis jr
infcítet ; quamprimum dandam effe operati; ut.que reliqua eft; materia difcutiatur;aut
enim quz relinquuntur recidivas faciunt,
aut ad füup- pes ohem convertuntur.
EU 26. Non fünt hoc loco pretereunda
preftam.,,, [9 iff ma duo remedia, qux
doloribus iis laterali- bs SM UL busadco
uulia effe cognovi, ut multos, qui j jam p, "aflanti PN jam fuffocari videba ntur, ab hujufmodi
pericu- 5»; e lis exemerim, Primum
eft;fi poft miffü i hdariz gi hui A
: mum fotüs blandimentum mitefcit in
phlegmo- 4^» 4 ne dolor, quód pars tenía
laxetur, fed revivifcit veris re- mox
ardentiüs, novà affluxà materià : quare.» mediis. fi et febris, et fpirandi difficultas enam
perfe- verent, non erit cunCtandum,
fed: affluens ma- teria quamprimum
crtit revellenda. I24. In hoc morbo maxime pleriq; qui Me- Exrerzis dicinam P rofitentur, arcana remedia promu nt
7o indifiz externa, interna : in
externis nullum committi &e æde.
poffe errorem omnes fibi perfiiadent, unguenta cx dialthaa fubuli;/butyro veteri,&
cumini pul- vcre patant; alii ex calce,
et alus cerata, &cata- plafmata ;
alii ex pice, et rebusaliis quàm plu-
rimis calefacienübus, cum zgrotanuum detri- mento: cavenda hec maximé erunt, potiffim
üm In prin C1p10 ; calore enim fluxiones
concitant atq; humores trahunt; alia
veró prætereà etiam Iaxant. 25. Obférvandum prztereà, quód optimé
!»/Ievrisi annotavit Aretzus, fi poft
devictum hunc mor- ^5 relige M» 4
guinem ouinem exhibuerimus tres uncias
mellis ro f. fo2 lutivi, et tantumdem
butyri recentis ; quód fi etiam
progreffus fuerit moibus ; .diffcile autem
füppuretur ; aut difiuptá vomica «gris pericu- ]umimmineat fuffocaticnis,maximé etiam
cone 2. feret .|In eumdemufi:m
feliciter utor quinque 1! unciis olei
aínvedalaru m recentis, cum uncià . Hil
unaàmannz. |In: eumdem ufüm duco infrà fcri- eu ptum : Recipeoleiolivarum optimi, et maturi unc. viii. aqua fo ntis lib. 11. excoquantur
fimul fine cooperculo.in vafe terreo
vitreato, ad con- fümptionem totius
aque, et póft olei illius unc. vii.
dentur, dolorem mitigat ; fuppuradonems
adjuvat, alvum blande mollit ;acnon ignetcit ; autin bilem vertitur. e Suppuratione . 127. Vn fuppurati ex difruptà vomicà
vix alià vià recté expurgentur, quàm
per gar matis tuffim fcreatu, non
multum fpei in evacua indà siad Mo. €8
materià peralvum reponere debet Medicus;
dice p al- quód ope Medici hoc vix fieri poffit ;. praftat vnm ex-- 1d quandoque natura, quz nobis
incompertas furgari, vlàsinvenit ; et ad
falutem zgri ftruit ; audacis tamen
potius eft officium,cüm non per alias vias
excerni péralvum poffit, quàm per cor, et jecur fibi tranfitum materia parante, quod
periculi plenumnezotiü femper cenfi; ;
fyncopen enim, dum per cor tranfit,
inducere poterit: cüm veró euam
heparattinget, et inteftina, et dyfente-
riam 1» emt" 252416 n0n
n M tiam mordaci vi concitabit ;
et fanguificatrice» hepatis facultate
lzsà hyvdropem faciet. Salu- briter id
quandoque à naturà tentatum fcimus ; id
Arctaus teftatur: et nos in purulento ex plev-
ritide jamjam cx füffocatione moribundo vidi- mus in Mane hoc Valetudinario, qui cüm phlegmone laboraret ; et propemc dum
ftrane eularetur, (isdores: jam frieldi
adeffent, 1ivefce- rent omnia extrema,
po tiffimüm fa cies, fubito alvi flucre
fu perveniente, maximà fanici copià
effusa, brevi rem ipore conval luit:raró jieitur cum id faciat natura, cüm eadem nobis
incoenitas vias fibi ftruat cum p
rxtereà non fit pet loca convenientia,
omnino ncn erit imitanda à Me- dico ;
poti iffimóum quia, fi leviori pureante ute-
mur, noxii nihil evacuabimus; fin validiori, vi- res imbecilles reddemus in qu ibus fclis
falutis fpes pofita eft,ut et ferendo
merbo fintidonez; et materia per tuffim
fcreatu cxpelli fatis poffit. 128.
Perurinam licet; quz 1n th hnic; pul-
monibus continetur materia,difficillimé,& mi- nis tutó educi poffit; promoventibus tamen
lo- tium tutó uti poffumus, ut Í alrem
materia, quz in vomicà adhuccontinetur,
et quz denuó col- z ligitur, per veficam
exccrni poffit :quód fciamus; vená
azygos interdum inferi ramulis arterie aor
tz, interdum ca |vzt vena -bi furcatz ad renes, 1n- terdum vena adipali, vcl em ileentibus,&
prc- ptercà frequentior etiam éft per v
eficam ejuf- modi materic evacuatio, et proinde
etlam 1mi- tanda, cum etiam fit per vias
conv - ntes. 1 Subburæ
tis dinreti cA COvens re foffunt,
e^ CH T» Inuftione; et fectione
faciendiin ems | pyticis hec fit
cautio;ne à ruptione vomice ftatim 1
fiat, fed cum Hipp. zz Coacis pradictionibhs, dif- ferenda erit in decimumquintum diem, ut et materia coctione ulteriori mitefcat magis,
quin ab effaüfione extra locum, ubi:
maturuerat, ite- |]., rum alteretur ; et
ulteriorrcoétione meliorred- | datur;
poft quem diem, fi inuftio facienda, om-
nino maturandum. Placet enrm Oribaf. 9. Sy- nop[eos, cap.3.celeriter evacuandam
effe;neque » multüm cunctandum, ne virescollabafcant;in. quo caf omnino à tali actione abftinendum
eft, ne in ilTud incommodum incidamus,
in quod cam certo mortis periculo
incurrunt, qui in afci te ad feéchionem
numquam veniunt, nifi ceteris remediis
omnibus primüm inüfüm ductis, et ja s
exhauftis,& morte pre foribus ftante.
Supture- jo. In fuppuratis vomitus plenus eft peri- "is vomi- E ;fi enim eodem tempore
vehemens tuffis, i As pericu et exfcre:
andi neceffitas fü perveniat, fimülque 5 |
le[15.. - evomantur impetti multo ex ventriculo cr affio« NT ra, vIX evitari poteft fuffocatio, cc onfpir.
ante ad fuffocationem et efophago, et arterià
af perii tum prztereà, quód conftrictis
mufculis abdo- minis in vomitu, puris
copia multa in pectore » repleto ;magisinteeione venofr ar- teri compulfa, fie pé cor ita füffocat ; ut
ftatim, I, Supfrya. MOYOES fubf fequ:
tuf. ns vsi- «131. Proderiteamen inanem
vomitum etiam. t5 9o 5, d1gito provocare,
non tamen promovere: fic. B vac £l; . €nim
à recs abdominis mufculis ab infernis
parEmpnyc attando nsrédiaut
f'eandi. partibus compreffo diaphragmate, matéria pa- ratior facilius propelletur. In A flimate . C. Vim majorr ex parte.difficultates ez
re- fpirationis à craf:à, et vifcidà
materià in fpirit A s partibus contentà
producantur, f pce 'tlam non leves
errores à Medicis commit- ti fol eant;
dum illam pr reparantes ad evacuatio-
nem attenuantibus valentioribus utontur, et impense calidis;exhaufta enim fi penu imero
pat te tenulori, craflefcunt nimium rel
1Qt ule; Imcr- bum reddunt incurabilem. I5
33. Cum ; quod qu: Magi iid arefa-
! €tione pulmonum fit, coarctatis,8 frin elc- ! bum ductis pulmonum alis, maona d
dilisnria adhibenda erit, ne; dun
rattenuare, abftereere, ' 8 et incidere
materiam ; quevt plerimüm ànhe- lationem
producere f flet, tentamus ; ficcitatein
parte adducti, 5s rum1in mortem przcipitem. ldcamus.
| 134. Vrinam promoventia tutó in hoc
Ibi senere! in ufum ducin on] li
valida | fucrint ; fiepé enim |[pa
rübus, quz füperfünt Bent Dliorem redd
CUratioi dunt " p UNT TR 2E. I3j Qu: mvis qua in C Imor-
otfunt, po aftimüm acuatis
tenuibus di S
thorace continetur ante evacuari * XN $ o»
arte aliunde, Catonem atud a €
[materia, vix medicamento Nie EH
ASIERE U aU t | "^ [UTC
poffit; botiffimà m à capite
aftu AN r -
I »
!aoH 7^ 1n ff ]ima
te attt-- 214A7111A y e snbe-
se calidas Ala. Aft Lmna-
ticit ficca fa gtt zda, * A
P La. Hct$ diuve HCA724-
'ores reddite.difB. ! ecu
pus Aftbmati [44
is 'iraan 1n J
fum dar4 náA ^ cet, optimum
eritmedicamentis anteceden tem] tti
illam materiamstibi przeparata füerit;evacvare,.t At id in magno paroxyfimo preftare,
periculi: plenum eft negotium
;neautfupervenjente vO-4 mitu eger
fuffocetur, aut dejectis viribus vitali-J te:
bus, animalis, quz per tuffim excernit, fuc--iiur cumbat.
Aflbmatü 136. À vomitoriis, potiffimüm in vehementia eis vomi- fuffocatione, abftinendum erit,
quidquid dicattpu: tus ma. Rhafis
;3mminet enim periculum füffocationissgoi
abfolutz : mirum enim in modum nifus ille pe- Non é&us affligit, metüfq; adeft, ne
materia in cefo-- fimi phagum adducta
afperam arteriam opprimat.. ! 137. Ius
galli veteris ex agarico, fenà, cnicos, ux;
A B bmati eis ius gal adiantho,
marrubio, hyffopo, paffulis, femini-li veri; Uus difcutientibus, duod paffim
paratur, et ài malus,r Mauritanis primó
inhoc morbo, et colicis do--| Cur.
loribus adeó commendatur, quodque ab anti-.|.
quis, et recentibus Pragmaticis paffim ufürpa--[i; tur, quod experientie non correfpondcat, et rain tioni adver fetur, tamquam noxium re ici
edumi eft : cüóm enim fepiüs in magna hac vrbe à doe... Cu íflimis Medicis in ufum du ctum
cernereimmos, ji 244.5». potiffimum ex
defcriptione Benec licti Faventi--fi, Wo
niz7 Emptrica ; cüm et ego aliquotiessirrito fuce-fi. ceffu,in Tgiiroogs morbis cxhibuiffem.cur
fru) ftraremur noftro £be, indagare
cepi ; atque obf multas raticnes
cbeffe fzepiüs, prodeffe vix vm-- p...
quam, mihi perfuafi. Ex lonoá enim ebullitio--b.. ne nitroft illa partes, quibus maxime
prodeffe. jus illud. 2alli vetens
crediderunt ; tamquama terreftres fübfident, atque in percolatione reji- "14 cuntur; vifcidz autem, elutinofz,
craffz, tum. et perpingues, excute, pedibus,
alarum extre- rhis mufculofis denique;
-& nervofis partibus promanantes,
maxime remanent. Vnde non. folum non
adjuvabit materiz ex pectore excre-
tionem, fed craffiore, et vifcidiore materià,& antecedente, et conjunctà
reddità,contumacio- rem, mæífq; rebellem
ad exfcreandum reddet. Quód fi non juris
fübftantiam, fed qua illi in- |
Coquuntur confideremus,ne fic quidem in hu-
jufmodi morbo cum mult pituitz copià conveÁ /f ", A 4- q n Amiet: qua enim pro folvendà alvoindu
ntur,aga- ES - t'A€71F124 f^ /bxicus, fena, femina carthami, omnino,cüm
pat- "reca iflrmam adnuttante
bullitio nem, vim omnem. ifolvendi
amittunt, ex longà ebullitione ienéis ix
partibus diffolutis ; d ge vero attenuantia etiam qadduntur, ut capillus Veneris,.& alia,
cüm in. gfoperficie vi ires fuas fortita
fint, ex eàdem illas amittunt; alia veró,
ut origanum,.b trys, far- | longà
ebullitione putrilaginofa reddun- (rur,
atque omnino exfolvuntur | 138.
Sudorifera in hocmorbi e enere,qualia ,
AMfunt deco&ta Guajaci, Chinz, Sarza parilie,Sat- S/derezs ?20ventis
Ma fras, ut concedi poffunt in adthzidid ad iine : 2 2 ajE 59a
amendam materiam antecedentem, quin et con- Wi pas junctam; ita maximé cavendum eft;ne1 IDSTUCD-
4,422). Cn dg44240 rc magna fuffocationeinu fum veniant: fu
iffocan EA Eur enim magis ceri, et auctà
neceffitate fpir adi, ec quide quandoq;
magna fequuntur jas ula,& venarü ze;.
lio pulmonibus difruptiones; quin et morsapfa.; p |
139. Cum ro TER ;:9. Cümtamen exficcanti facultate
infigni 4Tbmitt S lleant hec,numquam in
ufum venire debent, 2 je nifiadmixtis
iis quz dulcore et afpera arteriz fera
1n u- a : ij poffint abblandir, et humores
in pectore nit [me pulmonibus .contentos
ad excreuonem qmagis dulcibus.
paratosreddere. | Inparoxyf | 140. In
pazoxyfmo ne medicamento purean-
viopurgas te utantur Medici, ne irruens materia attracta.» zà eff pro vi medicamenti non ad ventriculum,
fed ad lo- pinand - cum 1mbecilliorem;
et folitum, fubitó egruma Inaf bi?
iterimat fuffocando . su nó ve-, ) lay
: 1 to bam I41. Sic quoque eodem tempore
non eft fic- | dion dum á à : ; candum; ne füffocetur zeer; blandiendum enim 4groimpa S asco remporestefte Galeno,quàm
curandü M /me. potiüseo tempore,tefte
Galeno,quam curandu.. Inparoxyf |. 142
Quin neclyftetibus quidem tunc locus m
afib-. eft: neque enim proftratis injici poteft citra fuf- stis ne focationis periculum « | elyfterib. 143. Vomitus etiam;ut diximus, eo
tempore3 quid u- evitandus ; neque enim
materia 1n fpiritalibus zndam. contenta
evacuabitur,fed quz in ventriculo;quq
Nec v?! cm per cefophagum
vi expellitur, ita arteriamg a £u uéd-
o (eram comprimit, ut füffocet .
Non[upi- 144. Eodemtempore füpinus vitetur decu. 2us ia- bitus; nam;utait Aretzus;ftraneulatonis
peri« €tat culum affert . Nonfricà o X45 Fricatio etiam pectoris codem
tempore dé pecias, Omnino fugien da. N««c fove- r46. Quinne fovendum quidem
pectus fponjtt, 4 P di pilas. elis cum laxantibus; calor enim
1lle fxpe flatij bus excitatis;
fymptoma auget, et quandoqu SR
fuffocat . 147. Quam- | [
To Bil ? 191i «
Quamvisin omnibus feré morbis illud Ó
"y » cratis veriffimum fit, non effe mutanda libene infüituta remedia, ftante.eo, quod ab
1 initio, I vifumeft;in hoc tamen,
commüni omnium fcri- | bentium opinione,
cate a ad eumdem fco- [funipesta intibus
eadem fervanda fit intentio ; A varianda
tamen erunt remedia . In afibrma te fap? mn
tanda me dicamen- tá.
De Sputo fanguinis. | EE Vm
infanguinis per tuffim rejectauo- 7, farto
ne foleant Medici ftatim optimo con- 55; c;uis Iilioad d lio nem fanguinis per fectam vena1
gue vena in brachio poufti müm dextro
ex jecora rià recur /ecanda- rere,
animadvertendum, fepenumero idin mu- 3anguinis
| licribus evenire ex fup preffis menftruis purga- ^ /putoex | mentis, autaliaceffante evacuatione, quz.
per^ dentis JJ hæmorrhoidas ; et in eo
cafu, fi fanguinem ex ^^ ifibns |
brachii venis extrahemus; peffimé noftro egro- 7,, J tanti erit confultum; po tius enim flinio
ni adde- ^^ | mus occafionem,ad f iu
periQi arationevacu rt |
euinemattrahentes E it1gltu r,fectà vena
lin talo ; ad inferna retr ahere fanguinem, mcx |repeuus vicibus ex brachio etiam conveniet
* ll'eumdem corrivare . 149. Sed ut in reliquis occafionibus 1n hoc,
" I morbo, dum ex venis brachii
fanguinem eva- 5 ;,; icuantes re petitis
vicibus, et 10 non mu |tà quan- affatun ef
fi ritate 1d à aft: umus ;ita dum ex talo fane ineqa/7; gu:- Blob eas cauf: as detrahimus, copiosé, et affatim
idaz derra- 'd praítabiaaus ; ut sera
fiat revulfio . b::dum Coqua
ven& r2 'sanguin? 150. Conanturaliquiin fanguinis peros re- veieclant jectatione cucurbitulis aut illumad
loca,unde 4|! bus cue-. effluit,
revocare,aut in lifdem retinere, feliiin- |^
eurbitula terdum füccetfu; aliquando cum zegrorum cala- patti «ff- mitate ; proptercà diftinctione
opus eft: namfi |^ x4 quà? ab
externaaliquà causa in his partibus vas fue-
eonvetit * yic difraptum, indéque per os fanguis rejecte- tur, fi cucurbitulà fluxum retinebimus,
phleg- monem in parte fine dubio
concitabimus.Quod fi non rofo, aut
difrupto vafe; fed reclufo 1d fiat; tutó
cucurbitulz tuncadmoveti parti porerunt.
151. Cavendum maximóé, ne, quod plerique. |*^ kii Á faciunt, à rejecto fanguine per
difruptam ves | guinis fu PATI
glutinantibus ftatim utamur; ut enim hoc [Us
10 quando aliquando confert, fi etfufüs à venà fanguis 1m. coveniat. pülmones,aut thoracem per tuffim
fit totus eva cuatus : ita. fi illius
poruo adhuc conclufa, et |"
fluitans remaneat circa pulmones, tantum ab- | cft, ut elutinantia juvare poffint,ut pocius
zegrü precipitem ducant in
mortem:vifcidiorem enim [e reddunt
fanguinem, et craffiorem, sícque 1ne- [i
ptum magis reddunt ad excretionem; unde fuf- .| focationes, anhelitüs interceptiones, febres
ve- p» hementiffimz ; inflammationes
partis laboran--['u tis et fübinde mors.
Grumi igitur prius erunti]/a incidendi,
et excernendi, et tunc glutinantiumi'ui
ufus eritineundus. In fputo 152.
Quod deglutinantibus dictum eft, adi] ii|
fanguinis exficcantia, et adftringentia omnino etiam erit adfiringe deducendum . Videas enim plerofque
ftam ac tia qua5- infpuentem fanguinem
incidunt,non etiam be-3u;. "ET nepetr
i e perfpecto vcroloco laborante ; an thorax; et 4» utilia, 4 pulmones illum per fe evomant ;anà capite
ad && 422»- Il fpiritalia loca
fanguis feratur; neque 2rum1 ad- do won.
huc adhzreant, et an fanguis adhucibi fiuitet ; adí(tringentia, X qvidem valenticra 1nj
ingere et etiam lambendo propinare, unde
ne ales Tru nesoborivntur. | . Prafente febre vehemente, in adftrin- 4f
izgé id ous, et La Mig MD... temperati
cffe de- "/2 fafre- I bemus 5;
potiffimum fiaut ab inflammatione;aut Geciniiw
l| eiaminde a s fit: non minus enim ex cà im- eite S £5 CH foc
minet periculum, quàm ex fanguinis eruptione, j,, 154. Vb1ab ero fione vafis, vcl euam aper-, li2onc ex acriori fanguine, ac bile referto
fangui- 5; q4jp s | nis fiat rejectatio,
purgandus ab initio ftatim, ex atri tu A
erit biliofus ille humor, ne, dum att emperare» szore. ffa- illum prius tentaverimus, coplà fua, et acerrie
mm pu- [mà qualitate perfectum producat
fymptoma.; 2224s. ineque enim putrefactus eft, ut
coctione indi- Igeat, et cum tenuis
fit; medicamentorum attra- lictiont
facillime cedit. ^ buf
In / 110 15$. Medicamenta tamen
non fint valentic- In fputo fira, quod
ica calida cum fint ; acrimoniam 1 n hu- hier hes moribus adaugeant X valida motione » nus mctu1ic
Mfluxicnem co ncitent : hinc qua fcammmonium. licont un ent; fueienda erunt ; non folum cb«
Cam, í caufam, fed euam quód venas
aperiant. ^» 4 Quà etiam ratione et aloé,&
ex cà Bar. ue ftiv AMrata medicamenta 1n
ufum duci: ncn Adag PAUTAS jc c quód
'enarum ora aperiants et acriora fiüt » cannbus
ji anm par fit ^ n 4la; a N 1/7. QiiRbabar- barum mm
fputo f[an- guinis fufpecium
. 1n fpnto fanguiais
quado va lenter fic- cantibus
utendum "ceti fo- ufas
172 f/puto fa»eguin:s linis
falpeélus . Quinimó R habarbarum aliquando inz hoc fymptomate noxium eífe folet ;
cimenim igneis fuis partibus altius fefe
infinuet ;'& fan- guini mifceatur ;
quod vel ex lotioimpense fla- vo ab ejus
affumptione perípicué«colligitur; ubi
forcé non pro ratione bilis educatur, acutior, et calidior fanguis redditus morbummasgis acuet, et deteriorem reddet. rj$. Inífputofanguinis ex vafis, aut
pulmo- nui crofione, illud inaximé
animadvertédum, an plus fanguinis
exfpuatur ; an puris : fi enim.
plurimum fanguinis, ad ftringentibus maximé res érit agenda: fin veró multum puris,&
pa- rum fanguinis excerpatur, potenter
ficcanubus erit utendum; citra multam
adftriéctionem;alio- qui pus perdit
pulmones; fic Gal. $. AZetb.6.fo- lis
trochifcis Ándronis Polyidz, vel ex chartà
combuftà utebatur. Vnde et cüm pus merum. cxcérnitur, folis fimilibus trochifcis utemur
. 1 $9. Non placet eorum fentenua,.
qui. The- mifonis, et Thetfali
fententiam fequentes ina rupto,
velapezto vafefincerum acetum ad for-
bendum, et lambendum concedunt, uz aut ad- ftrineant, aut grumofam. fanguinem incidant
; certiffima enim utentibus illo fincezo
imniiet pernicies; partesctenim
certiffimé exafperat;ac ||; ubi per
afperamarteriam rranfit,tuffim excitat; |
nde nóvum fluoren? promover: dulcórandumi oat erit aut melle, aut faccharo ; atque fic
ina ufum ducendum. 16c. Intopicis adhibendis placet
Tralhliami] £275 uc Voli confilium,
ut emplaftra frequenter mutentuüf » 2565/5;
ne incalefcarit ; 1d enim, inquit, fanguinem eó vocat, proptercàirrigationes potius
placent. t61. Frigidiffima ramen actu
hzc effe non. debent: przxrerquám enim
quód talia omia pes étoriinimica effe
cenfui doctiffimvs Sener, fi externe
etiam partes rubrx et calentes foerint,
fangwnenr ad interna propellendo fluorem. conctabunt.
162. Qwvàmvis quz valenter adftringunt, et exficcánt, urgente morbo, maxime commen- dentur ;cauté tamen étiam hacinre
agendum eft, et incraffanua erunt
adnufcenda, ut amy- ]um, far, et lac:
quód àmmoderatvs ficcantium ufüstuflim
excitet contvmacem, fed inanem ; undeant
nova fluxio fanouinis promovetur,aur
vena mæis lacerantur. De
Ph:hif. 165. Vm inter omnia prafidia ;
quz 1n. phthifi in ufum veniunt, Iac
primum. fibi locum vendicet,ut mu ta de
fpecie lactis,de quantitate, detempore,
de modo; ac mixtione, opum? à Gal. s. €
7. 7M'erb. szed. propofita,
recentioribus plerifq; recipienda ; et commen- danda judico ; ita illud ; qwod ab omnibus
fere recentioribusadditur, nufquam
tarnen à.Galc- no traditrm, non recipio,
ut à lacte affumpto non dormiant zeri :
cüm enim per qvinque hc- ras ante cibum
velint exhibeédum effe xeris lac, fi
fomnusinhibcatur, et preftanuffimo auxilio
mA tabidi t0piCA fa» piis tnu-
tanda. Acin fri- gidiffima
effe mon de bent, 944 tboraci 4p
pliczantur. SiCCAVtiA valeter 15
fgate fan- £141n15 em pla fits
admi[cen da . l^ phbtbifs
à lséle ^f Su bto dora nmieaum
Tr Phtb 'h ; ÆN y qp anunæ al
);£$ ^ ^h "4$ 7220. EU
£t. litatis fomnus ille
confe: tabidi deftituentur fomno nempe
matutino, pociffimüm cüm exficcati fepé
noctes infomnes ducere foleant, autob
tuffim moleíftam fomnus impediatur; fi
etiam eo tempore à fomno arcea- mus, et ficcitatem
augebimus,« vires vitales imminuemus ;
per fomnum autem.&. vires 1n-
ftaurabimus., et cor pus ficcatum humectabi- mus, coctionem lactis in ventriculo
accelera- bimus. Neque cnim valet ratio
Mercurialis, quód fomno majores fiant
eva porationes; quód in tabe, five
hecticà febre, five catarr ho;& pul-
monis ulcere, blandailla evaporatioiactis ma- xime ad fomnum majori ex parte
deperditum onferar; in verà autem
phthifi cum diftillatio- ne acri, et falfuginosà,
et ulcere pulmonis, tem- perata hæc
evaporatio utilis erit ac. acriorum
exhalationum calorem temperabit;phitfque uti- et tuffim cohibendo : quàm damni evaporando ; maximé cüm
tuflis concuflt ione lactis «tondodbio
amediat E 164. Cüm phthifi confümptis;
fialuidluor fu. perveners lethale fit
maximà cautione uten. dum eft, fiin
115alvus non dejictatin ufu fubdu-
centium; blandé enim omnino agendum, neque caffram, prunorum dulcium decoctum, man- na,mel violatum aut ad fummum, mel rofa- tum foluuvum tranfcerdesze debemus. De Tuff. d
Vód fcriptum fit ab aliquibus, et do-
ctis quidem VAS: E [n ^ E [uriats
fitiat; vigilet, qui vbevmata curat . vigilan-
in curanda tuffi quàm piures:zgrotantes vigi- e. C liis macerant, ut fluxiones.impediatit ;
peflimo 74474» fane confilio: ut enim
fuperfluum fomnum ce- rebrumnimis
replere concedimus, ita 1mmode- ratas
vigilias muito majora incommoda afferre
experimur; potiffimum cüm per eas vitales.vi- res corruant, quz in. hujufiriodi morbo
maxime neceffariz funt : vieilandum4ane
eft cim: à ce- p a. rebro adeó affluit
materia, ut fubitz fuffocauo- fa dern nis peticn ilum immineat; «& tamdiu
vigiladum, quamdiu tàle imminet
periculum: fecus in muíh x 4 moderatà;
dormiendum enim;ut concóquantur ALES Nn
humores,«& quiete pectus firmetur ;fi enimo "v7 Galenus 1. de /12m.cap:28.ut citat Rabbi
Moy- fes 213-.Se£t. Aphor.ícribit,
tuffim ; fternutatio- nem, et fingultum
cutaria diquando;cüm hcmo fuftinet ;
atq; fefe abiis; quantum fieri poteft,
motibus cfficiendis abftinet, ( quoniam cum motus ifte fiat à voluntate, fed 1rritatà ;
poteft quis interdum volés non.tu ffir)
cur etiam fom- num non commendabimus, in
quo omnes fiftun tur fluxiot nes, X
tuflis quafi fufpenditur ? 166. Inufu
pilulari im in tuffi,ad evacuan- Pilula d
dam materiam in capite exiftentem, non placet tu[f mal? aliquorum fententia;inter quos fuit
doctiflimus ?^/ cendi Mercurialis, qui
volüerunt; eas exhibendas effe 44" -
perquatuor,aut quinque horas poft cenam, «quando ventriculus nondum, ut ait Mercuria-
E ai lis, ex toto vacuus eft : quoniam
tunc niagis fa- 7^ r pernatant, et facultatem
mittuntin Pin Des, 4. I d et afpe et aíperam arteriam. Cüm contr
illudcer- Giflimum fit ; ex hoc modo
exhibitionis multa. -d..
fequiincommoda;nam aur cum cibo cititis fib-
ducentur ad inteftjna ; quàm oporteat ; aut fané femiconcocrum ciburs deducent ad
inferna;aut ommum fiet confufio | Quare
pra-ftat;autince- eM S natum illas
fümere, autíane fiummo mane jeju- peor
10; « vacuo ventriculo devorare, procurato
forno per ünam, aut a]jteram horam. |
De cordis Palpitatione . 167. T
N graviffimohoc morbocurandocaven dum
maxime, ne Gal.verbis $.4e loc. ai siiid
affect. 1. ubi afferit, omnes, qui paffi funt palpi- e 34,,,. 'aUonem cordis, à fectione venz
juvamentum »us fan. &CCeptfIes.quem
fecutus Avic. 1.5.7 ratd. c. Cap. guis
mi- 7:3n omni cordis morbo, fcribens,utilem effe» tndus, Íanguinis miffionem:quifpiam adductus
in om- ni cordis palpitatione fanguinem
per fectam ve- nam .evacuet; neq; eni:
omni, neque fempet Galenus fectione venz
utendum ibi cenfuit, fed omnes, quibus
fübitó, cm fàni effent, fine ullo alio
accidente cordis palpitatio füpervenit; fan-
guinis eductionem juvifle: hos veró,quód inte: grà,& inculpatà valetudine fruerentur, à
fan- 2uinis copià, forfan. et calidioris,
in eum mot- bum incidiffe, mihi fit
vetifimile;quod quilibet etiam ex
Gal.2. de caufrs pulf. cap. 2.collieere po-
terit, càm dicit : Z4ccidsr ettam pulfuum imaqualz- (45 Interim ex fanguinis Copia, qui aut in
venas aut ertt. In.cordis
palpitatio abteriastp[as fit vufu[us; atq; bac quidem [anguimis aniffone fedatur facillime. Hactenus
Galenus. Caufæft, quia copia illain
venis arteriasillis vicinas premit, et coarctat
; qua fi venz fectio- ne tollatur;
tumorem, extenfionémve venarum tollit
;Jocàmque fübinde-dat ad motum arte-
ris. Vnde veriffimum eft, cuicumque cordis palpitationi, ex humorum copià in venis
exi- ftennum,optimum effe prefidium
fanguinis pet venam detraétionem ; quod
confirmavit etiam Gal./;b. de veua fect.
ad verus Evafiflrataos, cap. 4. Quemadn
odum etiam fi aut eftuatio;fervor- ve
fanguinis, fiveervfipelas aut coripfum ten- tare agoreffus fit, aut etiam
venas;arteriáfque » vicinas invadens, et
palpitationém inducens, ad hoc auxilium
ag2rediendum nos invitat. Precepit hoc Gal. 13. eth. cap.
11. € lib. ad- verfus Erafiflrareos,
cap. 8. Atut hac veriffima,s funt ita
aflerendum ett, in veràillà cordis pal-
pitatione, qua illi cum aliis particulis commu- nis eft, quz que morbificz folius caufz
foboles cft;non conferente facultate,
quz majori ex par te ex flatu eft,
drminuto calore ; tum etiam nz non verà,
quz cordis propria eft, fi vel ex frigi-
do humore; qualem defcribit Hippocrates, vel f1 alio, /sb. de facro zsorbo cim fcribit: 57
porro ad cor proereffvm fecerit af
fluxus » palpitatie appre- hendst, C
anbelarsones, G7 corpora corrumpuntur,
«liqui etiam cux: fiunt Cum enim dk dcenderit fi- tiita frigida ad pulmonem aut ad cor,
pevfrigerz- tur feng:isy vena autem
violentey perf icerate vd N 4 pulmonem,
C cor affiliunt, &£ cor palpitar . nullo
modo fanguinis miffionem convenire, :Quins ne tunc.quidem fanguinis per
fectam^venam evacuatione utendum eft,
cum cordis palpita- tioà virulentà
materià ccr imp etente fit; autà vapore;
fuliginéve venenosà. Quód:fi Avicen-
riasin omnibus cordis affectibus venz fectionem utilem effe dixit; non proptercà tamen in
omni- bus caufis evincendis morborum
cordis utilem cfle pronunciavit; $1c
etiam in palp ita tione» Conveniet, at
non Íempcr, nequein quàcumque
-patpitationis.causà commendanda ;
In paljita - 168. .Sedillud in evacuando fanguine per fe- tne cor- &tam venam maximé anima dvertendum; fi ma- dis,«bi in Ximam in corpore laborantis hoc
morbo fübetfe fanguinis fæguinis, et humorumabundantiam
cognove- abundan Sina qu 12 non tantüm
vires premat, fed et i- tia mitt Wa
quoq; vafa diftendat, tutó nosadillud auxi-
lium defcendere-non poffe nifi fanguinis mo- qu» 95 tum.cor verfus abendé proficifcétis
fimul com- X indo: peícamus, ac abipfo
corde revellamus : cüm., enim cubiti
vena.,.qua fecanda eft, ab axillari
axillaris autem non longe ab afcendentis venze cave ramo proficifcatur, unde 1n cor ramus
in- fienis coronarius divaricatur,
abundantiorem. faneulnis copiam ex
venacavà hauriri contin- get; ex quà
quidemre fiet ; ut plurimus fanguis Cor
verfus iterar ripiat, sícque cbn dis. viícus ma- 21s fuffocabit .. Ne igitur in hoc
incommodum incidamus, co ipfotempore,qno
in brachio ve- na tundetur,
utrifquehypochondriis optimum erit us [ut sá- lerit cucurbitulas affieere,;dextro quidem.
5 «uod inde vena cava exoriatur ;
finiftro autem, quód illic plurime
terminentur arteriz, quz Mpirtuofum à
corde fanguinem revellere pos |rerunt :
fic enim fiet ; ut qua:jamiavafura erat
licor fanguinis copia, cucurbirulis admoüs re l'vellatur ; quz vero influxit ;venà fectà
exhau- P riatur. 169. Quód fi humoris; et fanguinis
tantas linon adfuerit copia, aut fola
fufficiet fanguinis l| per fectam venam
evacuatio, aut fane poft illam
llapplicari poterunt cucurbitula .
170. Átubi infienis adfucrit fanguinis abun- Idantia ;in utriufque brachii cubito venam
ape- | rire, udliffimum erit tfi veró
non adeó magnas | fuerit; finiftri
tantüm füfficiet fecto . 171. Quod fi
ne (ic quidem affectus ceffave- |
ritarteriofum,;& fpiritibus plenü fübtiliffimum | in arteriis potius abundare
judicabimus;& tunc dis affects j|
cum Gal. Ze cur. rat. per fang. mni [[.11. íectiones arteriarum opus erit . 172. Sed in eo cafa non magnas, fed
exiles || potius elizemus fecandas ;
quales funt ee, qua | per digitos
excurrunt:licet enim parva fino ma- I
ximum.tamen juvamentum afferunt j atque fa
I ciliis inductà cicatrice, fine anevrifimatis peri- culo coaleícunt. 173. Cucurbitulas fcarificatas dorfo
affixas cordis palpitationem curare ;
fcribit R hafis 7. Continents v At Avic.
4. Fen y 1. Dotl.$. cap. de |
Cucurbitulis ; eafdem dorío applicátàs aliquas
| quidem Cczur bi- (Hla i pale
tttatione cordisqu& de appli-
£anda. In pa:pita tone
core di: a4 ve n3 fecan-
da. Arterioté- 731A 472 COF bus guade
C07) GEX1f » Arteria qua fecan
d4127 cor- dis palpi- tationt «
Cucurbi- ) ] ^ t'i'a dorje
ffxa& in x. m HII Cim rn.
P cordisqua 9o profsat. 7? fi ! atit. cordis £ro-
vdedut fistibus L^. tricals quidem bona facere fcribit ;
fed et vencericulum ledere, et cordis
tremorem inducerc: fi tamen cautio
adhibeatur ; utrumque optime obfervát-
fe dicemus, quidquid dicat Mercurialis nofter in fta Praxt,capsite proprzo ; cüm fciamus ;
peri- tum; Medicum numquam. repleta
corpore cus curbitulas ante totius ex
purgationem applica- turum .. Diftinctione
igitur potiüs ali3opus eft; nam fi ex
humoribus palpitatio cordis prove- niat
» fi dorfo € regione cordis, ur plerique fa-
ciunt cucurbitulz applicentur,id
in manife- ftam vgri pernicienrfiet;
augetu r enim circa cor faneuinis Copia
ob calorem, et dolotem : doce- bat enim
Galenus rr. A4eth. 17. übi 1n iis fit
plethora, non magis ex pulmone in pectus. ali- quam excrementi. partem transferri ;
quàm.» ex toto corpore 1n utrumque. At
ubi palpita- tionis cordis flatus fuerit
in causa » evacuatà materia, unde
elevantur, cucurbitularum ap-plicatio dorío é regionecordis.
praftantiffimum erit remedium. Quinimmó
applicari etiam. commodeé. poterunt, ubi
cum flatu frigidus quifpiam
humor-conjunctus fuerit: nam ven- tofus
fpiritis admotà cucurbitnlà digeretur; qui
veró reliquus eft humor; facilis evacuaaione » detrudetur.
174.
Flaubus etiam cordis palpirationem.
inducentibus ; femper humorum et in ventri- culo, et inteftinis..& flatuum ibidem
collecto- rüm maxime habenda eft ratio,
atque ii inde.» fubducendi ; quod. iis
inanitis, fepiffimé folu- tos ltos etiam eos obfervaverimus, qui circa cor
ob^ Ivcrfabantur . 17$. Fugiendum veró quàm maxime illud, ;,
jalpita ide quo nos Galenus 12. Math.
ult. admonuit, fuis mum fi adhuc in iis
partibus fücci, ex quibus flatus 4; (s fia" Ielevantur, continebuntut,à nullàre m: ac1s
eí- tibus, sz- Ife metuendum, quàm à
calore, quod eos colli- ters zz Ijuet;
atque in flatum vertat, fed digerere ncn.o lids mon valeat: craffa et 1m, et ejutinofa dum
calcfiunt, effe. men- Iflariofum
fpiritum gienetre folent, Gal. tefte» AMI Pr dv
Inbidem . ftutr m ; tertia. 176. Vbi ad cor aut efferveícens fanguis
; laut bilis affluat; ut phlegmones, ucl
eryfipela- itis periculum adfit ;,
quibus in corde productis; 54.
Ideíperata omnino falus effe folet ; ftatim àfan- sellestia, Ipuine miffo, vel dum mitdtur, circa cordis
re- cordi Afm. Irionem repellentia
adhibete convenit : qua 9lsanda.
Iquamvis 1n morbis pectoris omnino fueiendas e(Íc conftitucum fit ; 1n hac tamen
afflictione js irum, ad quamcumque
partem materia fluens Irepellatur, ea
fitignobihor corde, necinde ad- Iro
fibitó mors immineat, nullà interpofità mo- Cere la- raapplicanda funt. bordite en 177. Vbi ex craffo fanguine cor hujufmo-
erafis hm Hi morbis laborat, à
diureticis, et füdorife- 7». Dum mit "72771; fa*ii diMreticA "Is erit abftinendum ; nam hec
exhauriunt fe- 57 ? | : $» 6 à! beso yg É C
fudorie um faneuinis, et fanguinem
craffiorem red- ! pela dun! Ld "^j
7 UEntHf, 178. Verüm, fi aquofus humor, et ferofus,,,,
;,,,. norbumillum producat, nibil eft,
quód facifé sobtitaa iius yuin hujus
morbi poffit evincere . PLI, 2Difeutien
dibus fia- 145 in Cor- dis palpi-
faftone, snifcenda fnbadfiri
gentia o In flatulentà palpitatione vehementer || rcfolventia damnanda fünt : nam fpi- ritus vitales nimis exhauriunt. Quód fiin ufüm ea ducere .. neceffitas cogat, ad- ftringentia ali- qua erunt
admi- fcendaa . | 20g
LIBETIA Comprehendens eas, JDe dolore l'entrictii. eiendum erit, lAnimadverfionum, et Cautionum Me. dicarum,
4$ no 0908 Ousinvrelk qua. -
1/77 uUualium partium morbis fuat obfer Yauda. SUN inflammatorio dolore, inflam-
Dolente W| mationem partis, aut
eryfipelato- veztricu- fum affe&tum
infequente, genus /^ v6 iz- omne
medicamenti pureantis fu- f^amma- nifi
fimul affluxam '/?vé» par id ventriculum
bilem cognoverimus;in quo ca- i
pureantia omnia evitabimus, ob innatam ca- 4 pienda. Iditratem, et nenovz fluxioni ad partem
Ja1., fo! ore laborantem detur occafio ;
concedemus SIS, cantia fis ramen
Sus vcuna $3 ufune daucend2-
Rbabarba yum 1n do love vexit:
eui infla $9 X 0rto fsgiendz.
Qiata n dolore vé-
zriculitia- fl^mm TI, yio. quan-
do conc.- dcnda. Ventrieu-
lo dolente có mflam »lomé .
f icida po (as Co ex- irà appofi
n0,9Ha5- do cox vten.at. Ventricu-
li ia dolore «o6. tamen
lenieritia, abftergentia,cumrrefrigerauóe | : t m ne aliqvà: tamarindi, fetum, fyrupus
violatus, | et fimilia concedi
poterunt. ;. R habarbarum, multis in
hoe familiare»; omnino fueiendum: nam
et igneis qualitatibus nocet, et biliofi
humoris affluxum folet con- Citare. 3« Opium, et opiata, licet in omnibus vene
| triculi affectibus fugienda fint,
urgente tamen» dolore inflammatorio, cum
lenientibus ca ad- mifceriin paucà
quantitate poffunt ;fic enims neque
actionem impedient, dolori fuccurrent et
intemperiem imminuent : etenim fic Gal. Ze:
compof. med. fecundum loc. circa medium, exayni-- F7 nans medicamentum quoddam Afclepiadis
adij* ftomaticos,quod recipit plura
medicamenta, &:] ^" inter hzc
aloén,& opium; reddénfque utriufq;j 7
raticnem,inquit, alocn vitiatos humores ex pur-4^ care, et infcrné peralvürn évacuare: opium
ve«4 *ii 1o fenfum obftupefaciendo,
mitigare moleftiamgr'i ortam ex
acrimonià humorum; erat tamen opi ad
reliqua medicamenta dofis unius ad vigint
quatuor; quam etiam non improbat .
4. Im inflammatorio dolore ventricuh, aum incipiente eryfipelate, aqua frigide potum;
au^ [) frieidiapplicatlonem ut convenire
aliquand 4; concedimus; ita id faciendum
ab initio maxim] cenfemus; affluxà enim
maseti, fi frigida exhiu'ic beretur,
morbus curàtu difficilior redderetur . |
«. In doloribus autem ventriculi, et ineft]; zorumà frigidà materi,áutà flatn ex. eà
gem]i, tO5 fi | WIH. io; |
to, fi contumaces fuerint, et multà fübfitmate- ex. frg: ria, Hiera licet à Gal. commendetur, et à
ple- 4a,«t crz/ ifque Medicis, quoniam
tamen tardiffiméopes /2 mate| ratur, aC fepe dum ob vifcidam materiam tuni- 1/2
Hrer« | auget,necéffarium effe cenfeo
medicaméntum jaliquód pureáns admifcere,
quod et materiem cis ventriculi
adlieret, attenuata, et in halitus 4/44
^, * » 1 " A ut converfa.
materia ventrem diftendit,& dolorem "^'^^ »n€n1147
Hryoans$ . n smifcendit. adjuvet fübducére,átque Hierz vim
intendat, ut diaphainicum;electuarium
Elefcoph,& fimi: !lia ;
nequémultàm dubitandum eft, ne ad. partem laborantem fiat multus materix
affluxus, cum enim támmulta
adfitcraffa, et vifcida materia, vim ombium medicámeéntorum hebetat, i| et impedit, ne à longinquis trahat,
materiam autem etiam 1n éo exiftentéem,
et attraéctam | quamprimüm fübducat,ita
ut minima ventriculo noxa inferatur ex affluxu materiz, utilitas '€ró maxima ex caufz morbifice evacuatione
s, j| potiffimum fedato dolore. De: Ventyiculi irsbecillitate ex frigida ite npevié . 6. [ N $uellibonz cornftitucionis ; ave
catelli pu; 72 perpinguisapplicatióne
reeióni ventris riculo.ap . E - x £^ ;
PM A culi, prima lizc fitanimadverfio ;
quód cüm in »:4; ze J| tardà: coótione
ex friaidà intemperie; nihil fit fomnum
quod niagis coctionem adjuvet ; quàm IoBieus, (errim et riori interru ptus forinus, ánimadvertant.
pá« P^" - sicrites,Jieexanquietis
fit pücr, qui ex affiduo motu ;9$ motu fomnum patientis. interrumpat-:
majus eniminde damnum.ex impedito fomno
feque- retur, quàm utilitasex blandoillo
calore; quod etiam ex catellis magis
verendum ; potiffimum fi patientes ex
lis (int, qui et facile ex pergiícan-
tur, et difficillimé in fomnumrelabantur. puliin 7. Secundo illud etiam
animadvertendum applicatio. ft,
Cepenumero ex hoc complexu t udcrem ex-
gecaven- citari, quinifi affidué detergatur, noxam affert dus fador. magni momenti : quare vel ab eo
defiftendum etit ; vcl- intermedio
fübtüliffimo linteolo 1n eo
períeverandum. Inm,b- $8,
Suntetiamaliqui adeó in Venerem pro-
iiio? pi,utexcoamplexu in fomno polluantur aut 45174- 3d Venereos congreffus conciteptur ;1n
quibus omnino ab hujufmodi remedio eft
abfüncdum, De. INas[ca. € Fomitu. Vomitus 9. E Tfi quàm plurima ad vomitum
attinen- fugiendus, tiafuperius
propofita fint ; hoc tamen, fieauez-.
loco aliquá non fünt omittenda imagbl momcn-
tioryfed er tj, qug in vomitu exercendo pro naufez, et vo- gente ^ *- qytüs curatione maxime funt et animadverten- far tne da,& cavenda . Brirnàm igitut fir
quód Iicet jio; fc. ir adiquibus,
qoibusautob ventriculi imbecil- ^.
litatámsatitob afflexum aliunde humorum col-.]
lieitur. materia in ventriculo »concedendus fiti] vomimis.frequentius tamen 1d non erit
praftane:] dum fed femel; aut bisin
menfe, ne et in ma--], lam
confuetudinem deducamus;naturam » patrz]
tem ww À rem imbecilliorem reddamus; et membrum
co- éHoni ciborüm, et nutridionirinferviens,
fentina excrementorum efficiatur. : Cüm vomitu materia: expellitur, five» p,
pis fponte; five levivomitorio (numquam
enim for | 4 4,4755 ti in hoc cafu
utendum eft) non erit longiori tem.
i4fjfgedz . pore in eo infiftendum ; cüm
alioqui cupiditas cvomendi fepe
perfeveret; ne. ex nixu, feu vo- mendi
impetu, aut vena aliqua in pectore, aut
in eulà difrumpatur . aut affluxus.novus mate- riz potiflimum biliofie concitetur, infrà
igitur potius fub fi fttendun jT ' TRUM * x i. ?. (Orr Repe ità ctiam potiüs evacuatione,:&
petendis, 1nterrx iat | 1C fiat, quàm
unica d. nua didi 12. Quinimó prior
magis protrahi poteft ;. ;,, ;; ;»/;-
pofteriores autem breviores fint; licet cum ali- gadauz r1; 11lud auidebi. ut multa Vezitus is hoc autem,ut craffior repeti fex in fundo ventri- qnales efVonmitus €N
pot 45$ TE^ I4; m i
fubfidens educ qu e po Xflitsfed nullàalie- /e4e27, ni materie ad partem attractione; 13. Si qi is on ex naufca neceffitatem vo-
situs, mendi commonftrante ad vomendum
promo- 44: fé» yu veatur, fed quod feid
effnsere non pofle expe- /» se»fe
rimento cognovetit ; ftatutum »» menfe diem., ft, non aut terminum non prafigat ; p. nunc plures,
habeant nunc pauciores dies
interponantur;ne 1n pra- diem $fa- vam,
&inevitabilem confi etude lta dedu- I
catur sut fi fl pats, et quaframur |
latutum terminum aliqua datà occa-
fione tranfcendat, in morbos aliquos incidat. 4, Quam 'ls autem; data hacoccafione; VO-
VFontt* OQ mitu qui apftj- itu evacuandi fint, fi tamé ad
vomendum ine- mei, ptfuerint, aut fi perpingues fuerint, aut
angu- fto nimiüm pectore, aut fi atiàs
fputo fanguinis tentati fuerint, aut fi
cerebro admodum imbe- cillo, aut oculis
debilibus prediti fint ; potius
perinferna purgabimus. Womendà |
4$. Vtconcedendum, vomitotia, quz vehe-
quádoie- mentia funt, quibus humores ex pelluntur à to- $450 vt- to Corpore,aut faltem à
longinquisattrahuntur; tricalo C Tejuno
ftomachoeeffe exhibéda; ita in levioribus
quando 4 concedendis, quz contentos in ventriculo hu- «cds mores evacuant, ea diftinétio adhibenda
eft: quód fiquis ad vomendum non ita
facilis eft praftatà cibo vomitum
proritare, potiffimum. ficraffi fuerint
humores : fi veróad vomendum fuerit
facilisynec humores multüm rebelles fint;
pratftabicid jejuno ventriculo tentare ; aut levi- culo auxiliojuvare, Cras ba. 16... Quinimo, fi non folüm craffus
fuerit hu- soribus more ventriculo
evacuandus, fed in paucà quan $n wertri-
citate, licet malus ; poft cibum erit vomitu €ji- «ul2(xi-7 ciendus ; admixtus enim cibo
facilius expelle- fence ' tur,etiam qui
in fundo ventriculi confiftit,quod m ^1,
alioquinon ita facilé ventriculus in fefe contra- UU . hensillemelevare ; et propellere
poterit. 17. Cavenda tamen magna
ventriculi ex ci- borepletio e1, qui
cibum ad vomendum affu- mit ;
difficilior enim redditur vomitio, quód
ventriculus (ead expellendum, quod illi mole- ftem eft, vix tantà pofità repletione
contrahere pcteft. Y opitriri A09
21H $ replegtür. IS. At
í11 18. At. ne ftatim quidem ab affrmpto cibo
»,,, ;,. aut evom;endum eft; aut
vomitorium fümendüs,;, ; 7, fed tantum
tempcris intcrponendum, quantum sto, qua
fufficere pofle conjeceris, ut humor noxio ad- 4/4 vo- mifceri poffit, agitar.i, circumvclvi, et verfusos
mu» 25- ventriculi fiblevari ; id
veró-fit fpacium unius. Zendii hcrz, aut
ad fu rini m duarum : 1d autem fem- per
intelligendum eft de vomitu ad evacuadum
ciexcrementa, quz in ventriculo cconünentur ; et de levibus vcntcrlis ; quid enim in
vomitu vniverfüm corpus evacuante, et in
vehementi bis vomitcriis obfervandum
fit, et alias dictum c(t, et ab Avicenna
petendum. De Siti izymoderatA I9. T fitis.ex immoderatà caliditate;
.& 55; ;,,,, ficcitate ventriculi,
aüt eam COGI. 75; 2547 prafen da h
umorts calidi et ficci,eqva frielde 4c frigida
largo fa pé potu curatur, " aft m exfünguen- &ibezda, do, et bilemob multam aquz copi lam inecftam
C quado fr bducendo ; ita maxime
cbfervandum erit ; fi calida. fitis
hzcinexhaufta ex falfa pitvitz adhafu pa
rictibus ventriculi, vel ejufíem n fundo illius $ mo rà producat! r,frieida potum ncn fcre
uti- ]em; quód cont: macem mæ?is cavfi
m reddat ; et craffiorem ; eam vcró ctiam fa cile potus
pr rg terfluat : przfta ibit 1e1tur tu
aovà calidà ; qux maais penetrat,
attenuat, divtiüfque in ventte. commoratur,
pouffimtm fi quidpiam 1lli ad- mixtum
fit ; quod attenuanti facultate. pra di-
QD a tum 31»; tüm fit; fed et in
paucà quantitate, et non excedens. De
Cholera. Cholera | 20. Vamvis in
hocaffe&u, et per fuperna, Jaborates
et nim inferna humores excerri foleat,
quédo per &impetu tali;ut freno potiüs,quàm fupe ftimulo opus fit ; quoniam tamen
aliquando ir- C^ 24542 vea tiones quidem
adfünt;fed promultitudine» pe vba
máteria non complentur ; ideó adjutricem ma-
vag4,, Dum Medicus porrigere debet : at tunc ambigi- tur, an fuprà;an infrà. Primo ieitur
confidera- bimus, an naturà ad vomendum
zeri fint faci- les, et an confueta fit
aliquando talis evacuatio; tunccenim per
eam partem adjuv; ii am nt, hac
diftinétione adhibità : fi cibi corrupti talem
niorbura produxerint, ftatim vomitu excerni pofle; uteuam fibiliofi humoresab hepate,
aut univerfo corpore fucrint transfufi,
quód biliofa per fuperiora f. aciliüs
excetnantur »fin vero aut ad vomendum
naturà ineptus fuerit ; aut craf- fior
fuerit materia ; praftabit. abftereentibus
fubducerce. Von ^ 21. Sed fi
vomitoriis agendum, ea omnino ria in
cbo €evitentur, qua vel aliunde attrahendo vomitu lera fint attractam expellunt. ex. levib. . Sed cüm blanda illa mu! vicem
fint;aqua Fomiter te pida; hvdrelzeum,
mulfa, ox vmel,quæv aria ria in c)?
vatjoneid petant; quomtódo ea in ahi
F0424T7 s? Sibiliofa fit; et mordax ut ctiam fyncopen inducat, aquam
tepidam, vel jus pu Ili fim- riezate
plex, vel hydrelzum potiüs eligemus :Si craí- maierit fior fuerit materia, et picultz admixta, pt
rxeh- genda eritaut mulía, aut oxymel
cum aquá : S1 trefactus cibus, omnia
hec convenient . 23: Per inferna,
fiopus fit, id eft;fi moveatur
imperfecte, fi biliofa fuerit,à mannà cmnino abftinendum, et abftereenübus ex melle;
aut faccharo ; ftatim enim 1n CO
rruptelam trahun- tur,&b jilefcun t
:fedfcrum lactis omnium erit oreftantiffimum
remedium, aut caffre fucci por tio, quz
ardorem cohibet;mordicauonem com-
primit, * blandé fübducit : quód fi pituita pu- trefacta 1d excitabit, aut bilis craffa,
nihil pre- iius rit melle rofato, aut
folvente ex fero lactis ; aut facto cum
infufione rofarum rubea- rum. 24. Vtvomitoria in aliis morbis curandisin
Veste multà qu: inütate affumi debent,
ut etiam mole r:aiz cho natura ad vo
cé" m proritetur;itain hoc mor /e4 zen
bo mincr copia fufficiet, vel Aretzo tefte: quód frat, mul- Ur icmeiovss ventriculo, et difficilior
exitus /4 2/2tà humorum acrium reddatur,
et major vis,& do- '^//* lor
ftomacho inferatur. 15. In
repellentium, et roborantium ufi hec
adíit cautio ; numquam ftatim ab initio ea 1n. ufüm duci poffe : fi enim ex copià ciborum,
aut ;,,, quas humorum 1n ventriculo, et vicinis
pasbine Ü- qoid quo lis morbus
provenerit, non prius ea concedi pc- 5,4» i5
terunt ; quàm materia 1]la majori ex parte fit. wap d gvacuata : quod (i aliunde affluxerit, nifi
vires cez4a . i4 exfolManna, (5 faccha
1? barata s f"fecta $ cbolera*
Repellen - tia1n cho it4 exíolvantur, permittendum etiam erit,
tit. pars illius evacuetur, ne illius
impetu xepreffo ; aut - febris
exitialis concitetur;aut ad menibrum ali-
quod princeps repat ; fed non: dierum. numero hec movenda erunt, quód morbus
acutiffimus fit, et aliquando uno;aut
altero diezgrosinter- imat ; fed horarum
dumtaxat, ut unius quan- doque,.aut
duarum horarum fpacio viderim. tantam
humorum copiam evacuatam,.ur vires
conciderint,.& corpus quafi confumptum, et depreffum undequaque apparuerit . De Cardialeia. Cardial-. 36, Vamvis quz adftringunt,
aliquo modo gi lahe- etàm repellart, in
hoc tamen morbo rátibus in in principio
repellentia convenient, dri atn'dlo
modoadftringentia : illa enim affluen-
esvenii;, £5ad 0s ventriculi humores mordicantes, po- x2 41/1, ui ffimümin febrium principio
affluentesrepel- gea,
lunt,adftringentiaautem, licet id praftare pof-
fint, affluxos tamen quafi retinent, atque parti impingunt: fecüs tamen evenit, fi repellens
ali- quod per os affi matvr ;
repellitenim deorfum,
precipitatadvenienté;corrngat;adftringit.& in- durat, ut ficillimé;munità parte interná,vim
af- fluenus hum: risretüdere poffit, atq;
repellere. Cadia. | 27. In vomitu
promovendo in hoc morbo, gia labo- heec
adfit cautio ; fiflu&tuet materia, et proinde ga"tbu5 perinterval!la invadat, neqne nc
va affluat, S qnádo vo VOmitorlo,
licet.blando; uti poffumus;ut a: rd aO, . aij
120, aquà tepida, vel folà, vel cum fyrupoace- »sitoria,ee tofo, vel oxymelite : quód fi vel ab hepate,
vel 4444ode- alimmdeaffluat bilis,
potiüsrevocanda erit à fu- *^*foria.
perioribus, et perinferna fübducenda. 6s cin 28. In biliofis, et acribus fbducendisiis
hu« "4d | ^ Cédis acr& rioribus, licet Galenus, et Trallianus aloe;
five, dis Hieràutantur, ut fi qua
tuniciscris ventriculi jjj, matetia
adhafcrit,detergi poffit; alii autem 2,44;
Rhabarbato: placet tamen magis blandioribus ;a cardial uti, maximé cüm jam leniora commodiffimas
gia,lenio- noftrozvo inventa fint; fic
decoctum tamariri- néss utes dcorum,
fyrupus rofatus fol. caffia, vel ex prunis 4&7. paratum medicamentum, aut etiam addito
fero lactis, ræi1s convenient. 29. Placet tamen magis bolovti,quàm [liqui-
S424ucess do medicamento ; quod diutiüs
in ventre mo- f'^ &ilie- ram trahens,
non folüm commodiüs fübducet /^: ^»mo-
tales humores;fed fimul contemperabit illorum "777 cer" acrimonlam ; 1n quo genere et caffiam, et pul-
iss pam tamarindorum, fi premum [locum
obtine- 77^ 747 rc cenicrem . MT IDE E
niant, c 30. Qnodfft1à pitvità
fiatacidà, quod rariffi-,, qua for me
accidit, euamfi ufis Hiere à me commende- 52.
tir, quód humceres ilosattenuet., et fimul füb-: Here pre d'cat;cuoniam tamen et tardiffima eft in
aCtio- eardialgia ric,&frpéà materie
vifciditate evicta etiam. 7"'/cesdiz
imiæis retordatur, unde fiepé fymptoma adau- fter al getür, optimum effe cenfeo, illi aliquod
medi- 1*4 *»c- camen'rum admifcere, quod
vim illius acuar, et *'c4"»tr7
quamprimüm medicamentum cum infeftanti- * bus bumoribus deor(um ducat. O 4 Ds
$15 C0?7)U€i16. . De.
INaufeas. Innaufea 31- V1tos video in
naufeà orani ftatim aut quado bn
evacuantibus per vomitum ; aut per mores
vc- leceffum uti; felici aliquando fuccetlu ; aliquan- mt^; € doinfelii: quod ut evitemus ;
obfervandum. 2:449 P** erit, an inanis
omnino fit naufeay an cum aliquo
ftf" vomitu: fi inanis; conjectandum,an aut infarcti Anu tunicis fint humores, aut admodum
adhate- a wnbs Ícant; tunc enim omntiio
preftabicillos attenua- praparas- 1€»
abftergere, et incidere ; ut preparau poflint
A. educi facilius : quod fi 1n capacitate ventriculi contineantur, et fymptoma maxime urgeat, ftatim aut vomitu educend? ; adjuto motu, fi
ad vomitum faciles finc;aut per feceffum
erunt ab- fterzentibus evacuandi . De Hepatis intemperaturis . 32. Y IN calidà hepatis intemperie;neque
fem- per ab initio medicamento purgante
» jupe, Univerfum corpus, et jecur
expurgandum eft, quando Quod doctiffimi
quidam viri, ex Archigene, et purcadzg,
Galeno 8.de compof. med. [ecundum loc. ad finem, €^ quádo colligunt ; neque femper ab hac
abftinendum.;, nen. rictüs folà ratione,
&alterantibus ad frigidum contentis,
quod ex Tralliano; et Avicenna alii
cenfent ; fed diftinctione utendum : fi ex proca- tarticà aliquà causa fubito talis
intemperies in- troducta fit in corpore
alioqui fano,detracto fan guine vena
fedtà, et refrigerandi totius ; ache-
patis Hep tis £n cAlida
Il trahat, neve calor, e s patis causa, et revellendi ejufdem à parte
labo- rante,ftatim ad alterantia
veniendum erit:quod fi corpus bile prius
refertum fuerit, et paulaum intemperies
fit introducta, altiu(q; radices ege-
rit, et quafi habitum contr axerit, non. folum. fanguinis miffione erit utendum, fed
medica- mento aliquo blando calidi
humores jaminde» 'niti erunt | pus exp
urgandi, mox reírigeran- bu s erit æendn
m. . Neq; vero in ho c cafu fueie nd
lus eft ufus Ain ccun i fero, aut (vrupi
rofati Í olutivi; guod docti fimo Matt;
uie vifu m ef (tob eam ratione quod cüm
dulcia fint, periculum fitjne bilefcát:
valet enim argumentum in 1is, quz alte 'rando diugcüs in corpore moram turahu nt,non
autcm magis evincunt qu: àm ibdt icendo potiüs refri« 1n fubductoriis, qua c evincantur, et bilem fi gerant.
;4. R habarbarum potius m ihi fufpectum eft 1n hOoC Cà cium enim tardius o |peretu ir,19ne€as autem multas x artes habeat, quibus
penitiores partes í facilé adire potef s
et ] jecur 1 maois excale- facere
poterit; ut ex lotio, quod ftaimab: Tum /
pto me lican entof flavitiem affumit, e ru ffum. / confp ICItUF, quii bet cognofcere po Jte
ít. 3f. In externis ap] licandis ea adf
it cau tO refrigcrantia, et adítr in |gc
ntia fint modera tai tum actu, tum
potci hv m conha fu: 'tla,ne vifcus fcirrl 1 port CS,q 1inde cx halà ES I rerinceantur,ne etiam clau datur via
fangu inl,aut ^ LI
denique putredini detur occafio,
De 2L7 Hepatitis
i/i 2016277 perie £ali- ^a man-
na uon [wu fpectum . Hepati;
12 Intem- berie cali- da Rbhba-
baybari£ f (fpe 7471 L4,
Hepatis r1 E intéperie calida ve-
rigeratia ett adffris Renta tm
peu:? fnfecil. De frigida
Hepatis intemperie . In bepetis 36. |
IN calidis et ficcis externis applicándis |;
intempe- ea fitanimadverfio; ne nimitininiisex- | | "ie frigi- cedant: fitenim (lepenumeró,ut
humidioribus 1» da, calda pattibus
abfumptis;aut e&ficcátis;fcirrhi in pàr- jen C^ fà "té cohcitentur. f4/pacta .
De Hepatis obflruttioge .
Hepatis 37.| N topicisinufüm ducendis, piimó hzc jk sn obitru- adfit cautio; ne attenuántibus
umquam, éHone 4t- vitamur, nifi longo
intervallo poft cibum affum- tenuantia
ptum, ut non modó in ventriéulo cibis in chy-
eie Iummutatus fit, fed in hepate'etiam jam mitita- dgio donem in fangninem nactus fit.
Quapropter |; RA. cümà ceenáad prandium
multó majustempo- |i f rs 1ntervallum
intercurrat, quàm à prandioad
coenam,commodifTimium tempus judicamus c(& fe, fi fiat perhoramante prandium. Linimbiis .. 29 Animadvertemus pratereà,antequamo
|... f (us cali- linymenus,aut
inunctionibus niramur, femper [s di ai
fp;m V1ÍCus effe fovendum decoctis attenuantibus, et [i gia pra- difcutientibus cum fpongià, ut et inunctiones ittedi. altius penetrare poffint, et materia
ab actuali »l» et potentiali calore
attennatà, aut per fe diffipa- . |... xi
poffit; aut medicamentis c corpore duci.
RIIANII |.emone nó priàs
applicanda erunt, quàm fectio- | ne venz
evacuatum fit corpus, et pars materiz ^.
I revulía: fi enim fecus
fiat,vel fi ob abundantiam e E uo
WA e 4
s *. cf ^ 5s Me - - A0.
deu SCORE M. - o. ERE UUS De
Hepatts inflammatione . 39.Y cet
repercetientia extrinfecüs appofita. Hepate iz
medicamenta in inflammationum prin //4mmmste cipio adhiberifoleant,in hepatis tamen phle-
repelletta "m prine p:o. ante fe
élioné ve- n4 non có ; "Y^ (o, EJ 3 *» F^ T* * e » ; ^ '
*p)o l 2, 1* | repellere non poterunt,
rebellis magis reddetur 1, . K ÁO Ó N
e | timor, et contumax, craffior
reddetvr materia, et duritie coptractà fcirrham excitabit, vel
re- pulía ad cor, et fpiritalia membra
impetu rues, mortem ftatiminducet. 40. Laborante concavà hepatis parte, licet
p,;;f'ag; faciliüs fit, medicamento
purgante materiamo ;arne evacuare ;id
tamen crudà exiítente materià, et bepauisip
in rrinciplo fieri non debet, fed ccncoQà, &in «ezva par- decUinaticne. Qvamvisautem 1n phrenitide, !*
megan aliquando ab initio, ad
revellendum, evacv2n- dum, [cd d: m fit
medicamento pureante ; ficut docet in, "* d.cina plevritide, defcendente ad hypochondraa dclo-
«oi re, Hiep. 2.4cut. quia, ut aliàs
docuimus, non-dum cruda eft materia, fanguis nempe bibofus ; in hepatis tamen inflammatione nullo modo 1d,,
infini pre ftandum eft : quód, cüm pars
1!la labotec;,, sone humores, auià venis
undequaque evomunt"r 55,5; i
adjecur,etiamfi aliquà ex parte evacuentur ; p«»cipio per partem tamen laborantem feruntur ad ven-
sos. 2a» triculum, sícaue et 1»
becilliorem reddunt, et 454a. reduviz craffiores remanent; magifque impinguntur.
2 AI. |
T e Hefatts gibba in-
fidsaata, ante dta- retica le-
- ninda al UMS. In be 11:$
HZ fla ?2 2 311076 4 yebellentt
Dus, itüprilcifi0 niteda . Hepnte tn
femato, aciü f !?i da fic fd
7 d 4 la 9
Quz in gibbà hepatis parte fit inflam-
matio, et quz ad eam partem affluxa eft mate- ria, licet per lotium commodiüs
expurgari,com muniomnium doctorum
fententià poffe confti- tutum fit, antequàm
tamen diuretica hec in. ufüm ducamus,
optimum cenfemtus, leniente» aliquo
medicamento, aut etiam abftergente»,
materias in primis vHs contentas evacuare, ne» ufi ducentium per urinam, quz in primà
illà corporis regione continentur,ad
penitiora de- ducta, inflammationem
adaugeant. 42. Licet autem in principio
inflammatio- pum aliarum partium
fimplicia repellentia in ufum venire
debeant, in hujus tamen vifceris
phlegemonealiqua etiam attenuantia calidaad- miíceri poffunt, et debent, non eam folüm
ob 220 7» caufam, quód frigida, et adíftringentia
ad penitlOres partes facilis devehant;fed etiam;quód, cüm vifcus illud undequaque angufti iffimis
ve- nis fit refertum, et illius
fübftantia ex iilis: fere folis fit
comp ffitasut proinde parenchyma optimé dicatur, fi frigida fola, et adftringentia
aut exhiberentur, autapplicarentur,
facillime ad- ftrictis venulis, et craffatà
materià; fcirrhus in, parte concitaretur
; aut fane tumor per fe incu- rabilis
fieret. 43. Vt proinde etiam hzc eadem
hepati non valde frigida actu applicari
debeant, ob eafdem caufas; tum eti:
ime ne naturalis facultas noxam aliquam
contrahat ; nativo calore quafi
exítincto. 44. 9i j|
I: aon: 44. Si tamen nulla adhuc affluxerit mate-
zropatein Iia, fed affluxus certó
impendceat ; ut in cafü » fz mdi I étu,
aut externa aliqu: à Causa, pura repell entia, f1se ate etiam cum aliquà adfirictione,concedi po
terüt. riasvepellé 4 $- Quinimo, i in
ervfipelate vero eadem pu- !/2/ela c9
ilta conceci poffunt ; cüm :& materia fit renuifhi- (€ 15 efipe
aMnpa, calidiffima, ut periculum
non fit ; ne ni- eri 1 epa amis craflefcat, &-obftruat venulas .
tis, vegellé » Vnde etiam frieida actu repellenua
C3.» v fola ci Aapplicari regioni
hepatis poterunt j CUm cns eoninnt.
Irenfiffima fit ibi caliditas ; qua ctiam medica- /5 er yfipe- Amenti mntenfionem refringere facilé
poterit. In. /a:e zepa- IQuo edam cafu
pau» dllum aceti indendum crit, ris, frigi-
Jr frigidiffimi medicamenti penetratioadjuvas 44 2s Ar? px flit. abplican- 47. Et quemadmodum ratione partis ab jni- B | bebati
|, Ho dictum eft;non puis repel Hane. ieudu B. t "T" PA E: infamma (Ie, fed attenuantia aliqua effeadmifcenda ;
1ta | à [102€ 5 17 lin declinauone non pu risrefolv im us utédv
I sch æcoiimatio docuit Galenus 15.4e:5. fed nonaihil adftrin-
ne puris re Ipentium admifcendumeerit ;
ne laxatà nimiümo | (juez j. parte,
tonus illius deftruatur. bus non utedum
. De Hyárope. 149. Varmwis illud et veriffimumfit;&
Gaost bydro- leni auctoritate
confirmatum, /:7b. " ferofr H0 $5
TUR que tao pur. CAYC oportet ic- Mast
lrofos humoresab1 initio p! Iro ari pc offe, quód. nul 44 ize ; illain eis exfpectari debeat coctio, quód
nullam purgarz cionem admittant ;
cavendum tamen erit ; 5o, validis fed à levie
ribus tn- ehogdum. Poft bydra
g^:^ vale 1:a ventri ciilus vobo
YADUÁLS . 1n Iydre- picis «tte-
nudis tenda s nt butic-
yes p wies mua du- "T poffint . In bydvopt
DEG m ear1té xWAII2HÍ dia no 1i-
ff LCLPDP Iní y iret ín düweti
cis nà diu 57 fallenLVDb.
SEPT.ALII MEDIOF. cOgIS ftatim ab
initiojfed ]evao 222 validis uti hydræ rialiquo med icamento erunt prima excremen-
' ta educenda ; et fic vie
ad-validiores evacuatio- nes
prxparabuntur. 49. In valenticrum
hydragogcrum ufü fem- per maxima
ventriculi: ábenda eft ratio : cm., cnim
majori ex parte tonum illius I5befactent ;
fi frequentiüs, u ità multis foclet;jexhibeantvr;nisíque abillorim
exhibitione ventriculi habea- türratio,
imminvtà aqvá flates cilicrem, fi
Averrci credimus, zerum noftri m»
inducemus. jo. Vt veriffimum
eft, ferofos hos et aqueos humores nvllà
coéticne effe preparandos ; )ta» cüm
pctiffimüm perl-tiumfint evacüandi; via,
per quas permeare debeznt, infar&u funt hbe- randa: in quem ufim et decocta, &fvrupia
atte- nuantes, et abfteroentes, et incidentes
maximé converient,ut cráfficres,&
limcfi humores vias cbfttventes, et effluxumvrinz
ad renes, et ve- ficam impedientes pra
parentur, ac facile educi poffin
at, $r. Nectamenin horum ufu diutiüs
infiften dum eft, ne dum 1d tentamus,
morbificam cau- famadauecamus. $2. Hocautem maximé in vfu vrinam proe
[Hi mmcventium eft animadvertendvm, et
cavendü: vidimus enim quàm plurimos, dvm
obftinaté nimis per lotium humores hos
fercft s deducere: 1! ec obfervarent,an
co-- 1t potionibus 11$ tentatent; pia
augebitur, et in^ deteric
remfpeciem hydrcgi is, et curatu ciffi- la urinz augeretur, mortem a grc tis
fuis acce- Ica petu [entà il!à materi
in corpore reten- IEà, et in morbificam
caufam mutatà. $3. Praftat igitur per
tres, quatuorve dies, lipericulum facere, et potionibus rem hanc tam- iquam aptioribus aggredi : quód fi pro voto
hzc inon füccedant, aridis res erit
tranfigenda, fuccis Iconcreus,
pulvifculis louum premoventibus ; Itrochifcis, et fimilibus. $4. Rhabarbarum, quod in hydrope labo- Prantibus 2 à mune. commendari video ; ut
for- . [té aliis pro roborando hepate
acmixtum ccnce- lili poteft; ita fi
frequentiusin ufum ducatur,aut
licommanfum, aut in pulveris formam
affü m- | ptum, ad evacuandum
numquam probarià me pee quód talia a
aprum non fit evacuare, qua- lia opus
effet,quoc ique docuerit Gal.Zb.de purg.
I ozcd. f acul.eap. 2. quz flavam, vel nigram bilem purgant, Amportuna efTe, et inutilia
hydropicis. $5. NNon omittenda eft
Galeni animadverfio lex Afclepiade, 9.
de compo[. sed. Jeeundum loc. et ; M à
Tralliano repetita ; cavendum effe à frequen-
f uoribus, et iteratis vacu: auonibus;qu iod hydra- j.o02a hac per fenoceanrz he pati corpi
üfque uni- ver(um reddant debilius, et plus
phan quam. profint: itaque faris eft;
ceftante A lex./ib.9.cap. l| 2.
paulatim, et tutó vacuare, quam fe finando,
perturbandoque,unà cum morbo agrum de»
medio tollere : praftabit gitur, ev acuatà parte materie per feceffum, hepar per aliquot dies
ro- borare, moxque yacuationcem
repetere. 16. QuamM aum, £5
quando. Potulenta i» bydrope
Ex ep? fafüecin. Rbabarba
ri Lbydro- picis inuts TH
Hydropi- cis rebett- ta fapiss
bydrago-- gAnexia« vefeckHa ^ $6. Quamvis duos hydtope laborantes fana- pydlropicis à viderim ; quom in cruribus
perfe excitatis, eribus et difrupus;&
multà aquà ons eam partem eva-
ephlicat^," caatà, exhibitis pofteà multis hepar roboranti- pericula-. us; nullos tamen umquam fpacio h
oc quadra-- e cinta annorum,quo in magnà
hac urbe medici- ' 'nam facio ; curatos
vidi, quibusà Medico vefi- cantia
cruribus admota fuéte, fed fere femper
cangtznz fubfecutz funt cura itu impoffibiles; ;ut paümée etiam doctiffimus Maffaria longà
expe- rientlà obfervavit. ' 55.4
- e De Lenis obftruélione s C
darstie. $7.3 N
fplenisobftru&tione non ftatim refol-
Veleibis s,quin ne quidemattenuanabus
'alidis medicamentis cftasen dum :cüm enim anenuan Vicus hoc femper fesculenus, et craffis
fuccis sibusagé- refertum fit, gi ulum
impendet; ne fubtilio- dum . ribus,&
liquidioribus parabus abífumptis,craf-
fiores, quz remanent, per ea quafi lapidefcant; et verumfcirrhum inducant. Splene ob- (8. Prineipio tetar emollientia
adhibenda» Jffructo c (ui t; et fluxilem
materiam reddentia ; poft au- duroymil-
tem difcutientia tuto adhibere poterimus.
dendi Uu.
$9. Sed cautione hicopus eft, nó effe utrum-
220, post . vefolven- gum,
Splene ob- Firuclo,no validis
:ue hocofficium femel tantüm prxftandum;tedij repetitis vicibus;,punc emolliendum;nunc
quod emolliítum eft et fufim aifcuti
tiendum ; itertimi-J que quod jam
emollito fübeft;iteruin emolhen-4.
dum; mox ;élbtvendii S digas tota molers$ ditfipetur . 6o. Nec z5j
6o. Nec placet, quod plerifque ufiratum fci- 17 l'en nus, m initio emollientibus attenuantia admi-
ticis 9 l| fcere, ut illa incommoda
evitemus : cüm eim lentius. eodem
tempore ducrum illorum operationes ^" "5^7 | perfici nequeant, fed attenuantium,&
difcu üen | rium ;ob caloris efficaciam,
actio multó citiüs ll abfolvatur
zinillud femper incommodum inci- | demus,
quód difcuflis fubtilioribus part ibus,
| qua fuperfunt ficciores evadent;ac difficilius fu- perari poterunt. 6&1. Nullo modo Hier. Mercurialis
fententia 5?/enicis in obftructionis
lienis curatione ; /b. 3. de cogn. '^Xàtións
| C c ramdigibuma n corporis aff eciibus, cap. 21. re- aliqua ad | E: ienda eft, càm in lienis affectibus
curandis, ^44 imu am neceffarium effe
cenfuit, ut medica- "^*^:
I"menus laxantibus commifceantur adítringen- | tia, ob eam rationem, quód, cüm viícus
illud admodum fit 12no bile ;fuà naturà
debet effe la- xum, et latum, ut facile
recipere pr fiit humo- I res
melancholicos ; cüm fententia hzcé directo
| repugnet 13. Z44eth. cap. 17. fed maximé 2. ad E ec. cap. $.& ratio id docet :cüm enim
vifcus | fit non parvi momenti,multum
refert,nimiüm- ne fit laxatum; fic enim
illius tono perfracto,fa- cultatibüfque-
naturalibus i edditis 1mbecilli- bus,
minüs recte fanguinem defecare po terit,&
| hiepa r, corpüfque univer(um expuroare: minus | tam en, quàm in hepate curando hac in re
eri- ] mus folliciti, et in minori copià
emollientibus ] Bicuingenna
admifcebimus. 62.
Fruftraobíftructum,;aut duritie tentatum Lies vix p lienem
tuno O56 feenda « fe lot:
poet PÜeyieióin € fr
ncifio TU gon Put- yofos Las 6 J
quB s et 4 ob J 11] g'4paran- 20 di r
orediuntur ; cium enim mdflns ab hoc vifcere adl vias urina fit tranfitus, Galeno etiam
tefte, 15.. Meth. 17.1d fruftra tentare cenfendum cft, in. quo Medicum fruftran fine contingit:per
fecef-. fumieitur ea materia ducenda
etu Quód fi quan: do aliqui per lotium
copiofum curati vifi funt, ut de Bicne
fcriptum eft j 2. Sec? 2. Epid. id vell; et per vias occultas factum]; recenfet Hippocrates ;velf ane aliis
adhibitis re--|, tamquam rarum; mediis emollie ntibüs X diffipantibus, et per
alvum fübducentibus,cüm multa
feeculenta. per venas pbi. materia, qua
foveri;ant re- novari tumor ille poterat
; per urinas ei fubdu- ét, pra quod imitari Medicus poterit ; ubi
nigras craffas, foeculentáíve urinas
adetfe COgnOverit : P Jienem curare
conantur ii ; qui. diureticisidag-.
expurcay i in? rfervatio potius, quàm curatio facta
eft::| autt]. diureticis enim tutó tuncuti poterit,
adantece-.| &4cntem materiam per eam
partem vacuandam..] De lero. Icet Galenus nofter, Jib. OQ; 40$, C2
quando ; purgare eportet, doc uerit ;
lenues, et feo j* initio efle
évact icteritia biliofi fucci funt
ftatim evacuandi ; neiw que enim f:
mper ten ucs funt «neque ferofi dicii]
poffunt: preparandi igitur ante evacuationem jl et,fi putrefacti, omnino concoquendi ; vel
exd K
"I d. s ^ d -
! fh fent Ruffi fen -- Ww
"2 wi 6 A. Á t :s humores,nullà exfpectatà ccctione,
abii 'andos,non proptercà tamen nah "
| Med imperfecto, un lequaque
bile difpet: ieve- inert. &4. At veró cüm bilis quàm minima copi:
à» e. ida A clerici vA int nalliad inteftina crahifmifs ; ex
obítructio- ;, d n F II. 2257
1 [2 "P2: * S x Leltis ned
ntiori- Ine veficz fellee;torpida
remaneat expultrix fa-. ;, 4j. cultas int eftinort um, va
le ntioribus femper mnc- Cc£ADRERTS
ldicamentis erit utendum . ond.
6*. Cavenda tamen. valentrora hec medica- C) a5 dà limenta erunt, fi aut ex hepatis
inflammatione» wvalentiec1 Íymptorma
hoc fuperven« rit, aut motu c ririco, fa furgan De Colicis doloribus . ^ i :, 3
1 anodvnorum in hoc morbo: lud 1s ecolieis P 66 W ha
i primóanimadvc denied Bi iritio, fl dulorzbug in ufüm ducantur,antequam evacuata lit mæ-
initio teria, non effeadimifcenda
valentet difcutientia valere? flatus; ut
rutaceum oleurb, autolea quibus ru- [citieita »
ta, baccz lauri, et fimilia incoctafint,etiamex ^^: Galeni oracepto 12. 74M erb.8:cüm enim ob
co- plam mate riz affidué flatus
eenerentur;non va- lentia illos
difcutere, fap édok res augent, G7.
Erranzimultó magis ; qui 1180 leis vinum
E aut fapam (tatim ab REPRE dmifcent;
vfteribus infvpdunt: cruciatus ab n fiepe aup» colicis clyfteves
ab initio cum vinos eentur, excalefactis, attenuatis nimiüm rai
3 fabA3 T Ó ot. ZEE . á vUeyí
j"pyp" fis et frieidis
humoribus ; et in halitus ele- 55i.
vatis. d. I" ^^?" 1
diss A143 529 )' 6o. t quemaa modum
catlidaiozà hact oten- colicis €8
tia,frive itf 351 five extra,!n prit pi lo non la uda- /ida va4l- mus ;itaáctu etiam nimis calida concedendas
4» 44^ s cí C eocamiFt ; tpalá » Pa 69. Anime Chfte 69. Ánimadvertendum euam
; ne clyfteres colicis ge 4ndantur,
repleto adhuc yentriculo: fic enim ci-
indantay, Dus attraheretur apte ten pus,magi(que impin- repleto ve gerentur crudi humores in
intefünis, augeren- triculo. tur
dolores, et cvratio redderetvr difficilior .
Stubéía- 70. Stu pefacientia quamvis in omni dolore ttezt/27? colico convenire poffint ;
frequentiüs tamen in col'icis 9- nm duci
poffunt,ubi materia morbum faciens
Prom^.po- c lidior fit,& acris : non folüm enim fic fenfim pol O btundim us,fed etiam caufz morbum
facientis ris e,Lj. au onem habemus...
| dis. 71. S1quando tamen iis utendum
eft;eó ufq; Opiata i; ion funt differenda,donec
vires vitales jam col- eolicis, vi
labafcant ; egérque non longe abfitab interitu : rió4s va- folet enim fzeepenumeró fine dolore
dormiendo denriéus . yita terminari
. Colicis ip | 72. Incolico dolore ex
pituità, fi quis recen- dolor;5j; tàorum
dogmata fecutus lenientibus folis;aut ad
furgani- fummum ftercorariis admixtis aloe, aut. Hierá éus in ini Galeni ccntentus, à purcantibos
veris abftinuc- fio utez- rit tandem
honoris jacturà factà;aut eeros mo- dum.
ricum maximis cruciatibus finet,aut alterius
Medici acceffione, qui cum Grecis omnibus, et Mauritanis, validiori medicamento pureante, et abftergente propinato,materiam ab
inteftinis deturbabit, ac eà ratione
dolores aut imminuet, aut tollet,
exiftimationis non parvam jacturam
faciet: non valente enim leniente medicamento vifcidam, et craffam pituitam deturbare, et Hieràob tarditatem actionis diutiüs in
intefti- inis commorante, et fepiffimé
non valente per- cranZ ^ ^ * ES wg.
JERDL Q4 T: 2e C RE--- 0 0 M
ANIM-ADVERS. LIB. FII. 229
canfire, fed materiz illi craffe adharente, ele7 vatis flatibus, validiffimi dolores
excitantur ; et augentur. Qr'are
preftaret u rgenti dolori quam- primum r
eductà materià fuüccurrere ; et 118 uti;
qua cum attenuantibus mixta citó materiam» fubducere pcffent. Neg; impedit, utad
locum aftc 'ctum materiam deducanius:
nam neque ve- 1e locus affectus ita
lafos eft ; ut hunc Serien non
adizittat, cnód ad hoc à naturá fint inftitu-
ta inteítina ; et (i qua materia ad eas partes du- citur, fimi le tiam cum præxiftente
evacuaturj fi affecta cflet pars, fi
inf! ammatlorne ten Haste] tinc maximé
peecaremus, fi talem 1n eo caíu
evacuaticnem procuraremus. Neque cruda»
hac materia dicenda eft cà cruditate;que ab 1n1- tio, pracepto Hippocratis; evacuari non
debet; de cà enim ca fententia
intellieenda eft ; qua ex pt tredine
fadià, Coéctlo nem requirit; qua putri-
dis debetur hi moribus, quales fu nt humocresin febribus putrefcentes.. Hxc extra venas eft;
1n locisad evæuationcm inftitutis fine
eenereillo putiredinis, ita ut folis
attenuantibus aliquibus ; et abftergenübus, tam peros fumptis,quam
1n fufis, preparariad evacuationem
pofhit ; quin- imo infu fis per
clvífmata Pa U. atà vià,& attenuan
übus mediocribus difpofità materiá, fi ctia pureantibusattenuantia admifcuerimus,;
X eft Hiera, intceré omnibus
fatisfacere. poteri- mus ; fic enim
fvbdv cà materià, et diícuffis, quin et expulfis
flatibus; aut dolores folventur ;
4 alt certe maitiores
fient, Dp j 71, Olei i;0 V/ussli,- 73. Olei velexamyedalis,
velex femine lini ij: in colicis wis,
ubi multaadfuerit materia craffa ;inuulis;] i
205 €v4- C^penumceró effe folet,reünetur enimaliquan- | í Bus ss do; et vifcidiorem materia reddit : et
licet tam--| teria, i,, quàm anodynum
quandoque mitiores reddat] i: il.
olores, quoniam tamen materiam peccantem /] ii
fubducere non valet ; folent non curari dolores ; |ui Íed fepe denu ó infurgere. Oleum in. 74. Apertàig itur vià, et fübductà
parte mæ] ui cici; lerie,autenematibus ; aut medicamentis pure
«du ou^»do gantibus, fradhuc urgeant dolores ;
preftandf--[n optimum fimum effe folet
prafidium. préftdib. ^5. Sedíi vereamursautob craffitiem
mate-.| rdg riz; aut ob ejufdem
quantitatem, ne poffit prz- ddodacs
terfluere, admifieadunilli etit nonnihilabíter-
abfise, 8 gentium,ut meliis rofati folutivi;aut etiam pur- | tibus, ay; gatum, ut diaphenici l;ve cl
electuarit Elefcoph,,| purganti-
diffolutoru mcum aqua aut glandium Perfico- | y; éus . rum;autaniforum; aut fimilium . Ín colis |. 76. Quod fia à flatibus.dolores
provenerint, à flatuyo- fine mulià copià
materiz, nihil eft quod magis ha data
exufit effe foleat eodem oleo;etiam ab ii nitioauc | etiam. ab per fe fumpto aut ; quod: melius
cííe facpius ex- Jue sr ^- pertus fum,
cum pradicus. | EI Seem 77. In ufu
vomitoriorum cauti fint maxime: [i A a
fi enim ventticulus, et fuperna parces inteftünoe | £olica. s. Tum replete nimium fuerint, ex ufü
maxime li fvs, c» 4. €rünt, ut
medicamentis ad dejiciendum ingefts: [i
éufus... locus detur pertranfeundi: quód fi totus dolor; eiüfquecaufa infernas partes obfideat, non
fo- lum fruftra tentatur vomitus, fed
aliquando fit. | cum ANILMADVERS. LIB. cum zerotantium certà pernicie;vo Ivulofi
enim fipe fiunt; ac cum certo mortis
periculo, etiam ftercora per eam partem
evomunt . 78. In cucurbitule magne
appofitione regio- ni umbilici ea
adhibenda cft cautio, ut ea ex illis
fit; quz funt in medio perforate: fit enim fzepe- numeró, ut cüm pars fub]ecta mollis fit ac
pan- eguis,multa illius rcoles inuró
trahatur, qna fub-
tractionem-cucurbitulz impedire folet : unde» vel diutiüs retenta 1n fp! acclum fübjectam
par- tem deducit, aut fi frangatur, ut
hocincommo- dum eviremus, aliquando ex
vitrorum fra- ementis cutis
vulneratur. 79. Cüm pluribus,
potiffimum mollibus, et perpinguibus,
hx: antes fere fintumbilici, et ex vi
füperpofitz cum igne cucurbitule pinguedi-
dosis a portio aliquando trahatur per eati partem, confalo;crifici o1lliut prius fü perponàt parvüm ceratum, puta,ex cerufsà coctà ut
tale incommodum evitent - 8o. Vrincolicis doloribus ex flatu
anodyna ftatim et interna, et externa
concedenda funt; ut cruciatus illi
mitieentur ; matcria; unde elevantur,
fitevacuata; ita ea fu- gienda effe
cenfeo cum Gal. 12.7 eth. qua infi-
gniter calefaciendo difcut ere quàm maxime va- lent: attenuata enim fnateria. majorem
Jocum. occupans inteftina magis diftendit,
ac flaubus 1dauctis dolores auget. 81. Cucurbitula etiam in iis dolor'bus ex
flaVII 3t eadamfi nondutn : Cucurbi-
tale ma- £v4 inco lzcis appls
cand& cati £10 e V mlilic?
mnunter- dus in ap- plicatione
cucurbi(Ux 4. Colicis ex f'atu Ta-
lenter di- fcutienits An6XlA «
Celieis ex tibus, ubi urgeat
fyroptoma, uti poffumus ; fed. f/4tu /a£o
FP cctTante vàtes 441 Ce(lante dolore, vel mitiore reddito ;
materias; eucirbituunde elevantur,
fübducenda eft;alioqui redeüt, le ufam
ut optimé docuit Gal. 12. Adethb. cap.8.Si tamen P^44:- non adcó urgeat dolor, utomnem ad. fe
trahat indicationem curativam,
preíftabit evacuatio- nem
pramittere,prafertim fi multa fübíit mate-
ria; aut adhuc novaaffluat, ex 13. Z4eib. 19. 92. Contingit aliquando, ut colici
dolores adeó vehementes fint, ut omnem
Medicorum 444 qu, Operam eludant, 4C
quocumque auxilio adhi- doque tet bito
potitis augeantur, in quo cafu ad contraria
dum. €tittranfeundum:Cüm enim
colici dolores ma- jori ex parte à
materià frigidà fiant, aut à flati- bus
diftendentibus; fit aliquando, utaut ratione
dolorum, aut vi igiliarum, aut maroris, ob con- tamaciam aut incalefcant nimium inteftina,
ac- cedentibus etiam calidis, et intrà,&
forisappo- fitis remediis aut phlogofi
quadam tententur, autetiam verà
inflammatione incipiant affici, aut
multa præxiftens bilis ibidem transfunda-
tur; unde ad conrraria erit cranfeundum ; et in- figniter refrigerandum. Quod mihi anno
prz- teritoc ont191t, primo in nobili
Hifpano, peci- uum duce egregio ; poft
in N. à fecretis Iluftrif- fimi, et Excellentiffimi
Marchionis Caravagil, qui cüm colicis
doloribus per aliquot d lies fuif- fent
acerrime conflictati, et jamjam mors efset
pre foribus;nulli Jp /^ eget arteriarum pul- fus; fudores adefsent refolutorii, nulla
denique ampliüs fuperefset fpes falutis,
ne quidem apud Medicos cua
prettantiffimos: accerfitus et ego,
cum Golicis im delorióny
frigida a«x - A "use c EET 1. cim fitim inexftinzuibilem,linguz fcabriciem, nierorem, ac.duriciem, pertactis autem
hypo- chondriis, et ventre inferiori,
calorem in parti- bus illis eftuantem
adetl c obfervàffem, Hifpano aquam
multam nive et: um refrigeratam biben-
dàm exhibui, cüm naturà abftemius efset, et multz aqua potator egregius ; in íomnum
pro- lapfus eft, et quatuor horan m
fpatio cüm dor- miviíset, dolore quodam.
inferioris véntris, à primo maximé, ut
ipfe referebat, diverfo exci- tatus à
fomno, miram bilis flav copiam evacua
vit, et à doloribus liber evafit. Vndejcollegi; Me dicos, qui illius curationem f fufce,
"erant $ 1n Causa nx rbi illius
longe deceptos bá e cum. calidis remedus
curationem inftituifsent, à fr1- gidà
materià factum morbum judicantes . Alte-
rumautem, cüm jam agentem animam invenif- fem, non alià ratione ftatim curavi, quàm
lineo i|ds plicis in quadrati formam
com- to, hine immetfío ; ac mirantibus
aftanti- bus quid facerem, ventri
füperpofito.cumque» ut dormiret
injunxifsem, dnt itiüíq; edam fom4
poopp refsus fine motu cum conquacte CICLU, VCrentes affines, et uxor,ne
jam fatis ceffifset,cum experge f ecif:
ent, indign: inuitus s, quód tànto bonoe
eum privà sen t, quafi € lecto exiliit; à do-
Lubin cmnino ibis : 85. Si1ex
Miiaienon inteftüni dolorem. fieri
conueerit, caveat Medicus, ne ullo qvan-
tumvis levi medicam nento fubdi jcente utatur,ne attractisad parteminfiammatam ab illzefis par1 i9
ee si I2 celíci (x inflar
H ?97»at105H£ [^ purgatto
)* yv TEIZETTS tibus; calidis;aut pravis humoribus;aut
inflam-, matio augeatur;aut impedito tranfitu,in volvu- lum de(inat.
Caffia dn | 94. Caflie tamen folius ufum aliquando non eoiicis ex refpuerem in tali cafu;quód miti
illo,blando,& sfiam- humidocalore
lie pé i inflammationem fe det, do-
745"* lorem ]eniat ; et fuppurationem tumoris ad- 1075. juvet ;
Seu d 95$. Quamvis venz
fectioex brachio in coli- Coco 9? 6o
dolore x inflammatione, decreto Gal. 12.
dolore ft- da bina AMetbh. zzed.
commendetur : sf tamen eó ufque » 514],,.
P'orbus pervenerit, ut urinim fü pprimat, fecta liquagdo Vena intalo maxime conferet; aut
poft priorem coofep:, Mlamy,fimultaadfuerit
plenitudo, aut etiam fi talis non
adfuerit, fi ex talo loto fanguis primo
mittatur,non erit preterrationem, d expteri- menta.
De lvi fluere . * [ N alvi
profiuvioillud ma: ximé cavédum, epus
ne,dum virium maxime habere ratio- gui L
nem voluerimus, confi et jurt- bis pinguibus laxitatem ventriculi, et intefti- norum nimiam neenon: ius ; alvique
fluorem jn Iecamus. I» SN 97. Sunt fepenumeró noftrates Medici
in., rf.io frigido potu concedendo
reftricti, ut rralint ^ gidaus cum
manifefto detrimento tepente aqu àfluxü,
potus [epe laxitate introductà, alvi augere, eo confilio, convent. quod frigidum nature inimicum
cenfeát, quàm Juíto jufto teri defiderio
faüsfacere, quod tamen na- tura eti. am
bene operant e fit; ut et adítrictioni
Bt fni dumm (atisfiat. $8. Inflammatione tamen
verá tentatis inte- ftu nis, frigide
potus vitandus eft. 69. C Cavendum in
diartheeà, quod plerifque video
confuetum, ne femp er aut in plerifque»
ftatim abft erforium aliquo d exhibeant; ut mel; aut fyrupum rofatum aut fimplicem, aut
folu- tivum cum fero lactis, aut
mannà;cüm enim ali- quando bene Opcrante
n. atura id. fiat,non erit aut irritanda,
aut promovenda, fed totum ne- 9otium
natutz erit relinquendum: fin veró ma-
là qualitate icritata etiamid natura przftiterit; non etiam erit adjuvanda, ne calcaribus
natuta current addius, pt Izecipites in
mortem agros igamus : 1peCctatores1g1tur
p« nus hu jus tnotüis nature aliquandiu
erimus, et morbi morbifice- quecaufe
potiílimum rationem ha bebimus, Quod fi
naturam hifCere, aut fuccumbete vide-
rimus,neque materiam poffe pfo rauone eva- cuare,irritari tamen pattes; fzprüfque ad
excre- üuoncm fere inaniter provocari ;
tentiginem Hn ano; et inane defiderium
egetendi fubcíle ; tunc manus adjutrices
petita 'ere coni eniet, atque.»
abítereentibus uti ; quin aliquando folventibus blandioribus; ut matind,& (yup o,aut
melle f£o- fato folutivo;ut quod pluribus
egeftionibus cum dolore, et natura
labore evacuati tentatut, bre- viori
t€empore,& mincri moleftià educi poflit .
De Frigida f'gien: dá
.AABngB fla 375 72411058 inteftino-
Yum OQuado ab fe '"geati- bus i diay
vL&a uten dumIz dyfen- geria qua
do purga- dum, c^ a [£4
11020. Jed bono viclu C facili ad alia 236 LVD. SEPT.ALII MEDIOEL. De Dyfenteria. 90. Vmin curandà dyfenteri3 adeó diffidenr tes fint etiam doctiffimorum virorum. fententiz, an reterto corpore pravis, et acribus humoribus, laborante dyfenterià verà,
ulcera- tis, aut abra fis
inteftinis,conveniat medicamen- to
aliquo faltem blando, puta, Rhabarbaro,
myrobalanis ; tamarindis, manna, fyrupo rofa- to folutis vo, et fimilibus, humores evacuare
an potiüs omnino ab iis fit femper
abftinendum,; qt ie in mediciná faciendà
maximi momenti effe conftat. Ego
nonaliam hac in re fententiam in medium
proferre tentavi,quàm eam, quam no- bis
tradidit doctiffimus Vallefius 4. Epid. cap.96.
qui ab utráque fententià extremé diffidens, ali- quando pureandum cenfüit, aliquando
omnino abfüinendum y voluit. Verba eius
fünt : wt zn d'yfentertco ef! cusa
cacochbymiasmæna exulcera- FIO nondum
Wai TAG aut cum exulceratzone magna
cacocbymia EXIGHAS AUT ut raqs exiguas aut utraque magna: $z pyimium, expureari debet: S1
fecundum, miti o fe dad [i dores,ad
urinam ; ant vomitus »o0t "andum, e
infa umaum loce alib Z7A1 777 C i ius 3 cu £X-
tertius pro ulcere curando : Si tertium,ue tunc qu. dena localibus admoduss, "eq; purgatzone
opus eff, f €UdCcHuA 107€ 5 6 €Yi- vatione : Si quartum, "aic abilis eft,
facies aut Hi. bil, aut omia
tentandigvatia, velut 12 ve de[pera- Tales enim etiam cui ationes aliquando
pro- mihi femper difplicet illud Celfi
: ó&pe ] 4A.
C iUcrant; : neqs;i JAXNTIM.ADVERS.. LIB. VII. Sape quos vatiozon juvit, remery i47 dia peyut
à 91. Debet i1giuir quan primum
hujufmodi 7» dyfen- humor pravus ;&
acris evacuari aliquo ex prz- teria, ubs
dictis medi1camentis, fi illius m: enam copiomo PA/*9Z4d, €X CIIS amalrcre, ventris ti his tione, avt
aliis qmm fignis fübeffe ccgnoverimus,
antequàm ex fre- " id qt enti, fed
paucà excreticne ulcera adaugear- Heo e:
[Ur,aut vires de ji ICIantu | 92.
Animadvcrterdvm tamen, fi fübeffe co-
piam arrabilarii humcris cognoverimus;,etiamfi exulcerauc adhuc magna 1n inteftrfüs facta
non fit, non ftatim purgeante medicamento
cffe edu- ; cendam, cancerofa enim u
Icera,& peffima ex- citaret; fe
dattemperar!, ejüfqu e ferocia delini- ;e, bris
r1 prius debet.: quod ubi factum effe cognoveri- feroia il- mus, cmnino evacuari debebit, fed blandiffimo
iss tezzp medicamento ;, deccétione
tamarindorum, vel 72454: jmyrobalarorum,
cum fi rupo; vel melle violato f"'g26z.
folutivo, iifque fimilibus. 3.
Rhabarbarum in dyfenterià ab Hs."qUi nLea
BAS rt: orum dogmata fectantur,qu1que pur- £227» || gandum fepein cà cenfüerunt quamquàm vl-
4yfzate- I deam paffi m ad hunc finem in
ufum duci. potif- ria f/'sfpr- l| fimüm
ubibiliofi,«& acres humores abundave- &- rnt;quod tamen et tpa "Enos partes
habeat, || quod in fübftantià affumptum,
ut in hoc affectu || pleremque fit
tunicis intefünorum, et ulceri- | bus
adharefcens dolc res pariat implacabiles; ut
I fa pius obfervavi, omn ino fuoi ndum cenfeo c; I quamvis fvrupusde cichoreà Gulielml cum eo.
ccu. cà | paratus ad/triélione carere
fatendum ft, cimo Zadar iamcn y
* 57 4») 7 C-0
terta, bue 530Y€ atra y'
bilario e, aAa0€Y 217*toG Gulielmt. 4-4 $2
tact» admit FN TS /2
19: &ji Rbhbaba pe bav 4 1er
refackuim 2n dente eti at ei
£ 164 à am. Df fentert £15 yao 47.
s)0n1f fan gHints ys!jf20; (e €Hvr » ramenà cichoreaceis igne illius
partes reten- 'antur, fi cum decocto
ramarindorum, aut my- robalanorum
concedatur, non ita rejictendum., cenferem.. 94. Sed 1agis etiam recentiores communi erróre decipi iuntur, torrefactum R
habarbarum in dyft enterià vagis,adftricüonem,
et ex- ficcationem augere volentes ; ut
utràque facul- tate, purgatork à. .&
adftrictorià adauctà, melius
intentioni fatisfacere poffint quodi innoc entitis fieri torrendo putant ; cüm experientià
conftet, medioctiter tot xefatutn
vehiementiüs,:à et mi- nori dofi purgare,
quàm integrum ; 1eneas ta- men
partesadhuc magis vigere: et fi majorem.
sd eto adhibuerimus, purgatorià faculta-
te penitüs deftituitur. 95. De
mittendo faneuine per fectani vena, cüm
graviffimorum virorum fententiz é diame-
troomnino inter fe fint contrarizsaliis majori ex parte fanguinem mittentibus, aliis
pumquatn.. Eco hujus fii n fententia, fi
fimpliater dyfente- riam confideremus,
aut ejus caufam, aut multa cx adjunctis,
dolores, febres, 1inflammauones ; omnino
convenire miffionem fanguinis, quà& |^
fluentes hun ores ad partem laborantem poffint retrahii,& plenitudo tolli, et jecur
refrieerari ? fed càüm fopiffimé à
diarrhæà proc ducatur, illiüf- que edam
perpetuo fit focia, in quà,eti iamfi non
fit pro mu ltitudine fufficiens, num quam mitten dum effe fanguinem cenfui i Fil »p.&
Gal.4 de 2 rat. yict, t5 acut. tie. (
I.4d Glauc, CAD. 14- aubdi aut pl
»1( it 11i
"no AGE PCI y dg ima a AND
aut vires vitales fint imbecille reddite, aut pe- riculum 1mmineat, ne profternantur ; ra ró
cen- fendum eft occafionem dari
fanguinis mittendi ; potiflimum cüm
majori ex parte in hujufinodi Caíu
íciamus peccare humores à fanguine diftin-
ctos, et tales gros cacochymiá laborare, facil- liméque tum o b evacuationem, tum ob
vehe- men tiffimos dolores, vieiliáfque
qu: afi perpe- tuas,in fummam vitalium
virium debilitatem bicidenc.. 96. Sitamen aliquando mittendus erit.fían-
Dyferre: euis,alvifluore non magno
przefente »1r inflam- cis quan- matà
parte, urgentibus doloribus, hepate, 4»,c quo
toto iua e b febremzftuante ; aut o D Ca- fmodo[an Icfactos 1 humores in venis, viribus
prefentübus, fr confentrientibus,
imminentis virium colla » is dicioni:
penculi habitat atione; r ec multu m,neque c fertim, et femel, fed parium per intérva
illa.& fx pius ev: 1CU: sÉ) ius,
Aéti,& Alexandr etiam fententià:
Ídque non cà folàm rauicne, quód vi- res
non 1ta dif : an ntur,, fed etiam quód iteratà
evacuatonce fangu inis meliüs revulfio perficia- tur,qua maxi re in hoc atfectu expetitur,ut
Ga- |! lenus auctor eft lib. de eur.
vat.per [eciam venam, cap. 12.fiquidc
" | natura toties irritata majori cü
'J impetu et facil Itate: affuefcit materiam, ad affc- 'J «tas partes confluentem .1n « ntrarios
locos de- pellere, et quafi per alios
rivos transferre . 2, $45. ARTS TERR
TES Lathis 4 | Delactis ufu in
dyfenterià cüm videam ; | Y p ied : Æ .
oir furin d ddociiffimos aliquos viros
adeo iraffe, ob ^ " L1; 4c Q- mcm pr I " 4 b " j Fev?n | AAÀIPpOCI2US, C izalcni AUCLOILIAUT $ p
70r. X
. et Celfi, Ib. 3.cap.25.ut rariffimé in tali mor- boipfumin ufum ducant, quód dejectiones
fere femp er in cà fint biliofæ,& fc
ebres non leves ma- jori ex parte
conjungantur ; cüm alioqui fciam maxime
laudari à Gal. P de fémapl.smed.facul. c
3«de alim. facul. cap. 1$. ubi non folüm dyfente- re,fed omnium ventris fluxionum acrium
opti- mum dixit effe remedium ; cenferem
nullo mo- do, febre prafente, et acribus
fluentibus humo- fibus; lac convenire
fimplex,& fine; praparatio- nc; at
paratum, ut faciebantantiqui,& ut docet
Alex. Trallianus, lapidibus; ferto, aut chalybe in co exftinctis frequenter ut et ferofa
abíuma- cuf fubftantia, et pinguis,
butyrosáque corriga- turlgneis
abfümpts.certum eft; non nifi maxi- mas
1n boc affectu afferre poffe utilitates ; quód
non accendi, et in bilem verti hoc modo para- tum certó fciamus ;alyum autem fiftere
poffe» certum fit, tum ob cafeofam
máteriam incraí- fantem, et frigidam ;
tum quód ex candentibus lapillis aut
chalybe adftrine entem nanciícatur
facultatem. in dies 98. Cümin
principio difficultatis inteftinc-
zerici; cjy F0 » fepenumeró. mucofitatibus quibufdam fieri al apparentibus, p affim Medici ad, Æ
Eso a fférgentig €nemata deveniant,
neadhzrefcente diutiüis tu- "fas
cugy nis inteftinorum hujufimodi humore falfo, ut €autioge . Ypfi putant, exul Icerentur
inteftina; fa 'penumeró etiam maximo in
errore verfantur : mucofitas enim
hujufmodi non adventitia eft, neque præ
ter naturam, fed naturalis, quz à ipio inse nis indita eft; ut muniantür, ne à bile, qua
cun £icibus in dies evacuatur ; interna
inteftinorun pars abradatur ; quz cüm in
diarrhocà ab acri- bus humoribus commota,
et abraía exire inci- piat, fi
clyfimatibus magis abftergatur, denuda-
tà tunica eo, quo munitur; faciliüs exulcerari poterit : diligens igitur cura adhibenda eft
ut mucofi, et vitiofi humores ; aut à
capite, aut à ventriculo defluxi ad
inteftina; à naturali muco- fitate
inteftinorum difcernantur ; quod licet dif-
fcile fit ; hzc tamen frequentius cum pinguedi- ne junéta effe folet, et cem aliqvà rafürà
internæ tünicr, et tunc non folüm non
eft abítergenda, fcd potiüs incraffanda;
pingeicribus,& vifcidio-
ribrisinjectis tentanduim erit munire Ioca illa, et acrimoniam fluentium hemorum
reprimere, quod oleo rofato omphacino,
aut unguento ro- fato commodé praftari
poterit. 99. Atin eodem errore
verfanturii, qui fluo-. C/yeriz re
materiernm ceffante, dvfenterià tamen perfc- abifergem verante, et ulcere in
inteftinis,iifdemabftergen- */4 i2 fiæ
tibus clvfteriis utuntur, ex aqua hordei, vitellis dyséterie ovorum,& faccharo,impedicntes hoc modo
ag- an [Hs o eIntinationem, quód fic
penumeró natura vifci- damin fine materiam,
nutrireaptam, ut repo- natur, quz
naturalis erat jam abrafa, eomittat.,, |.
. e 1 et1a72D rco. Tanta eft
doloris 1n hoc morbo vehe- in riti
mentia, ut nullo tentato alio remedio narcoticis 5j, "ni fit f'atim utendum, non folüm per os affumpts
5 4, cozve- fed etiam per inferna
injectis. | i01, Iniüstamen diutiüs non
eft perfeverane Nareoté Q, gum, Narcott
pies 9 dum, quoniam fiepé imponunt : cm enim fo- enterta
Pon mnü conciliàrint, proinde fluxiones futerint, et zendap, icfrigerando, et incraffando.
humorum et acri- moniam,« tluxilitatem
imminuerint ;olore ) imminuto morbus
curatus videbitur, nifi tamen v
lutinantibus, et ficcantibus uicus fanemus, re-
crudefcet morbus, et novo dolore fupervenien- te; nova fluxio excitabitur, et ulcere non
curato difficultas inteftinorum denuó
fiet . Dyetei | 102. Pinguia cuam illa ;
et viícidà fübftanria eis pin- prædita ;
ut in acerrimi humoris fluxione necef-
guia im- farla funt, ad Internam inteftinorum tunicam ssittere | vefüiendam,ne magis abradatur, et ad
munien- q4and» das udceratas partes, ne
morbus augeatur, et stile, et dcloresexacerbentur
; ;itainilsnon multüm cft 277^ infiftendum, quód fordidum ulcus efficiant,
et itiniiss: progreffu temporis.curatu
difficilius;abfteræn- tia igitur funt
1nterferenda . | 103. Queadeo
exficcantia funt,ut arfenicum nimi; *X
(t ochifcos recipiant corrodentes, et carnem,
fceántes in ulceribus fübcrefcentem altmem poffint, ut in dyfia- paffim à Rhafe et .Mauritanis
propcnuntur, teria om- numquam in ufum
duci debere confülo ; tum. zino reij-
quodadeo quandoque valenter carnem nein
cemdi, mant,utreliquamanteftint füubftantiam confü- mentes perforare foleant; ;quamwvisenim
paftilli Pafionis, Andronis, ex minio,
et quz ex arfeni- Co etiam fepiüs loto
parantur, externis ulceri- bus; vrina et
callofis applicentuz; fi tamen fen-
tienti mul tüm particule, aut nudz,:& non for- dida, nonve callofe ; aut fane applicenrur,
no- Xas Clyfferes
* » dis b.
am. vt. IDdpe pm o | xas afferunt inemendabiles . Et erit; qui
1n abra- ! fis, cruentis, nudis
inteftinis, etiam fi ulcere la- ! borent
fordido, audeat clvfmare infundere» |
acria hujufimodi, et corrodentia medicamenta ;
| quibus et acerrimi dolores excirantvr,& intéfü- ! na dilacerantur, et fepe perforaptur ? 104. Siqua tamen acria,& valentet
fccantia. Arrius infundenda font, ut
mvria olivarum ; aqua na- efus in
:urales Salmacidz, lixivium cum fapone, et fi- 4y/euteria | milia, ftatim fuperindendus erit alius clyfter
ex quid ffa- | oleo rofato aut
ptiffanà,aut decocto furfuris ^7 facié-
| cum fyrupo de portulacà et ovis; ut et dolor le- MT | niatur, et tunica veftiatur . 10$. Quoniamautem evenit, ut injectus cly-
Chyfer sut | fter ftatimaur exeat,aut
propellatur, ftatim at- retzzee- |
queinjectus eft, fovendus erit anuslineo panno /^" quid ! intin&o in decocto rerum adftringentium,
atq; 74/444 : etiam aliquo conatu manu
pars erit compri- menda. 106. Quamvis hepatitis fub morbis hepatis
ratis ! collocari deberet,qvia tamen à
Practicis fib dy- /imulare | fenterià
curatur, volui pra ftantiffimum reme- remediz »
' dium hoc loco docere, quo, fi alio uMo, hepati- ! cos curari poffe experientià multiplici
cognovi; ! coque libétiüs,quód ev
porifton eft medicamen- tum, et rationi
conveniens: Sumitur uva rubra, | quam
Pignolam noftri dicunt ; acinis eft ncn.
magnis, racemis adftriciis ; ut tardiàs mature- | fcat, et vinum nobile, rvbellum, et quod
P;caz- ! te vocant, facit ; colligi
debet dum media eft in- ter acerbitatem,
et maturitatem, quod folet Q 2
apud inermes e»ecAnti-
Pss exhi- bendis quid pr«-
Jlandurm. apud nos effevetfus dieim feftum Nativitatis S. Virginis Marie;menfe Septembri; Soli
perqua- tuor dies primó exponitur, mox
ia fvrno femi- calefacto exficcatur, et fervatur
ad ufüm: et ve- niente occafiope,
quoniam emollefcit, in vafe.» vitreato,
aütad ienem, avtin furno iterrm ex-:
ficcatur, adeó ut n pulverem reduci poffit. Hu- jus drach. 1j. per duodecim,aut quindecim
dies, ex vini rübri potentis unc. iiij.
fineulo die ; per quatuor horas ante
prandium exhibeo, et cum. hoc folo pra'fidio non paucos ad ptiftinam
fani- tatem deduxi . Nec mirum.fi
femper non fiicce- dat, cüm;ubi radices
eeerit,difficillimé curetur. Ex vino
autem concedemus, fi zeri careant fe-.
bre ; qua fi conjuncta fit, locovini fnmet deco- C donem rad. cichorii craffarmm, lone
ebrlli- tione cum expreffione, in quà
fi chalybs ignitus fzpiüs exftingudtur,
meliorem effectum pro- ducet. De Vermibus. 107. Y N medicinis et per osaffumendis,&
per inferna 1nfundendis, fem per hzc
adfit cautio,ut antequàm ea ipn ufiim
ducamus, dulcia aliqua, aut pinguia
concedamus, ut iis allecti vermes
faciliüs ea comederc tentent, qui pro-
pric; et veré et necare, et expellere € COrpore eos poffunt. Melleieitur, faccharo, lacte ; avt
pin- guibus przmiffis, füccedent que
enecandi vera mes facultatem habent.
em | ! 168. Quin . -sa4g
108. Quin ne hzc fola tunc danda erunt; ne à dulcibus ad amara, aut acria accedentes,
factà tatione in contraria, potiffimüm à
gratis ad ingrata ; ab eis abfítineant ;
cum dulcibus joitur admifícenda funt,
aut pinguibus, utaliquá fimi- litudine
ducti, ac 2rato (pore allecti, iis etiam
nutriartur, quz occidere eos folent.
rc9. Ob hancautem etiam caufam obfervan-
dum erit, ut cüm unguentis, aut emplaftris ad cos occidendos utendum erit, pxiüs
Indansur clvfteres ex dulcibus, aut
pinguibus, ut iis alle- ét ad inteftina
inferiora alliciantur, ut. ventri
inferiori illis applicitis, et enecari, et expelli faciliàs poffint. 110. In iis autem externis applicandis,ut
quz ex farinà lupinorum,aloc, myrrhá, ex
fücco ru- tz,aurrutz caprariz five
galege, vel aceto pa- rantur, cavendum,
ne rcgioni ventriculi appli- centur, fed
circa regionem umbilici, et ventris
infcrioris:i!Ia enim fepe ventriculo infefta funt; et cavendum etiam, ne;fi ad ventriculum
afcen- diffent, in eo loco enecenturz, folent
enim ex tali occaficne qvàm plurima, et graviffima
lympto- mata prodncl: przftabit 1gitur
ventriculum. fovereadfirinsentibus, et acidis,
ut roborata parre, deorfum pulfis
vermibus ;applicaus ven- tri inferiori
remediis, illos cvincere ; et enecare
poffimus . 111. Iniis,qve per
osaffumütur, illud omni- no obfervadum
eft;ut fi ex iis fuerint; que et ene-
Care, et € corpore propellere poflunt, ut eftaloe,; Uu coloVerimes enecanti-
bus. dul- Cia, vel pinguia
admtifcen dà . Ante en blafira
e- necantta, VEFIACS,
ciyfd eres dulces ip dendi.
In vermi- bus enece dis emplea
flra nbt applicanda. Vete
e»tcanit^ óns ger 9 fumptis,
qutd fa- ^ eendum. Hamor-
tboidibus feperf'a? evactany-
HPHT, n oàs occlti- denda,a?
tna reli 'qu*nda, fententia
A3sGoris. colocynthis,& fimilia,ea fatis effe;fo]hüm q'ein- digere aut re aliquiabftergente;áut etiam
refri- ectante ebibità: at fi ex iis
fuerint; qus eriécan- te facultate f5là
przdita funt, aliqua poft fiper- bibenda
funt; qu: abftersendo eos jam enecatos
expellere poffünt . De FHæsorrboidibu:
. r12.] N hemorrhoidum curatione, quia
ubi fuperflæ fanguinem emiferint,
Medi- Cos iri contrarias fententias
abire, cum maxima. eétotantium
calamitate, quotidie obfervamus;
aflerenübus plerifque cum Hipp. 6. "Apbor. 12. non omnes occludendas effe, fed unam
faltem, effe apertam relinquendam ; fic
enim et immo- deráti fluxüs fanguinis
rationem habebimus;ca- fum virtiitis
vitalis impediemus, et morbis ex
immodicà hzmorthagià imminentibus contri
ibimus ; neque camen morbis illis occafionem. dabimis, qui ex foeculento, et atro
humore.» oriuntur, qui per illas partes
evacuari folet : Aliis é contrà cuni
Actio defendentibus, ubi fi- perfluus
fit fanguinis fluxus, omnes omninooc-
cIudendas effe; et rectà victüs ratione inftitutà, ftatífque temporibus et ex purgandum effe
cor- pus, et fánguinem per fe&tam
venam evacuanJ/ ^ étnh dum . [E20 veró
hujus fim fententiz,obi fanJuly... guis per easvenasimmodicé effluat,ita ut et vi- : res vitales dejiciantur ; pallor feqvatur
magnus, fubtumida confpiciatur facies,
ad malum habitum tendat corpus, omnes omnino effe, fi fieri | poffit; occludendas ; quia virtutis füpra
omnia.» habenda eftratio, nequeullam
apertam relin- quendam ullo modo efie,
cium 1n ct rativis indi- cationibus ab
ec, quod magis urget, femper fi fit
inchoándum. Ne veró res hzc Hippocrati
adveríari, et communi feré omnium lv. edicorü fententia videatur, cbfervandum eft ;
fanguinis per has venas effuficnem
aliquando etle« onfue- tam;ut ftatis
quibufdam temporibus, puta; fin- | gulo
menfe, aut ctiam frequentiüs, vcl bis, vel
ter 1n anno, feri confüeverit; aut c crte vimorbi; p^ 3, In magna febre, cum fura; à
plenitudine femel, aut iterum acciderit
; aut denique quód cum ftatis temporibus
moderate effunderetur fanguis, v) morbi,
aut ali& occafione fuperfluas tunc
fverit. Secundó obfervandum ett, anti-
quos in immoderata cx veris fedis effuficne.ve- nas ilfasaut [ieaffe, aut fuiffe, aut,
uffiffe, ita ut numquam per ligatam
aflutam aut ufta m ve- I nam ius fanguis evacuari pc ffet, ut apud | Grccos, Arabes, et Latinos ; et antiquos;
et re- centes conftat ; quz tàmen
curandi ratio noftris E temporibus
exclevit, pulvifculis cemplafti- cs, et adftringentibus
contentis ; aut ad fum- Hmumu ftio ne.
His fic ftantibus, fi excetfus is hz-
orrhagiz mfoFitus fit; et vi morbi, et plenitu- |dinis fuperven erit, cenfeo mpino effe
fuppri-, mendum, nullà ap ertà vena
reliétaàme vena fan- guinemevoimente, in
propofita incommoda in- lcidamus. Quod fi ftatis temporibüs,
aut quan Q a ritate ne /
netu 72... "A79 y s feides et m7 (3n€794L
nqlla AAUC 0^ HE Cf A Cn »
n, j «A40 "07 P 4, Yt Tuntn
| bg | titate excedens;aut qualitate infeftans,aut
utrà-]/ » queratione moleftus; à naturà
per eas venas ex| - purgari folitus
aliquando modum excetfetit, uti] et vitales
vires profternantur, et alia incommo- :
daindücantur, aut etiam fipngulisevacuationiss| / ; temporibus, puta; per duos ;aut tresillos
diess| :folitz evacuationis füperfluat,
aut fi frequentiuss| / exiens, quàm
foleret; aut oporteret; illa inducatt|
incommoda, fi, ut illiscbfiftamus, occludere»] venas illas velimus, fi caufticis
medicámentis,,] licaturis;
ab&iffione,ati ferro candenteid prz--j
ftare quis tentaverit ; càm ex 1llà curandi ratio--] nenon folum tranfitus prefenti tempore
fangui-] y ni interclufüus fit, fed
omnis via eriamimped 1a-]i turin
pofterum, per quam tranfire poffit ; ne ini
eaincommoda zeri póft incurrant, de « quibus: itp. G. Epid. et Gal.ibidem. c& 6. Mpbor.
va. c7] 3. 1/ 3.ltb. de Humor.
necetarium eft;edam aliiss] 5 uflis;
atfutis; abífciffis ligatis ; unam relinquere
apertam,ut per eam excrementitiusfanguis;quij incorpore in dies ageregatus; ftatis
temporibus:f ij, evacuari folet, expurgari ex more poffit ; ne af-- Jl fectus illos melancholicos,
maniam;melancho--] ii liam, ulcera;
cutis defeedationes, et alia produ--] ii
cere valeat. Sed fi folüm pulvifculis adftringen-.| übus; emplafticis; aut et urentibus
resagendas fit; et eumcurationis
modumfequamur, qui &: facilior eft
.& fecurior ; licet aliquando recidi-..|
vas admittat ; fi ad eum terminum evacuatio:] « fanguinis pervenerit, qui jam defcriptus
eft; omnino via omnis erit intercludenda,
ut praesentibus incommodis eccurramus ; cm per hác «curandi rationem non ita obfignentur venz,
ut humore denuó-éxuberante, iterum
natura fibi viam invenire, et ftruere
non poffi;aut ope Me- dici aut
perfricauone cum rebus afperis, aut
fcalpello, aut hirudinibus aperiri denuo vena nequeant.
De Renuum samflammatione, Lii
Vm in curandis renum affectibus evaLaborancuatione fanguinis perfectam venam t»
reni opus eit, à Quà parte mittendus
fit fangvis, non una eft connium
Medicorum fentenua ; quód Galenus tb. de
cur. rat. per [ettam venam, partie bus
fupra renes laborantibus, € parübus fupe-
ri: ribus, nempé brachiis, mittendum effe fan- guinem docuerit; infernis autem atfectis,
puta, utero, veficà, et coxis, é venà
vel fub poplite», velin talo; cüm renes
laborant, pene ambigat: libro autem 13.
Meth. med. in renum affectibus fecandam
venam effe doceat in poplite;aut talo;
aliis majori ex parte fu prà ; alus infrà, aliis fine diftinétione alterutram partem
eligenübus.Ego cum do&iffimo
Trincavellio, habità ratione»
communicationis venarum, majori ex parte ex infernis mittendum cenífcrem ; cüm et evacua- tionis eratia;nifi forté plenitudo ad vafa
prefens fuerit, et derivationis,
certiffimum fit, à parti- bus
laborantibus, et vicinis, fectis illis venls ;
fanguinem evacuari pofle . At cüm in inflam- matione
bus au4 vena fe- £cAnda
Tto xd Ee EC. 4: Luc aia oU
MES 1j -matrone renum, cüm revulfione opus fit,
potif-- fimüm in principio, in contraria
retrahi fà debeat, et ex parteà fonte
fanguinis verf perna retrahendo,
pouffimüm fi (fanguinis mul- tà:Copta
refertum fit corpus,à jecorarit brachii
dextri,aut finiftri fanguinem extrahemus: quin-- imo, fi etiam in principio inflammationis
nons verfemur, fed jam affluxerit
(aneuis, fed magna ;| tamen adíit
plenitudo, ab iis locis fanguinem.
extrahemus, mne fi ab infernis evacuetur, cüm ex motu fanguinis in venis, quiin fonte eft, et in fupernis confertis, verfus locum incifim affa
aüam aftluens, per locum affectum, et vicinas
partes tranfiens, et dolores augcat., et
inflammatio- nem, Quod fiinflammationon
fücrit, fed ali- quis ex aliis
affectibus, aut renum; aut aliarmm.,
illarum partium, nec plenitudo magna adf t;in- dicátio tamen mittendi fanguinis concurrat,
ab 1n rez, internis,ob venarum
conjunctionem et rectiti- ipfam. dinem,mstendum
effe fanguinem judicamus., Home,bf? 114. Áb 1n renum inflammatione in princt- [«clam ve p15, potillimüm fi multa fübfit
plenitudo, licet, "a ^ ut
dictumeft, mitti debeat fanguis ex brachio;
^t? f &- prooreffü tamen temports ex talo mitti etiam, "9 Fin poterit, bt quiin vicinis aut in
parte confiftit, ». evacuart, et derivari
commode poffit. | Reb. cobPRpVX OI
clyfteres in di folent ad refrigeran-
lorarióu; C010, et emolliendas £rces, ex ptiffanà, violari chiftesg malva oleo rofàt dæra
ds to, aut violato, fyru po
violato, fft Ypau et fimilibus,
quantitate mediocres fint ca quan
-Xepletione fübjecti inteftini re
tfta. t,ne per nes comprimant. IIG. Quam-
" nguis: [iz i^fü--M
i we Quamvisin principio aliarum inflam-
J^renw 'lmaaonum mnateriam fli;entem
medicaméto pur aj nne- |Bante evacuari
poffe aliàs docuerimus, quód ad- (14:9
fac cruda non tit materia, et dum fluit, revul- nod ut- lione evacuau và à párte, quz ftatim eam
füfce- 5,, Jptura erat, recràhatur, ut
in plevritide docuit 7; Hid;
dIfaciendum, dolore de(cendente, Hippoc. 1.40€. Irzr. vicd 22 acit. et ain inflammadaone
lingue Ga- fenus t3. ME erb.med. in
renum inflammatione, Ki aliqua jam ad
partem fluxerit, omnino abfti- inendum,
ne perinteftina fluente matcrià cum
limedicamento, ma9is renes exardefcant ; quare principio
i iena: ^2 7 llcatfià fiitulari
contenti, au tfyrupo vi a to folu-
lI:kivo, aucf lis;aut mixtis, aut fero lactis ex mal- Iva, violai là, endivià, vel jujubis, fi
evacuauone opus fit, ad alias comp
lendas indicationes de- Ifcendemu. ;
eorum enim etiamfi parsaliqua,in-
lIreftina Ri Wes ad renes pervenerit, utili- acem afferetnon mediocrem . 117. Khabarbari ufus in hoc morbo, ut et in.
rsfzzza- Jurinz ardore, femper mihi fuit
inipectus s et fl n5 rent quando ab
aliquibus in ufüm ductus eft .fem- r^z^era
Iper male ceffi ile vidixquamvis enim ap uüffimum "t »/» /2 fit inedicamentum adi bile m evacuancam, quiz
Peas - iduos hos affectus plerumq;
producit;quoniam- amen ob 1gneas
pattes,q! ibus pollet, per venas
kiffundi videmus, et (ubfeque nter ad renes, iIquód lotia crocea poft illiusaffumptionem
often Ilunt, merito fugiendus
videtur. 118. In m: ERI hoc inchoante,
licet ufüs re-. gs. pellentium externé
applicandorum conveniat; ;.F, L| :
'] Rb 115 tamen, Lx
nimiumimpensereirigerant, £55 tæ cem da.
cendum . : A í nme I) see, 120:
Adidautem preftandum, licet qua ex-venum v, fiCcante facultate przdita funt,
maximé inaliissii lid? ef; Conventant,
1n renum, et veficz ulceribus 0«4
€dnt;,*, Wnthno fugienda fünt, ob mordacitaté, cujus oc-. n[us ea». Cafione excitati dolores novam
fluxionem con- lus. citarent; quz
blandé igiturabftereunt, et dolo-.] io, s$ refrige- abftinédum eft, Alexandri etiam
monitu:quáme-. vantium vis enim, cüm ex
parte repellatur materia af-, w/45: eti»
fluens,& calor partis eftuans retundatur,videasd, Princi vuraffe&tus mitefcere, et omnia
fymptomatazsl,.. ""l5.
imminui, quz tamen jamaffluxit matería, autt] ... in fcirrhum vertitur, vel craffefacta
indolentenm! . quafi tumorem producit,
qui proceffü temporiss] fuppuratus ulcus
in parte producit, et morbum)...
incurabilem . De Renus
ulceribus . Viens ve- aum cito
bus, precepto Galeni curandum eft.
ut fit maximé foHicitus Medicus, rit ulcus quim. citiffimé ad cicatricem deducatur. ad citatri ris mitigatoria funt, convenient, qualis
eft mul--Jt fa, et fyrupus de jujubis,
vel ex rofis ficcis, cum portione fyrupi
de portulacá . L:Be im I2I. In renum
ulceribus curandis, cüm &; ronctden-
ynl(à conveniat, et lac;nifi diligens adhibeatur] do in re-
num ulce vibtis qua CATEO »
cura, et in tempore exhibitionis, et in lacte feliz] gendo, et inillius quantitate, aut fruítra
ccnce- di, aut cum detrimento
coenofcemus. In prin- cipio enim, poft
dift ptam vomicam, aut ulcus: ab acribus
humoribus excitattim,cüm ulcus for;
didum 1I9. Biautem ulcus fit
excitatum in reni. : à ^?
i didum fuerit, lac conveniet
ferofum, quodque» abftergzere magis
valeat, quale afininum :zillud vero ex
lotio cognofci poteft, fi in. eo pus fubfit
copiofiim, feetens, et fordidum . V bi veró ulcus! meliorem acquirit conditionem, ac à
fordibus repureatum fuerit, quod
cosnofcemus; fi pusin Urinaà contentum,
album à et zquale fuerit, lac
Conveniet, quód mipüs abftergat; et trægis car- hem producere valeat, quale eft caprinum.
Vb3 autem ulcera expureata rité fverint;
ut lotium. non ampliüs purulentum
appareat, tunc potius lacus eenus
conveniet craffius, mæis nutriens ;
carnémque gererans, quale eft: villv m,aut-bu- bulum; in primisillis pauxillum mellis,
autfacchari, aut julepi rofati,aur violati adjiciendum erit:in poftremo minimum facchar, aut
julepi rofati, cüm levi quantitate
tragacanthbz . r22. Quantitas lacis
neque vno inomnibus 55; modo metienda
eft. R atione loci laborantis, multa
conveniret, et potiffimüm fi ad abfterfio- |
nem exhibeatvr lac afininum, potiffimum fi la- Qi veeraffuetus fit nec ex ejus ufü
moleftiam fentiat, libram concedemus:
fin non affuetus fit; q tta titat t2 YCH UTD
tlceribtés LLL ab unciis quinque ve] fex incipientes,
Pine ad majorem quantitatem accedemus
. Caprilfi minorem femper qu antitatem
concedemus, nceqr euncias fex excedemus, quód diutiüs in ventriculo cüm
commoretur, fi mültum illius cen-
cédemus, aut acefcet; aut in grumos concrefcet ; ob quam rationem ovilli& bubuli etiam
mino- iem folemus quantitatem concedere,
x od De Calculerenum cum. dolore acerrime . Vamvis in calculo renum curando ; vbi dolores non adfint acerrimi, ea» curandi ratio convenlat, quz ab Avicennà, et Mauritanistradira eft; quámque.
[uu recentiores plerique fecuti funt ; »
repleto ven- . jriti triculo vomitus
provocetur, mollibus clyfteri-. pus bus
fceces fubducantur, aliis itidem emollieng- f:
bus laxatà parte leniantur dolores, et fi quas . fau, materia in intefünis confiftens., unde
eleventur: puto flatus diftendentes,
abítereatur,& evacuetur; juu mox
emollientibus, laxantibus, et anodynis, S& fui mitgetur dolor,dilatentvr vi ix à calculo
diften- . tt, quod f. mentis,
inuncüonibus,emplafuis,& pi id
genusaliis etiam tentar dcbet ; mox conte- |
renübus lapidem, et eundem propellentibus diureticis curatio prcfeqvi debet.: quinimo
fi Me: evacuarl ventriculus non pou
perfe- AT, peros etiam ad fimilia preftanda exhibent [ir iei fiftularis medullam aut per fe, aut ex
levi portione olei amvedalarum dulcium,
aut diafe- beften ron folutivum, aut
diaprunum; mox ab- ftergentibo s,
incidentibus, et atem bed
aptecedentem,& conjunctam materiam ad evas-- f.i. cuationem pra parant ; numquamautem ab
in1--4t«.. tio folvente, et veré
purgante medicamentoop,.. utendum
judicárunt, ne aut cruda materia aboli
initio hon ptzparata evacuetur, aut deorfum latalaborantem partem magis affügat.
Quo«m. niam inI3m tamen fepiffimé evenit
in noftris hi$ regio- nibus, et potiíffimumin
m æna h ac urbe,ut et nimium Genió
indulgeant, multàque affidué
ingerant,& multis tententurà capite diftillatio- nibus, ut ventriculu s,Inteftina;& venz
mefàrel urefertze fint niultis crudis
humoribus, à quibus per venas ad renes
delatis adeó frequentes fiunt «lolores
renales, et podagrz ; qui nifi cevacuen-
ur, nequetutó anodynis üti poterimus, neque Iconterentibus lapidem, neque eundem prop
cl- llenübus, quin nec diureticis. Cüm
pretercà fz- ipe adeó urgeat dol.
r,urlongam illam curatic- inem exfp
c&tare nec velint &erotantes, nec pof-
fint, nec exp ediat ob collabentes vires ; Menos Ifima vero illa lenrentia, vel lubricant;
fzpi ffi-. Ite muneriilluevacuandi materiasanultas,
cráf- iS,& vifcidas fatisfacere non
valeant,fed reten-- la et 1pfa,:&
per fe mclem augendo,«€ com- iIprimendo
dolcrem aueeant ; aut elevatis& ex
le, et ex commortàa;non ex pul:à materià multis IHatibus, cenfeo fep iffime
exyedire,medicamen- out folvente, pro
varietate materia benedictà lixativa,
dia phanico elec gv ario Elefccph, ele-
Ltuario de fucco rofarum, Indo,& finiilibus, ad. .Ilità portione caffiz, vel du com amc]le
ro- [to fo lutivo; fic enim et crudas
illas materias in JAyentriculo, et inteftinis
confiftentes, et fi quc suntin primis
viis tamquam caufe antecedentes;
Mrvacuabimus, eafdémque, X& fizniles revelle- (fous, molem et fecum, et htmotrum in
intefti- dusrene s comprimentem, et doloremaugentem immiLenitniia
fola ia cal culo non fufficiant. imminuemus anodynis, mollientibus,
laxanti-]: bus, diureticis ;
conterentibrs lapidem, et pro-] am
ftruemus . Quà curandi ratio-] te,cüm
fzcpiüis ad eos acci effemus;qvi nephri-4
pe lenribus v1 tico dolcre
laborantes curabanter, priori illoo 1o,
clvfteribu llibus videlicet, et bolis exx
InOciO,; C1 eribus mo hbbos viIdCilCet,c« DO IS CXI3 caffix medullà, avt lenitivo, avt fchs; aut
cumul portiunculà Hierz,medicamento
folvente exhi-]: bito,mocx anodynis,
mollientibus,laxantibus,&j lapidem
propellentibrs adjunctis cito, et feli--
citer; cum mæná meà glorià ac invidià, cura-- tionem abfclvi. Cüm veró curandi hac
ratic rationibus lis nitatur, quz
proximé enarratax] ^^ funt,
Hippocratem, et Galenum,duo Medicined
vera Inmina, habet et doctores, et affertores; 654 Epid. Se&. 1. tex. 6. ubi poftquàm
tradidit Hip: pocrates figna, quibus
nephriticus affectus coo) enofci poffit;
breviffimis ettam verbis totam cuj
rationem abfolvit, et juvenes etiam helleborcej pureandos docet : et 27 Com. Galenus, dum.
unamquamque vocem varia praffidia medica. continentem fieillatim explicat, dum de
puri" cando corpore agit,
medicamento purgante-[ tamquam vecte
effe propellendum.docet . Ned que veró
cruda tunc evacuare, et pureare dice
mur, contra przceprum Hipp.r. "Apbor. Conc Bá medicavi, C c.coctio enim illa.de quà in
Aphi] rimo, illa eft, quz humori putrido
convenit] in potiffimum in febribus, cci
coétio illa conventi quz fecundo loco
defcribitur ab Atiftotele 44^ Jdeteor.
quam putridis humoribus mentig |
| et exeredi ug mentis convenire docebat,
fecundum quam bi- lem crudam dicimus, et
lotium crudum, tam- quam fienum in
febribus putridis: at cruda» s qua
alimentalem cocü 'nem (ubterfugerunt ;
aut P er inediam ad bo nam frugem duci debet ; aut fi plura fint, quàm fuperari | poffint ;
atque. àcalore ventric "uli
evinci, aut conco qui; ;quam- - primum
funt evacuanda aut t lenientibus; &ab-
ftergentibus, aut etiam,fi in venulis mefaraicis; et altis infarcta fint, purgantibus; qualia
hac e(fe cruda cenfemus, quz in neph
isis exubc- rant. Neque vero | per
evacuationem per infer- naad renes
materiam trahimus, fed ab illis re-
vellimus, et per inteftina ft ubdu cimus;quamvis enim in tranfitu adfit vicIp1a.non adeft
tamen. con] ncl1o; neque periculum eftin
tranfitu, nc LA Í noxam renes fentiant,utin rénum inflamma tiohe in tranfitu bilis, quia neque hic
inflari. mpatio in parte c adeft, necne
calidus eft humor ; quimovetur,fed laboranti
parti etiam füuccurri- mus, inanitis
inteftinis que ob repleanonemu. comprimebant
renes à lapillo undequaque»
compretios. 124. Incalcrlorenum
curando, ubi acerbif- fimi fuerint
dolores, et ex fitu coznoverimus, jam
lapillm ureteres occu páffe, fi quis divre-
ticis tentaverit calculumà loco dimovere, 15. mænum (ie pen umero periculum
zerotantem., deducet.nefcilicetin urinz
(uppreflionem eum ] ] » »- r1, » ^4 p»,47, deducat ET oruente afk t!m ad Obfiru ctum 1
lo- Clu1n lot 10 5 e fcp c culi arenulis
" fz lus Cuts T5 R craí$à,
Diuretica ?roprafe - "aAtione calculi f«
pé "0XIA « crafsa,&
vifcidà materià . Quare prxftaret runc
emolhentibus, et laxantibus decoctis uti;cx ca- ricis, malvà, althase, et maálvze
feminibus,femi- nibus item frigidis
majoribus, liquiritià, juju- bis;
febeften paratis. Quód fiad pe netrationem
aliquid diuretici: addere voluerint in pauca quantitate; non repugnarem .. Ad. qvem
ufim., etiamoptimum^femper jidicavi olei
m amyg- dalinum dulce, ex levi vinialbi
tenuiffimi por- tone». 125. Commwuni feré hominum confenfu re- ceptiim eft, proavertendis, et pricavendis
do- loribus ex calculo, et impediendà
lapidis gene- ratione, ex Men bisaut
rer1n menfe diureti« cum aliquid
a(lumere, ant in fyru pl longl, aut
julepi, decocti, aquarum füillatitiarum;aut ele2598 étuariorum, aut pa dvifculorum formam,
quo materie, quz indiesin renibus
agercegartur paulatim expellantir, et abftereantut,
necaloreaccedente renum indu rentur,& ] lapidefcant : quod inftitutum. ut omnino non eft
imprcban- dum;fi cum rauone fiat;ita
quàm plurimis per- niciofum effe
folet;(i enim ab homine continen- te Ó
aticoopbiiil rimaffumptionem leniens, t
abítereens medicamentum fiimptum fit;
uti ditata afferre poteft. Atí1 cule 1s deditus fit; aut cruda mvlra in primis viisæerecare
foleat, vt folent majori ex parte Ape æ et cal-
culofi, tantum abeft; ut illorum a (fumpt t1O €os prefervetà calculo, ut potius frequc illi przbeat occafionem, et fepe 'nüorem.
etiam 1n füppreti- x ANIM ADFERS. LIB. VII. 259 | preffionem ur in: deducat, et graviffimos
alios | morbos, &f [ymptomata,
deductà materia, quie in ventriculo
erat, et in primis viis, ad vias
urinc. 126. Cüm quàm plurimi
pro lapillis exre- T/;:"; nibus
propellendi s aquis 'Thermalibus utan- les
tur, ut illarüm ufum aliquando laudamus,cüm. cur; impaócti nimiüm in renibus fuerint;necaliis
ce-. caleuL dant remediis;fic enim refrigerats
illis aliquà- /* do dehiícentes locum
cedunt Ja ipidic commoto, €&4*
quin et quantütate aqua pro] ulfüs aliquando deícendit; ita rarius eedem concedenda erunt, quod de deb ero batiteli ad locum lapilli
d fepe etiam morbus redditur contumacior,
et liquando ad füppreffionem urinz
omnimo' ? " lo " 7t* 111"
dam per illas egrotantes deducuntur.
Lsatid is E22 5 De lapide
Vefica.. 127. Q' Cioe2o, et antiquos,
et recentes fcri- iJ ptores infinita
propemodum, et fimveficà; at horum auctoritate etiam ício quàm 7/2 plurimos ærotantes in perniciem à Medicis '
ts nimiüm credulis deduc bos Æ grotantes
cüm ex /?* lapidis per incifionem ex
tractione quàm P ;luri- mos mori
obfervent, omnia malunt prius ex- periri,
quàm cenus illud carnificinz etiam pe
riculo "um Medici partim experientia deftitu- ti, promiffis fcriptorum adducti, et fpe
przmi ob avaàrit iartiall Cii,
curationem pro trahun AK 3? cmnia vlicia, et c mpofita medicamenta
tradidiffead czeztu: comminuendum, et frangendum
lapidem in fzz Lapidis in veftca a-
oatca cura 2/0,EXIYAde f
2 P ^ 4519, LVD. SEPT ALII. MEDIOL. omnia experiuntui ur,.& denique aut fpe
defrau- dati,aut]am curationi
füccumbentes, ;tandem non aliam fe viam
invenire curandi, quàm pe fcctionem,
profitentur:fe fed interim zeer crume-
nl exhauftà, ob dolores ; et vieilias confumptis arnibus, viribus vitalibus etiam. ob v1 igil
as CO! ifi imptis, exará lefcentibus
renibus, vefica, et vrina ipsa, ta pcne
mirror hanc curationem confentit, et eam
etiam ob rem ma- jori ex parte moriuntur
diffeéu . Quare p ret ab initio. 115
Lca4 13 etia 1n in vp(ta4
Lc, dum vires vitales v iced COr-
pus adhuc car: Yofum, et fucci plenum eft,dum. veficaadhuc mucosà materlà veftita eft,
non- dum aut perfric atione l: apidis;a
utvicalidorum dicamentorum, et acrium
abf ería, unde» Ó acerbi funt; dum
deni- dum ad magram molem ex- Crevit, Cul hanctentare, yop timo arti- fice electo; qua les hoc temporea aliquos
excel- lentes cogno fcimus ; cüm enim
prim 1s etatis mez annis plerique ex
hujufinodi curandi ra- ne per (ectionem
interirent, triginta abhinc nis eorum
major pars füpet ftes evadit, co- rum,
quià Ioanne Acorombo no à Nurcià paores non adeo Is non
itlO ne ln S Lo
&, 4 tre, jam hocannowità
functo, et Ioanne eA nto- nio filio
curati fuerunt. Quarum A rom tan- qua
minftaromnium hiftoria mp ul chis errimam
hoc ; » co réfatoe utiliffimum effe duxi. Comes "un roius Ir ite Senator, et Equ es,
bona- rum Td rarum patro nus, cum fl
rangu rià p à liquot rimnen (es 1: labo
xratfet Hs in canali urinz rio
Ccarneuim ert ANLM. ADVERS. LIB. VII. | 368 carneum aliquod impedimentum perfenfiflet
; inillud omn E moleftiz caufam
referebat;ut la- pidisin vefic:
à,quantum pofl et, fufpicio nem.
declinaretme femper reclamante,& maximam la pidisin veficà concreti fufpici ionem
fubefle » aflerente .. Cüm antem
aliquando ad ameniffi- mal m Sancti Flo
rani fuz ditionis villam fecef- fifl c
t.in eraviffimos, et acerbiffimos dolores
incidit; qvi cüm per quadraginta horarum fpa- tuum fine intermiflione p 'erfeveraffent,
citatis equis ego accitus fum, et cün :
omnes fübeflenc note, quibus pertu
iaderi poteramus, lapidem. icà, faltem
prob abiliter,cüm nullum;icnum path ognomon icum lapidis 1] fi seti ad vrbem remigraret, ut certam rei hvjus habere poffemus im miffo cathetere
coonitionem. Advenit,fed càm carun- cula
impedimento effet, ne catheter in veficam
immitti poffer, priàs auferendum fuit impedir ?|
(1 i l e
qerwer m Qs d disas, e orsa sibisie att ndr cA ai X zi: mentum, « fttata catheteri via,cumque a
peri- Á
*( 2» Avr11l In M (leo Te
invoentnue : d L c 1i L1CC 111 n 1111 S
€elicts lapi ;ilVCHLuLuS5CcILt.
C)vrarect | nità, utaliauando fe ab acerbiflii n 13
i ^3 ui : le CO! ril us eximeret
vir clarifiimus, omn1a qttra- prit;um
paranda cenítuit, ut ad fectionem veniret, expurearemus nos corpus,dixit;ic
animum. ' /^1 "^ 1; : vIVPITOATMTDI:1».230C 1me011 I r11 113360
101m L1 C [1 A17 at Li C |i N hlliüan )
1C 11 Ine» C dienis firmaturum, et teftamento de rebus
fuis difpofiturum . Nos diem
felieeremus ad placi- E | -, fe1 10.c die ftatul c1 e (1 nibus
pa- ratis accederemus, fe fcmper
paratum fore». Oni IDUS I1(C paratis a
CCCOLIIEL $S,alacr1 aniino, f16Sq ^
113 262 LFD. SEPT. ALII 7MMEDIOL. nos excipit, et nosadopus adhortatur, et fe
» omnia intrepidé paffurum profitetur:
fit fectio, nulla vox querula, nullus
ejulatus; adhortatio- nes folum ad
artificem, ut intrepidé negotium.
perficeret; unus primó forcipe extrahitur lapis magnitudinis magnz caftanez ; alium
adhuc füpereffe extrahendum artifex
profert : ne du- bitet, extrahat ;
iterum adhortatur : (ecundum extrahit,
tertium; quartum, quintum, et deni- que
fextum ejufdem magnitudinis, fpatio me-
die horz; nullaumquam querela, nullus eju- latus, celfi animi omnia indicia, (ola poft
actio- nem Deo gratiarum actio. In lecto
repofitus, refectus de more, omnia bene
cefferunt, nulla, febris
fupervenit;nulla inflammatio,nullus do-
lor ; fomnus poft tantas vigilias (uavis ; ulcus iermino quindecim dierum pro medià parte optime ad cicatricem deductum; ecce cà die
fu- pervenit febris vehementiffima
continua, nul- là occafioneà vulnere
habità, quz adeó ardens fuit, introductà
etiam hecticà febre, ut brevi temporead
tabem,& extremam ficcitatem cor- pus
deductum fit ; in quà adeó carnea fübftan-
t11 confümpta eft, ut etiam cutis exaruerit, ita it extrema cuticula 1n corpufcula
furfuraceas per omnem corporis ambitum
diffolveretur, et excideret; cutis autem
vera tamquam ftorea to- ta fiffuris
diftincta confpiceretur, et afpera, du-
r3, et ficca tangeretur;ulcus exaruerat, et labia in calli modum exficcata
confpiciebantur,nulla amplius fanies,
nullus ichor promanabat. Et cum res fere
cflet ccnclamata, refpectu ad has res
habito ; nulla fpes falutis fere fuperetle
videretur, cum ali qui vitales vires adhuc atis valiiz confifterent, ezoq; humceétantibus,
et retrigerantibus calori febrili
contrairem, et in- ftaurantabus
naturaleni calorem foverem, tum humidum
fuübftanuficumoptimis cibis repone-
Moueynlstiginn fe prcma Meine qa
tiin acerille tebrilis calor dafinbpiie ctio cta- quanto À lior reddita eft ; et quod
majorem, parere poteft admirationem,
majoremque ía- luusípem Vr mri onec
rece pore aridum, et quáfi callofum,
1terum recru- duit ; dolere aliqi
peuleumb itai micéptii- pem emittere,
mox ichorem; póftaliquam etia faniem,
deinde per te, nu] adhibito przfidio
exierno,1ta convaluit, ut ad | |
fanita- tcim fit reftititus, anno aatis
fu: xage Silio rertuo,cumadl:uc octvæena
RENE. vat,adeo litteris deditus hac
etiam atate, ut perpetuo fcré in
inftrucütlima fi à Bibliot theca
véerfetur, perpetuo etianz cum mortuis v1vens Ccolveéctari videatur. Admirabilem aliam
fortafle hiftoriam, n propofitum,
fi "0 amí, | l EL » T3 ou^
Ins^3 recenfeam. Nobilis Henricus
l'eccnius; Roeetsferidiodshenito viet ft
Aoid ribus ex lapide in vef'ca eflet
corfitctatus, nec umquam curati rem pcr
exiraéilonem admi- fiffet) cim
acerbi(Timis doleribusanoctretur, vr
fatius moricerferet, avàm huj: fime di tormen. rpetuoóaffiig1, cumqueextractum proxi Á 1n mé lapidem trium unciarum feliciffimé ab
Il- luftri viro Cefare Pagano
fexagenario obfervàaf- fet,à quo ad
hancadmittendam curandi ratio- nem
proprio experimento erat incitatus ; tan-
dem me accivit ; qui D. Pagani curationiadfti- teram,feomrninoexperiri fortunam füam
etia inillà atate velle ; et fe
autabacerbiffimis illis doloribus
eximere, aut ut fortem vitüm mori »
profeffus eft ; càóm uridiq; anguftias fübeffe cer- nerem, quód pauciffimis diebus cum tot ;
tan- tí(que cruciatibus, vigiliis,&
virium viralium» imbecillitate
füpervicturum obfervarem ; eaf- dem
tamen vires imbecillas, ztaté jam effetam, et mænitudinem lapidis tanto tempore auétà
; illi operationi repugnare,anceps, et animo
du- bius, quid confulerem, hzrebam
tamquam 1n» falo, et tandem fux
voluntati totum negotium commifi. Oui
tandem omnibus expenfis, de- -revitfe
huic curationi committere. Excifus ; et extractus
ab eodem artifice lapis feptem un-
ciarum, et drachmarum quinque ; et quamvis per loneum tempus vulneris curatio tum
ob mænitudinem, et dilacerationem ; et angul- nis multi in grumos concteti in veficam
colle- &ionem, tum ob «tatem,
protracta fit, conva- luit tamen poft
duos menfes, et per annum» etiam
fupervixit; felix eo tempore, quód dolo-
ribus careret, quibus per tot annos fuerat con» flictatus .
p '", 4*4 /3« . * e » Q 115
[ 10 fluxu et c st gin » e curando Medicos video à rectà vià aberrare,ut
necef129. À Deófepéin feminis
hocinvolunta 3 i farium fit, aliqua etiam hac in re
annotare». Cum autem morbus 1s ob varias
externas occa- fiones olivenire (Gents
et ex congreftu V enerec Íacpenume ró
communicetur, c Fi di iP eüsmaridum
erit, an ex lue G.; oricinem duxerit,
an potius ob exceffum 1n "c" Cta,an ex congrefiu cum muliere eo morbo
laborantes; e Ci | I] ^ X1* 4 11 11 fine fufpic nc Gallici morbi: fol t enim
eti21n»o communicari 1$ morbis (ine
Iue Venerea: diffi bro artee 4
! l » ?
12? e bw de 9?
C &fs Gonoybaa G ] lica n8
fla f«pbruneda . 7
Ganor- rhoi mtt- fatur Dm
f uxum 2! DI) e (5 2220Yy-£&a altauando minalia, ut
tempore debito femen contineant, ex
continuo enim affluxu partes ille ret rtz na-
turà adeó laxantur; nt diutiüs duret fluxio illa ob illam folam caufam. 129. Vndeetiam, cümex diuturno feminis effluxu acrimonia, et calor materiz
refrixerit ; [e penimacró decipiuntur
Medici, refrigeranti- busin eo cafu
utentes,cüm excalefaciendum fit aliqua
Vea femper autem adítringendum : in;
quem ufüm ut fiepé foleo decocto ex ligno len- üfcino, aut ex ligno cupretli, aut
decoctione maftiches, et aliorunrex aquà
chalvbeatà, aut mincr. ic 1s aquis ex
ferro . . De cipit v eró et fepe
peritos Medicos ; q: id. cümab initioab
externà aliquà causa ex- calefaciente,
et lixante 15 morbus inceperit, ex longà
auté fluxioa e fpiriibus multis inanis et malto femine evacuato, et corporis habitus í
It refrieeratus, et multus humoraquofüs,
et fri- e1dus genitus, mul Aq; pituita
pr« ducta, cum. in primis Illis remediis
infiftant; omma in dete- rius ruant, et aneeatur
fluxio. In quocafu teme perad contraria
erit tranfenndum,& iis n ten- dum
Lec en faciunt, et ficcant cmm aliquà
fubadfirictione ; 1n quem ufum co
coctum cx Giiajaco, cum pa rtione igsbenæe 1fcinlut 1n nlperi, aut
cupreffi;aut maí ftiches: nno verbo
dicam.;ea omis curatio etiam conventet,,
qua prafcribitur mul
laborantibus. "^ veniet de- Bu ribus albis purgamentis:f i De Menfium [uppre[[ione, -diminutzone . | 131. T infüppreffis menfibus, ubi
fan- guinis miflione per fectam
venam. | opus eft; (emper Galeni decreto
à venis crurum ' evacuandus eft, lib. de
cur. rat. per fang. m. cap. 11."
18. itaubi hzc c eadem fuppreflio cu-
randa eft, cum magnà fanguinisabundantià, in dubium verti video, an hzceadem curandi ra-
btts i tic ofequen da fit, afferente Ætio
; /;b. 16.cap.$7- | prius extrah«
andium efe fanguinem ex cubiti vena, mox
veró ex venà tali, neaffatim ad 1n-
|ferna ob copiam irruente fanguine, magis ac | magis venz uteri repleta bítrüerentur ;
;quam opinionem, tamquam etiam à Galeno
non dit- íentientem ; fequuntur
Altomarus, T rincavel- | lius, Mercatus,
&alii multi. Mercurialis au- al tve vitcho. Item, et Maffarias, etiam fümmà prafente pleinitudine;in
fuppreffis menfibus numquam cen-
Lfuerunt à cubito mittendum effe fanguinem;fed tfemperab infernis,quód etiam per illam
fectic- knem plenitudinem tolli poffe
cum Galeno cre- iliderint; et fi qua
fanguinis copla per venas ute Iri
fertura fupernis artracta ; et am per eandem
viam ad inferna attracta evacuetur per infernas lMllas venas. ( rediderim tamen ego
przeftare, dum; Vene. - .Atibi
plenitudo ad vafa in corpore acervata füe-
Iit; illius habità rationc, primó,antequàm füp- IprefTi lonis curationem æerediamur ; fectà
venà lin cubit ) 5 illam folvere,In1OX
VCIO interpofito | I " | *
vrbs debito tempore, fectis Aids tal
firppreffioni menfium opitilari ; et cüm prima illa non fit facta ad curationem
füppreffionis menfium, fed ad folvendám
plenitudinem, hac O ; conveniet "vao
Ga Í one operi inrenon repugnabimus Ga le no cenfenti,fem- c
.f47 He. 1 (La jw" £/7€ perin fappreffis menfibus curandis fecandas
ef- fe venas crurum. Æit tamen non
placet fenultio e tentia, quem alii recentiores (equuntur;cenfen2e21i2 Y€f N
tis,primó mittendum effe ex cubit nsnnen ls
"M / . ; mox ftatim ex pede,
ut per primam folvatur [ec Ir'one k 7?)
cr prir vera is plenitudo, per
fecundam, fi qua ab ute ro ad fii
menfibus perna facta fit pet primam evacuationem re- fasrc[fis. tracto, iterum ad confuetam viam
uteri retra ^hatur; fic enim et habenas equo retraheremu et poft calcaribus ftimularemus, cüm fieri
Gof- fit,ut m M Mie fecta vena
füperiorad impe- diendum, quàm altera
inferior ad promoven- dum m. MA uas
pureationes. Ven: fe- y22 Si avis qua
traduntur à a Gal. Zi ). dc ..À Hoi bra-
cur. vat. per fola "m Yenam cap. y6.ubiin Biden fe- Pens Clodi M talo. pro curatione füppreffarum
pur- sationum menftruarum, tempus
folitum, eva- 4 €uatio nisilla rum effe
obfervandum docet, atq; HI J^
pertres,aut quattior anté dies effe evacu andum
s fimguinem, dilige enter confideraver hi facile in1b 1
I l *
22 n Iecov- 2 elu æ, tellioet, 1 1bi plen tudo
talis ad vaía ; n c«( X rpore 1 Coah
doped 11, quo fuppreffi funt [ibit ci i, non effe TTL TAM Yam exfpecta midst) npus purga tionis
folitum adl 'Vacuatione cubito faciendam
: tunce NEN 7 PY € cuati CImnocx to faciendam
; tunc enim ) Oo CAL V.
-À . "» " T . ? ^ ( iupnprettiol adillyaremus «
Ineaincomtnnw«
Ubpreitioneadcj;uvyarcinus, ecin vLincomÓos- VOSR 1M. à |] M CL i 1^5
«a 11 1 et avocaretur in contrarium fanouis, et potius
H. ANIMADVERS. LIB. VII. a69 da incideremus, qua d Ma rcuriali, et Maffarià proponuntur; fed iliud przftandum erit in
medio menfe, poft decem, aut quindecim dies
Z termino : fic enim et plenitudo
tolletur, edm confuetus motus, cüm eo
tempore nullus fit, avertetür. eia nj uu
aulus ZEeineta 1ntelle- Ti juod tamen
intellexiffe vix fieri poteft, efie quid
illiin mentem venerit, hoc morbo cu
rando dixit, non efle fecan im venam
ante prafnitum menfium tempus; d per
dicet. dies poft. n promoven« is
menfibus diminutis ; licet preceptum
Gal. /zb. de cur. vat- per [ang. 995i
[[.cap. 19. maxime mihi probetur, ut per tres;
aut quatuor diesante tempi
fanouinem mittamus ; y Penes tamen expertus fum, mæis proficere, fiftatutum tempuz
pur- eaticnis finamus adventare, 32 ibi
diminuté operari vide povenuni defabiiair: of Pass evacua- tonem, veríus finem motüs manus
adjutrices porrigemus naturz, et motum
illus promovc- bimus,ut fimul cumpaturà
defence totu1no opus perficiamus, juxta
Galeni decretum 9. po i" MEC ed. Ó
hac dere «eh fentiant ; " quunt,aut maxi1i1no timcre c íectione vene
ten- tant vi) moms tse endo pcríeccrtam
venam » 11 1^ " 94 - ; t1f1 17 in talo;per er tres,.aut qu. |LULOT gi1es
ance ænnituig NEN "WO Kid a Je
Doo "ve p ^ "X4 £x Decio 7 MA ee fe yw Kt, 4uA 40 €^ € € . ^to.
[WP AT Vez IZOHS J
dimuirttis | )Y0?A0- i ^ *
f -,F£ " Len
Ü. 90 65 *v2t !j L],
;;0- illud tempus, cum Galeno ; fi enim fluente fan- cuine fanguis mittatur, non folàüm non
promo- vetur fà inguis menftruus; fed
ex animi deliquio, aut timore ita
fiftitur, ut amplius per illum ter-
"t minum effluere non foleat .
Meis 15$. In promovendis menfibus
(c&tà venà in pn qrom* exqu, femper
praftabit repetitis vicibus,bis;ter, Fu
- s aut etiam quater fanguinem evacuare, quàm.
vs os: unà cvacuatione fol totum negotium abfolve- [5 -
re:fic enim melius fanguis ad motum incitaus mi«- $27 tur, et fepius motus facili üs ad fluxum
invi Sechto ve- tatur. lossqézsexialo 136. Placet magis füb noctem ex pede fan- Lex inh. volue fot guinem detrahere, ut ex
affiduo motu ; aut fta- fab mo- tione et
humores facilis defcendant,& ex mo-
PREPSURCUUNQ QE attenuati faciliüs profiuant. fob ixi: : 137; Per duos tamen, aut tres dies
ante ab- W- rof luantur crura. ex
decoctis attenuantibus;& aro-
dfricla. 4. ant X. matibusafperfis, et mox longà fricatione deor- * | fectionem
- AV uon € cuini ; | Li onda I
5$. Faciliüs etiam fiet voti compos . fi ante
cx ialeti« hecomnia,aut diebus prepara tionis exercitiis 2 dere 4«- ytatur aut univerfi cor poris yat
inen par- éet CX?rC! tium infernarum,
maxime autem | ]jumborum.; f /
fione fan aut fanguinem ejufdem conditionis obftructio- nem inutero facere cognoverimus, priüs
fo: culis ex »]
; zai0 oven yuln
' |; regio Tnentis, X emp laftris reeioné uteri fovere; quo» fum trahendo invitetur fanguis ad
fluxí9nemi[: adinferna,44 artenuentur
humores mixti fans-B: DW 74 139.
Praftabit aurem etiam ante fanguini: 1
PoE/14- 221] : miflionem, fi
craffum, et v iícidum humoremo.Jnm
ANIA ADVERS. LIB. VII. l'rum
materia, cüm provectioribus hzc fcriba-
| mus; tylva autem prafidicrim apud fcriptores reperiatur paffim, et fit extra noftrum pro
po- fitum, apponere non opportunum effe
cenfui- mus. 140. In decoctis menfes promovertibus ex- hibendis hzc adfit animadverfio, ut 1llcru
m. jmagnam quantitarem concedamus, ut
integris viribus ad uterum pervenire
poffint; atq; n« n. tolum fanguineman
venis exiftentem craflio- Irem attenuaxe,fed
et eum, quiin utero 1mpa- ctus, et cbftrvens,
impedimento eft fluxui, fe- cernere, et fübtilemreddere., 271
De lAI. Q Fluxu zeen[iruorum immodtco . Vemadmodum in fü ppreffis menfi- bus, dum repetità utimur fanguinis fep endn e emaul yn. A leg evt 1x .
Méfes pro 7200€2114 per os fint
2 mmulta quanti 1216
[n f ^ n xà nie fium mifflicne, dictum eft, praftare », PR mon eadem die 1llá repetere, ut modico illo
tem li peris fpatio imminutà materia, et
o1iis interpo- Mitis et attenvanribus,
et attrahentibus, natura
JMmeliusaffuefcere potfet ad materian n per illa jf partem de more evacuandam : ita é contrà
m, ! hr evulfionehacab utero per fupcrras
partes bis, | et ter eadem die rep
ctendum cerfercm ; qvód h&
cevacuatio fanguinis vreeat ; et retractà qvà-
primum materiá, fluxio citius fiflatur,neg; tcm pus Intermeditim neceffarium fit conc dti,Uut lun Pp) reffione, 2d parandam materian 2. ]n hoc« medi
0 fangut "i$ mio epe !iia
7 F att a MP d E ACCQ AA
ifectu video multos vereri i fum :
medicamentoru E folventium, quód "- fum digpé'ty latus humor biliofüus, ac commotus,
unde faépé gandum . is morbus provenit,
ad uterum etiam fet ratur 1 aut
compreffion ne, quz in regerendo humore fit,
venz dehifcant magis, atq; magis profundatur faneuls: quoniam tarnen per eam partem
eva- cuatio aut revulfiua eft. fi
fluentis ab hepate; autàliene, velà toto
materia motutm confide- yaverimus; aut
derivativa,ubiautactri,& cali- do
per admixtionem bilis fanguine fiat, aut à
illámqué revocare à .parte;ad quam fluit.Quod ompreffione mufculorum ventris
inciderit, cüm breviffimum fit et humoris
irritantis evacuatione, ^ Á
egpen [mnt REIN "entium aliquorum. fFriclimr. dici 1 ; quia,et fa dftringentes
aliquas partes hadatum, fcrofo, aut
psi jc )paümum femper erit, ex- purgato
ab use nentis f: inguine, minüs fuz qu
xilem reddere, mini (foli acrimonià irricantem, f hs iod incommodum ex motu eveniat
.autil ilo sueiusibot et revulfione y^ | Midica- | 143. Sint tamen n medicamenta
hc aut per] | spenta tz- fe cum aliquà
adftrictione; aut adjectione ad-4 n aü-
4 R hab arbarum ín hoc cafü fugiant Me-]
| i !
[ r^ abat- beat: potiffim! üm fi
non multüm maturum fue: 62 7 7 vit,
quoniam tamen, inquam; tota illius folvem
| fup. [lis di visinieneis et tenuiffiriis partibus pofita Jii Cie eit. qtux facillime venas uic cd c
etlam ! faneuinem fuo colore
tingunt;& eàrationeacu tiem illiaddunt,
et calorem ;càüm tot alia ; 8X fi
nplicia, et compofita fup erint, fatius fempe |
duxi abillo abftinere ; potiffimum cum ab alii lic, cüm ei, quz aut -i icraffanti
facultates aut 774//22*
lipEniraspropémodem mulieres ab hoc morbo Incmdton. et facillime P: arabile. Recipit
àutem Gor deme 4. iy datvm, obíervàrim,
multa in hoc morboattu- life
incomimodao. I4$. Poft hujt re remedia
ea ratione fa(a Pire feri b rdaxitbe corveniant;unumanr pre- /, (ena cnirtema iato Bodo effe cenfiisquo
"^ di ;interfecreta "Jn udo
refe rvattim. clefcehtibas ; áui fub
noftrà tütel: id pPraximi me K Am
addiféendàm exercéntur;etia
Icomimiimicatum nb&hcomhníbus;ad communem Hiliitenm cc mmune iit ;Qquo feré&
nunm- iquam friftra ufus füm,modo
exulcerato aliquo vaíe in ütero fluxus
as menftruorum aliquaiu.; kon
habeareccaficohem-: eftautem omnino eva? ^
aqva libras feptent; 1n'quà 1ncoquo cortüces lerium aurentivm acidorum ; aliouanto
adhuc fiubviridiom,'&i1llas in
philyras incido ; et exiccanoàd duarum pártium confumptionem; et factà colatrri, vhicias novem vel octo
potanda Imane dé: euod fi vay
medicamentum paliorebiccirf:m volo;nunrpalum herbz pilofel- 1 31li«c . £g *1 . E 11 like 1n fne exccquendum addo : Ines
adhuc redditur; fi ie aqvà Villenfi
decoctio fiat, aut fi in octo
"Hbris aqui fiat? vbi duz terti? partes
pér coctiopen abf mypta fverint,& excolatumm ldciimiyehalybetdito ignito fepius 3 PUT 713 roborettir. Boethi u-
xoris albo profievio laboratis
biftortec o explicata et Gal.lib,
de praco- gn. ad Poflbu22H?7 « az De albis per uterum purgamentis. 146. C Vmillud mihi femper fit perfuafum, |
|. | in hoc morboeaiterum non
laborare.» per fe, mifi cüm ex longo
«lefluxuetiam pars ea;, 1;, aut laxatur
nimiüm ., aur refrigeratur, aut; jy,
cetiamaliquando ulceratur fed vel à totocore. f; pore, aut à ventziculo;aut ab hepate; aut
eriam. |i àcapite materiam 1llam transfundi,
laudare.» fatis. non poffum,quod Galenus
//b. de -pracog.ad Poflhumurz, maxime
necetfarium, effeduxit; ut aut totius,
aut partis laborantis,& tranfmitten- | |.
tis rationem habeamus ;.nec fufficere humores . |... divertere, et evacuare et per alvum, et per
uri- ps, ut fecit eo loco. Galenus ; qui
non folum... diureticis, afaro, et apio,
et hydragogis ufus]... eít, fedlongà, et
forti fricatione, ciun non abi]; hepate,
aurà ventriculo tumor ille ventrisinfe-
rioris, et fluxusaquofus per uterum originem. duxerit, fed ex refrizerato nimiàm,&
humente: habitu corporis, et potiffimum
carnibos par... tium infernarum,unde per
longam, et validam; fiicationem, et fimplicem,&
cum melle cocto | EUR. » "e
.non folàüm revocabatur ab utero ferofailla af]. fluens humiditas ; fed incalefcebat habitus
cor--J poris, et ira ficcabantur carnes,
ut (anguis adi]; appofitionem, et renutritionem
tranfiniffuss] non ampliü s
recrudefceret, autin pituitam, fe--] .
rofümve humorem abiret, fed nutrirer,sícque |. optimé nobilis illa matrona convaluerits
nona, Jguur [^ 'J vocare «Quod fi af ANIM-ADFERS.: LIB. VII. Igitur oportuit alia etiam adhibuiffe, et exhi- buiffe prarcr ea, qua tradidit eo Iibroad
aufe- rcndam intemperiem à tcto; aut
parte, üt cen- fuit t doctiffimus
laffarlas meus, cm non alia» labcraret:
unde excalefaétà; et ficcatà par- t€, ne
denuo m aterja e enerayrecur, faris fuit;ges
nitam et peralvum, en perurinas ab utero re« '0
&apioufus eft, ad du- cendam
materiam " er i mofadd àm,qua tamen etia
27$ 4| perm,enfes, et uterum
folent evacua re; ncn vl"A P * f detur mihi reprehendendus;s qui nt và
cencra| rione humoris inhibità, rectà victüs ratione; | potiflimüm pottis parfimonia,iX füblatà
intem- J| petieà parte laborante; nó
ahud habebat;quod | faceret pro
eàcurandà ; quàm genitam jam a- | quam
evacuare,& à partéad quam tota fereba! div reticis » tur, derivare ; nempe hydræoeis per
alvum. per veficam, et iis quidem;que
fimul menfes prolicere poffunt; qualia
effeafarum,& apic m docuerat 5. C $
xfi med. facul. ^ut etiam fi qua
excrementa picultof. | uteri veris, et utero
1pfo i ferofa in, rent;aut ob craf- fitiemretincrentvr, neaut corrumperentur
re- tenta, aut iptcanperiem 1n utero
1nducerent, tandem etiam quamp rimum
expurearentur, 147. Ex quacvrandiration
e illu d primo col- ligendum eft, ncn
hac 3" làin cedendum effe in
curando fli xv mulIicbi ahbà enim và
1ncef- fife et alios Medicc: n.
cmanos,& Galenum ipfum, ex Hi Medicis anuquvis dcíompt refide
pocrate, et optimis qvibufqveo
à,Cccnftatex cap1teo $ à illo:
Albg bro. fiii fa- bé
CHYAV- dut vtría ra-
Moe à di tradita et », ls l;b.
de pr&cog. ed. Pofl bu 322/4772 .» lx arena
yanarina fepe: e 2nalum,
£9 contra G a. Albi bro-
finvi vc- YA CHYAL- Ai TAL.illo: mutàffea item poftcà Galenum
fentétiam; poftquàminundià ftomachi
regione. ex unguen to nardino precordia
perfenfit frizida,& humi- da, ac
mollia; ncn fecüs quàm lac coaguíiatum ;
nondum tamen in càfeum concretum ; ut ex hi- fori illà tradità Zib.de pracog. ad
Poflbusmum.», eap. 8. colligia 129. "XN etroris 'arcuendi. funt ;
qui piocurando eo moi rbo ;mulieres in
calidá ma- risarenà fepeli endas ex Ga
leni. decreto cenfent; cim tamen
Galerius fateatur aperte; et ce tcros
omnes d C feipfum non firié errore hoc
remedium attentàffe: ut magis ii finr. deridendi; qui etiam in divi arena Soli aftivo
nudas mulieres exponentes, ac
deméreerites ; tentà- runt mbrbutá
huncevincere. 149. C urari igitur
poterunt fim iles ur orbi, derivatà, et fimulevacuatà
materià per vias fe cefsüs ydrago?is;
diureticis per viàsu rinz, eo modo, quem
docuit Gal. cap. illo o.de pracog. ad
Poftb. Inter hvdragoga noftrotempore pri-
mum fibi locum vendic at Mechoacani kann
fialiquaadmixta fit bilis; £x Jappa,tum ola Q
tertüm cum pilu lis ak epha iginis, fuccüs 1reoss potiffimum, f. Bie I? decoctum; et Pa m aj
fylv 'CitI1S 14 )a- 541-4 44 Ixt il« LI
t (imilibus« alia.aut ex 115:2*
. Dofita. tiffimum witbid,
&'prafentaneum remiedium funt; aque
T bermales falíz. vt T'ettuciana ; et fimiles, quód per vias fecefsüs hunziditates
de4? " Do v .À d S S asi es AUI FEMA ^ M. ducant. Tot ner hanc viam naturam attuetcat
eoi- cCrC. Incafi lium tam een haco n
inl daa fient dem tranfimitt y77
Gent, nifi partis cenerantis hos humores ratic- pem habuerimus aut, ftà toto
eenerentur;to- uus; propterea, in ufum
e. CURED dug intem- periem partis aut
touus tollere poflint; puta» EL: | e
MN wd fi frioe1da et humida fuerit; quod
1a pius evenit; - je. aut ventticuli,aut
hepatis, aur toti s,excaiefa- cientibus,«&
ficcantibus conabimur evinccre ?
commodiora autem hazcerunt, f15ü88nrhoc prc1-4 331311 " ; (^v 1taàlnLls 3 a Vt( Lt : assise ap, o e« 1ncontrarum tractam eCvacliaic co i
LHl- C15 potiliiniulu lia totoad uterum
trans fundaa- - h 1 * T decoótum Guajaci: aut fi1ntemperies bec
frigii Q | :, 1*3 ^ 14 : vw da « humida
jecur etiam att1gccr1t; quo d Cx Ia-
dice, vel. ilgno oafiairas paratur; ex quorum hr ES, * $^ "s " 14* T^ we 4 | Qe»
T C XCInD] l ) CU 111 P xin rima aiia |
roponl px (tunt. 1 E I $C. Animadvert« naun Lt 1d Cn,n ja fempet1 aut íerofuin humorem, aut pitu1tcium
peccare; peque ícmpernunc cíic. Cx pl
rcandum neque 423311 " I ! À ' E
a^ bor d x c4 femper calidis cczr1endam
efie caufam efncien Puross:8 2 mulie
by 12 20) 75ber "t £ J 7
204,211 CALtis Ci 4avanáa o Adftrictus enim locis ; aut nobiliota
meinbtáà in-. 1: vadent molefta illa
excrementa; aut retenta in., malum
habitum ; aut. hydropem laborantes]
ducent. De. Vteri prafocatione
. Prfoa- 132 f leri prefocatio ut morbus
eft per-- 1^ Vis air dn niciofus, ita
cutn folis mulieribus,,! tento fei et fepe
ex Iimprovifo adveniat ; curationem fe-- [4
ne,odova- X6 € fola fibiadfciverunt, ut inde quàm] j]uri--p £5 vulva 1naà errata introducta e(ífenon
fit titm : Inter nen inn quz lllud
primum locum obtinet ; quodi infuf-- pun
gea. ^ focatione matricis ex retento femine, in matiriss| virginibus, et viduis ; internas vulva partes
;1n--[' ungunt odotatis cleis, ex
Zibeto, Mofcho,& fi--|' milibus,
aut peffaria talia imponunt;quibus,licet ob fuavem odorem, uterus füpetnas
partes: petens deorfüm allictatur ;
quoniàtm cunen et titillatio excitatur,
et appetitus Veneris promovectr;quaft in furorem viregineum coricitan-- p turmulieres, &à comprefhio ne
diaphragmatis retracto utero in proprio
loco extenfus, quaft turzente materia
undequaq; movetur, ac fynt- ptomata p
ropemodum ind icibilia producit; Le- fo
cetebro, et corde: hinc cordis palpitationes,
et fyncope, hinc pulfüum
deperditaiones, hinc:] dementis, lío
cerebro, concuffiones omnium partium,
convulfiones, et fimilia. Prafota- 153.
Quare pra ft arct fuaves illos odotes co-
tiséeze o X1$in párte internà prope. puderda alligare, quam onum
intrudere, fic enim beneficio fuavis olen-
! tie fruerentur,nec in illa tam magna incom- 1 | modi inciderent . r$4. Nutriquam faciem frigidà in tali
Cau afperzant. 155. Minüsautemodoratis aquis. r$6. Quinimó ne vino quidem facies erit abluenda.
157. Quamvis enim vini nonnihil vietiam
adapertoore infündi poffit; cum Hipp.Z/b.dc» | morb. mul. cra tamen. eodem tempore
malé ! olentia naribus admoveat, vino
faciem làvan- I dam non efle docet
. 158. TitiHationes aut'dieito
medioimpofi- | to, et perfricante os
uteri,aut aliis inftrumen- tis,ut femine
excreto füblevetur mulier,à Chri- !
füano homine omnino ablegentur . 1f9.
Quametiam ob caufam peffi illi ex ali- |
ptà, lienoa |Joe,eca ryophyllis, Zibeto, et fi fimili- Pbus parata, licet difcurere flatus uter:
valeant, !quin et fermen
promovere;quoniam tamen ten- J'tizinem
maximam promovent, et Saty riafim. fepe
inducunt, in hac fuffoc ationis fpecie ex re-
I rento femine non ita tutó in ufum duci poffunt, MEC Cerata ex Tacahamach&, Caragnà, fGalbano, et fimilibus, utin hoc morbo ex
re- litentis menfibus ob craffitiem, aut
putrefacts, llrron refrieeraris
excrementus, ac ex flatibus à Wl proprià
fede dimoventibus; proficua funt ; ita,
I[mb: ex femine.retento, et putrefacto ortum du- Ixerit; non 1ta fecura erunt, nifi cum
exftinguén- S ^ tibus lentia to
xis appli- canda . F scies frs
qida n9 æ fhergeda. Nec a-
quis ode- pyAf:'fe Nec vinos
Pauxilis viniconce dendum
mai? olem tiba$ na- ribus Appo-
fitis « In prafeos catis ex fe
mine reti ciéda titi latione.
Pe[ft odos raulpra- LUUD e
femine reiitiédi » GCeratæx
Caragna» galbano » gc. tpr et focatis (ex
f 1oine y. Gucarcoi-
z ZéLá. 1 " r&- /*
J« jocis Za d fit P €? ü4 E tibus femen,aut refrieeran
ub us; ficcantibuss uteítagn 15
caftus&« Sorallium»aliquid adjun- ol
1l ^ AX61I«. Scio multas, quo ri
Pe. ev t TE 7 emo NE S TEN in
locc Pp OpEh yretinea nhtL,Uu6 DnVItCLLiCA alieettio 23
x Ln en excitentur; hujufinodi ceratisex T
acahátnach uti,41n.umbilici autem, Cay
itate 11 1 f56snere q10n1 nponecie quo aut tria grana Mofchi: fe C 1 quàm ] ehci
fucceffu, 1 ipíz viderint ;ex calore enim corporis et lec elevatis bene olenübus vaporibus;fepe in
pi focaüones incidunt ., 162. Cucurbitule ut infernis parti ris, et coxis, quin et 1pfi publ appofitz
profi- ciünt ia reeioni umbilici |
Te» parte Obefle ic lent. adis.
In 3 Vero y ftot
A nx 3 - Q5 ; 1€ CX re tenti: d
inen 1 /
^14 e! * ^x/11133 1140 7 T gor 3 44A Cu iquo n yd. Xxumque appo lli 29 PP! OXAS bi
alliüi Lil 1 US E 1 lm. LJ Cc 291 Db 11C5 Li
Tas 13 EIU 3x4. 1 ders: s Lou.
PLUS 5 ctiam in par: X VilllO a mo s COI
LI » poris totus refrigeretur ;
Don j« LU 1n DatOoxy. Y ibe enda eft dili S4NIMADFERS:- LIB.FIF .281 T2)
166. Incaauteém, quT Cx Hagone ( Ag ine D o0» fla- T p^des v
ducit, cucurbitulà magna umbilici regioni apa ;;, c55- lic rel 3 toin (1617 qo ^ 1 : Prtifi » VCI intcf uroblücum E ul em
pl&G- as tadffimum;fi quod
aliud,remediun efleíclet. zza ati- ^
2 I67. Hac tamencautione,utaut €x aGUa
ca- 5/75. ÓH 1^ !1 »li "etr! . 111
"Y 1^ ' id-erxa30mnme 13 61 T5 bruvbpi-
ldáaapp ICCI1 L5 41 LCI m non nil m 19n€;, pocti- gu Ve» - : E ! "1 : nia : 24/3 7H inum jn pra pinguibus mullcribus . IH: a
255 1698. Sitex iis,qua perforatx funt
1n furn- 5 mitate. j : 3 m. d P m E di 1 2 t 5214 169. Diutius non permittaptul
adherere.ne, - - LI * a " MoqT1 48 Í3 t: 4 «1171 1^ 1 (11 ^
if impegito kA AlilLL 2 lllLUl £1l5| D I
|) ill «CC 2 ]I1lo 1$ ^^] v m lI13carr-
anmod alia p Qe qu oa n91 4Enaln CL.
aLLiI 3 quod et iiti LIII «idl . )Yali$ et j i j 1
Z»^r: I * f. Y
: | D, ! )! 3 * up 1410 J 420A A20 n2^77
0741147253122 : ] Lc 14154 E aud A40, i
AF LH222 07-1 A. MI e«LcoATL a Ter 4 Le
per mient e j«€?t E m,
Medicorum 1n partu naturail ; præ JÆcuncdi
, dicorum. Canones veró curationiim
omnium morboram muliebrium:
diligentiffimé -profe- cuti funt;
przterantiquos Patres noftros, Graz-
cos, Arabes, et Latinos, ex ecentioribus Mer- catus, Mercurialis, et Maftfarias ; fofüm
aliqua attingamad munus
füfceptunvattinentia . Obfetrici Primóanimadverto, et frequenti experien- £us non te tià Obfervavi, nons effe temeré
credendum ob- mtré cre- ftetricibus aut
aftruentibus graviditatem, aut dendil,
fea negantibus;,ubi agituraut de promovédis men- Mec Gus aut de fecandà venà ; aut purgando
cor- dd ed pore, ob urgentem aliquem
morbum; fed Me- Hla iljg,; dicus
diligentiam fuam adhibeat, conjecturis
expendos, 4$aG has cum dictis obftetricum congu negat, et agar, lufpenfofemper pede in re-admodum
judicatu 8 difficili incedat; ne, fi
dicta folümobftetricum, 1 aut mulierum
fequatur; nimis fecuré incedens, abortum
inducat;aut remediis deftitutam lan-
guentem finat. Obffetvici | 371.
SYumquamtamen in fimilibus cafíbris bus
sfferé aperiendi (untoculi, tunc fáné quàm minimum tibus fe- obftetricibus eft credendum,etiam
jurejurando tum mor- afferentibus, cüm
mortuum effe fætum teftan- P489 59 tur,
et valentibus medicamentis excludendum
ice . Perfüadent; cüm fepenumeró multas videri- erts mus, à quibus feet!m ramquam mortuum,
aut excludendim;aut, quód pejus ett,
ferramentis extrahendum effe cenfebsnt
obftetrices, et fub füà, ut ajebant;
conftientià jurabant, quz non., ita
muftó póít vivum,& bene valentem fcetiim
pepererunt. E HÁÉÓ
€ acerbit
ter efflæitant à Medi potrigant,
pulveres, decocta, àquás füllaauas
potrige endo : ; quibi 1S 1 (æp
Vta ate dol " utem non ita óbftetricibus; ita aures non f tirientibus, qui aifficatéa de partis ue:
Na orm commortz precibus inftanC1: K
datur, autirritata natul
tcvc T5 i 4*
n! dd i cit nac Ale
Ob hat tanta rtat undeaut acerbu clu(iis ante temptts à natura cotil fervet ndtur m fitum 1i 1C ipfam cà
difficiltàs, unt pra facile SENCASCI éit eben
; ut mahuüs adjuttrice
ftit n exe indo. ifaycun
laxantib P emolltentibus res erit triti fizenda ati folemus ad expellénd üm fetum 1mnor q mbus
tuiim; I74. aut fecur
Quod f 1 placidi ráfémpér in aum parturien
infantis éxclt Occidàtmus. 17;.
multerit neque i enim CO
ee A mentes; fueéverint,
énim fuübfequuntir fübv« alvus
xliquándo citatur : tó convenit, quód
dolores 1l foleant,n eet üm .
dated. ter er, nin dà
df no iearuue
I^ [ r1
aus 1ftofi uerih
n Ira 1 ^"r41
G "i 1 n
T u ;
ad]: imyoda arcu
CUUccl ! 11€ nfe t d bl
CX nil ^ Mc
À. a» V $^ CXP
^( 5 5 Xlt loratunm
laritm,d Da [im iciimque c
fiiper ione exl TÍI nc
primipatris 1s fi 1
I 1 uo
) JUS V
"f. Cxnh1Dc $ ventric lt s iabeamus, quar e fit; ut infans aut occi- "i tenifpus debituman- cegcto datur;aut ex- utum, non»
n partüs ad- OUS » Gt laln 11$ etiam ad hic eft venien« á UL. um ip: ci debebunp ivaré
» DC, 'élymus;, " li pfius Im, (ofüinia aut étiam ip d : noftris exhiben video n fluxerti
it,neque vc he venit: nire c De
"EPIIT fe pc LA o9 E |
CC 1l Qui DadIp iCrvenirc
non 283 P parParttut »o [rà Uth-
vA PTS á Medico ob fprttes
parturien I A7 Paviu dm
ains vt29 tja fati s
bi 07220 Et [cam dAs, 4p
20X1A . Fét& ex- cLedentt-
64$ QHA7 do dun; -
Qieu?n 4^ mys dali. |onü A par-
tu hegue femper,ze gue
ou Uentt s 4at6Hn)11-
? Us cg Febrttit
Li LoUs.a bart :
LI ag mut jeans [AU
* gz 4 [u- ht f par, 2
201ÉS e. gv i, - piod qua
purgatio C07 din et "i ndo
obofd, qu. ex £ontvoverY
fia b«c til lez d: a . exp eme.
A! com bue E )
254. LFVD. SEPT.ALII um fiuere velit materia. "176. Sifüpervenerit febris, aut
inflammatio aliqua, numquam à
fuperioribus venis extra- hehdus erit
fanis, qn dgad alu fentiant;ne »
retrahantur purgamenta: fed ab infernis fem- pereritevacuandus. M EDIOL.
: Aag pe ud De AMforlbis
articularibus.. 177. ( 7s Íciam
maximé. contre um efle, an incipi Sn
eplc varticulorum,potufflimüm.po ex ufu fit medicamento elective purgante
iid motes evacüarc, multis 1d
affirmantibus, quód ;, humores fluxionem
facientes evacuentur, re- vocentüf£, et ab
articulis, ad quos fluunt, rev Sy
lantur; evacuatà enim materias cn urnores fuc- céldent dolores ;& brev lori tempore pii
ura- bunt: experientiam bac inre
iunltoru m etiain. afferunt ; in quibus expurgatis
humoribus me- dicamento, et dolores
leviores fuerunt, et bre- v1evanueru nt.
B epugna nthuicopiniontali, afferentes,
ci dicamento purgante res ad inf
iürihantur,*« devehantur;, fpe humores
per íé € à medicamento com- motos
vehementius irruentes, majori etiam»
impetu, majori A ug et magis affatin
culos pedum ; et ad 2enua affiuere et vehementiores cfl dcc re dolores : et ob hanc
unà caufam, dicunt, et Galenum; et omnes
fcripto- restam Gf£zCos, quàm nos«
1 Á IT. [|
bns iiLilnoO4p 0339 Ccrna e a
SICQUuc 1ad arti-4 *
Maurit 2QI3060S C lat IOS. m e Crraturos;cu dloribus adfit et expellentis ; à UCTIt COp1a ANIM ADI
Dæiscommendáàfle evacuationem factam per
contraria humores eoe £T? L|
ime. Cij us i cum dili- Zenter
caufam 1inveft1io irem; ceno
iictl1onem hacin re QC materias
Savocare,1d vero au
IDnatcria
inque'qdquandatrate La ad 111a: RQARSM VEPPE erimenta;
ul ex] crie tà cc Ec Cas a l11q
l 3 M
ic fiuens 5 CX 3 'Clilltas recipientis de,ant rob:
controverfiam .düàn fias
evacua dà ex £diftin- 2uluc ho . )pri - ü1m. i8 mS "m pr E E ", 26. LED. SEPT ALII MEDIOEL. Ead ut ex fignis debilitas arücnlorum.
Facilids Gxtvonviip autem difcernemus,
an purgante medicamento ^...
utendumfit.an abftinendum, ex experimento
facto : fi enim femel aur itezum tentatà purga tione, &ingravefcant dolores ; et diutius
per- durent, ab illà in pofterum
abftinere oportebit: fin autem melius fe
habuerit ; aut faltem bre- vicr faétus
fit morbus, omnino intrepide erit corpus
purgandum. Purpusio x79. Cum vero, fi purgandum eft; in
princi- zpwdsgra piold faciendum fj.
freftra preparaturfytupis cü facit.
materia; cüm nec putrida fit, ut: cocticne indi- day etl l4 coat; tantem aucferofa., et rennis,queftaum;
Us um [466 expureari poteft, Galeno
magiftro, Jib. Qwoss:. 9 | da, r Qj
quatido purgareéxpediat, avt fané bilicfa.; te-
ph wv^^^ quls, non potrida, qua facilé expurgatur;nec. |? Becy)wM coctione indiget, quód fit fine putredine:
cum. |. "von netóf v tamen craffa
aliquando fb perfit præparari po- pc
terit, et atcenuaris ut facilis, fi non refolvatur Acum per infenfibilé evaporationem, cvacuari
pofht . 179. Miflio (aneuinis per fectam
venam ut / : A T7ÉATCUAAMA . Ppodagri "- A 1 É - : ^ dg quA A: gmaxll ne lauda CUT, ad praca
vendam podærà 5. MN (C sis - |
JC -irgdus, goinefit refertum ; et ad eandem curandam, ft. |! an guin- bumores mixti fint cum fanguine :
ita fi fercft: [uy jJ" dozen.
fucrint humores,& frigidi, &frà parübusexe-- pu cernis capitis defluat materia, fruftra
tentatut: pni tale remedium, quód.
habitum corporis refrie- | ecret, et hujufmodi
humori: prftet occafic-- [1t nemo . Pedaga X80, Quin ubi frequentiüs hujufimodi pce] dagrice»
[q" ód crudis humoribus tunc det occafionem 5q« |
elagricz acceffiones homines invadunt fie piüf- ^ f | quealiquem affüixerint, nifi fumma adfit
ple- vei fim- Initudo qui alis
inebriofis, et vinofis aggreearl,,;, ji
e | folet, hujufmodi remedium
erit omittendum, tendus uius /feffatis
d vvv eL- eda | habitum corporis refrigeret, nec curfum
hu--* yis | morim extra venas«ohibere
poffit . E- $1. Repellentia quamvis
paffimin princi Podagre | p1o,
Ccvacuato tamen p rlüs corpore aut fangui- lalerax f | nis miffione, aut purgatione,
commendentur à £u ridiou
Jaffirmare,raró tutó in ufum duci poffe ;. fi enim ró Con"ve- ntt Í
.lidolores vehementes articulorum non prius ps "6o | zefícunt quàm ubi :materia illa maxime
calida, i'Galeno, Acuo,Pau lo,&.
Ceteris; aufim tamen. Jeztia va Lin. hu
C34Y ^ ad externa prol. abitur,
tumorem, et ru Pocos Y m 1p partc
excitans,quc modo repulfa refrigeratis »«Æ clot | externis partibus non morbo occoficnem
augc- | bit; exitum impediens ? Quód
fiadítridio Ten hleigendes | pu lion
juncta fit, magis eriam ledet .. Sed ve- -
| 1o jam ex parte f'uxa amate ria dolorem excitás, | nonne etiam, fi cà ref riger à dolor
imminu: tur, craffeícet magis, magi f ue
impingetur; et 2. ad fubind e€contumaciorem mo yrbum efficiet? Non
po P» nifrigitur feviffimis doloribus ;
omnem ad fe; " curationem
trahentibus, verisrepellenübvsu- J| C0.
LL a. remur, frigidà, aceto,
farinis admixtis, pfyllio, lenticulà
pafnftri ex aquà.& accto.& fimilibus;
Securius eft oleum rofaccum, quod vocant Com o dos. "- pletum, quamvis enim refrigeret, et alique
eec. modo repellat, vi tamen olei
laxante tranfpira- c^ tionem non
impedit, neque partem conftipat;
atit [Let ano WSLGii
quatre prat joy: !]
-! * v cr
el Tn ex Cut: $e),
LC piam 2! 36502
( 3 Í
AG eui; articulos po X |
^ CAT. Q. C )
" 4 A do
fricart'r,; 1D ^47 03 Li
Ü no» "
4 l (t, difcutit nre
iatiifa P ter
praulel-. 1 IOX123.». Ep:
1,€0 nequaten ^11 v
emm Ve V (
nimad A Pa
P Oo ^et /
Q "C e E tS. EUEM
u pti b tione
ir dolores li1ttt 1
wi n iupra mí
tis enim c [ 2,11.0 n
di aue huimo* 1naíor
1 Of9f! C | p
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6€ co" ^nbi 4 LI
L idià 1
* Qu tentia, et el
| "11 ET A A.
7 [2 ris.
(:3Hs^w1S I UETTICIL
soni e «&
vix falfedo oleo communicatur, foleo ego fa-
lem tritum M A EERATE in vini calidi leviffimà poruone pat] aum colliquare, mox falem
illum | cciliquatum affidue fpatulà
cum oleo agitare »; I et ficoleum
falíedinem contrahit: Velin fübti- |
liffimum pollinem falem contritum, et oleo ad| mixtum femper ; antequàm 1n ufüm
ducatur | dilicentcr concutiemuls
. De AMorbo Gallico. - ^
136. N Venereà hac ]ue cura inda multa fa- À néannotare potero, cüm illud veré af- firmare aufim, poft delatü à novo Qrbe ad
nos I| hunc morbum, me fortaffe multo
plures hoc I morbo laborantes curáffe,
quàm qu ifquam. alius, quód prater innumeros in magna hac urI be paffim
curatos, per quadraginta annorum. fpauum
magni illius Hofpitalis Brolii,in quo,
ll folus 1s morbus curatur ; et fzpenumeró vere I folo fepringentis, quà decoctis, quà
inunctioni- l| bus, et fuffumiegis
curato adhibetur ; reliquo vero
tempore faltem ducent ex ulceribus femJ| per crrantur, purgato diligenter
corpore, et Ili multis etiam et pulvifcul
1$, et elec tuariis,alexipharmacis praterea exhibitis ; curam in adole- fcentià mihi demandatam fcmper retinuerim., et adhucin hac tate retineam, ob FRUIR
cau- fas ; rtüm potiffimum, ut
adolefcertes, et novi- tiosin hoc morbo
cerrando poffem exercere ». Vnde
cuamanno praterito ; multis poftulantiT bus,
adzmifce- tur s fi fal oleo no?»
qa 77 1777 2 idus 04 Lol CÓ voa /
p Æ ra pn. Gallici morbi cu-
ratio du clort Quo- 7modo fre-
quens, c in ea mal ta obfer-
vare quo- 72049 po- tuerit.
mw M A MorlLi gal ]l:wei cura-
20 diver- f?» morbo vix 1-
€boante, FR mento aliquo
füperficiei penis, atit feminei pu-
0e bus, diebus, quibus à
Moralibus,& politicis ii meis
lectionibus vacare conceffum erat ; pluttbus fermonibüstotam hanc de Iué
Veneftea tra- étationem comprehenfis
fum. Ex quibus ali: qua, quain curatione hijus morbi
finguilaria occurrunt, excerptà hocloco
annoranda miht fumpfi. | Primó ieitur illud annotandutm;non
eándem eífe curationem luis hujus primis
diebus com- municatz, et übi altiüs
radices egerit, fedém- que, quam hepar
femper cenfüt, occupaverit 2 . ^oi ^ .
. A fiepé enim malà illà qualitate
mediante recre--| déndi;
communtcatà,externas folüm partes oc--J.
cupat; ulcufculo cariofo, aut fimilibus excitato; quo exficcantibus curato, aliquando
penitiorés partes noh attinet, eu
occafioné neque mittendus erit fanouis; néque purgandum corpus ; 4; ne, quz externis partibüs folis adhæret
conta: cio;agitata magis diffundatur,
magífque ad in- terna trahatur, urndé
veré morbus contrahatuür Neque veró
timendim eft ; ne contta medica-
tzcepta agamus, quibus cavetur, ne umquam localibus utaviur,anteduàm erirverfum fit
inásJ, nitum: Id enim veriffimum eftin
morbis à cauw si interni ortur
ducefitibus, non autem in iis S &.
qui ab externis ; tiani 1m miorfü venenatorutns] 4nimaltum ómninoad externa evocamus,
fiftt] mus, acad cutem trahimus,
denique non. pürn camus; ut comode in
fcabie recenter ccntadt . ^, ^. » - N
. 4 communicata, in quà fxpiffimé citra
purgauea ncm ANIMADFERS. LIB. FII. 394 nem cuti emendanda, et fcabiei tollenda
folüm unfiftimus . 187. Neq; tamen placet,quod ab
Empiricis paffim commendari video, ut
indiftin&é qui- bufvis cibis ; et cujufceumque
conditionis utan- ' Iur, multaque
paffim ingerant, poriffimüm ubi
I:bubones appareant, nec ita facilé eleventur ; uomodo enim naturam opiailantem ad expul f1onem habebimus, aut ad foi
confervationem, fiillam multitudine
ciborum;aut malà qualita- ite
cbruemus? Át neinecià etiam macerandum
eft cor pus. neinternz partes 2]imento
debito deftitu- Ita, ab ambitu corporis,
et externis partibus at- T
trahànt. 199. Exercirium, quod alii
injungunt, po- tiffimüm in bini bone
promovendo, ut non pof- fum non
commendare, ita fi excedat ; f peoffi-
'Teere poteft, apertis nimiiim meatibus ss ex- 'THhaufüs intern2rim partium fpiritibus, quà
oc- Ieafione virus exrernem fepcad
interna remeat: "FQ rows ab
exercir1o füdor promoveatur;abij | fter. 'ebet. neaperiis meaubuscumrecremen tis oualitate mala infectis remeet, et interna Tinfciat.
| 190. Átveró ne decipiamvr, dilieentet in» 4 carie apparente obfervandum eft, fi à
congretfa Babont- bus nàe-
XL bas $ n0n "male ta ingeré-
da,neque quibufvis vefcendti,
cotra Em pirieos . Morbo gal
lito. in- ChoADte » tenuis vte«
? malus. Gallico 280t 0 12
cboante exércitim valdum
fap made lssta Carte gallica atpaI4 Venerco p er
quatuoraut quinque dies caries i]- rente; T
f laar paruerit . creffn tempcris : fi
cilenim primun 4 efle ex fordibus
communicatis, et tunc nullà 1 a prean
po ;tiüs sr illud evererit,fionum
erit,crram mode tr& "7 enda
DEAN c9 06? &n1//€ . precedente corporis univerfali evacuatione
s exficcantibus folm totum negotium
trarfige- mus: fi véró ex labe hepati
communicat illud fieri judicabimus,
tuncevacaato corpore, ale- : xipharmacis
rem abfolvemus ; ingow- | 191. Sic&
in gonorrhoeá procedendum:ali- vhs (^
quandoenimà concubitu ftatim evenit ; validà
$0763 49? exi(tente natura, et ftatim propeliente per cam enodo pro- artem virulentiam contractam; et tunc
nullo cededit « ; f à . à modo per raultos dies erit cohibenda, fed
finen da, fübluendum folüm quod adharet
. At pro- erediente tempore fi non definat;aut fi
novum. aliquod fymptoma füperveniat jam
providendum eft fedi, et evacuato corpore ; alexiphar- |j macis edomare vim morbi, vel potius
malamo qualitatem tentabimus . Quomos 192. Idemin
bubone apparente:fi enim pri--] do
proct- mis diebus apparuerit ; quoniam robur arguit] dendw
fAcultatis propellentis luem illam ad ignobi-4. £2
€/4* lem partem, omnino actioilla eritadjuvanda ;4, fione, bu-
&one gall £o appare gt.
nec purgatione; àut faneuinis;miffione evacuan düm erit corpus, ne revocemus naturam à
mo- tu illo : et fiepé talem
evacuationem aperto bunémque virulentiam evacuáaffe. Ya 193. Obfervatum tamen eft aliquando, tan) 32 bubo-. ^ iyole humorum premi naturam,&
adeo craf! ze contu- à snati alina. As aggrediatur natura tale
opus,fuccumbat ta ; men oneri, nec dd
elandularum locum poffi!] purgandi . à
: materiam totam propellere ;
inchoatumque- J opus COYbM S »
(4m, et contumacem effe materiam, ut, quam bone totam vim morbi edomáffe conftat,
ome«4 y | |
opus relinquat ; 1n quo | I fum,füblevatà
naturàà mole, et farcinà, eva- | cuato
corpore, foeliciàs omnia ceffiffe, tumo-
! rem in debitam menfuüram effe elevatum, et ! materiam duram, et contumacem ad
fuppura- |! tionem effe deductam. nj X n
r2 . * PUO I r^ ood ac
NLLTTISSERPNXEMS LL LS ud cafü
fzepiffimé expertus 194. Vbi virulenta
bac qualitas fedem jam| occupaverit,& morbus Gallicus jam factus fit, | radicéfq; jam egerit; edomari illa debebit;
atq; " . * . * N alexipharmacis evinci: expurgarr autem
ante | corpus debebit, fed nonab
initio folis lenientibusagendum ; cüm enim ii humores veram» coctionem non admittant, fed in eo eenere
fint; | utfolàüm pre parariad
evacuationem debeant, I lenientibus et abftergentia funt
adjungenda,& aliqua etiam veré
purgantia;fed in minori quan ritate; et hzc
veré funt minorantia . 195. Quin, fi in
aliquo morbo, in hoc maxi- mé
validicribus eft agendum ; tum quód fpé
rebellis,& contumax eft materia, puta, lentas; et vifcida, et fzpiüs adufta;tum
maximé,quia, cüm per exrerna
prorepferit, et jam bonà ex parte extra
venas ad carnes, et folidas partes
pervenerit; non potcft nifi validis medicamen- üuseducd.
196. In decoctis pro diluendis fvrupis;autin fyrupisipfis variis pro varià materlà, cul
potif- fimüm infidet virulentia illa;
femper admifcen- dum eriraliquid ex iis,
quz alexipharmacá fa- cultate x j a"
Gallico »orbo pro greffo pur
ga ndum In eallico morbo 15
principio lenietibus abífergen
I7 N72 ganrtia ad i 06A o
In gallico mo bo v4 lidis pur
qantibus ACenatmm, T e Iv fyrupis
pro morbo gallico zd denda 4-
lexiphar» "afa. na,
aut faponaria; ex quorum ufü.fepiüs exper-
tus fun, poft repegitam purgationem ; et mul- tos affumptos fyrupos adeo imminuta fuitfe
ac- cidentia, ut mult fe jam
convaluiffe cenfentes, cztera auxilia
refpuerent, X ni(i admonuiffem;
refractam folüm effe vim. morbi, non. convul- fam, vix alia auxilia amplius admififfent
. Pilula ia. 197. Poítremum quod in purgatione repeti» fine perga c fumitur medicamentum, placet
effe in formá 10515. 12 /fo]idà, qualia
funt füb pilularum formà ; quód enorbo
gel Sc) longioribusattrahant, et fi qua à medica- licobF^f- entis, aut (yrupis commota fint
recrementa»; rehda . facts ooi dd
cs acilius poflint educere. Syvupifol 198. Inrepetità preparatione humorum lau ventt$ i? doadmiícerefyrupos
compofitosfolventes ; ut gporbo gal
fyrupum Montani, de fumarià compofitum,de
//^? ?"* bolypodio, decichoreà Nicoli ; vel Gulielmi ; dans e. :
tiores, et pouffimüm Maffarias doctiffimus ; neque enimimpeditur coctio;quz nullibi in
ta limaterià exípectatur ; fed
paulatim. prepata- |J tam materiam,
cui virus infidet, evacuamus. Palvfcu
199. Quinimó,ubi maximam fupereffeads li
fc!ve- Syacmaterke coplam cognoverimus, optimtrm. 26$, (9 e Eg uo
wiain alli : atico ANT ^ir n 2 5 rs,; aut fuffumigia, pu 'vifculis, aut
confectis ex! znendaz-: folvéntibus
paratis ; Senà, Mechoacano, Ziapro varietate materie, quidquid dicant recen- |
; effe cenfeo, antequàm ad vera
alexipharmacaz.] véniamis,potiífimum
autem ante 1nunctiones,,| lr. lappà,
Turpetho, Hermodactylis,& fimilibus,
: " s *À ^ pro varietate
materie exuberatis; add1tà zqualiferéad omnia quántitate Sarzg panilie
pulvee;] I1z4l4 5 NT € B t " tC s e
ais tunc SDN a. «i vta lora sow ruis cate Se 0" ANIMADVERS. LIB.VIL a9$ d rizatz, exhibitis, materiam illam
imminuere 5 uc qua rel iqua erit, aut
per fudorem propelli poflit, faciiufque
dieere e per univerfum cor- | pus
difpet(a edomari, atq; evinci ; aut f1 per os
expure zanda fit, peculiari argenti vivi faculta- | te, mole (uà. no * füffocet, aut gravi
(fima lla; | quz aliquando folet;
fymptomata non inducat. 100. In decocüs
ex 1is paratis, qua alexite- Guaiacs |||
ria facultate ; et antipa thia quàdam virus illud fpecies. in | evincunt,.& ex corpore pellunt ; ut
quod ex vagos || Guajaco paratur ; primó
veniat cófiderandum, 7 Mola illüdque p
rimüm animadvertendum, non effe Ie illud
inufüm ducendum, quod annofum eft;ni- i|
miscraffos truncos habens; ataue peromnia,
i| vetuftatem Niediolebes quod paffim Empurici fa- i| ciunt, utacrimonià illà perfectionem
medica- i| mentiareuentes a2ris (uis 1m
ponant; cüm calor natur disin tali ligno
jam fere fit abíumptus,& .|| vis
ejufdem effeta dedidit ta; Vimoiridum (hbétantis yn oleaginofa pars abfümpta, aucta
ficci- | ta5 » five potius ariditas fine
pinguedine ; nam. | ob has caufas,cüm
multas partes terref fttes de- i| coctum
rale habeat; numquam clarefcit de ter-
j| reftres iile partes cama wifteritate quàdám acres yh eram pe: (entiuntur 201. Neque tamen etiam truncos illos mi-,,,
;,.. (l| nores laudo ;. minimus cnim
illis ineft vigor, et,,,,; i»- Ji calor
h uoi litate füperfluà hebetatur, et fücitlt 2, 4;d;i . |i tas illa à tota fübftangià tamquam
in-infante eft imbecilla . 202. Efttamen fpecies quedam Guajaci que
Gaaiaci 4 n'meGsaiacs, LÀ
b. 9^. dass EL. 3 eie W numquam
in ufum ducenda eít, qua nierorem.» cis,
c VErumin medio non habet, fed colcris cft íub-
sb Obícuricum quádam viriditate, que decc cvm decoclumy facit omnino tur bidum, quod
numquam clare- faciens, fcit, tum maximà
acredine et in eulà, et fauci- reiicióda
. bus ardorem excitat; ob craffas autem, et terre- ftres partes majori ex parte in fplene,
nonnum« quametiam in hepate
obftructiones inducit ; Empirici
fylveftre lignum fandtum appellant fed
cüm apud fcriptores nullibi reperiam dupli
cem hancífvlvef tris, et domeftici differentiam, potius ratione foli has qualitates acquirere
cen- ferem. Guaiaci 03. Ánimadvertendum etiam, ne aut
m» Jobs neq, ciafiær particulas, aut in
nimis fabtilem pol- erf ]inem minuatur; illud enim impedit, ne
virtus fi (nes ligni bene aquz
impertiatu IE hoc autem efficit, Sec 7?
wt difficillime clatefcat decodhum, fed femper
^' feréebibatur turbidum, undeobftructiones in fplene, aut hepate. Virg opi . 2104. Abfu rdum eft, quód viri
quidam alio- mimatc- qui doctiffimi
etiam firiptis editis cenfierunt,
"4 »1? ^ yon poffe fieri decocta ex vino,aut faltem ex v i4 12745 et nof, fed infufionem fieri debere ex
aquà ; qan OR Harc diutiüs Reb ime effe,
adden- Fives dümque in fine vinum, quod
hoc cenfe 'antine- : ptam effe materiam
infuftoni; quodque tamdiu cxcoqii
nequeat, quamdiu opor teretad clicien
dam Enc medicamenti : certum eft enim, et in chymicis extractionibus experientià
come probatur, nihil effeaptius ad
extrahendas me- dica. coéiis 1n
Idicamentorum facultates ipfo vino, aquá vini ; I& aceto; quód igneis, et calidis,
fubtilibut que partibus renitiora queque
permeans ; intimi rem ise Kun facultatem
pcterit extrahere; et lin fc concipere
: verum quidem eft, non adeó longam pau
coctionem, f fed aut longà infufione id
compet fati f let, aut in d ici vafe folet ex-
Eoqvi. Parare ego decoctum foleo 1n morbo in: 4^ Iveterato, cum mal VRRBET- : » materia
frigida pr dominan te, ex vino; quo
aliqucs a pud alios tos ertcéte curavi.
Paraturautem hoc ; ea infufione
corticis ligni fancti OpUd C | CI:
ihmodoe: iml,cra de 'contufi
unc. xviij. in vinl alb |ppem |, ut gt
od dpbdfid Vernatia dicitur;boc- ica æ
Isn (catibos decem et octo / funt auteni:
Ilibrz medicineles xxxx1j.) per duos CES exca- lcfacto prius vino, et femper per duos illos
dà lin duplici vafe, vel cin ribus cale:
16d í lento iene vel in duplici Và apes
IÆ n- ilfüumptionem rertic partis j quo
utàturagrotus li& mane loco fv1 upi,
et c pro potu in cibis; fümet NEN ac mier Mr nh ie ds mne iid Imane unc. v1]. pot ram proliciantvr
fudo- Dr t (d les: in 'xceda linc.xiv.Vti D
' the [0] M
'O autem, et 1n ceena » nOn (
vid a 444 44 a u-ipett rt oo
i i(Timum eft etiam 1n1s, aui inunctioLE LULA 48A p M [A Jecoloss Jo üraaadà
fzve P T m » medi [^ bro xir
? gallice . erdum "Y Ie factà ex vicia: v1vo non C nvaluc
nt; I& portdoaliqua argenti vivi
relicta eft in 76 c; ada
"More l^ 2o«
Sunt,quiutuntur dccocto folvente ex pc;
I3 ta1aco, Sorzà, vcl etiam Chinà, ex Sen, 5 Il'urpetho, Hermodaéctvylis ; aliquand
iaim lveratro ni2ro,additofemper
carduo benedi pL ^ yo 12 Hil
quA, Sudores proliciedi
aat i2 by- pocaufto., aut in le-
&o, fed qu4 caH- t0 ad pibe
Ev1tbora- feriis t5 calidis c
fiecis na- furi utem dum. Inter fa-
dandum nó freque fer purga
dum. Sudores 3 0an a
aff umpto ie i^ favo EI
lici odit. Chin ras ut Brafavolus, et Matthaolus, et aliu. Hzcía- né in robuftiffimis, et quibus fuüdores aut
non» profunt, aut pr olici non poffunt,
meà quidem. fententià, in ufüm venire
poffunt:fi enim pulvifcülis, et clectuariis aliquando, fi non ad reftineuendam,
ad imminuendam faltem labem feli- c
fucceffu utimur, cur id etiam cum decoctis
praftare non poterimus ? non tamen adeó eft fecurum, cüm aliquando infequi foleant
2ravif- fimz dyfenteriz. S PIER 206. In fudore proliændo, fi fponteab
at- fümpto decocto non fluat;uti tutó
poffumus aut DX poca ta aut capfülà cum
1gne in lecto : fed n pofteriori hoc
diligentia adhibenda eft, mu- cda effe.
liftéimina,ne fordes infecbz jam ex-
pulfz iterum remeent, quodà paucis obferva- tim vidco: quapropter hypocauftorum ufus,
fi tolerari poteft,.multó tutior effe
folet. 207. ln calidis, et ficcis
temperaturis, et e- maciatis vi morbi,
füdores commode evapora- torio
proliciemus . 208. Vbifudores commodé
proffuunt, non. adeo frequenter
intermediis medicamentis cor pus per
feceffum evacuabimus; revocatur enim
liumoresà füperficie verfus ceatrum,impediüt- que faltem,aut difficiliorem proptereà
reddunt füdorem, corpüfque rmbecillius
faciunt. 209. Non ftatimab affumpto
fudoriferoat- te promovendurs eft fi
üdor, fed pel th Drop ln- tercedente, fi
fieri poflit, omn ? cec (Krnon. 210.
Inradicis Chine decocto parandó,cüm
foleant, tid ih £2.
9 !foleànt; fi recens fuerit; et noncariofa
; unciám unamillius in decem librisaqua,
vel fi felecta non fuerit, et antiqua,
duas ejufdem uncias 1f libris duodecim
aqua. excoquere; multi etiam. * cf mat ote Ritt i a ent ehe aaa tg ERREUR Yn,
^ /^ ^ Cem cAvi^ 0e. 0A
P ili v ü. à (a0 Á& foe *
/ 299" dicis deco
&o inpa- rando có- munis er-
ror MediMedia, ut nimie impente rationem habeant ; corum. ! cüm multi totam illam decoctionem unicá
die» abfumere nequeant,vercanturautém,fi
1n alte!rum dicm confervent ; né acefcat, dimidiam Chinz ? portionem in dimidiatà aqua quanttæ te excoquunt, et aut dimidias, aut duas
tertias confumunt, fic cenfentes et indemnitati
crümee . le confiluitfe ; et decoctum
xqué validüm pàá« | raile: fed maximé
decipiüntur,& (1 suftüs udi I cium
non fübtraxerint,facilé coenofc ent, poten
ius multó effe primum illud decoctum ; quàm | fecundum; et rauo * in A Don a: tis eft dari proportio ! | fpectáidum maxim éte 'mpus coctioni js
«& actio-, et reactuonis aquz. m dca
chapa aquz communicandam ; cüm l| quatuor, puta; horarü fpatium intercedere
de- | beat ; quantum confuümetur in abf
ümendis pet I elixationerm fex, aut ock
| '] diatà qu: intitate im cià, libris fex aqi ue, dimidium c
ytiftittiere finà- v Lert e irtes,m ino
ride ) qti: I nis caloris igni hendam enum facultate: &- ficcifIima, et mtus; aut du
duarum horarü al ni 19nls
I cere
]
1m IAdl1CI1S ad libris
aQU£s:; pofi C hin: ilente ? Nequ Ie vc eró quis di- is quantitate, et | magis lento igne fi fat €oslio; poffe nos
PM 'eTow etifcer«
au deat, da incommodo contrà
venire : nam ad extrahen- ; e. . A E dam
vim hanc ex folidiori fubftantia, debita
quoqueignis quantitas concurrere debet . " x P j . A 2aw. Sar[opt'i yir. In Sarzz parilie, quam in edomand$ rd
7*-Gui^i (enpertenere cenfui ; decocto, illud obfervans (ofa. 9e Qeeacls ; (L84 &£« de «Af liz decotlo hac ]ue, et fuperandis
fymptomatibus primas prs seper . €? dum, numquam folam in ufum ducendam
effe; uitfíceda. cüm enim laxante quàdam facultate
preditas fit; et fapore fatuo, adeó eos,
qui illà utunturj, naufeabundos reddit,
ucob imbecillitatem vi- rium ex ciborum
averfione multa illius ufum omittere
cogantur; adjicienda igitur tertia, vel
quarta pars ligni Guajaci; quinimó apud nos : Mediolanenfes decoctum Guajaci folius vix
in L ufum duci poteft;ob temperamentum
calidum, et humidum, et ob hepar ejuídem tempera- tura.
pisa deci So Obfervandum autem, cüm zftate pa- d ds, CAtür, cumminor quantitas decocti
paranda» 145; fit ; majorem effe debere
aque quantiratem, EY e . : A "
" ci msior; quàm hyeme; utloneiori
cocturà tota vis Sarze guiatita.
communicari poflit ipfi aque ; nam quemad-
'e 4444 modumin decocto Chinz dicebamus, non fo- fier? de-. ]àm eftobíervanda proportio aquæ
ad medica- et » C menta, quz fimul
excoquentur, fed etiam pro- ENT portio
temporis coctionis, tum ut communice-
tur vis aqua, tum ratione actionis ienis calidi- tate et ficcitate,tum reactione aquz cum
humi- ditate, et frigiditate. Guaiati 213. Curautem Guajacum, cüm durius
fit ; deccéluno ex Ííolidius non tantam
aqua quantitatem exe» poi1cat; "ML AM ^ " - Vr ennt ir a ier ardere o eel ai Tees nma
ra cx c ESL 1T 3ci
Ipofcat; nequetam longam cocturam pro extra- Ictione virtutis alexipharmacz,ut China et Sar- za, fecüs quàm cenfuerit doctiffimus Rudius,,
[qui temporiscoctionis rationem non confidera-
vit; in caufa eft humidit: 1s Mla ærea, et oleagi- Inofa Guajacd, in quà potiffimum facultas
illa, álexiteria refidet, quz facilis et
extrahitur,& Icommunicatur aqua,
quàm qua in Sarzà eít | quz quamvis
rariori fi fübftz ntià, et minüs fo-
I1idà, ex(ucca tamen eft, et arida; et in hac tcta. | pofita eft facultas S Sarzz. Chinat tamen
multó | majoriindiget et aquà, et cod
turà tum quo- | niam duriffima eft, tum
qu1a;,arida cum fit,nul- Ilametiam habet
oleæinofam fübftantiam. 214. Sed quoniam
fepenumeró evenit, ut aliqui vel vi
morbi;vel procraftinatis remediis; vel
Medicorum infcitià,ab hoc morbo macera-
|! ti; et ad extremam tabem deduc fint, ut nulla amplius f fupereffe falutis fpes videatur, ne
etia n ope medicá deftituti remaneant,
remedium quoddam proponam, quo quàm
plurimos ex | 3isad optimum ftatum
deduxi, fimülque viru- | lentiam
exftinxi, &àtalitabeomnino curavi. |
Eft veró confumptum quoddam;quod folà ale-
| xipharmacà qualitate;fine fudore ullo, fed me- I eliantibus pinguedinofis carnis partibus,
ali- '|! menti vim fumens, et in
fübftantiam aliti ver- '] fum, et vim
illam virulentam evincit, et abfu- |
mit, et fanguinem eenerat alexipharma ica illà
'] qualitate præditum,ut malàillà iqualitate : l- | tà, inaliti bonam fubftantiam vertatur.
Sic autem t Ó'
P €HY foiads
longa €p- ura igo v 1
at, cum düritás fit Sar[a deco i mira-
bile adta &idos ex »jorbo gal
lico. gebe bk echt Px Anat
- Inte; ;o0. erswxbÁma autem
paratur: Rec. Sarzz pàáriliz electa mi-
vi tola nutim incifz unc.vj. infundatur per horas vigin ad feq mac .ti quatuor in libris quindecim
aquz calentis;ita E 1 utlenem calorem
confervet, et operculo bene occludatur
vas, mox lentoigne decoquatur, it4 ut
nihil exhalet, donec quinque libre abfume
pte fint, et tunc cochleari perforato extrahatut Sarza,& tundaturin marmoreo mortario,
moX eidem aque reimponatvr ; addendo
carnis vi- tuli macrz libras tres,
feminum coriandrorum preparatorum, unc.1,
aut eorum loco aut ligni (an&i rafi
tantundem, aut fantalorum citringos rum
minntim inciforum drach.1j. pro varià ho. ft
minum, et przdominantium humorum condis : [| tione, et benc operto vafe ; iterum
lentoigne»] fimul ebulliant, donec
remaneant libre quin--[" que.&
in fine aromatizentur cum drach.iij.cin--[
pamomi electi mox fiat colatura cum fort! ex ar preffione, et refervetur in vafe vitreo,
vel vi- Jud del cov - treato ; de qnà
furimo mané per quatuor horassf i emat -
apre cibum capiat zegerunc, vj. aut vij. vefpernp autem iiij.aut y. unciasante cenam, vcl per
tre:gqi horasanté ; aut fi tempus non
intercedat come modum, immediaté
antealios cibos: quód fij * inaftate
verfemur ; autfebris hectica adjunctaqlut
PeaL' ve tulelt fit, fimulcum Sorzà parilià indere foleo hordesphar 5 excorticati uncias Mij. atque in
affumptione-Jpt uri huis decocti per
quàm plurimos dies perfeve 3 geb m AN
randum eft, jitaut ad Centefimum quandoqu qd j ote
dicm perveniam. 11j.
NNonomittendus hoc loco ufus altering
decoch ANIMADFERS. LIB. FH.) e
inecocti alexipharmaci fa icilé parabilis; pro pau (p fperónth Iperibusoptimi, €x fa pon: arià, herbà
vulgari; et safor A omnibus notà,
parandi ; quin 1n conturaciffi-- ARN mo
morbo áliquando u fus fum eo, felici fuccef-
lusfed guftui inoratum eft; et propterceà páupe- - libus refervatum . Accipiantur fapona js
viri- afe Iis M. 1j. infundantur per
noctem in lib. viij aqui mox excoquanttur
ad coctura fàpc nada Lteinde librauna
cum dimidià aquæ cum herbá jam coctà
excoletur cum expre flione, Q )uz Ire-
lervétur prof potione matutinàad fud resp roli- (ad Iriendos, fum endo uncias viJ.aut viij. quod
ve- Iro fuperet rotulvereRor cum
paffulis;autfa iccha- ko, pro potü cum
cibis; æftate; et bilicfisratu-
IKis;addi poterit aut fonchi,aut cymbalarie Mj. "Valet et pro tulieribus ad menftrua
alba ab- » hé frt. i fiimenda, cum
M.s.cvmbalariz; et addiro tan- ma es nl
iirundem filipendulz.Inventum ef efttz apate;Em- aliscmatlo. ipirici Hifpani. Egoautem fzj pé ac fe pius
illo Rifus fum. Doct &iffimu s
Rudius meus, /jb. $.de2 aptorbis
occultis, 4?" venenatis, cap.18. de Sapon:
Aria, et ejus decocto facit mentionem; fed vereor féum numquam ufum efTe decocto ilo;ctm
pu- ipeillos vj. decoqu átfaponariz
inTib.xvj.aqui ad Mdirnidias ; cüm aquz
ad fapcnaria m nimia fit pqtianutas : et
quod majoris eft momenti, tenel- Aa
herba virens non 1nd ciget tam lone elixatio-
"line, jienéz enim et acrez partes c Iuninc evane- cent; et in nihil iab ibunt; in quibvs
temáhn "héértum eft, vim falteni
fudoriferam «ffe pofiZitan V [ 116, Eoi4
LED. SEPT.ALII. MEDIOL. Avv 7 216.
Eorum,quz ex argento vivo parantur, A
JO» medicamentorum due cüm fint formule; qui-
tod bus vim. malz hujus quahtatis ; qua 1n mo rbo ef gnenta ai Gallico reperitur x cw ref.
lemus, aut é cor- 4C in ufum pore
pellere humores malaillà qualitate infe-
duci pof- ctos: quorum altera in
formam fuffumigiorum, 5 Boa. /5* » €
altera inunctionum applic ari folet. Duos hos
dii quando. remediorum m: xlos ad
evincendum hunc mor- 1; bum experientia
Haygptossesubis magniquie jut dem viri,tumexantiquioribus,
tum ex recens |t: Dbys,numquamin ufum
Pete dos cenfent, jb multas noxas, quas
ex argento v ivo in cot--[ lo poribus
humanis excitari à fcriptc ribus tradi-
tum eft; et (epe experientia oftendit. Alii nullài factà diftinctione, ftatim ad fuffitus. hos
ex cinnabari,autad uncliones ex
hvdrareyro de-4 i ícendunt, ut faciunt
Empirici i. Alii hacin re» fu fpenío q
idem pede eunt.p riüs reo11s alexi- |
ph: armacis evincere l:em illam tentantes, fed ubi tamquam hydra denvó novum caput emit«|
| ] | tereluea : Veneream vid erint,
experiri altert irum exiis medicamentis
permittunt, fed uni]; dr ver(nm neeotium
Empiricis, et ba rbitonfcril;... "m
bus committunt; ne fcrm:-]oim quidemaut fuf:
é REC t unguenti, qn Auf ri fint; przcognofcer y. es,;quinimo, f fi ab es fc mulam aliquam
expo fcas, obmutefcunt ; là timé id
Empiricos fcire. re [popdentes . Ego
hacin re ita cenfeo, et ita]; apes pax
procedo : fiin p! inci pi: » fuerit. morbus, atu, eA uolo caamfi progreffu aia iüs radices
egerit, nom. v7. dum tamen ufus fit re elis
remediis « alexi phar macls s» I F- ^ nd wd L gue pe
c «f ANIAt ADVERS. LIB. FII.
305 nacis, omiffis illis ; quid cum
veris alexiphar- Inacls! preftare pæem
experior, et quandoque rei »etità üac
curan Idiratione, omni ingenio tali id
em tento 5 ftc emm et ma ilam illam qual Itaté
evincere foleo,& laneuetr entib us particulis robur addo : $in vcro fic vis morbi evinci nequit
fed hic nos 'eludit ; Su€ fi cb sis
iitatem rei fami- liaris illa 1n ufum
duci non poftuünt; tutó;« : ia- cricer
ad hiec remedia tranféundum cenfeo ; et ecofzpce illa remedia in ufum duco. 217. Sed cavendum, ne totum id neectium E In pil r1Cl1S I; LE OH CH NN comn Ittàn
t5'€ inc m inibus eodem calopodio
titentes, autin. multus imperfectum
relin quunt neeotium, aut pracipites
&grotantes aguntin gr: iffima pe-
ricula,aut edam In mortem. 218.
Maxi n Crro! reverfantur ii, qui poft
omnia adhibita r reoia remedia, cüm zerotan- tcs jam imbecillos videant, M rtüute vitali, et quafi universa carne confumptà ; nec
aliam. » Jue e ml m RE e den os! mri Rr mme ee n A fm Intinélto
fumigia 04b Eta fries,
fsd à fert tis Medi- cis ad mi^
niftvari debent ; nuncio fun ereí lef] Cc)n, qua min ren led iis x
hydrarey- l "n 7 rA end Ern Cimes 7
: nes ex ar to paratis ; 1 lla quidem
ncedut -. ed debilia, aut quantitate
arcenti vV1IVj, aut numero aut
inunctionum, aut foftituum;& fp 'cnumeró fti- en olant. Ai t cnim omnino duo hec
remedia xcludenda funt, avt omnino
valentia conce- fent, et quantitate
hvdrargyri, et numero inunctionum, aut
fuffituum; alioqui attenuata, et loco
motà quidem materi, dolores, et fym-
ptomata imminuta viderentur, fcd cóm ea non expellatur ; alium locum quarens, fxpe
nobi- | V liorem qento vi-
vo a no admint- firanda »
att vali- de, trm quantis
te COZfi-- nua, 11473 PilCrtL A Á liorem partem impetit,
potiffimum caput, EN hydrargyro, et cinnabari
na ura fua ten dente $ " et fecum
attenuatas materias ducente;quinimo .
cümargentum vivum veneficam habeat qualitatem, eoà corpore non evacuato,
egrotantes duplici morbo laborant, eo,
qui fità qualitate» luis Venerez, et aliis
fymptomatibus ; quz ab hydrargyro fiunt.
Quoetiam fit ; ut tales feré numquam
curentüur, fed infeliciffimam vitam
ducant, et tandem tabefcentes marcefcant. Inundlio 4119. Ex duabus formulis femper et tutio- uádopra rem, et quæ meliüs morbum exftirpat,
eam eí- ferenda, fe cenfeo, quz cum
inunctione perficitur : ino ch 142-
emaciatis enim, fi ccis naturis, 1n ftricto pecto" $2 31 do f4ff^- xe,3nanh lofis magis convenit, et
in omnibus ængi^- (ymptomatibus magis eft proficua. In
caden- tibus tamen capillis; 3n
cruftofis, externis ulce- ribus,
praferre foleo fuffumigia. Suffumi -
2,20. Abfurdum ett fuffumigiis ilis uti ina
gia levia € ncendo hoc morbo; quz levia à doctiffimis Fallopii, Fallopio, Mercato, et ahis dicuntur,
in quibus e^ M*r'à noninereditur
cinnabaris;exficcant enim exter zin m?'-
nas partes laborantessat «im morbi interni not
£o FOR cxfüneuunt, neque materiam,in quà virulentia p «nutu Ma refidet, expellunt. " 221. Bafis fit cinnabaris ; addita.
portione» 9j t es Antimoenil Wa March
efitæ:ut prouno æorotan- £5 "7.
tecinnabaris fint uncie tres, Antimonii,& Mar- fo mds chefite ana drachme tres, auripigmenu
drach. s. aromatum ad penetrationem additorum, pro yarià cerporum condiücne variantium
quanti- tas v1 1 i
ck T. ANIM-ADVERS 1 VAR E: 9
d pon. dus caterotri LIB.FVIL.
3 Q
im: &[ ichmis fex, v« aiuti di eria f per prunas, corpus in
hypo- auftoinclufum univerün piat, C
anna ac. ans, sif firanhelo- liquando
I| tas it ferea lius frnou] lie dr:
es n exci Infpirans, et exípi um tamen erit, Íus, aut aneuft nem illiu sfun 45 1222 j$ Antequam ta IOTacl5s,42 "hs 31 17/3 lexcipere B
j 'mie1a caleícat aliquandiu zeer,& p O off i
fudores Pic 'O- fluant, non ^ Inutile
», 224. Inunctiones ex hydrarevro: apud
me»funt multó frequentior prouna
curatione,iteratis inun t131 It1Ont Inus
tri | quatuor unciis hydrarey i | s falis
lgO mw 1n nw Ct1OI 1 35:10.
ingeicc l GG CD s nlus tan
naxti rta già, qu
: "ut: laceo,& fi n «X
pulv cribus: Ini, et Gmilibu S alique
m Case Marciatiaddü nt; lIidere,; ut aliquibus vifun b feriat.
215. In fricidiffimis natur rià
przfente,quz vix attenvar b p CO moveri,
1 Ibi! eft preftantiu aqua | | |
aniforum, vel ale,portionem
un- placet crocum ad-, quod
caputinimis et crafsa mate- ffit; aut de Io- $, quàm fi portio portiuncula olei Gq
I 1i 226. Vlratftabit "multàan T Í v 3
catis dofibus, ul OICp OrtiOoibusad
fpu bus, vel ber ona ., Ex-
| hominis ; commu- 10 Cum. elIn n du plicata dofi e(fe debet, addi- pica,lili ni-
"15,1: iaftic em S, benzoi- 07 ulverisil-
[uncia unà 1n, Suffü
"mi- giA ét ove * aliquado
eXCipiei da. Saffuni-
g*4 aAZIÍE- quam fiat calor 1g
corpore ex [4 71 A A5 LI H»dárar /
s,1n quarum una dofi 7 JU
prouno bomine Cr AW,
v Lr OHAT Hs, £^ VL et 4d a-
&a propor 10. CYOCH 1
26i le Ch tones
ex bydrar gyro 7:0 i egrediatur.
A2uA vis !&, yel 0» lea calida
Cbynica, quado "Án £uentis
addenda. Vrguente so6 LPD. SEPT ALII A4EDIOL. Iruncédt
e»ultam bus multam illius copiam] Pharmacopola ali- quie. quis diligens, fidelis fi fimul prz
paret;ut axun- FXericah gla vett iftate
cc nt tacta attenuationem adjuva- i urs
poffit: at quoties dofis neceffaria eft extrahen "æg da, fpatulà, qua: deoríum erant
partes fuprà ponantur,,& piftilli L
ongàin gyrum com mmotio- ne optime de
novo commifceantur ; gravitate.» enim
fuà hydrargyrum femper vafis continen-
tisinfimas partes petit.
Sudorife- | 217- Peccant communitet practicantes ; 'e ya alexi- graviffimi quoqu e fcr ipto res,
quia ante hanc in- pharma- unctionem pr
ropinant (iid lorificum aliquod me-
cawuipra- dicamentum a alexipharmacum, fic cenfentes affuméda igmminui fymptomata illa fà eviffima,
quz poft (ded inundionem illaminfequi f
epenumero folent ; ÉH006* cym illud potius fequatur, ut fübtili per f
füdo- rem parte cductà, contumacicte
crafsa reddita, non moveatur loco; neque
ados feratur; vest hydrargyrumn maximáà
egrotantium pernicie corpore non ex
lens, perpetuam illislafferat mo-
"dex leftiam «i infu perabilia; fere fymptomata . abarmaca 238. Preftabitigitur decoctis iis
alexiphar- soft inus. WX icis utl
poftquàm inunctioneevacuata fue- eg
iones c-. Tit materia, five per fputum, five pe r feceffum puma.
Áiveper lotium, ut vifcera à malà illà qualita tei fi« anaréuen erii liberentur. 229. À pedibus aícendendo ad os facrum | modas .
Qupui nd fiatinunctio, &à carpo vc er(us fcapulas, et per inungex. Ípinam ad collum ufque : nu wt m caput in- | dum. X ungatur,quod peífime aliqui
iaciunt. Junto i30. lnunganturadfputi prafilicdns ec] tunc
c PER. M * 4 T»
- treno t TR i oii BER e e e cati nto tem ANIMADVERS. LIB. VII.
3069 quando cunc per diemintermtttatur ; et fi lenté
moveri Edi fputum viderimus;iterum unà ;
aut alterà inun- 77 P 4" ctione
inCitetur ny s Sjuto zs 231. Si nimis
affatim, et cum impetu przci- jj; 4f...
pirari materiam ad os viderimus, periculüm- siad di que fübeffe inflammationis, aut füffocationis
; effiwentes deturbanda erit; et ad
inferna períeceffum me- c» periei
dicamento aliquo erit ducenda ; id tamen raró /» inflam faciendum erit, et non nifi magnà urgente ne-
74/0975» ceffitate . C fuffow €8110/$75
grafente FI MAI. XX quid
pra f'andum FOR V:M;
Quz in hocopere conamnentur. .
P ?" " ! cerum im exyrbodinis
mon ftt acerrimum, aut € * 3 2 Ad :
C vino potenti[[nmo. lib.6. hi "Aceti loco in oxyrbodimis [uccus
citri aut limonum non iudendus. libro 6.
2! "etum pro oxymelite non [it
acerrmmm nec ex vino
potentif[mo-.-lib.z. $7 JAceti folius
ufus im. [puto
fanguinis [u[pectus . libro ó. 1$9 "A cidorum uus 12 acutus. febribus
utilis ; fed zodtvandus, C quamodo. lib. 2. 37
ge cerkoodte 2ur-2iddat : Mert PNE
A cribus imus 1 dy Hi EY1A, quid fta um prejram- dum. ' b a7 L Í O $ 1eutic in febribus tenui ens M orant -Acutis 1n | eUriDus. TOHWIMS CibAHQO Hm quam
17,5 alitis acutis. lib.2. [7 LI T . e /1 * : * ' L ecu Acute l'ebricitantes [Hragulis nom numis
cooperien- a /. lb. 2 64. Ps ZI / AA e7 14 277 lk / c5 ULL 23 ! DAL Ü
CH inflamma- Md ^" n^ ] ^ Y ; -J
- 1207€ (9 f €t /€» fi Í»ecta. I1b..6. I j 3
n * . cs r* . ] * Adfieinrentia
1n [puto [anguimis quando conve- niunt,
quando non. lib.6. 152 Jer frigidus
acuce febricitantibus quando conce-
dendus. lib.2.. 63 | e Ld nc flate quomodo ip acutis plus cibi
concedendum lib.2. IQ etu
IWNSDMESVY "etii fententia
vefutata, in [anguinis miffione 121;
enim [uppreffione. lib. I3I Albi
pr ofi Yit vera curandi vatio que . lib.7. 149
«Albo m fluvio laborantes arena fc peli re malim.» ;b. 145
4lboi 1H Pluoye adftr ingentia omnino fugienda . [ib; 07. IfI uA b: mp: ofiuwvium curatum A Galenotaz uxo
€ Boetbi 377,eularis fuit cafus ;
(9" curatio TAYO "uitanda.
lb.7. I46 "Album profs !"PIUm
apis us curandum aiver[Aa Ya- Vincula T.
radit ;G al £7 / 7 LE l1 jf I 47 » [77
"muuaane ovt 7 Voopidibd roa ral 10 5 eo Catttimes. lb. 9$ "
LLexipbarmacts vmpuro corpore non utendum. li- rà 0 f. 7
"lots dofts varia, fi p*o pureante [umatur, cft f pro atjeBori. ij I9 "L: oes duplex faculta: 3 fastahorbikana
C abfler- feria etrenans eresa les I9 l|
Jdtoes Jonmumenm relettantibus mala. lib.c. 156 loes ulis dr riti libi. I9
ah locs ulus in fobribu: quotidtantt » C longis opti- - Ls
27145, C7" quama oeauteuaum . lLb.«. I9 MUI Tx YU T Lb! 2 T] ! JA vi profiuvto laborantibus frigida potus
fape con- Yeztt. lib. 7. Q7 Gp),
«neotna laberantibus, C b petis "fi (922241 1022€, copiofrus fanmuis evacuart pote[ff, quam in
alüs 17 fi. Uy pmeaionbuss € cur. 7 b.4
7 Ant ; ' Aneoiza laboranti bus g (4l Feci PN Llib.6. II3 9 [7 iz laborantibus repe! 'cida [c£ 10 Y€Z
hi . h b. Ó. Æ Cant. ISUNMS DX Xv Caut. 174
"nein laborantibus pra[lat potiones dare; quam medicamenta [olida. lib.6. I1j "Angiofts [2cculi ex di[curientibus mali
busenutia pra[tave. ib.G. 116 Animi deliquio [uperveniente in principio ex
af- fluxu bumorum acrium ad os
veutriculiin prin- cipio «cce [[7onum
eft autriendum; ff ex refolutt ne
[pirituum aliquanto ante . lib.2.. 36 Antbrace, et bubose
apparente;pro varietate pav tis à
diver[is venis [anguis mittendu rlib.$. 37
aut braces furimenlo, C bubone im pe fle apparcu- te; fécanda vena, et quando. tib. 5. 36
A:uimenium in apoplexia fugiendum. lib. 6. 07 dntimonium in pefle veyiciendum . lib. s.
$o Apborifmus quinis prima Sect. quomodo
intelli- SCIAMUS. LIU 2. 23 "M:popletlicis aimiimmonitm mon dandum.
lib.6....67 JdApople£licis cauteriam in
comnailjura coronali 1n- utile. lib.6.
63 "Apople£fieis ely[levzum
quantitas varia. lib.6. 65 Ci pU corpus. l'ib.6. "Apoplett:cis cucurbitula fiucipiti
appo[ita utilis. lt4, POETA. rho zi) 3772772 rA» ddr nesrlisitte HG "p 'DLOCUTCLS COHCHII1CHAMUIP »
perjricanaum eft | $8 i
Lj bát bro 6. 644] "A popletitets 12 ficanda vena vuluus.
fiat apaplum. "Apopleiticis 1a
ctirandis votaitus fugiendus. lib.6
Caut. 6C3 "Ayopletticis
ligatura quales adhibenda.lib.6. ..6.
"d popletlicis quaudo » C quomodo cucurbitula apiye: plicauda
plicanda. lib.6 6i Jd pc
aple&icis repetizà fc "euis mittendus. lib. 6. $7 jetpoplectteis, ft [2 net:
ei[[oconveniat.flaiin admitni[handa.lib.6.
$6 dpoplecztcis p ezaf ontis qua do [«
cazaa.l:b.6.60 ledpoplechicus veficantia
caput rafoappoft tau ite. l:b.6. 64 Jdpoplexia i curanda, valida meaicemen a
coti- veutunt. lib.6. 69 Idpoplexia 1n curandas[ternutatorta quanao
ednui- mftranda. lib.6. 69 IVdpoplex:a 12 curanda » ab oleis minus
waltáts 1n- choandum. lib.6. 70 Mdqua bordet 12 acutzs febribus optimus eft.
potus - lib.2 p : 49 vAqua bordei non comventt 12 ommbus suarbis
.h- bs 0 2.4 A9 ^ kdgua bor "dei quo 077 odo paranda.
lib. 3 49 liqua op ciflerninas aut
fomiana, jop! mius potus 17 ACHI JA lib.
p Á 49 T L/
IL4daua vita, € olea calida Cbymica arte parat a» quando cum utilitate wiguentis ex
bydrara)ro |. adauntur.lb.7. 22$ Mr: n&murtna, Yel fluviali, laborantes
war em 0- flivio zudas [zb Sole fepelire
malum effe » et ex Ww
^ NY X a& o de
ad Galezo repugnans. Iib; 7. L4 | wr fenico p braparate placenia pro favendo
corde, im Fe eflc le. lib. s. (9 duetrrevia qua [ecenda in palpitatrome.
cordis . lib. 6. C. 172 «ilti 20ft Zia 1 "77 palp itatione C07
diquando C0AH- Y€AL. ILXLNGUAVEX i
9. id ]
b yenit. lib.6. fyI JA[cite laborantibus poft bydvagoga valida,
ven- triculus roborandus. lb.7. 49 "Afcite laborantibus bydragoga [aptus
vepetit as, noxia.lib.7.. $5 ftbmati ai tenuantia, OQ" impense
calida, mala». lib.6. I2X "Af omat: obnoxii gargarifpata f
l'neiant.lib.6.110 At omaticis diuretica
mala.lib.6. 124 zifhoma icis, fomentis calidis gon fovendum
pe- eD&us. lib.6. 146 VAflbrnaticis c Hi veteris jus naxium.lib.6..
137 "A: flbmatiecis sa pa rox [mo
medicamenti m purgansi mon propimaud um.
lib.6. I40 Af bmaticts iu paroxy[noo
nibil violentum f acien--| ies lib.6.
IA4I![ Jl (omaticorum im parox "ox
ymo ue clyfleribus uten- dun. lib. I42 A
flbmaticis in par oxyfmno nom perfricandum pe-4
Cus. lb.6. L4 55] Lh mat icis
medicamenta purgantia que opaodo 12.4] a
funr ducen da. Irb.G. 135 T E A:
batis quomodo, C' quando ladorifera con-4,
: 1 J d YeRIuut. lib.6 :
I3 "A febmatteis ficcamtta
fugienda. lib.6. 133 Aftbmaticis fit 745
[ "pin u$,72alus.lib.6. I4
flbznatici [udorif iferisnon utantur fine dulcibus lib.6. 1j:
"All omatteis vornitus pericn dois. lib.6. I 3f A fl bmaticis vonzius 1a paroxy[mo
fugiendus. lbi] ^ Cut Hl. I4 A ft hma2
1 L € TD
h ww : d WT "* A o ral ep c
0, S BUE oo caliber à Mie E£MA COD. E 3 I bmatteis varta remnedia mutaada,ct
mes lib.6. I 47 l'rzennantta tz ^! 1€ comventunt ad
deob[lruendas | vias uriza. lib.7
9) M'rtenuantia 12 princ: 'pio
quottdzanarum non ftnt J| valeztey
catefacinita. ib.s. 20 I vc | L0 0PIZILIAO
cibum aliquando d ætervrima | aueaue
concederfa. lib.1. 2:6 Iugoentum
acce[[mongs: gmimus incommodeum ciba-
t109 quam fLaiusurmente nece[fiiate. lib.a.. 3 TE €a5 722207€ £A, Gc L0 ques quribus 27C0
quer €» ab- " IU furdum. lib. $. (9 Inribus vera inflammatione laboi antibus
vepelle " ] 114 ULX C07 D€ZILHM v
b b.6. IO3 luribus applicanda vemedia
menit alla fricida. ; | Ib.6. IO NES s al us 7 ]1 urium dolor: | "materia frigida,
remedia ia- fait vr ftii: IO$ moz ufus per os aamaittendus. lib.«. $6 lurz per os alJuzmendi varii modi. lib.g.
$6 )
b bendum [. p €, fed paulatim 1n
et fuantibus fel mi bes, mon affattm, C
confertim. lib.a. 6o i | ] p^ a P ],
| febribus, ad offen dendum pureand a»
c» pe E 77220* €772, | "vfhcit 1 7 lotio 4ac
[]e P [/A dir 2Z alba H m p»€?2,C7?'
&Qud. pa. lib.,- G andis iedicamæntis
alumptts s ' vus [omms po- A " JJ * Ec[t concedis. Itb. s. IO i T2947 ux 0i All [^ profiu y:o l. "bora
"ntis bi "[Toria Xplicata, Q' rao reddita curationis llus .
lib.7. Cant. 146 Bubone
F.y NS IMESXI Zubone contumaci
exiftente ; aliquando purgattomeM y
utendum. lib.7. 19551: Bubone
Gallico apparente, ques "podus CHYATOHTE enl Bubone non exeutzte, non multa ingerenda
neque dd quibu[vis ve[cendum» contra E
mpiricos. lb. 7-4 Caut. 196; C
Calculo ureteres occupante,diuretica mala. lib. 77 Cat. 122d
Caragna, T acabamacha, Galbanum, 1n forma cep vati applicata, in prafocatis ex femine » nul
aid lb.7. 1640) Cardialeia laborantibus quando yonmitoria;et
quad do dete&loria conveniunt.
I1b.7. 2i Cardialgia laborantibus
dejettoria [int 1t forma); boli. Lib.7.
121] Carie Gallica apparente, qua
cautione proceden, dum in curatione.
ltb.7. 19)| Carnofts.quam pinguibus;plus
[anguis detvaben.. dug. lib.a. I Cel[ia ia colicts ex taflammatrone utilis
.lib.7. 84. Ca:alepfi laborantibus
calida P fteca fugiendax),.. lib.6 - 4A Catalepft laborantes aceto intus * foris
iutevam cendi. lib.6. " Cataratla oculi in vemovenda, cavendum ne
tu[/h. ad[it. hb.6. Id Catavalla oculi antequam deponatur » quid.
cavet dum. lib.6. 1d Gatarrbo ad thoracem, C pulmones srruente
cam gari[mii| I N*D E X. gari iri periculofi.Inb. 6. 108 Wetarrbt non fi lends narcotzets, nifi magna
trgeu da E te. l1b.6. 1124 Vufts rui hissoufüo t bu; quis ordo t2 illis
evsa^ C7 er vendus. iib * 2» j: liaufone laboranti purgato [ers exbibitio
poft, op ma.lib.5. II iutione s qui multas babere voluerit circa
Jangti- nis 7H, fionem T quibus petere
dichos, 2€ acta ab aliis &gere vta
lcaptr. lib.a. v os uidi Mm 1n futu: a
coronal ; cata D0,T€ cien (9 52.0. 9^
Un REMEC - repe aso wt "P |
YAiclti17 GCCOCIO p«uranao COPMZZHPEAS error
4 ]fec do tinens "mt Ps , 1
7L cac HT027 LÍD«. /« 2JlIO j "Aalt) OC ) Ibole: Í 0Yantes qaiuaniao pet tpe? 2 € aq 540 ! t? / /Lat f "p - Le. [D.7 B 2 M, AI DAI20H€C 17 HA, AH ALÍ€Ya CT! Leandauma
&OoY0oÍtjs Ld E, 4 d
I3 DU AUECY 1a? 3 4€ C1005 " £barare Yiæant. lib. 2.Canut. 27
v Y^, ri 4 )4 ;
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0KHE OQUAHGOO 0] eT€HAMS ; (d quanao ]
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26 *, ; da " E "P ! "n, ! pons pauio ætertoi,24000 [MAYIOY » COZC
CaoHnattse OT Q NOUTT CN Sete PL E b 2. À pl CI.245.010H/0« C etit V2 490977 »
LE Un, 4 7 Y J H Wrbu: querido o erre æUet 1» y? "etpio
acce) Duy. ub dib.». jj ' J 3 £e ÉL.
" d nutaseuutanda YAUDHC lexus, € YoUOTLLS j r
Ma, - Uu Col ! À, e 6 * 4, 22
f bun 0p €! 15À2 DY1À ctt 10 2 (2 "Zl 4994€510 act efi:g- ] d
«hl ?7 j "., "J^ /2 i si j D. : 2 2 ;
" y : : : v ubtes Kroxexes ERI "T IM UTE 7 0j et / c yr&[rat perju J/4€82
[ftaius » € -- Rt
Io NSDGEX: juftante acce[fran e
CP auando. lib.2. 21 Ci eres
abflergentes in dyfeuteria quandoinden-
] aài.lb. 7* 98 cif cerium
abflergentium in fine dy[enteria abufus.
lib (7. 99 Cly[leres l lande
inWiciendi, turgentibus flatuinte- fini
Yo. 2» 24. Clyfleves communes cum.
decottione folita zzmvete- Válaty 707
let "Idadi ib. 4j. 26 Cl»(lerium
commumum frequentes abu[us.lib. 3.277
Cif eres etam refr:, COT AHICS inflammat 25 Y€Hids, fint pauce
quantitatis. lib.7. 11j Chyfleres ia
effetiibus vepum quantitatis parva. li-
bro 2 3* AR Clyfleri in indendo
ante fcBlionem venaqua. obfer-
vanda.lib.3. 3l |j Clyflerem aute
indendum in alvo dura, validum..|
muedicamentum exbibendum.lib.. $651
Clyfleres in pragnantibus grandtori | fetu,quanti- tate non excedant .Atb.3. 2I! Cl feres NUM €: fícce antes in dyfentericis
rejiciemi di Mib.7. 1044 Clyfieves prapinguibus uonindantur multum
calem ) tes. lib. 3. 2.33. Clysieves pragnantibus non frequenter
3ndantur /V lib. T 2 CQ, C! jfrere pro mulieribus quantitate majores
effe A. ) iig ID, 2t Clyfleribus puerorum oleumnon indendum.lib.
388 Chysleves violenter non injiciendi,
snteffinis facd, oM MUR: PL 2'8 Cly[ler
FHAXNTSUIDNEEN XX Vvfter ut
retineaturquid pre[landum. lib.7.. og
piscis a flatu olea data ab aito etiam ut ilia.lib.7 . Cant. 76
plicis caltda valde atiu, uoxta.lib.7. 68 plicrs cly[Teres ab initio cum vino, vel [apa
noxii. lib.7. 67 pl;cis clr[leres ne zndantur, repleto
ventriculo.li- br ME 69 Wicis ex flatua valenter di[cutie €t4 nox 7
J[ib.7 . 60 Up/zers ex flatu laborantes
ante u[um cucurbitula puregands. lib.7 i
SI E WA 3 TIPIRAS in dolori ibus aqua frigida quandoque
utilis ; e Ce quama NH, jJ. 72 92 APIZCLS L7 doi lO0Y 10145 .£ i flammat
1071€» "mca 1 A122 CH - : T j L
Q Jzo purean t1, let baie.lib.7 92, LJ.
] 35 »- p/ E 'oyt lecta YYCeAA 277 talo.
]14 "dado confert * i "1
"3 ] ! 4 p - " E ss i - Izcis
172 aotoribus non Legientibu. Jolissaut ft Ji 'erco- FAVILIS., «H 'Aræ agentibus med pem C7 1$,
Aat ILI zrautegdum Jed pere pur gaumtiuns »
(cur. I /b.7. 7 rcr s 172 121110 vale nterdi[cutietia mala.
lib.7.66 qWNzczs [T upc facientia
potilTipouma con vcaiunt jfi fimt Wa
calida mat eria.li ib.7, 70 Meus SEupef
acientia concedendas viribus confi flem
Sirebus. lib.7. 71 y2C1$ uftes ok
orum ab t1a:t:0,202 ali 4 grecede c2
CHAT » Muiuttlis.lb.7. 73 ' |
boatna compen C" ion5 ^P MV 0o 4
O0^^ mn zs 742 na44 1 f444^ / FAAULO[L S
! 092€/2: 4 €X olets 208 Iutt 7 "4 bibeg A4 vLlbro IV NS DEM PA. Ais 3$] (
dii io male primis diebus oleum cl« onamcli- ? ex aceto applicati m. lib.6. 37! C inc oCta médicari,cruda ncn movere, c'e
Fin pocva 1i fent €fii 1a expHeatz ; loc
Hi "ppocratiss! i (C alen: con: roverfi
coz ciltati-lib. 3. 48i "on [udi
ar iones meæ debent fieri feciufrs arbi--
tris (P eur-liba. I2 Cos[
mpsaqui a porius ex carme vi tulina.lib.2. 4$]
Con mp quom odo parcatur«F. b.2. 4.581 | Convt jr partes omnes ca. TUE fo? enda.
lib.6. 92, f«do ove [uper Y€81€5H:€ s quid á (enam i (un Q.
;41 4 ib. o: Cordis in palpt'« attore zum ob fers 29
41015 is wbunaa 7 QU x1 z
ram mitiendus fi [anguis » qua caurto adf biben da. i;b. 6. 16 Code laboramte ex craffis bumoribus,
diuretica.A c fedorifera non cor
vertunt. cfi 6. 177] Coáe laborante ob
fer ofó buroves, diuretica » C
[udov:fera optima. Iib. 6. 17
Cordis] palpitattoni quando, G1" quo cafn fangu "m 'cndus.lib.6. IC E vi ft d fia fente quomodo proct ede
dum.lb.s. fi in iamper[ecía ; codem die
sibil à AMedicomml, E: €/ don bs 25 Crift immiutntes quando à capite eff
repellendum l:b.6. ] Critici: diebus quando sædicamentum purgans
eA Crocum inuutliones ex bydrargyro
non ingred. 2 Crura
Hi PY. liD. 7. IA DX Ey Crura. [unt perfricanda, ' abluenda per tres
dies eunte [ethionem tali.lb.7 137 Cucurbitule zn fpa[mo q ducimio
applicanda.lib.6.8e Cucurbitule12 dor[o,
"E 107 cordi5.quando
comvemant.lib.6. 173 Cucurbitule
in palpitatione cordis quando applican-
da. l1b.6. 169 Cucurbitula in
pefle dorío quando applicanda, is quando
ag0n.lib.$. Cucurbitule im. prafocatis ex
enenfibus famreffis ventri
applieite,mala. lib.7. 163 Cucerbitule in prafocatis nbi
affigenda.lib.7. 162 Cucurbitula magna
in colicis applicanda cautio. Libro 7 y 78
Cucurbinul 4ARAQUHA ventri a pi heit, fi ff f CHZ paunco z2ene.lib.7. 167 Cucurbitulamagna [it ex perforatis.lib.7. .
168 Cucurbitula magna ventri appoftta
diu 20 bareat . lib.7. 169 Cucurbitula noa diutius afhxa parti
permittatur . Iib... 26 Cucurbitula [carificata ia pefle aliquando
vicarie fechionis vena.libro 5. 29 Cucurbitula [Gavificata in [uris in pe[fle
frequenter in ufus venire [olent.lib.s.
40 Cucurbitule, fi cum [carificationes
cum pauco 1gue fent afficenda.lib.4.
2 Cucurbitulis [ablatis 1a [pafmzo,
fabietla paries fo vezda.lib.6. oI D
Debiles dum purgautur.aon ex[uraant.lib.g. 24 X
A -- i
Dec CÜINDEM. Decotta folventia
in morbo Gallico rarà in ufum yeniant.
lib.7. 20j Decrepiti parum, C fepe
cibandi; € cur.lib.a. 7 Diapboretica 1n
flatibus cordis aur 1n ufum. nca
ducenda, aut sllis admi[cenda fabad fl ringentia. lib.6. | 179
Diarrbea laborantibus pinguia [n[pecta. lb.7. 8$ Diarrbea laborantibus quando ab[lergentium
ufus conventt.ltb.7. Diureticain a[tbzaate mala.lib.6. 134 Dinretica ia calculo venum in uretevibus
mala. libro 7. 124 Diuretica in pra[evvatione à calculo; [epe
moxta.». lib.7. 12j Diuretica potulentá won diu in lydropicis in
u[um ducenda, G cur.lib.7. $2 Dolente capite ex intemperte calidasaceti
portio it ox »yrbodrnis frt parva.lib.6.
7 Dolente capite ex intemperie calida
fine materia, oleum vo[atum 1a
oxyrbodinis fit ex olivis maturis, C cur. lib.6. 9 Doloribus capitis etiam
vebementiffimisyimmninen te
criftsvepellentia fugtenda.lib.6. Ij
Dyfentericis clyfleves abflergentes quando conventant.lib.7. 98)l. i TU
Pi Dy[enterici ex atra bile antequam purætur, fero--| cia illius bumoris prius attemperanda.lib.7.
92:41; Dyfentericis in decltmatione
ab[lergentia malas.) ltb.7. 9.991 Dyfentericis per fe convenit [zngurmis
»ui[io;fed oll, adjuntla raro convenit. lib.7. 945 Dyfen- Dy[entericis pinguia in Jict quando
utile, noxium. lib.7. C" quando 102
Dyfentericis quando purgans medicamentum cosn- vent, C? quando non.lib. 7. $9 Dy[entevicis quando, * quomodo Janguis
mitten- dur.ltb.7. 96 Dyleutevicit quomodo, cf quando narcoticis
uten- dup.lib.7. IOt
Dyfentericis KR babarbar: ZZ Jufpettus. lsb. 7. 93 Dyfenterici ubi psrcadi,flatim id
pra[ladul.7.91 £z EmplafHicis in ophthalmia quando
utenda.lib. 6. 96 Empyii a na' ura
curari per evacuatiouem mattri& per [eceffumsexemplum.lib.G. I27 Empyiei quando wrendi;aut [ecandi. lib. €. f:,
Epileptici in paroxy[mo non concutiendi.lib6. 45 Epitepriets ex aura virulentælevata raro
gmitten dies [anguis.lib.G. í3 Epilepticis in paroxy[mo caput non
ceoperiendum.». lsb.6. j Eytlepricis lignum ori nom ind£dum fed quid
aliud. lib.6. f1 KEpilepticis pralervaudi quando ex brachio,
cf quando ex talo mittendu: Janguis.
lib. 6. $5 Eptlepticis pra[eyvandis
valida purgantta fepe no- xam
afferunt.lib.c. | $4 Epileptiets
veficantia capiti de vafo applicata, optt
mum remeditm.lb.. 33 Epilepticts vomitus malus.lib.G. $o KE pilepricis vom orta fempe y mala.lib.6.
$4 Epiphbora i2 curanda tn princrpio
«dftringentibus *X HI CHI.N DE X. Aytendum. lib.6. $5
KÉypiphbora in curanda eyrbinorü rarus ufus.lib.6.90 Errbina;et flernutatoria aal laborantibus
oculis. lib.6. ! 17 Errbina in letbargo optima »18 emultis tamen
fu- gienda, et 1n quibus .lib.G. 33 Errbina funt pe[[ima in dolore capitis ex-
morbo : Gallico.lib.6. ! I1 Errovescommi[fi ig ten yillu;pravalente indica tione à virtute, funt majores » fi peceetur
minus dando.lib.2. 21 Errores commi[fi in tenui victu in formapari
indi catione virtutis C£ morbi exiflenre
; pares fant s c «qualia inducunt
pericula.Iib. 2- 22 Errores commi [i ia
tenni vitium quan "tates pars
exiflente indicatione virtutis CP morbi, pe]ores unt fi plus quàm par frt concedamus.lio.1.
23 Errores 1 tenui vitlu p valete
mdicatione à sorbo fabtrabed:,
majores»fi peccetur plus dado.l. 2.21 E
yacuandum [anguimis mi[fione, antequam motus
defierit ; fi tempore mit endi [anguimis men[es fluere contigerit »[ed impevfetie lib. a.
II Evaporatorus in calidis,có frecis
naturis, ad [udo- res utendum.lib.7.
207 Ex argento vivo inuntliones parate»?
fuffumigits zon ab Empiricis, fed à
peritis pra fcribi debere; UR
yariari.lib.7. 217 Ex bydrargyro parata
vestediapro morbo Gallico, an im ufum
duci po[fint. C quande.lib.7. ^ 216
Febricitantibus à partu ummquam mittendus [au- 4/721
e guis à f[upevnis.lib.7.
1768 Febribus in continuis evacuatto per
lotium comma- dior, quam per
[udorem.lib.5. à Febribus in
intermittentibus, potiffrmum tertia
pis,fudoris provocatiopraflats qua urina.lib. s.t Febribus longis aloes u[us commodus, C
quomodo e lib. 5. 19 Fiuentibus ad oculos bumoribus ; ab[linendnm
ab ad [lringentibus. lib.6. $8 Fonngraci in lippitudine utendum decocto, mon
fe- mins. lib.6. 97 Fanugracum abluendum antequam in ufum
duca- tur .lib. 6. 9 Fotidanon [int,qua capiti [unt applicada.
lib.G.11 F gium excludentibus quando
utendum, Gi quomo- do. libro 7. 174 Fomentis calidis non diutius utendu et
cur.l.3.39. Fomentis frigidis a&bu
nü dinutenduset cur.l.3.40 Fontanella in
[tura coronali in catarrbo ve]iciente
da.lib.6. 107 Formam vittus
primo virtus o Bendit,[(ecundo [ym P |
Die p'omata ertio flatus d:flantia.
lib.2.. 20 Forma vitlus qua doceant 1n
acutis morbis.l.2. 10 Frigida potus
[ugiendus in inflammatione inte jfeinorum. lib.7. 98 Frieid:fima atu e[fe nom debent, qua tboracs
apple cantur.ltb.6. 161 Frigida «d fiflendum [anguinis fuxum
optima... | praterquam [i ex tborace
fluat. lib.5. AI Frontis in vena [écanda
» blande gula ad[Iringen- dax brevi
tempore .lib.G. 32 X 3 Frue I N-DE^X.
E rullus bovarii in acutis
vejiciendi.lib.a. 39 Galeni con[ilium
pro puero epileptico depravatiam .
lib.2. $7 Galli veteris jus
aflbmaticis noxium. lib. 6... 137
Gallico12 7ovbo curando, quomodo zAutlor plura s quàm alii ober vare potuerit.lib.7. 186 Gallico iz »orbo in principio lententilss
abflergen- tia C purgantia
admijcenda.lib. 74.194, Gallico in morbo
curando alexipharmaca mi[cen- da.lib. 7.
196 Gallico1n morbo proeve]fo purgandum.
lib.7.. 194 Gallico in morbo pargantibus
validis agendum; c9 cur.libro 7.
19$ Gallici morbicuratio diver[Aa »
inchoante ; pro- ere[[osmorbo.lib.7. 186 Gallicosmorbo incboante C$ bubone vix exeunte
2, tenuis vitlusnalus.lib.7. 18$ Gallicoyaorbo incboantesetuam ad bubonez promo- vendumsexercitium validum malum-lib.7.
199 Gallicus yaorbus inchoans,ftze
purgatione exteris quandoque folis
curatur. dib.7. 186 24H " ",, Garczavifmata fugiendasis, qui repleto [unt
tbera- ce.Iib.6. 109 Gargar:[matain catarrbo quado co
veniat.l.6.111 Glaucis 12 oculis s(£
latas-venas babentibusy smittoræxterna comveniunt.lib.G. 89 Glutinantia in [anguinis (puto quando utilia, quando noxia. 11.6. IjI Geonorrhbea Gallica non fLatim fupprimeda.
1.7.1 18 Generrbea Gallica in
curanda,quomodo 1t curatio- ne pro- FINE IROBS X
se procedendum.lib.7. 19]
Gonorrbeamuta:ur 15 f'uxun albu.fi diutius per- feveret., et mnc quomodo curanda. libro 7.
130 Gonorrbea quando calef acientibus
curada.l.7,129 Gracilibus quibus plus
[anguinis detrabendum, c quibus
muixus.dib. 4. 11 Cua]aci decoblum cum
dura fit illus fob[litia, qua nodo minus
lonea cotitone zndiget. lib. 7. 213
Guajaci ligni fpecies qua in Cura done morbi Gallici re]ciende. lb.7. 260 Cua]aci lignum quod in ufum ducttur,non [ft
anno- durm-lib.7. 200 Guajac: [pecie s rejiciatursque eft mimi
acris,et tur b1au decoétu facit, pumquam
clarefcens.1.7.202 Guajaci fcobs neque
craffor, neque im pollinem du&a.lib.7. 203
Gya]aci rune non [int umoris ligzi, neq; parvi, nam [unt in validi.lib.7. 201 H
Flemorrboietbus [sperflue evacuantibus, am omnes occiudenda » an una velinqueuda, fententia
AA4uCloris.lib.7. II2 Heyate evyfipelate
laborantes frigida atla comve-
"nunt .lib.6. 46 Hlepate
evyftpelate laboraa*e, vepellentza [ola con-
veniunt . lb.7. 4j Hlepate f
712:do; calida t? ficcamedicamentæxier
na fufpetta.lib.7. 3$ Hepati:
eibbainflamata, ante ufum diureticorum
alvus lenienda. lib.7. I
FHepatico fiuxuis remedium fineulare.lib.7. 106 Ne
d Hepaf ND E'zx. Wgepatis in
calidaintemperie quando purgandum » ci
quando non. lib.7- 3 Hepatis in calida
integperie manna uo [ufpe£tum - lib.7.
33 Hlepatis in intemperie calida
ref[rigerantiaumpen- se, e adfiringentia
[u[petta-lib.7. 3$ Hepatis in
inflammarne in principio non purgan-
dun-ltb.7. 40 Hepatis ia
inflammarione repellentibus attenuan tia etiam in principio mi[cenda . lib. 7.
41 Fiepátis in inflammatione attu
frigidafugienda . (im lib.7. 34 [bi
Hiepatis inflammatatava purgandum. fed in decli». fis nationes cotla materia. lib.7. 40 MH Hepate inflamma:o [ime mate ria,repellentia
fola conveniunt dib.7. 44 Hlepatis in iuflammatione in declinatione mon
puris. | vefolv entibus urendum.lib.7.
47 Hepatis in ob[lruttione attenuantia
cur dnte pran- «| dium applicanda.lib.7.
37 Horde: ad aquam proportio pro
pti[Jana paranda .. |l, "m Ó dj
lib... 42] Hordeum aliud [læ
cortice, ve[hrum aliud. lib. 2..11i
Caut. 40] Hordeum pro ptifana
quale elicendum.lib.a. | 4p Hordeum
quomodo parandum pro pti[Jana confi--|
cienda.lib.z. ATi Hora tres à
cibatione ad principium acce[[wumis nom. |
fifficere. lib.a. 344] Elunores
effc ducendos quo aatura vergit.quomodcià
gntellimendum.lib.5. 47A
H»yárarFIXNYXDOcBGI | Ei
ydrareyri prouno bomine 1numgendoque quati-
tas." qu& ad aliasmar edientta proportio.l.7 l.2.224, J| Jd ydropicisattenuatia no diu in usu
duceda. L 7.5I | Hydropicis Rhabarbarum
inutile. lib. 7. $4. J| Hydropicis
bumores [erofl à principio purgari po[-
fuat; fed à et levioribus tncboandum. lib.7. 49 » li ddyeme plus concedendum. [ed
variussa[late miuus; fed
[apius.Iib.2. H yeme quando minus
nutriendum.lib.z: I1 "i Ilerici inprincipio non purgandis[ed
praparandao eft materia. lib.7. 63 Iilerici valetioribus medicametis
evacuadi.l.7.64 Jélevicis valida non
danda medicamenta, [i ex ix. patis
inflammatione.lib.7. 65 In cardialeia ex
vituitaatida dejecloria fiat cum
purgantibus. lib. 7 30 Is
cardtaleia 1n SrinGSpuA vepellentia conveniunt,
non ad[ ringentia.lib.7. 216 In
cardia dia fbduiloria fim blanda.lib.7. | 28
Iu empyemate no tentanda materia expurgattio per Po fece[furn.lib.6. 127 I| Jnflammato bepatesrepellentza ante
fecélionem vene non comveniunt. lib.7.
29 IIo palpitatione cordis curanda que
vena f[ecanda,. | libro 6. 176 In palpitatione cordis ex flatu pr
"ovidendum flati- bus
ventricult.lib.6. 174 Jn palpttatione
cordis ex flatibus, exterats calidis
non e[[e utendum pra[cuie adbuc materta.l.6.17 5 In plevriticiseexterms no indi[Lintie
utedul.G.122 Inter Jntev [udandum ton adeà [ape
purgandu.lib.7.208 Inunéiiones ex
argento vrvo aut non [unt 1m u[uino
duccudas aut ft in ufum ducantur valide efJc de- bent. cur-Àib. 7. iid Tnunélio in morbo Gallico magis laudanda.l.
7.219 Inuntlio ex argento vivo
quando1nte rpolanda. libro 7. 230
Inuntlio fi fiui praferenda in curatione morbi Gal lici.lb.7. 219 Jnwungendi roodus.lib.7. 229 L |
Lac in d'y[entevicis am conveniat » quando, C quo- modo parandum lb. 7. 97 Lac in renuma wlceribus qua. diflinélione
dandum. lib. 7. 121 Late a[fempto in phibift, dormiendum.
lib.6. 163 Latle muliebri qua
di[Hntlione utendum in ophtbal VU,
»mia.lib.6. 92 Latlis quantitas rn
ulceribus venum qu&.lib.7. 121.
Lapidem in vefica frangentia medicamenta fiétittia.lib.7. 127'] Lapidis in vefica unica curatio,
excifio.lib.7.. 117! Layidum ex vefica
extrattorum bifloria due admiranda. lib.7. £277Àhu Lapillorum precioforum [us neq omnino ve
ficien- dus,nec pe[[amsut
fitsrecipiendus.lib. s. $4 Lenientia:n
morborum principio majori ex partem,
comvenunt.lib.s. 44 Bi P
Lenientia quo tempore, qua bora, C quantum... ane cibum exbibenda.lib.5. $i
Lens quomodo Fitppocrati frigidiffima.lib.g.. ye8 LenFONS DEO X. | ILentium decobtuma, C f)rupus inpe[le, C
vartolis vepiobasdum.lib.5. $9 ie Y MLentium qualitates, variazatura.lib.
D? $9 J erbargicis cucurbii ula
applicanda. lib.6. 31 | Lei bar. eicis
quando [ecanaa veuas C£ quando mon -
lib.6. 30 | Letbargieis
vepellentiaparce applicanda. C fiue 2
aa[tvitlione 4:b.6. 34 |
Lezimeniis hepatis 1a obflru£lione fotus calidi pra- ?ALTi endi. vs 28 ; cS FS ): Jt, P". ; sc E P - V aLippiiudigi valide ad[Lringentta
contraria.l.6.9 4 P7 d !' MM azrea s, co Jp ccharo parata, 14 chole
va fn f Cla» !j lib.7.
25 M aflicatoria 12 doloribus a
calidis, €? temubus bumoribus quando non
concedenda. lib.G. 16 | LM edicamen: ovum altevautium materiam t
[fc mu- tandam.lib.s. I JM edieus commre]Tus medicos amet, C quopzodo
[e 12 €15 gerere debe. l1b.1. I1 aM edicus cum mulierculis, C imperitis de
rebus medici non differat |abyo 1.
18 dM edicus de mercede non
paci[catur.lib.t. 21 Mad edteus C
do£irizasC ufu inflrutius artemexer eat
lib.i. 24 IdM edicu: fuaiat mollitiem
exteruer.lib.t. $ uiuM edieus eratis
aliquando curare debet.lib.1.. 19 uM
edicus tznan glortasaut nimo [ui amorc aon ten- Ji tetur-lib.x. 9 dub edicu: gratos erian1n nece[[itaizbus non
defc- ab -rat.lb.1. 21 AM cdiI'N*JDS.E Medicus in omnibus praftans qualis.lib.t.
3 Medicus im oratione, C farmonibus
varius, pro | jo agrorum varia natura.lib.1. 26 lu Medicus juvenis fab datto M edico praxim.
addi. Lim fcat Lib. I. 16 0 Medicus morbos [uos excujet. lib.1. 3 | Medicus nom inbumana [evermate
utatur.lib.y.25 li Medicus aon fit
jattabuudus, amt nimium pollici- 4. w(
tator.lib. I. 23 |l M:edicus
gulli [ctt fít additinus s fed nudam fequa-. Mais rur veritatem.lib.1. 10» M edicus pietatis cul tor.lib.1. Ii
Medicus qualis in veftitu.lib.1. 6;
Medicus qualis in odorati sfe vendis.lib.t1. 7] Medicus quomodo excolendus.lib.1. HET dicus Jamtatem pra[efe vat.lib.t d
v Medicus [ecreta remedia non
profiteatur, [cd alis I, communicet.lib.1. Medicus ftt [Fudiofus munditiei.lib.1. Medicus [ylvasm medicamentorum prompi am
ha beat. lib.1., Avfel vof fol.licet im bilioft : febribus ab
initio 20 CCo vyeniat,in quo'iduanis
opiimu eff vemedin.l.s-YÀy,
AMelancbolicis liquida macis.quam arida vIEAICUA qenta comvemunt.lib.6. «q €Melancholicis quando fineuis spittendus,quani,. fupprimendus, et quado finendus.hb.G. Mellis
ad aqua propor!10 pro paran da sul [a.l.2..]
Memoria deperdira remedta non famper calidas cet Galenus ejus caulum frieidam faciat.l.G.
.| Memoria deperdita curanda varii modi
et contio. rii.) Vit. Lib. 6. 36 jJ Memoria deperdita quomodo à frigiditate;
fi fepe à caufis calidis. lib. 6.
36 ^l] Memoria curada rara evacuatione op eff.l.6.36 | | Men[es promoventia pev os fumpta debent
effe i2 multa quantitate. lib. 7. -I40 | AMenfibus immodicis in iflendis repetita
[angurauts silhofiat endeen die. lib. 7.
141 VAM ez fibus mimodice fluent ibus;
aliquando medica- men! o purqante
utendum « lib. 7. 142. AM ez fibus 122
promovendi, Jecari pote[t vena in. à
ante tempus motus cum Galeno, C? verfus
finezo motus. lib. 7. 53 TAM
enfibus 12 promovendis mon eff [ecarda ver a dum diminu: € fant tibi mulier aut
t1207€ iui afficiatur. aut animo folea:
AT lficei re. l1b.7. 134. | Wa enfibu::
15 i pramoy enais pra[lat repetere [25gu:-
71$ 9i Jf oneza. lib. 7. 3$ p^
n[tbus [uapevfiuisscum v "edicement opurgaute o | uilcenda. aa[tringentia. [; MR I4 "T enfibus [up ci finis remedin "o
"lare . 1.7. 145 m7 e libus fupp:
ejfcs LU e Pene yox naa. D ies 131 Mercedem oblat am
Mediceus prompte, uon qu gi s] 2 furtim capiat. Irb. I. 2C Map. onem [aneuinis ex talo pracedere debet
exer- jn CLUMm RA "me partium m
fern un. l1b.7. 129 127 ode[Ha aceintius
Medicus domos dngrediaiur . lib.1.
17 WM orbis complicatis ton contvrartis,
quomodo pro- cedendum WWACER S j "Morbis complicatis eontrarus quomodo
provi- acndum dendum.lib.5. ær Morbis
extremis; flatim extremms vemediis utendum Morbo cau[& complicatostau[a
primo vationem bæ qu bebomus.lb.3- ^
7. 32 Morbis mediocribus blande; cum
tempore occur ;8 vendunz.lib.5 Morbo jn pracipiti [anguis prius mitti
debet,qu& Vu alvus
[ubducatur.lib.4. 21 jd Morbus cum 1gnoratury attenuandus victus .
cur »»1) I$]. quomodo.lib.1. AMofthus in umbiliai cavitate
pr&focatione gignt «vina lib.7.
zGXul Mulfa alia crudasalia coéfa.lib.».
$c AMul[a aliapro medicamentosaliapro
potu.lib.2.. 5 cc (m; 7Mulfa alia
meraci[[mmasalia mediocris » alia dilus
ta.lib.z. $« ' ib Mul[a ex faccbaro optima quomodo paretur. AM
ufa svekmelicrati d. fEnetro ; e£ conficiendi rad) in IN
H10.lib.2. Narcoricaim capitis
dolore ratrone doloris ix aad) am
pibenda, fcd aliquando vatione vieiliarum.l.6- i r Narcotica:n
dolore captis pev fe vix per os concad ai
denda.lib.6. Narcotica in dy[entevia parce adhibenda... 36] Narcoiicasumaua applicada f uris
capiti." 3.4 6, Narco' ica
numquam aurvibu: emmittenda.lb.3 v
Narcotica numqua iu puerts in usu ducenda.l.3. Narcoticis varo utendumsQ quando.lib.3. Naufca laborantes quando purgandi, C quado
sid, lib.7. INatn-li
TT 1]
li Is Do EY ] AMaufea prefente, vomitu excitato,in co
sion veul- tum infiflendum.lib.7.
IO ie d Obffetricibus eut
affeventibus.aut negatitibus gra-
viditatem, Medicus non temere credat.l.7.170 FOb[lerricibus remeré non credendt.cy
afferunt fe- tum e [fe mortuum se
»iexclidenat, ef[c.l.7. 171 ipOlea in
colicis data adjuvanda cum ab[lero ibus,
vel pureantibus. lib.7. 7 WOlca
f'nllata in wfism mon venient » mft aliis alliez- ta.lib.6.
71 TOleis cur cera cddenda.
lib.G. yÀ: WOleum amyedaltmum a partu
ntq; femper.neq; qui busvis coz venit qOlcum per os [umptum quando zn colicis
optimum. 4o prafdim.lib.7. 74 aiOleum rofatum pro oxyrbodinis fft
vecens.lib.6. 10 JOpb: balmta in
curanda opii vfus neq multus, neq; A
frequens.lib.c. 93 JOph!baimia 1n
curanda, qua lentorem babent A comrmoda.lib.c. 75 UOpb:balmicis paucif[ma externa vemedia
adbiben | da.lib.6. 99 Dpiatasut 7n alitis ventriculi affctlibus
fugienda, sta in dolore inflammatorio
eju[Æm concedenda, b C quomodo.lb.7.
3 WOp: ufus frequens im lippztudrme
malus.lib.G. .9 3 4D: colluendum
anrequam æri cibu [smant.l.2.47 | qDo
mel no[t-u imbecille ad cra[faincidéda. 1.2. $$ AQ. ymel H0 ferum 17 ACUETS f bribus non
fat 15$ 44CCom eodatum. lib.a« j
Oxymel iN Oxymel quamdiu
excoquendum. lib. 2. $E Qxymel
feplaftariorum diveríum à Galenico ; C
Gracerum. lib. 2. $2 Ox*ymel
feplafiariorum fimplex nom eft potus » fed
forbitio . lib.2. $3 Q:ymel
feplafrariorum non bumetlat.lib.2. | $4
Q»ymellis parandi ratto Oxyrbodina applicata ne ficcentur. » aut ex
affa zmateria applicentur. lib.6- 2 Qiyrbodina n capitis dolore magis proficere »
ft ex alto decidant. lib.6. I Ox yrbodinis narcotica vix
adpiifcenda.lib.G. 3 D. Panatella an
[emper ex pane loto.lib. 2. A4 Panatella
quomodo paranda 1 acutis.lib.3. ^ 44
Pazalytici quando ab initio purgandi.lib.6. 73
Paralyticis cucurbitula ubi; quamdáo pn A. ra lib. 6: 791r Paralyticis diuretica optima . lib.6.
744]. Paralyticis olea diflillata
folainutisa - lib.6. 760p Paralyticis
oleanmmis calida mala Paralyticis rubificantia quando comveniant.l.6. 765m Paralyticis fedorifera non enultum
comada.l.6. 744 "7 Paralyticis vc
ficantia utilia.itb.6. za Partus non
accelerandus ob preces parturientium | 9
I;b.7. 17:3 partu in diffcils
varó exbibenda promoventia fei
cukdas.lib.7. iz Peffi odorati
impoftti in pr efocatis ex femine » ve IL. LA
ciendi.I:b.7. 1$ |. Pete
affecti medicamento purgandi. lib.5- m
Pefle !| Peffe laborantibus ex diver [rs
caufis, quando smit- rendus fane s.lib.
s. ji
|! Pefle laborantibus mon [emper conveniunt purga- ros fangumis mito. lib. s. fI | Peffe laborantibus numquam mittendus
[anguis ad ammideliquium.lib.s. 33 | Peffe laborantibus folum im principio
[angws mnitti poteft. cur. lib.g.
34 |Peftis materia ab initio puyanda.
lib. s. 47 | Peflis materia crudadici
non poteft. LPeffis materia majori ex
parte turgéns. lib.g. 4 KPe[Hlentes
febres, licet peracuta, non requirunt te-
nuifhmum vitium . lib.z. 19
MPeflilentes. febres frne peffe coElionem expo[cunt in "HAI€YIA » nec 1n principio 1u dis
purgandu.l.$. 4$ A MPeflilenti in febre, maculis evumpentibus,
[anguis |... fecta vena poteft evacuari
Ci quomodo.lib.$. 3 r APharmaca glacie,
vel aliter vefrigerata pe[[ime à
quibu[dam conceduntur.lib.5. 12
/MPbarmaca » que mifcentur, non ffztt ex dis, qua difpari tempore
operantur. lib.2. I6 IPbarmaco a[wmpto,
non dormiendum, cr in qui- buss e
quando.ltb.s. 6 IPbarmaco aJumpto,
eule, aut vemionz ventriculi calida non
[unt applicanda. lub. 5 . 7 "dMPEarmaco
non évacuante, uon [emper poft tres bo-
] ras pufculapropinanda. lib.5.
dPbarmaco non evacuante;clyfena mo indendsz.1. 2.9 Jbarmacorum validorum extratla per vinum;
aur aquam vite, periculi plena. lb.3..
14 JPbrenetict in principio purgandi.
lib.6. 2 WPbreneticis acetum in
oxyrbodimis parce adbibene v Y 9 um. e Phreneticis cucurbitulis appo[itis quid
faciendum Phreneticis in curandis mon diu narcoticis uiendum. lib.6. 27 Phreneticis in curandis vepellentiætiam
folaultra principium comy emunt . lib.6.
216 Phreneticis non e[l enittendus
[anguis ad ammi ufq; deliquium. lib.6.
2I
Phreneticis fi inbrachio fecari vena non poteft, non fécanda easquein fronte. lib.6. 20 Phreneticis [latim vena fécanda.lib.6. 19 Phtbifi laborantes latte ajumpto dormire
debent . lib.6. 163 Phthifi laboratibus blande alvus
mollieda.l.6. Y64 Piluleta Gallico morbo
laborantibus purgandis in fine
praferenda.lib.7. 197 Pilula in tufi f
capitis ajfectibus ; male dantur poft
cenam.lib.G. 166 Pilulepro capite
expurgando majores » pro ventyt- culo
minores. lib.3. Pilule pro capite
purgando à cea 40 danda.l.6. 15 Pilule
valid:f[ima forma non fiut magna (cur.
lib.3 1$ 17!| Dituita fal[a quotidianam producente »
plenius mu rriendum in principio, [éd
4 ventriculo deturbaui y; da e[
materia. lib. $. ? Plevrifictí; c€
ante fomentis dolore, non confe[tim|
defi flendum A veris remediis. lib.6. 12 plevriticis, dolore a[cendente
» fotus fimt bumidi || defcendente [icci.lib.6. p DPlevriticis » dolore def[dendente ; iH
feclione vez) "07? 1] ILLA EX OEAZXA son efe exfpeclanda coloris [anguimis
mutatio . lib.c. I17 Plevriticis quando fomenta anodyna
conveniunt. lib.6. 120 Plevriticis [acculs fovetes ex levi
materia.l.6.122. Pleuriticis, viribus imbecillbus,
nou ex[pettanda coloris ia [anguine
mutatio.lib.G. 118. Plevriticorum
reliquia omnino abfamenda.l.6. Ya y
Pleyrsticorum triapraclarif[Timaremedia.l.6. 126 Podæra
laborantibus varo repellentia conveniunt.
lib.7. 19I Podagra laborantibus
am ab suitiomedicamentum purgans dandum
scontrover[ia cociliata Pi Podæra laborantibus quando mittendus eft. [anqurs.Iib. Podagra laborantibus frequenter [ecanda varà
ve- ZA.ltb.7. 1890 Podagrofís fmunttto ex oleo falito ante
declinatio- nem aAla.ltb.7. 183 Podærofi non. [olum oleo. [alito snungendi ».
[ed etiam yperfricands. lib.7. 184 Podævofis oleum [alitum 1m declinatione
Optitum. Potulenta 12 bydrope a[cite [epe fu[petla.lb.7. $3 Potus acutarum f ebrium quis, C qualis. [ib.
Prafocatis bene olentta coxis applicanda .lib.7. 153 Prafocatis ex flatu ; cucurbitula magna
ventri in- eriori applicitA »
praftanti[umum remedium Prefocatisex retento [emine bene olentibus vulva non 1nungenda. lib.7. 152 Prefocatts f acie: bene olentibus non e[t
a[pereenda. 3 libra. . : r$? Prafocatis facies frigida non
afpergenda.lib.7.14*
Prafócatispauxtllum vini concedendum » [ed vmale elentianaribus tunc apponénaa. lib.7.
157 Prafocatis quando etiam im pároxy[mo
po]fit fecars pena. lib.7- nsn 164, Prafocatis quando mon lscet fecare venam.
1.7. 165 Prefácatis vino facies non
abluenda. lib.7.. 156 Preanatibus
clyfteves no frequeier indatur. 1.3.20
Pregenantibus erandiori fetu cbyfferes quantitate non excedant. lib.s. 2I Prapinguibus, et fenfu exauifito praditis
inte fhinis, clyfteves non indanter
»ultum calentes 1.3.23 Principio morbi
cur aliquando tenui[[ime ciban- dum.lib.2.
16 Priffanæx quo genere bo ydei paretur PuJana ut condiatur » que addenda,
quando quomodo. lib.2. 43 Prj[ana ut paretur s quomodo hordeum
praparabixinus Puelliin applicatione 'cavendu: fior. lb.7. 7 Puelli in applicatione caveda pollutio
nocturna.l 7.9 Pueris ante decimum
quartum annumyevacuationtis
eratia,aliquando [ecari yote[t vena. lib.a. 8 Pæris ante feprenmum yra [lat bi rudimbus
[angui- nem mittere, et cur. lib.4.
IO Puevis, c adole[centibus plus cibi
concedendum, quam fenibus. lib... 7 Pueris numquam concedenda narcotica. lib...
46 Pueris pro revulfione fecari omnino
«ena débet .. | 5m, lib. Pulverei C
eletluarias qua etiam fol'vant; n; bo
PUN DV bo Gallico
comvenive.lib.7. 199 Pulvifculi cardiaci
non cum cibis, fed cum potioni- bus
fepunis dandi. lib.s. $$ Purgamenta
muliebria non [emper frigida, nec ca-
lids curanda.lib.7.. 1j0
Purgandum egrum quid interrogare oportet.1.3.2. Purgandum in principto n pe[fle, Difputatio.
lb.g. Cut. Purgandum interrogare oportet » an alvo [it
lubri- c4,an dura. Purgandum in vera declinatione . lib.5. $$ Purgandum non [emper in declinatione febrium
pu-. tridarum.lib.3. $3 Purgandum quando in barum declinatione.
1.3. $4, Purgantia debilta repetita im.
quotidianis. comvenut. lib.s. 22
Purgantia fint leviora 1n febribus, quam in aliis oorbis, € cur.lib.s. "" Purgantia valenter apud Galenum in febribus
varà ia ufum veniunt.lib.s. 3I Purgattone impe[le utendum. lib.s. 46 Purgantia valida in pe[fe non
comveniunt.lib.g.. 49 Purgatto in
podagrofis fi f acienda» [latim facienda Purulentis nom tentanda efl evacuatio
materia per feceffum medicamento.dib.6.
127 Putrida non omnis materia coquenda
Quartana laborantibus vitlus in principio varian- dus CP quomodo. lib.s. 2j Quartana laborantibus [al(amenta concedenda;
[cd parca manu.lib.s. 16 1-34 Quarutat laborantibus dum [ecatur vena,
prafen« S 5a Medici nece [[avia.lib.s. 1 uartana laborantibus quando et dextro
brachio extrabendus [anguis. lib. s.
31 Quartanis vena [ectio quando
convert. Ouartanariis dum [anguis mittitur
y non flatim. -fupprimendussetuamfi
bonus.lib. 5. 29.(2* 30 Quibus maxume in
acutis os colluendum. lib.3.. 47
uotidiana in febre. ab imtio vomitus utilis, qualis.Iib. s. 17 Quotidianain febre quomodo Galenus
commenda- yit vomitum validu pofl [rema
cocottionis.l. 5. Y7 uotidianis in
febribus tenuis etiam, quam iz. flatu
alendum in principio Refrigevantia in[igniter qua capita no ferant.l.6.6 Renædiis in multis quomodo
procedendum.lib.3.36 Remedium
pra[tantiffimum ad wen[es [uperfiuos. lib.7.
I4j Renibus inflammatis;po[t [etlam
venambrachi ea etiam [ecandæ[L, qua 1n
talo.lib.7. I4 Rembus mflanmatis,
Rbabarbari wfüs [u[pettus . lib.7.
117 Renibus laborantibus, clyfleres
quantitate parva Renibus laborantibus, qua vena [ecanda: Renibus
ulceratislattis admunifltrandi ratio varia.
lib.7. I2I Renum 1n inflammatione non purgandum, fed
le- niegdum blande. lb.7. ri16 Renum in inflammatione 17 principio )
impense re- WM, Cc . . ) frigeranziamala Reuun Ü - UIT PMI
INS DX E^Zi Renum calculo
laborantibus lemientia ab snttzo" ape
non [ufficiunt ; itaq; etiam purgandi Renum tn ulceribus valide
exftccatiamala.l.7.126 Renum ulcera quam
primur o Jm J.7. 119 Repellentia in
cholera quomodo, Cj quando in u[um
ducenda.lib.7. 2$ Repellentia in
podagra, [nfpetta.lib.. 181 Repellentia
1n palpitatione cordis, dum mittitur
Janguissregtont cordis applicanda. lib.c. 176 Repelle ntibus folis in doloribus in
principio quando 10n utendum Repetitio fanguinis mi[fiomis quando eadem
die, €& quando altero.lib.a. I6 ] Repetitio [anguis milTionis vevul[iue,
contra Ga- lenum [ape eodem dte
repetenda eur" quan- do: ltb.4
17 ] Revul[1o ree. [célam venam quando
requirat vecli- Iudinem partium (t
quando con [en [um YOnat- Yum. Itb. a.
18 I Rbabarbari safu[lo 12 vino exbibita
febres eftuan- te$ excitat. lrib.a.
Ij I Rbabarbart ufus £n eflnofis
febribus [nfpettus.l.s-g IL Rbabar bar:
ulus 12 [puto [auguinis [epe [ufpettus .
lib. 6 157 LRhabasbari ufus
dy[entericis fnfpettus.lib.7..Rbabarbarum bydr optcis 10utile. lib.7. f4 I Rbabarbarum im dolore inflammatorio
ventriculs fueieudum.lib.7 x WRbabarbarum 12 in nflamnratione renum
fu[peétum- lib.7 y lo ebarbar H2 12 menfibus [opevfluis noxzu.
E S 44 Mhatar barum pro purganda bile,
12 dévirmtione | Y D &[tuan- | effuatium febriumsmalum, C quando eo uti
pof- famus.lib.s. 7.6 8 Rhabarbarti phreneticis no multu utendum.l.6.
1.5 Rhabarbarum [n[petium in intemperie
calida be- patis.lib.7. 0034 Rhabarbarum torrefatium in dy[enteria
rejicienadum Rubificantia quou[que cuti adbarere debent. l.6.77 Ay
Sacchari ro[ati exbibitio poft purgatum corpus ardentibus febribus, non
multuprobanda.l. 5.12 Sal clyflevibus
non ita frequenter tndendus.l.3.. 2.9
Sal oleum quomodo [al [um reddat, ft oleo nom liqua- 1.4 tur .lib.7. | 18$. [i Sara et decotlo portio Guajaci cur
indenda.l.7. 211 Sara decotlum a[late
cum majori quantitate aque. |o
parandum; C cur. lib.7. 2I Sarza
parilia mirabile decoblum ad tabidos ex Gal | i; lico s2orbo.Itb. Sanguine malo fetla vena
exeunteminor quantitas iio; illius
evacuanda . lib.a. 1 Sanguinis in
colore zutatio in evacuatiua. eUACHA- i)
tione mon vevulfrvas non ex[peclanda. lib.4. 33). Sanguinis in colore mutatio nec in
vnflammationi- bus etiam perpetuo
exfpettanda. lib.a. T Sanguinis in
colore mutatio quomodo intelligendai|
lib. 4. Mn Sanguinis in colore
mutatio ua vevul[tone a longimsyds, quis
non ex[pectanda. lib.4. T Sanguinis 1m
colore mutatio in plevritide non ei
ex[petlanda, impa 1o in parte bumore. 1. 6.. Yi] Sanguimis gatffiomi non. [emper p Aldi; eni- B NODE J lenitio. lib.a. 1 Sanguinis mi[[io ad animi deliquium raro
inu[um. ducenda.a quibus, C? cur.lLb.a Sanguinis mi[io quando per [es quando per
accidens A centro ad circum[ erentiam
trabit, quomo- do.lib. $. 3$ Sanguinis mi[[ionem quando pracedere debeat
fa- cum [ubductio.lib. a. 20 Sanguinis minus detrabendum i1s,qui artes
laborio fas exercent .lib.a. I Saguinis repetita evacuatio quomodo
facieda.] 4g Sanguinem ve ectantibus
cucurbitula parti affix ao quando
conventat . lib.G. I1$O Sanguinis [puto
ex retentis men[ibus, qua vena [c- veda.
lib.G. 148 Saponarie decoélum pro
pauperibus 12 morba Gal- lico.ltb.7.
11$ Scammonii u[us im e[luofts
febribus [nfpetlus, e quando eo
titendum . lib.s. Scarificatio crurum tn
pe[le [aluberrima. lib.g. 33 Scar:
ficatia quando proj unda factenda, G' quando
Ww leviter.ib.4. T Gellio venain talo ad movendos men[es melius
jit fub noctem.hib.7. 136 Semis in curando profluit diver[a ratto
[ervan- da »pro varietate magna
occaftoms .lib.7. . X38 Seri € lalle
[egreg and: veramdica v mds ie. $1. Seri
quantitas varte 4 uarias tradit a.quomodo con- cilianda.lib.5. ! $i Siccanttbus valenter in [puto [anguinis
empla[lica o mi[cenda.l:b.6 (6 2, Siti in magna calidas G quando frigidabi- bcn-
I*UNXDWEW. Symptomatice narra
operante quid à Medice moliendum. Symptomatice
natura operante » caute agendum. |
Iib.ss 61. [s Synocha
labcvantibus quando cibus o fferendus.lib.2.
Cant. jo Syrupi acetoft parandi
ratio. lib. 2... íi Syrupus » c mel.vof.
fol. quando in principio conce-
denda.lib. 3. $a. f, Syrupus ex
cichorea cum Rhabarbaro Guliclmi, 1t
dyfenteriaadmittendus |y, Syrupis
pro morbi Gallici materia paranda alexi-- V,
pharmaca mi[cenda.lib.7. 196
Syruptes vof.(ol.inter lemientia non connumerandus», y. fed 1n*ev [olventia.lib.5 . 49] Syrupi [olventes in cura morbi Gallici
commendaniy, di.lib.7. 1993) T'enui[fcmo vitta in ftatu acutorum utendum
fem-. per. 1. Aphor. 8. quando verum .
lib.2. 18: T enui[fimo vitlu utendum. in
peracutis omnibus :) i exceptis
pestilentibus.ltb.2. 114 T'ertiana in
febre ante cotlionem quandoque pur: n
eandum, quando. Itb. 5. T T erttana im febre,
etiam intermi[[ionis die; victim [. à
Galemo, cà aliis infhitutus apud noftrates perti eulofus. lib.s. ij T'ertianis € ardentibus in febribus
clyfleres vii tepentes indendi.lib. s. T
beviaca in pe[fle quado tendit, ci quomodo.l. 5. [^ "Tiggitui aurium. ex morbo Gallico
valentia remit " dizuon
applicanda.lib.6. icd] 7 in- d E;AN8 Dx Exe X ! T igmitut aurium ex morbo Gallico remedium
pr4- ftanti[J[ymur.itb.6. 166 JT uillatwüesureri 12 prafocatis ex femine
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WMPenis brachii in feriendis » qua cAMLOHES, vA'100€ Suc funt babenda.lib.4 22 Weza [ettio 1n wedalieliediois fit
ampla.lib.6. 96 Wene fe£htaun brachio menfibus [uppre[/zs
quando admini 'Jferanda. Irb.7. 132 Wena fetta 1m talo in fanguinis puto, affatim
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purgantia fugienda.lib.7. I yos A Abe ob LZ miemationem » In mida
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107 Veymibus pro enecandis emplaftra ubi
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Veficantia etiem [uper caput applicata, im. "vebe- sueuti[femis doloribus optima.lib.6. 18.
[^ Veficania in febre pefhlentiali [rne
pe[ffe sm ujuma. 1 duci nou debent.lib.s. 43 Veftcantia in febre peHlentiali in letbargo
optima. 41 lib. 5. 44 .]^ V«ficantta bydropicorum eruribus
applicatamoxia, V Ib.7. $65]. Vificantia in letbargo optima, C quibus
partibusi| applicanda. lib.6. 357] Veficantia: tn pe[le aliquando in ulum duci
po[[unt »)/ C quando.lib.s. 421] Veficantiaia ye[Hiferis » cum extra corpus
alget 4! utilia.lib.5. 4$ Veficantia in peflilentibus peffreme pa [form
ufurpata Ati Itb. $. $! Ve ficantia in principio febrium
peflilentialium noii] i. conveniunt.
lib. s. T Vitus cra[fas 1n acutis
rejtciemdus.lib.a. jt Vitlus formatn
acutis paffim corrupta y ve '(peCtu ves |
cionis mutanda. lib.2.. I: Vitus
bymidus febricitantibus confert, bumidwl!n,
atu. c potentia.lib.2. PH
Vitius immutandus, vatione temperamentorum CO quomodo. IHb.. Y. c4 30 9v2141* 772 J, * ; L bi *, f Vibius mmutanaus, vatiome babitu corporis »
CA terperamenti ventrigulilib.a.
4G] lt- ION DoESLY. Vicius mttandus in acutis obanteatla
vitam.La. I4 Villus ratto pro vartetate
con[netudipis » Ci vegio- "s
wautanda. lib.z. Victus tenus pro
acutis antiquis quotuplex, Cb qui 4A
nobis reciptendus . lib.a. 30 Vicius
tenuts 12 acutis cur. lib.a. I
Vinculum laxandum, [e£la wena 1m melanchalicis. lib.6. 87
Vinum 1n acutis per fe numquam concedendum.», præfertim apud Infubres Vinum: acutis quando
concedendwum Vinum In[ubriues ineptum pro potu acute febrici- tantum .lib.3. $9 Vini medicati formula praflanti[ima pro
aliqia.. Jpecie morbi Gallici.lib.7.
204 mum optima materia pro paraudis
aliquando de- coctrs pro.quorbo Gallico.
1b.7. 204. Fino terttana laborantes Apud
no[lrates per torum morbum
interdicendi-lb.g. ' I4 Virtute per [e
debili, vitlus ativezicus ct 72 forma ;
ft vi wor bi, folum quantitate.lib. 2. !
Virtute debili ob aeevavationems, parten. C varo ; » M inf n 6n gnat pee ob reíolutzozt Wn paruTC i&pecióaraum.l..
i Vite "mhi u""umua
lormevitie:i ecutrt.l.a. 13 jg / 7, 2
44. -P pawlir *4h 4 Vomendnm A cibo,
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quands 7 epleto.lib.7. | r$ Vomitorio ab allumpto, quam diu a vosnttu
abfti- nendum .lib.7. 1o OO QS€, m mq 4 P o osa a £5 pi "p
LIFE. Kk. 0721IMS TTCOHOEAT10? |
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ILZUV DEUX. Vomitus in men [e
determinati non habeant dies» flatutum
Jib.7. 13 Vomitus potius repetendus,
quam diu in eo infi 'ften- dum.lib.7. II Vomitus quibus noxas afferat
inemendabiles.l.3. 12. Vomitus vepetiti
quales effe debeant.lb.7. I2 Vomitus
quomedo frequentius byere promovendt ; C
quomodo rarius, € im quibus ca[ibus.l.3.. 10
Vomitus tabidi: inimicus lib.;. II
Voritu qui ab[Linendi.lib.7. I4 Vomiturinon
debent nimium cibo vepleri.l.7. 17 Voritoria in cholera fint ex levioribus » nec
multe quántitatis.lib.7. 11.e£ 24 Vomitoria in cholera varianda, pro varietate
ma- teri& Vomitu in colicis quando utendum.lib.7.
M» Vmbilicus aliquando mumiendus im
applicationc.2 cucurbitula.lib.7. 79 Vnguenti ex bydrargyro preftare »multam
quanti- tatem parare, C" cautio
ante illius u[nm.1.7. 226 Veri regio
fovenda attenuantibus ante. [anguims wi
[tonem ex talo.lb.7. 139 Laus Deo;
Deiparzque Virgini ep" E Hez ^ MACC gs NI Aer: ce EO Edd iR c aq. dpa did Ludovicus
Septalius. Ludovico Settala. Settala. Keywords: ragion di stato, lizio, sesso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Settala” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Severino: la ragione
conversazionale del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di Parmenide –
la scuola di Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Brescia). Filosofo lombardo.
Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Intende collocarsi oltre ogni filosofia
permeata dal nichilismo. Si laurea a Pavia come alunno dell'almo collegio borromeo,
discutendo una tesi su metafisica, sotto la supervisione di BONTADINI. Insegna a
Milano e Venezia. Lincei. Critica sia il capitalismo sia il comunismo, fonti
della vita inautentica in quanto espressioni di dominio della tecnica, come
d'altronde il FASCISMO, ma anche la sinistra in quanto non è più social-democrazia,
rilasciando anche dichiarazioni sul suo punto di vista sul passato e
sull'avvenire dell'Italia. Le spiegazioni della crisi del nostro tempo
rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il
fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel
mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme
della modernità dell'Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si
porta via ogni forma di assolutoe innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma
di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo
stato, che detiene il monopolio legittimo della violenza. Questo grande turbine
che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica ed è
irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo
del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le
strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di stato. La
trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non
intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in paesi
come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più
pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando "l'assolutismo religioso e
comunista", oltre che tacciando la magistratura di "ingenuità",
poiché processando una classe politica a fondo ha rivelato la contiguità anche
con la criminalità organizzata, figlia della guerra fredda e,
secondo S., impossibile da debellare integralmente in pochi anni
senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli problemi. «L'Italia è
uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle
una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte
forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell'Italia
unita.. Sull'evasione fiscale: Una tara storica, come prima le dicevo.
L'evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c'è da costruire una strada
io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli
imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però
conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di chiesa facevano capire
che se non avessero ritenuto "giusto" pagare le tasse dello stato,
avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando
di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la
"corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato
dell'Occidente. Oltre alle citate critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma
ha a dire a proposito di "Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il
mio Dasein. Già da molto prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani
testimoniano come Heidegger seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN -- è
stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di ODIFREDDIi,
ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell, dove venneno
citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua e "alla
rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare l'importanza della
scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e GENTILE, a differenza di
filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel dialogo con Chiara, “Oltre l’umano
e oltre il divino” la filosofia della necessità si contrappone alla filosofia
della libertà. Fa spesso riferimento a pensatori come PARMENIDE di VELIA,
LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono all'apice della follia del
nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due più grandi geni che hanno
portato all'estremo la concezione del mulla ovvero l'entrare e l'uscire degli
enti dal nulla. Affronta il problema dell'essere. Tutte le filosofie
costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo:
la fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente (ovvero un
qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di esistenza e
successivamente ritornante nel nulla. Rifacendosi a VELIA, è stato definito come un neo-veliano, di cui
sarebbe l'unico esponente, peraltro criticato in senso anti-metafisico da SASSO
e VISENTIN, i quali sostengono, rovesciando la sua tesi, come, contrariamente
all'opinione diffusa, in VELIA esiste invece un deciso rifiuto della
metafisica.. Riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere,
dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che
l'essere non può non rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di
rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò
che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (S.rifiuta,
quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da
Heidegger). Per S., quindi, tutta la storia della filosofia
occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un
nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto. Ma, mentre
VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità
dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle
cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente,
portandolo a delle tesi estreme. Dato che l'essere è, e non può mai
diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni
attimo e eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire
degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si
susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti
entrano ed escono del cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio
dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo.
Dunque, l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere
senza vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire dell’essente
è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio. L’essente,
infatti, esiste prima di entrare nel
campo inter-soggetivo dello specchio e ovviamente continua ad esistere anche
dopo esserne uscite. Il di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo
si estende anche a ogni essente che nel divenire si manifesta. La dimostrazione
dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di
non contraddizione, ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De
Interpretatione”. In essa anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova
la sua formulazione più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA
correggerne l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in
contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il
divenire così come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto,
non è affatto evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella
indicata da VELIA, il sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA
-- è infatti l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime
l'opposizione assoluta tra i "essente" e "non essente". Pertanto
ogni essente, in quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può
essere uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non
contraddizione aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che
il non-essente non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero
di una condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa
impossibile ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti
il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma
insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso
sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il
nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia.
L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire
ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens
rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità
dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza
ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente
e quello immutabile. L'essere che appare e scompare non è lo stesso
essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti
dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad
alcun mutamento. Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po'
tutti i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come
allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di
verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di
tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali,
ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero
credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla
e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla
di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni
cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è
il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione
senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una
possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva
superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili
idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura
che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma
la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità
dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il
terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto
si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal
nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un
ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo
stesso terreno. L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia
del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della
filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono
conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica
è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare
appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non
segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non
esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo.
Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il "mortale" come
noi lo conosciamo. Ma l'Occidente è destinato al tramonto, per fare
spazio al destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede
nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la morte acquista un
significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi
dell'eterno. Da quanto detto precedentemente appare chiaro come non ci
sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della storia della
filosofia, l'affermazione dell'esistenza
di qualcosa di immutabile (tra cui il divino in tutti i diversi modi nei quali
filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta partendo dal
presupposto che il di-venire non significhi necessariamente la nascita dal
nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano.
Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le
varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un rimedio per
l'angoscia che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di
immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla
base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è
impossibile che esista un divino. A maggior ragione è impossibile che esista un
dio dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in
esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libero potrebbe essere,
pel divino, l'annichilimento"diverso dal concetto fisico di annichilazione
-, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli
ritornare nel nulla). Essendo ogni ente eterno, non può esserci né
creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla
luce del destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista
un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del super-uomo
e della volontà di potenza. L’uomo è un super-dio, ben più grande del divino
della tradizione religiosa. L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO
è stata sostenuta da Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato
pubblicamente, ha mostrato la possibilità di utilizzare le intuizioni sull'eternità dell'essente proprio per
affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo
cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università
Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo
pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed
elogia la proposta di BARZAGHI. Con “La Gloria” giunge, tra le altre
cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri".
Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la
conferma delle ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza
certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione
dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere
del mondo, ma che a differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da
me visibili. I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema
(eminentemente proposti ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu
certamente uno dei più cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl),
a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per
l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento
dell'attualità nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino
è necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello
attuale. Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico
dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il
divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi
dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in
questa sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni
svolte dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della
"terra" (termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti
che via via appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti
dal nulla ed al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro
apparire esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio
dell'apparire). Con "cerchio dell'apparire" si intende, qui, la
totalità degli enti che appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come
contenuto tutto ciò che appare (ossia è l'apparire "trascendentale");
l'apparire delle cose della terra, quell'apparire incominciante di cui sopra,
è, perciò, la relazione tra il cerchio dell'apparire (l'apparire
trascendentale) e una parte del suo contenuto. È altrettanto fondamentale
precisare che l'incominciare della terra (a sua volta eterna), non aggiunge
alcunché al tutto eterno che è, con VELIA, appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon),
“non manchevole” (oulon achineton). Anche l'incominciante apparire, difatti, è
eterno: il suo incominciare è il suo entrare nel cerchio dell'apparire.
Entrandovi, naturalmente, apparema questo apparire dell'entrare è lo stesso
entrare, ossia è quello stesso di cui si dice che, eterno, entra nel cerchio
dell'apparire. E, così come ogni ente, anche l'appartenenza della terra al
cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna appartenenza al cerchio dell'apparire
entra nel cerchio eterno dell'apparire. Entrandovi, appare, e quest'ultimo
apparire è lo stesso apparire incominciante in cui consiste l'incominciante
appartenenza della terra al cerchio dell'apparire. L'apparire incominciante è
cioè apparire di sé stesso (e di tutte le altre cose che incominciano ad
apparire), ed è questa autoriflessione dell'apparire incominciante ciò che
entra nel cerchio dell'apparire e incomincia a far parte del contenuto di
questo cerchio. Ma ogni essente che incomincia ad apparire (ogni
oltrepassante) è destinato ad essere oltrepassato: diventerebbe, altrimenti,
condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che
sarebbe dovuta apparire già da sempre. Un oltrepassante che sia non
oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti esso dovrebbe iniziare ad
appartenere allo sfondo (e intende, con
questo termine, quel complesso di significati, o costanti persintattiche costanti
sintattiche di ogni significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo
per cui non possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i
significati esseree e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che
via via appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato
fosse estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai
concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto
dalla terra. La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è,
per quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso?
Essa non è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire
infinito (l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire
finitodove la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un
oltrepassamento incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed
eternamente compiuto della totalità del finito. La totalità attuale
dell'incominciante è, dunque, necessariamente oltrepassata da un
incomincianteil quale non può apparire attualmente, ma è tuttavia necessario
che appaia (in quanto l'incominciare è incominciare ad apparire), e che quindi
è necessario che appaia sopraggiungendo in un cerchio diverso, altro, dal
cerchio originario dell'apparire. La totalità simpliciter degli
essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità dell'oltrepassante, cioè, che
include come parte la totalità attuale dell'oltrepassante) non può essere a sua
volta oltrepassata, perché ciò che la oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante
non incluso nella totalità dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè
l'incominciante) che oltrepassa la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua
volta oltrepassato, esso sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per
quanto sopra esposto), l'incominciante non-oltrepassabile. Poiché la
terra oltrepassa anche l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo
in un cerchio diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio
originario dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due
direzioni: (a) In quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato
lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale del cerchio originario
(o, per utilizzare il suo lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito
della terra che si inoltra nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale
contenuto è attuale che esso viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito
del contenuto attuale. (b) In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè,
alla sua attualità) il contenuto incominciante è oltrepassato invece in un
altro cerchioe in un'infinità di altri cerchi dell'apparire. L'oltrepassante-incominciante,
qui, entra nell'apparire non attuale. Anche questa seconda direzione
dell'oltrepassamento è un dispiegamento infinito nella Gloria, ma, appunto,
nella gloria che consiste nell'infinito sopraggiungere, nel cerchio originario,
della costellazione infinita degli altri cerchi. La gloria è l'unità di queste
due dimensioni. La dimensione dell'essente, che incomincia cioè ad
apparire nel cerchio originario, è necessariamente oltrepassata da un'altra
dimensione dell'essente (perché l'incominciante non può incominciare ad
appartenere all'essenza dello Sfondo, non incominciante e non tramontante, del
cerchio originario); ma anche l'attualità dell'essente che incomincia ad
apparireossia anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire attuale)
dell'essente che incomincia ad apparireincomincia ad apparire, sì che (per lo
stesso motivo) è necessariamente oltrepassata in un altro cerchio
dell'apparire; e anche la sintesi tra l'attualità del cerchio originario e
l'attualità in sé dell'altro cerchio incomincia ad apparire nel cerchio
originario, quando in esso incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa
l'attualità; e dunque (per lo stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un
terzo cerchio (e, cioè, l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata
solo nel cerchio originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così
all'infinito. In definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un
cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo
cerchio, ma anche lungoquella "orizzontale" della costellazione di
cerchi del Destino. L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva
"idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non
realmente, determinandone la distruzione. In un contesto siffatto è fondata
l'impossibilità dell'esistenza degli "altri", perché l'altro, che è
il mio oltrepassante, determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad
una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza
degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi
comunque interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un
essente che incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere
oltrepassato. L'essente che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al
tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è,
infatti, pensare e vivere le cose come nulla in quanto delle cose non appare il
legame alla struttura originaria della verità, e quindi non appare l'eternità.
L'essente, o la dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del
senso delle cose dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità
stessa. L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli
essenti e la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire,
il loro passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in
essi. Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le
cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore
perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed
eterno, cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della
più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di
mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare
gli essenti. Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano,
Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi); Filosofia della prassi,
Milano, Vita e Pensiero, Milano, Adelphi);
“Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia neoscolastica», poi in
Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Ritornare a
Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza
del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Essenza del nichilismo.
Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo,
marxismo, tecnica (Roma, Armando,
Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli);
“Legge e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità.
Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano,
Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli);
“La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana Saggi.
Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein,
Milano, Rizzoli, Traduzione e
interpretazione dell'«Orestea» d’Eschilo, Milano, Rizzoli, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano,
Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica
n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano,
Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla
fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo
sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano,
Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il
declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia”
(Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo”
(Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, La filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano,
Rizzoli); “La follia dell'angelo” (Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e
stupenda” (Milano, Rizzoli); “La tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede”
(Milano, Rizzoli); “L'anello del ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano,
Adelphi); “Crisi della tradizione occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e
la cenere, ovvero, dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa”
(Milano, Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della
necessità (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio”
(Genova, Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale
del nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina);
Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli, Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il
muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati
di santificare le feste” (Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano,
Rizzoli). “Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e
Scienza” (Milano, Editrice San Raffaele, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La
buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e
destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito
della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la fede,
Milano, AlboVersorio, L'identità del
destino. Milano, Rizzoli, Il diverso come icona del male, Torino, Boringhieri, Democrazia, tecnica, capitalismo, Brescia,
Morcelliana, Discussioni intorno al
senso della verità, Pisa, ETS, La guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine,
Mimesis. Macigni e spirito di gravità. Riflessione sullo stato attuale del
mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima mano, Biblioteca Filosofica, Milano,
Adelphi); Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell'Occidente,
Perone, Torino, Rosenberg e Sellier, Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana);
Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La
bilancia. Milano, BUR, Del bello, Milano, Mimesis,, La morte e la terra, Biblioteca Filosofica
Milano, Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al
pensiero, Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del
nulla, Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E
la pena di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia
dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia,
Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed
Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia.
Una strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con
Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana, Storia,
Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica.
Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire” Brescia,
Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,. Sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il
nichilismo e la terra, Milano, Mimesis, Testimoniando il destino, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi, Ontologia e
violenza. Milano, Mimesis, Aristotele, I
principi del divenire. Libro primo della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo
dell'eterno. Il mio ricordo degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli, “Parmenideo” -- VELIA, su la Repubblica, Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande
filosofo dell'essere, su Il Primato Nazionale, Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su
giornale di brescia «L'esperimento di
Barzaghi è importante e va seguito con attenzione. Immerso nell'alienazione, il
cristianesimo è come una casa invisibile di cui qualcuno dice, indicando un
banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che cosa si riuscirebbe a vedere
se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una casa. Ma forse nulla. Nel
primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa da dire, e di grande» (S.,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa). «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più triste»,
in Brescia oggi, Emanuele Severino, il
tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi. Ecco perché la giovane
Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano, Odifreddi, La scienza sotto
tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero, Filosofico. Miligi et al.,
"Sguardo su S.", su filosofia.) "filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre
riconoscere che le sue posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di
dover dare su di esse, non sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero
e proprio seguito tra coloro che si occupano professionalmente di filosofia.»
(Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo italiano. Le premesse storiche e filosofiche,
Napoli, Bibliopolis) Neo-parmenidismo,
su filosofia. Se noi potessimo mai non
essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è
il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può
nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che
qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della
realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo
grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le
cose, quella induista della creazione del mondoche si ripete continuamente a
opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.» (A.
Schopenhauer) Sperduto, Vedere
senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di
Brindisi, "Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo,
Brescia, Aristotele, Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia
estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto
tali, escano dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un
tempo in cui l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il
non niente sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene
l'intera storia dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione
dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi,
Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli,
Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della
struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del diveniente.
Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione dell'aporetica
del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo, Brescia,
Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica, Roma,
Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e metafisica” (Milano,
Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli, Scientifica, Paoli, “Furor
Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento, Napoli, Città del Sole); Fabro,
L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al cuore del destino. Milano, Mimesis
Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri,
La hybris originaria. Cacciari Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire
del mondo. sulla struttura originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso
della verità. Pisa, ETS, Messinese, Stanze della metafisica. Carlini,
Bontadini, Brescia, Morcelliana,. Messinese, Né laico, né cattolico. S., la
Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo, Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole
dell'essere. Per S., Milano, Mondadori, Poma, Necessità del divenire. Una
critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica e parmenidismo – I veliani, Il
contributo della filosofia neoclassica, Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia
e storia, Abano Terme, Francisci, Scurati, Pensare l'identità. Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla e
negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento in
Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,.
Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di Brindisi,
Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma, Aracne, Sperduto,
Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di Messinese, Roma,
Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis, Tarca, Verità, alienazione e metafisica. Rilettura critica
della proposta filosofica di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e
salvezza. Saggi dedicati, Bergamo, Moretti & Vitali, Visentin M., Tra
struttura e problema. Note intorno al pensiero di E. Severino, Venezia,
Marsilio [ora in Il neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al
neoparmenidismo, Napoli, Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo
Leopardi Velia Valent Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Associazione spazio interiore ambiente, Ursini. EMANUELE
SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in
concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità, ossia l’estremo
disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio
cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo,
politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più potente dei meccanismi
dell’errare. «Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore «si intende per lo più il crollo dei valori
tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto
che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.» Queste pagine ci esortano invece a prestare
ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo
stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il meccanismo oscuro che culmina nel
rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti”
derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti
— come «la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il
viverle come un nulla». Accademico dei Lincei, è autore di saggi fondamentali.
Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi sagi più famosi ricordiamo
l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli
eterni (Rizzoli, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli) e Intorno
al senso del nulla (Adelphi) e La
potenza dell’errare Sulla storia
dell’Occidente RCS Libri S.p.A., Milano. In copertina: Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini /
f/zeWorldo/DOT rizzoli.eu La potenza
dell’errare. Per richiamare e introdurre
Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo di cui ci si serve,
agendo in modo più o meno complesso,
diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale
agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il nuovo scopo. Si può dire che tale
rovesciamento è uno scambio delle
parti. Altri saggi di S. si rivolgono a
questo tema. La sezione prima del saggio
intende tuttavia mettere in luce la
relazione tra alcuni luoghi apparentemente distanti in cui quel rovesciamento si manifesta: arte,
cristianesimo, politica, diritto,
economia. Ma intende anche richiamare che alla
radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso
concetto di azione-volontà-potenza si
trova Yalienazione più profonda della
verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da parte della storia dell’Occidente.
«Disfarsi», nel senso in cui ci si disfa
di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti. Appunto per questa alienazione il
rovesciamento in cui consiste lo scambio
delle parti di cui si è detto appartiene
all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale essenza è il più potente dei
meccanismi delVerrare. Quanto più
l’errore è profondo, tanto più è
cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può quindi esistere un potenza «buona» e una
«cattiva»: la potenza è, in quanto tale,
errare e ferrare è la forma originaria
di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita,
frustrata. E la potenza «ottenuta» e
«vincente» è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e di aver vinto. L’essenza del nichilismo
esprime nel modo più radicale un evento
che è essenzialmente più profondo di ogni
«peccato originale». L’illusione estrema è la fede (posseduta da uomini
e dèi) di avere la potenza di condurre le cose dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. È però possibile parlare di errare e di
errore, di alienazione della verità,
solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò che è opportuno chiamare destino della verità
per indicare qualcosa il cui contenuto è
abissalmente diverso da tutto ciò che,
lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato «verità». Il capitolo VI della sezione prima
richiama appunto la configurazione di
fondo di tale diversità. Con questo si sta
insieme dicendo che l’alienazione della verità non è «soltanto» un evento che appartenga alla
storia del pensiero filosofico, ma è il
terreno in cui vanno via via crescendo le
opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali -
dell’Occidente e quindi anche ogni
historia rerum gestarum. E forse è il
caso di avvertire già qui che, anche queste
pagine, per lo più, intendono parlare delle «cose segrete», delle più segrete, a lettori che non hanno la
filosofìa in cima ai loro pensieri
giacché le cose più segrete sono peraltro
manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e forse non solo), ed è inevitabile che
trapelino nel deserto in cui l’uomo è
gettato dall’alienazione della verità.
La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane quella che altre volte ho indicato, cioè il
rapporto con la tecnica, dove tutte le
forze oggi dominanti (i «luoghi» indicati
all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza, lo scopo cioè nel
perseguimento del quale la tecnica
consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro,
Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e accompagnata da altre forme dove tale scambio
si costituisce tra quelle forze stesse
(ognuna peraltro destinata alla fine,
come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo scopo che
subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza). Ad
esempio: lo scambio esistente tra
felicità e verità - per cui dapprima la verità viene ricercata per essere veramente felici e poi
si vuole esser felici per poter
contemplare la verità con una felicità diversa da quella che serve a produrre tale
contemplazione (cfr. E.S., La buona
fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si
produce tra cristianesimo e arte
cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra
individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio marxiano, questo, che ripropone
lo scambio aristotelico tra economia e
crematistica (dove l’uso del denaro non
ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In
generale: nella storia dell’Occidente la
verità sta alla felicità come l’arte
cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta alla merce,
come la tecnica sta al diritto (naturale
e positivo) e, infine, sta a tutte le forze
che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo per realizzare i loro scopi. Il primo termine
di queste coppie è ciò che, assunto
inizialmente come mezzo per realizzare il
secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare aU’infinito la
propria potenza, e riuscendo a essere la
potenza suprema, cioè vincente su ogni
altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere planetario, destinato quindi a subordinare a
sé ogni forma politica dello Stato e
ogni trust sovranazionale che sul
fondamento della potenza economica sia riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è
cioè destinato a costituirsi come
Superstato planetario, essenzialmente diverso
dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni
e l’Onu. La forma politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o
i gruppi sociali si danno per
sopravvivere, rinunciando ai propri
impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e riconoscendo nello Stato il
«monopolio legittimo della
violenza-potenza». In modo analogo, la conflittualità oggi esistente tra gli Stati (che ripropone
il bellum omnium contro, omnes) spinge
verso la forma estrema di Superstato, il
Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una
prima, ancora acerba ma significativa
anticipazione). Esso riesce a essere il
supremo monopolio legittimo della
potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della propria potenza perché sente la voce del
pensiero filosofico che mostra
fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più
di ogni altra forza è capace di
oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare
l’«illegittimità» di ogni Limite
assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche ma non solo in questo senso la filosofia è la
madre della potenza estrema. Ancora una
volta la filosofia degli ultimi due
secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è
il fondamento della più grande
trasformazione storica del pianeta: quella
appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a
sé ogni altra forza. Questa,
sommariamente indicata, è la configurazione
complessiva di ciò che abbiamo chiamato «scambio delle parti» e dell’alienazione nichilistica della
verità che sta alla radice di esso. Ad
alcune delle forme di tale scambio si
rivolgono queste pagine. Quando
si parla di «nichilismo» si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre,
solitamente, il 10 nichilismo è una crisi soltanto descritta,
ossia è presentato come un fatto che
accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe
non accadere. Questo libro mette appunto in risalto (richiamandosi ad altri miei scritti)
l’incapacità di prestare ascolto alla
spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e al significato di questa inevitabilità. Ma
mette in risalto anche qualcosa di ben
più decisivo, giacché la definizione usuale di
«nichilismo», nonostante la sua visibilità, è soltanto una conseguenza del senso autentico, ossia di ciò
che abbiamo chiamato Yessenza - peraltro
nascosta del nichilismo. Inutile ogni
rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia nascosta (il culmine dell’errare) è la
persuasione che le cose siano nulla, e
il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la malattia, quanto meno si riconosce di esserne
affetti. Ma una volta accertata la vera
malattia anche il senso del rimedio
mostra un volto essenzialmente diverso.
Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico, ma è prevalentemente accessibile a chi ha già
una certa confidenza con il pensiero
filosofico. Come già ho accennato,
questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione su questo tema - che è la radice più profonda
di ogni «attualità» - i lettori che tale
confidenza non hanno. Intenderebbe,
appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino della
verità, cioè allo stare autenticamente oltre tale essenza. Il
linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e
altri rielaborati), pubblicati
prevalentemente sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Liberal». Il tema
di S. si rivolge alla poesia di Dante e
di Leopardi può lasciare perplessi. «Il fiore»! Che serietà può avere rivolgersi alla poesia - e per di più
con un’immagine così scontata come «il
fiore» - in un tempo tragico ed
enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi
e dove la tecnica sta avviandosi al
dominio su tutte le altre forze della civiltà?
La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura perché sia ancora lecito rivolgersi alla
poesia e ai fiori. Ma dobbiamo subito
chiederci qui: la poesia non ha proprio
nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? È così scontato che la poesia
appartenga al regno del superfluo?
Queste domande non intendono alludere al luogo
comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell’«estetica», crede che la poesia sia
qualcosa di indispensabile per le anime
belle. Oggi, indebolendosi, la poesia è
diventata anche questo. Ma alVorigine la
poesia appartiene invece al gesto essenziale che l’uomo compie contro il dolore e la morte.
Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio
essenziale sono la festa arcaica.
All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito,
rito, danza, poesia, arte, sapienza,
saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S., Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più
la poesia si allontana dall’originaria
casa festiva, tanto più si indebolisce e
diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni
primari dell’uomo. E invece, nell’antica
lingua greca «poesia» - poìesis - significa «produzione». La poesia appartiene
cioè all’ambito della potenza. Come gli
altri fattori della festa. Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce
di quell’antica potenza. Nel canto XIX
del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge
così ai beati: [...] O perpetui
fiori de l’eterna letizia, che pur
uno parer mi fate tutti i vostri
odori. Sono, i beati, i perpetui fiori
della letizia divina. Fioriscono
dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro «odori», per i quali essi si distinguono
l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia
un unico profumo: «pur uno». Mezzo
millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra
il canto dice (w. 32-37); [...] Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola. Il riferimento a Leopardi e a questo suo
canto può sembrare estrinseco. Eppure il
pensiero di Leopardi porta al tramonto
l’universo in cui si muove il pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel
modo più radicale, mostra
l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni eterna letizia. Non si tratta dell’opinione,
della fantasia, del sentimento di un
«poeta» infelice e deluso. Leopardi, come
altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è
in attoed è la radice del distacco del
nostro tempo dalla grande tradizione
occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei Greci. Di questa radice Dante
è pienamente e potentemente consapevole.
Quando all’uomo non basta più la letizia della
festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è
la massima di cui l’uomo possa godere
sulla terra. Ma, in precedenza, la
festa è il primo rimedio c ontro la
paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta umana contro di essi. Nella festa l’uomo si
identifica a questa immagine. L’immagine
si solleva e si libra al di sopra della
lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla paura, ossia è vittoria, lotta vincente,
godimento della salvezza. La paura che è vinta dalla festa è più
originaria e angosciante della paura di
chi, ormai all’interno del regno della
ragione e della fede cristiana ha «paura» perché si è allontanato dalle leggi divine, dalla
«diritta via» della salvezza. Lo dice
anche Dante all’inizio deìYInferno. La «selva oscura» è la lontananza da Dio, dalla quale proviene
«la paura»; ma questa selva paurosa Tant’è amara che poco è più morte. ( Inferno, I, v. 7) È tanto amara che la morte è poco più amara.
Il che vuoi dire che la paura della
morte è ancora più amara della paura
suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara paura a essere inizialmente vinta dalla festa
arcaica. Il deserto della morte è dunque
ancora più originario del «gran diserto»
(Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La paura che non è ancora raggiunta e vinta
dall’evocazione dell’immagine festiva è
essenzialmente più radicale di quella di
chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato credendo di trovare altrove il rimedio, e
teme le conseguenze di questo suo gesto
- e tuttavia, anche e proprio per questo
16 suo timore è pur sempre in
rapporto con la dimensione festiva e
salvifica. Di quel più originario e
pauroso deserto, da cui l’uomo ha sempre
tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il «fiore del deserto» «il deserto consola». Nel
mondo di Dante i perpetui fiori dell’eterna
letizia sono lo stato più alto
dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia: dal deserto che è il regno della morte non si
può uscire. La ginestra è il poeta
stesso; il «poeta» è insieme il «filosofo»; il
«genio» è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di
essere afferrato dal nulla della morte
(e dopo che la tecnica ha invano tentato
di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre; sa di essere il
«genio». Il genio della ginestra
«consola» il deserto perché sa che non ci si può salvare dal deserto della morte. La
consolazione consiste nella poesia
pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica:
Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e
stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro di Dante col «cielo»,
all’inizio del viaggio nell’oltretomba,
la parola «consolazione» è invece assente in
quanto riferita alla paura del poeta. Dal «cielo» giunge per lui la salvezza. Quando Virgilio glielo dice,
Dante si sente come i fiori che escono
dal gelo notturno - e questo suo stato è la
prima prefigurazione della rosa dei beati: Quali i fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo tal mi fec’io [...]. ( Inferno, II, w. 127-130) Dalla paura del gelo notturno al calore
eterno - «un sol calar di molte brace»
-, da cui si leva l’unico «odore» dei fiori
dell’eterna letizia. Volendo essere il rimedio contro la paura
originaria del dolore e della morte, la
festa arcaica vuol essere sempre più
potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e oggi si presenta come civiltà della tecnica.
Potenziamento crescente della festa, che
è potenziamento delfimmagine festiva
della lotta in cui la vita consiste. Il
potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella del contenuto delfimmagine e
quella della forma, cioè del modo in cui
l’immagine esprime il contenuto. Ma
appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo
l’originaria potenza festiva si
indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e l’articolarsi del mito; il
potenziamento della forma è il sorgere e
l’articolarsi di ciò che sarà chiamato «arte»,
«poesia», «tecnica». Gli abitatori originari della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene
violenta e irreparabile quando il
contenuto sapienziale del mito non sa
resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole
sapere per salvare. Ma la volontà di
salvezza è massimamente esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi
dubbio; e ciò che possiede in modo
assoluto questa capacità è la «verità», intesa
come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in alcun modo smentito.
Questo il senso della verità che, lungo
l’intera tradizione dell’Occidente, giunge
fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso della verità il pensiero di Dante è
essenzialmente immerso, e in modo
pienamente consapevole. È questo senso
radicale della verità a separarsi dal mito e a
scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e dunque l’indebolimento degli abitatori
dell’antica casa festiva. 18 Li separa da sé e gli uni dagli altri.
Separati, è inevitabile che si trovino
estranei gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in conflitto e pertanto privati della forza a
essi conferita dalla loro unità
originaria. Arte, poesia, tecnica, sapienza
incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di salvare dal dolore e dalla morte si prolunga,
ma indebolita. Pochi oggi credono che la
poesia o la filosofia possano salvare
dal dolore e dalla morte. E il discorso può essere esteso in consistente misura alla religione. Eppure, per quasi due millenni e mezzo la
verità evocata dalla tradizione
filosofica è la via lungo la quale procede non
solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la «diritta via», la «verace via» di cui parla
Dante. Nascendo, la filosofia porta alla
luce la forma estrema di ciò che per il
mortale è il pericolo: intende il dolore come l’andare nel «nulla» da parte dei piaceri, e la morte come
l’andare nel «nulla», da cui non c’è
ritorno, da parte della vita intera. E per
poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve pensare il significato radicale del «nulla» e
dell’«essere». La filosofia salva il
mortale perché essa crede che la verità esiga
che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o
addirittura sia quell’Essere, già da
sempre salvo dal nulla, che è il divino. In
questa concezione del divino si inserivano l’esperienza cristiana e la riflessione teologica su di
essa. Dante è uno dei massimi testimoni
di questa inscrizione. 19 4. Potenza della «bella menzogna» Ma i testimoni non aggiungono alcunché al
testimoniato. Questo significa che Dante
non è soltanto un testimone. Si sa che
il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel
che pensa. Pensa che la poesia sia
soltanto «bella menzogna» qualora non si
faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta nascosta sotto «il velame della favola» e il
«favoloso e ornato parlare». Dante pensa
della poesia quello che pensa Platone. E
anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina- cristiana - comprendente anche la
configurazione dell’oltretomba e i
viaggi che in esso si possono compiere -,
anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano
alcune sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere
in un «favoloso e ornato parlare» la
verità già pensata da altri? Per questo
impegna e consuma tutta la sua vita?
Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene
conto, con la Commedia egli intende
produrre la nuova immagine salvifica
della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il
dolore e la morte. Questo suo gesto
scuote fino alle radici il grande albero della
tradizione. Che Dante scriva la
Commedia significa cioè che per lui la
grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica
inferiore a quella della dimensione dove
la verità e la vita adeguata alla verità
sono il contenuto del canto e della poesia. «Bella menzogna» e «velame della favola», la
poesia, quando il suo contenuto non è la
verità; ma più potente della 20 nuda verità quando, avendo come contenuto
la verità, le conferisce una potenza
salvifica ben superiore a quella che la
verità possiede di per sé sola.
La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su
cui egli fa crescere il proprio
linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma
esprime la coscienza che ad attendere e
a tendere alla salvezza della verità sono
tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine
festiva, che è la verità della
filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma,
attraverso un ulteriore rinnovamento,
con le parole terrene della poesia.
Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica
festa di ritornare presso i mortali. Ciò
significa che troppo flebile rimembranza
è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa
che dalla poesia non possa separarsi la
festa della verità e della cristianità -
cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione
all’«eterna letizia». La liturgia
cristiana deve diventare liturgia poetica.
Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato:
scava a fondo nel terreno del suo tempo
e sbuca in un altro emisfero. In tale
pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante
non si limita a essere un grande
testimone della situazione dove lo scopo
dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al
di là delle sue convinzioni sulla poesia,
Dante, nel suo agire poetico, evoca la
poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che 21
consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte. Certo, la poesia è terrena; a differenza
della nuda verità parla, oltre che ai
sapienti, anche agli indotti; mentre nella
letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile
alla verità, è cioè destinata a scomparire
come scompare la fede - giacché la fede
è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non
apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose si mostrano e non hanno bisogno della
fede. Ma perché qui, sulla terra, si
libri l’immagine festiva e salvifica è
necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia.
E Dante è pur sempre un essere terreno
quando giunge al cospetto dei fiori
dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della
«rosa sempiterna» dei beati - «Il fiume
e li topazii / ch’entrano ed escono e il
rider de l’erbe» ( Paradiso, XXX, v.v. 76-77) - sono forme esterne, preamboli, prefazioni - «prefazi» -
della loro verità, che in qualche modo
esse coprono d’ombre («son di lor vero
umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena -
all’interno della quale Dante pur sempre
rimane compiendo il suo viaggio
nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare la sapienza del contenuto, a rendere potente
l’immagine che salva: a rendere potente
la sua forza salvifica e a rendersi
quindi indispensabile alla potenza dell’immagine: E vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogni parte si mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive. Poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri. 22
( Ibid w. 61-69) Come semplice
verità della ragione e della fede, l’immagine
terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza salvifica se
i beati non appaiono insieme nelle forme
della poesia: come i perpetui fiori
dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del cielo, formano le due rive, «dipinte di
mirabil primavera», del fiume, «fulvido
di fulgore», da cui escono di continuo le
scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a
loro volta «inebriate da li odori». Imponendo
la propria presenza alla liturgia sacra, la
liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui Dante vive - e sbuca in un altro emisfero. Di
che cosa si tratta? La Commedia apre
uno spazio nel quale lo scopo del
mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce alla filosofia - e dove la sophla si dispiega nel
kérygma cristiano. Anche se Dante deve
chiamare «commedia» e non «tragedia» il
proprio poetare cristiano, tuttavia la commedia, sulla scia della tragedia attica intende riproporre il
clima della festa arcaica - sebbene
ormai la festa non possa più prescindere
dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione degli abitatori della casa festiva. Dante
pensa come scopo dei mortali la festa,
nella forma poetica della «commedia»
filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al dolore e alla morte, dice Platone nel libro X della
Repubblica e quindi è la «commedia» la
forma poetica adeguata all’eterna letizia
cristiana). San Pietro gli dice:
E tu, figliuol, che per lo mortai pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo.
(Paradiso, XXVII, w. 64-66) Il
riferimento immediato è alla corruzione della Chiesa, ma il contesto imprescindibile di tale
riferimento è tutto il contenuto della
Commedia : su tutto questo contenuto Dante
è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è
proclamarlo appunto scopo dell’uomo. E
se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine
festiva, nella quale il contenuto filosofico-
cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto, in quanto separato dalla poesia, non è più lo
scopo a cui l’uomo deve mirare. 24
Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio cristiano, è soprattutto questo
messaggio a parlare alle genti, e a dir
loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù
e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due padroni.
Quaerite primum regnum Dei. Il messaggio
cristiano non dice di tendere all’unità
del regno di Dio e della poesia. La primarietà
che compete al regno di Dio in quanto scopo non include la poesia. La «bella menzogna» della poesia, «il
velame della favola» poetica, «il
favoloso e ornato parlare» non sono
necessari per andare in cielo.
La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza, intende invece mostrare che il viaggio dalla
terra al cielo è autentico solo se è
avvolto, espresso, sorretto dalla poesia.
Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto
filosofico-cristiano cessa quindi di
essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per
raggiungere quello scopo che è «l’unità
della verità e del canto. Cercate per prima
l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo straordinario pensiero di Dante
- anche se in lui tale pensiero può aver
evitato di guardare in faccia sé stesso.
Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della
filosofia e del cristianesimo - che pure
è cantato nella Commedia. Nel pensiero
di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere guidata
da due padroni, cioè dal mondo cristiano
e dalla poesia; e pertanto il mondo
cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e separato dalla poesia, non
appartiene allo scopo dell’esistenza.
Tale mondo può essere cioè presente solo
come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di mondo cristiano e di
poesia, e dunque resta negato,
essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è
la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al
salvifico - per cantarlo; non canta per
rivolgersi al divino. Non canta per
rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la propria gloria
al di sopra di tutto, anche della
poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma,
appunto, è il divino che appare nella
sua inscindibile unità alla poesia - e che è
salvifico solo in quanto è cantato.
Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e
oltre ancora, lungo un processo dove il
divino diventerà sempre di più il pretesto
perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e
religiosamente salvifica. Diventa sempre
più intenso e perentorio il processo in
cui, per il grande artista «cristiano», al di sopra di tutto - anche al di sopra del messaggio di Gesù -
finisce con Tesserci l’arte; nell’arte
egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando
non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione
oggettiva - ossia non intenzionale - del
mondo sapienziale della tradizione greco-
cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale mondo. Sussiste, questa
dominazione, anche quando le forze della
terra, specie quelle pratico-
economico-politiche agiscono in direzione contraria alla sapienza e alla morale filosofico-cristiana.
Anche questo agire è una negazione di
tale sapienza, ma è una negazione che
avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile
guida del mondo. È quindi una negazione
in malafede. Video meliora proboque, deteriora sequor. Invece la grande arte
cristiana, dunque anche la poesia di
Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non
sa o ancora non rende esplicito che il
suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e
alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la negazione perentoria del modo in cui il
cristianesimo, cresciuto sul tronco
della filosofia greca, intende sé stesso. È
una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della coscienza, ma che ancora non lo frantuma e
non si rende visibile. L’anima riceve
vita. Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo implicita ma an che soltanto «sentita»,
voluta, vissuta, cioè senza sostegno e
fondamento che non sia appunto la
prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si contrappone al vecchio, sapienziale - il
vecchio modo che però ha alle proprie spalle
il fondamento costituito dalla grande
tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da
parte della poesia e dell’arte, attende
ancora che venga alla luce la necessità di
lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla
luce e in cui si manifesta il «vero»
senso del divino. Nel tempo del dominio
della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la porta alla «morte di Dio», ma senza ancora
sapere quel che sta facendo e senza
riuscire a scorgerne la legittimità e la
necessità. È Nietzsche a parlare
della «morte di Dio» - e a fondarla
(cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a
mostrare la necessità di questa morte,
cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di
ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante tutto, la gigantesca
potenza filosofica di Leopardi rimane
oggi ancora celata, sebbene fosse stata
intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca potenza, qui, non si può dir nulla di
determinato e pertanto rinvio ancora una
volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il
nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere
indissolubile dell’unità di poesia e
filosofìa, al quale Dante guarda per
primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente
presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è
presente nella sua innegabile necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di
cui qui sopra si parlava, che invece è
assente nella negazione del mondo
sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e dunque della poesia di Dante -, cioè nella
negazione che è soltanto volontà di
negazione, soltanto volontà di
autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e filosofia è presente nel pensiero di Leopardi
con il senso radicalmente nuovo che la
filosofia assume quando essa si rende
conto delfimpossibilità della «verità» e del «divino» evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi mostra per primo, aprendo la strada
della filosofia del nostro tempo, che
l’uomo non può salvarsi dal nulla. La
«verità», ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte
di un Dio divenuto più angosciante della
paura da cui egli avrebbe dovuto
liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna opera umana potrà
mai salvare l’uomo dal nulla. Il contenuto
del mito consente al mortale di
sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che, sebbene unito agli altri tratti dell’immagine
festiva, più le conferisce la potenza
salvifica e dunque la letizia per la quale
la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella
tradizione dell’Occidente ne diventa
anche l’erede. La filosofìa della
tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto «festa». Ma quando la
filosofia scorge, e innanzitutto nel
pensiero di Leopardi, che la verità innegabile
è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la verità della filosofia non può più dare
alcuna letizia. Leopardi vede dapprima
che la conoscenza della verità rende estrema e
insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un tempo di
letizia, cioè di festa, questo deve
nascondere la verità e non essere altro che «bella menzogna» - che dunque può essere solo
«umbrifera», apportatrice di ombre che
oscurano e che non possono essere, come
in Dante, «prefazii» della verità. Ma
dopo questo primo modo di intendere la poesia
Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo r«intelletto», ma nemmeno la «fantasia» può
lasciarsi ingannare dalla poesia e che
dunque è inevitabile che anche e
soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa consapevolezza è che l’unico tratto
festivo e caducemente salvifico concesso
al mortale è la potenza con cui la
poesia esprime la nullità dell’uomo. Il
«genio» è il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile ripristinare
dell’immagine salvifica della festa.
Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel «pensiero» 259-61 dello Zibaldone - «l’anima
riceve vita, se non altro passeggera,
dalla stessa forza con cui sente la morte
perpetua delle cose e sua propria». Questa «vita» è appunto quanto rimane dell’antica letizia della festa
- le opere del genio, scrive Leopardi in
quel «pensiero» dello Zibaldone,
«riaccendono l’entusiasmo», sono «consolazione» che «apre il cuore e ravviva» ma tale «vita» e «forza»
festive posseggono la potenza
dell’immagine in cui il genio presenta la terribile verità innegabile della filosofia, cioè la
morte e la nullità dell’uomo e di tutte
le cose. L’immagine prodotta dal genio
unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a consentire al mortale di sollevarsi ancora per
un poco al di sopra del nulla che si
mostra nella verità terribile della
filosofia. Nel genio, l’unione
di filosofia e poesia è l’ultimo modo in
cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa al mortale l’aura festiva di una passeggera
letizia. Il pensiero di Leopardi mostra
cioè che quando sarà manifesta l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal
nulla, resterà quell’ultima forma di
tecnica che è la poesia pensante del
genio, l’ultima festa - «l’ultimo quasi rifugio», dice Leopardi - a cui tendere prima del «silenzio nudo» e
della «quiete altissima» della morte. Il
genio è la ginestra, il «fiore del deserto». La ginestra «siede» tra le rovine del deserto che il
vulcano ha steso attorno a sé: una ruina involve dove tu siedi, o fior gentile. come il genio, cioè Leopardi, «siede» a
notte sulle «rive» del «flutto indurato»
della lava: Sovente in queste
rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che
ondeggi, seggo la notte. Il «lume» divino, le «scintille» del fiume
di fuoco dell’amore divino fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai divenuto «il flutto indurato» della
lava, sepolcro che sigilla, copre e a
«bruno veste» la vita annientata dal fuoco
del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio,
siede tra le rovine delfeterno. Esse
sono il «deserto». Ma Inodorata
ginestra», che è la «nobile natura» del genio,
è «contenta dei deserti»: guarda in faccia il deserto del nulla e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è
«contenta», cioè non si illude di poter
aver altro, non si sente il perpetuo fiore
dell’eterna letizia che «d’eternità s’arroga il vanto». La «nobile natura» del genio della ginestra tien ferma
dinanzi agli occhi la verità terribile,
non le sottrae nulla, non distoglie lo
sguardo dal fato comune del nulla: Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in
sorte, e il basso stato e frale. Non detrae nulla dal «vero» in cui appare
l’essenziale nullità deH’uomo; ardisce
sollevare lo sguardo mortale sulla
verità: questa forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro tempo.
Leopardi la inaugura. Ma la «franca
lingua» che nulla detrae alla verità è
la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo.
Senza la potenza poetica l’uomo è subito
risucchiato nella pietrificata
contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un poco nell’ultima eco dell’aura festiva,
unendo dunque filosofia e poesia. La
ginestra non detrae alcunché alla verità
angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno «scambio delle parti» già a partire dal
«fiore» della poesia, che da mezzo per mostrare
la verità diventa fine; per arrivare alla
tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi forze dell’Occidente è destinata a diventare
il loro scopo. Anche le pagine che
seguono possono essere lette come un
contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei miei scritti, di questo «scambio delle
parti». Il problema del fiore della poesia conduce dunque al problema della tecnica. Oggi se ne continua a
discutere. Ma se ne discute rimanendo
all’interno della dimensione che ha reso
possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito, la filosofia, il cristianesimo, la scienza.
Si rimane all’interno della dimensione
dove l’uomo percepisce sé stesso come un
mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di salvarsi.
Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero pianeta è ormai completamente immerso, non
debba finalmente esser messa essa stessa
in questione? Siamo proprio sicuri che
l’eterna letizia non possa avere altro
significato che quello che la tradizione le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo
perpetui fiori dell’eterna letizia, ma
non nel senso che è stato
inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico
dell’eternità del Tutto è abissalmente
lontano dal senso che l’eterno possiede nella
tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in qualche altra
forma di civiltà, diversa da quella
dell’Occidente - anche se esso risplende nel
fondo di ogni uomo. Nel paradiso
della tecnica, la tecnica può essere guidata e
animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in
entrambi i casi, per quanto alta possa
essere la luce del tramonto, è inevitabile
che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere il
divenire, il contenuto della fede, cioè
della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il
paradiso della tecnica è cioè destinato
all’angoscia estrema. Può essere quello,
allora, il tempo in cui l’uomo incomincia
a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia. Esso non è un futuro da produrre e da
creare. Già da sempre attende di essere
condotto fuori dall’ombra: già da sempre
attende che tramontino le ombre che attirano
su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di
quel senso inaudito. Nella sua essenza
il cristianesimo è una grande religione
della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere
la salvezza solo se la vuole, e solo se,
d’altra parte, questo volerla non è un atto di
imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è
quindi la preghiera, così intesa.
Appunto per questo Tertulliano dice che
la preghiera insegnata da Gesù «è veramente la sintesi di tutto il Vangelo». Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17)
Gesù dice: «Chi crederà sarà salvo, chi
non crederà sarà condannato». Ma prima
di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come Gesù abbia unito strettamente e
sorprendentemente il tema del credere a
quello della preghiera. In quanto inseparabile
dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice. «Abbiate fede in
Dio. In verità vi dico che se qualcuno
dirà a questa montagna: “Togliti di lì e
gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et non haesita = verit in corde suo], ma crederà
che quel che dice s’abbia a compiere
[fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi
dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le otterrete [et
evenient vobis]. E quando vi accingete a
pregare, perdonate, se avete qualcosa
contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri peccati». Marco accenna
subito dopo a quello che a suo avviso è
il centro della preghiera insegnata da Gesù,
ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). In questa
concezione della preghiera è presente un grande
sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa, per esempio di essere aiutato in una certa
circostanza, ma che in un primo tempo
Dio ritenga di non dargli ascolto; e che
tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che
Dio sia mai questo, la risposta è
scontata: non è il Dio delle religioni
monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo, perché se alla fine egli cambiasse parere ciò
accadrebbe o perché quell’uomo è più
potente di lui, oppure perché alla fine
Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente
di un uomo o che può aver torto non è,
appunto, il Dio del monoteismo, non è il
Dio di Gesù. Chiedere a Dio qualcosa è
pregare. Se si prega Dio di avere da lui
qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può
chiedere dunque solo quel che egli vuol
dare. Si può volere solo quel che egli
vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella preghiera: «Sia fatta la tua volontà». È sul
fondamento di questo decisivo sottinteso
che va interpretato il senso
deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne e che, se uno riesce ad avere la forza (si
potes) di credere, «tutte le cose sono
possibili per lui» (omnia possibilia sunt
credenti, Me., 9, 23). Se avendo
fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna, si può anche ottenere tutto il resto. Purché
sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già
Platone, dando forma filosofica al mito
biblico, afferma che Dio è «tecnica» divina, cioè la più potente.
Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un
comandare all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che
creda. E quindi, pregando, l’uomo deve
innanzitutto chiedere, senza aver dubbi,
di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere, chiede insieme di non
aver dubbi intorno a questa sua
richiesta. Si può mostrare che chiedere
con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio
vuole, non può non ottenerlo, perché Dio
è l’Onnipotente. Da quel punto di vista,
la fede che muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non
solo ottiene ciò che vuole, ma sa di
ottenerlo, perché non può non sapere di
voler quello stesso che è voluto da Dio, che è
l’Onnipotente. E non spezza
nemmeno in due quella preghiera, come se
nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole
lui - il pane quotidiano, la remissione
dei debiti; la liberazione dal male ecc.
Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il
pane. Lo stesso si dica per gli altri
doni richiesti. Anche per quello che è
espresso dalle parole «e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Infatti nella preghiera autentica l’uomo
può chiedere di essere perdonato solo se
sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a
comandargli di chiedere al Padre di
essere perdonato, e il Figlio non potrebbe
comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo.
La preghiera di Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente,
tra il perdono per i propri debiti, che
un uomo chiede a Dio, e il perdono, da
parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi 40
confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole
perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti
che gli altri hanno contratto nei suoi
confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci
solo a compierlo? No. Lasciarlo solo
vorrebbe dire, per Dio, non volere che
l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo
a trovar la forza che lo può salvare
eternamente - visto che se non perdona
non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui
è indifferente. Verrebbe meno, allora,
il principio per il quale l’uomo può
ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver detto all’uomo che se non
perdonerà non sarà perdonato lo lasci
solo a raccogliere le forze che gli occorrono
per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella
preghiera di Gesù, l’uomo chiede a Dio
di perdonare i propri debiti come egli
perdona quelli dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la
forza di perdonarli. Anche il perdono
delle offese è dunque qualcosa che
l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio, e che
quindi egli otterrà anche questa
capacità (più diffìcile da avere che non la
capacità di muovere le montagne).
L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello
che è voluto da Dio, e la preghiera è
quel mettersi in rapporto con Dio, dove
non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo,
lo si ama, e si fa tutto ciò che Dio
prescrive. E volendo tutto questo si è
convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia
capace di 41 ottenere quel che vuole. Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è
il giusto, il buono, il santo, ossia è
quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche
necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo, perché se fosse incerto di esserlo
sarebbe in dubbio anche sul proprio star
volendo quel che Dio vuole. Chi si trova
in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo qualcosa di non voluto da Dio; dunque non
vuole quel che Dio vuole e quindi non
può nemmeno credere di ottenerlo. Volere
qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di volerlo non lo si sta volendo ma si resta
incerti se lo si voglia o meno, non ci
si trova cioè nella condizione di chi, pregando, riesce a muovere le montagne. Convinto di essere il giusto che perdona le
offese e ama il suo prossimo, chi prega
nel modo dovuto agisce nel mondo e si
imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con sé quella convinzione. (Altrimenti
abbandonerebbe l’insegnamento di Gesù.)
Agisce nel mondo, cioè nella polis. La
«politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la
«politica» è innanzitutto perdonare le
offese e amare. Ma che una certa azione
sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una cert’altra ancora sia una forma di amore è
chi agisce nel mondo a doverlo
decidere. A questo punto chi presta
ascolto alla parola di Gesù si trova
davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa,
perdono, amore certe azioni sia esso
stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non
compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non
può più credere - in relazione alle
valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve
adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e quella di
Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria
salvezza (perché «solo chi crede sarà
salvo»). Sul piano politico è la rinuncia a
ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua azione privata o pubblica
sia la volontà di Dio e che quindi egli
sia il giusto, il buono, il santo che sa
capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per un equivoco che egli
giudica come offesa un’azione; né può
ammettere che nel proprio agire non sia
presente il vero perdono e il vero amore,
conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano politico è, questo, il
passo decisivo verso la teocrazia, che è
il regno di Dio in questo mondo, mentre
Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo. Certo, chi ha l’intenzione di essere
cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui
conducono entrambe queste strade (anche se
entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’
sull’altra. Ma anche in questo modo
tradirà la propria fede, non ne salverà la
coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene istituito tra
il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta nella
preghiera di Gesù è una delle più
potenti anticipazioni dello scambio in
cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per
salvarsi: la salvezza è lo scopo, la
Potenza divina il mezzo. Ma anche Gesù
fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè
assunto da un essere bisognoso di
salvezza, quindi debole, finito, mortale
quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e pertanto
pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non
il soddisfacimento dei propri bisogni ma
la volontà di Dio («Sia fatta la tua
volontà»). In questo modo gli sarà dato tutto il resto. È, questo, uno dei modelli più
rilevanti della situazione in cui l’uomo,
dopo aver tentato di servirsi della tecnica,
capisce che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: «Sia fatta la tua volontà, non la mia», che, posta
come scopo (volontà capitalistica, comunista,
cristiana, democratica ecc.), non ha la
potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo, indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in
tal modo sé stessa. Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la
volontà cessa di essere ciò che
intendeva essere, giacché per essere ciò
che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso modo, si è visto, pregando autenticamente, il
cristiano è costretto a imboccare quelle
due strade che lo portano a non esser più
cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e quindi per pregare autenticamente, per salvarsi, il cristiano
non può più essere cristiano. Non lo è,
sia facendo la propria sia facendo la
volontà di Dio. È indubbio che «chi vorrà salvare la propria vita la perderà», ma non è nemmeno vero che
«chi perderà la propria vita per amor
mio [héneken emou, cioè avendo me come
scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà». Lo scambio delle parti dove la Potenza, da
mezzo, diventa scopo e quindi salvifica,
non salva, giacché la vita, intesa come
vita autentica, cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo che la si è perduta, Gesù assicura che la si
sia salvata. È perduta lungo entrambe le
strade, qui sopra indicate, che chi
vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare. Proprio perché, per raggiungere la salvezza,
ci si serve di ciò che si considera come
la Potenza suprema (teologica o
tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non ci si
salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza
suprema, perché, rispetto alla Potenza teologica, la volontà che intenderebbe esser cristiana non può
esserlo e, rispetto alla potenza
tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo, cioè volontà capitalistica, comunista,
democratica, totalitaria, cristiana
ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò che essa intende essere. Continua ad
aumentare la pressione dei popoli poveri su
quelli ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse umane, determinati dal bisogno elementare di
sopravvivere. Da sempre, infatti, l’uomo
interpreta la propria sofferenza. Il
modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne dipende da ciò che egli crede di essere, dal
modo in cui interpreta la propria vita.
«Cultura» è innanzitutto questo credere.
Per quanto ne sappiamo, in questo credere sono sin dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di
essere un vivente che è in pericolo e
che sta in rapporto con misteriose potenze
che lo possono aiutare o schiacciare. Il senso della «cultura» è legato a quello della «coltivazione» e del
«culto». La pressione dei poveri sui
ricchi è cioè un fenomeno eminentemente
culturale. Gran parte
dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno
formalmente, i Paesi ricchi si
riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam
a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo
decennio si è reso altrettanto visibile
- sebbene non nelle forme drammatiche
della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di
un fenomeno ambivalente, perché da un
lato la Chiesa non può non vedere
nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità, dall’altro non può non avvertire che l’islam
è anche l’avversario dove la religiosità
dei fedeli è molto più convinta di
quella cristiana (non dice forse la Chiesa che «l’Europa è terra di missione»?), tanto da alimentare
quel fondamentalismo che convince
individui a immolare la propria vita per
il trionfo della causa. D’altra parte non è
nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra islam e
cristianesimo è il fenomeno culturale che più
determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro perché la modernità, contro cui cristianesimo
e islam si trovano alleati, esiste. La tecnica, che è impensabile senza la
cultura moderna, stupisce il mondo.
Tuttavia la tecnica sta procedendo senza
guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche della tradizione occidentale, che la accusano
di violare limiti inviolabili. Un
gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che
rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo non va toccato. Intendo dire che chi potrebbe rendere il
gigante capace di replicare è la punta
estrema della modernità, ossia quella
essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro tempo che è in grado di mostrare
l’inesistenza di ogni inviolabile e che
quindi il gigante è legittimato a toccare il
cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da
un lato, pertanto, la potenza cieca
della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi
impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti così non riuscirà mai a possedere Penelope,
cioè a dominare il mondo, lasciando
ancora a lungo la scena alla coscienza
religiosa. Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il
problema centrale del cristianesimo: il
cristianesimo si trova oggi in un mondo
«soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede» (in mundo nostri
temporis rapidis mutationibus subiecto
et quaestionibus magni ponderis prò vita
fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un pontefice dichiari di non avere più le forze
per affrontarlo è un tema che,
nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa
in secondo piano. Nel testo, la parola pondus («peso») compare tre volte: come peso delle questioni
riguardanti la vita della fede, come
«peso» del gesto di rinuncia e come peso
del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto
«grande»: la vita della fede è oggi
gravata da «questioni di gran peso» ed è essa stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo
cristiano (tanto meno un pontefice) non
può riconoscere che il turbamento della
fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla corruzione alfinterno della Chiesa. Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda
non solo la fede religiosa, ma anche
quelle altre forme di fede ancora
dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro volta «fedi»). Mi riferisco soprattutto al
capitalismo, alla democrazia, al
capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla
mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo sovietico, come il nazismo, era tra le più
rilevanti di queste forze. Ognuna delle
quali avverte la necessità di eliminare le
proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è
una metafora né un’iperbole fuori luogo
affermare che ognuna di esse si sente un
dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede religiosa, anche la
vita di queste altre forze è gravata da
«questioni di gran peso» - da questioni che fanno intravedere l’inevitabilità di tale tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il
cristianesimo durerà fino alla fine del
mondo. Ma la gran questione è se quelle
forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le
travolge. Il «relativismo» è stato
l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo
di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l’ingenuità del
relativismo ne favoriscono infattila
diffusione presso le masse, e tale
diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente
all’avversario autentico quando
individuava negli inizi della filosofia
moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo e
del nazionalsocialismo, o l’egoismo
dell’economia capitalistica. In questa
prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono
ancora a guardare in faccia l’avversario
autentico. Riusciranno le varie forme di
fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di
combattere i nani, quando invece il
gigante pesa già su di esse e toghe loro il
respiro? Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo». Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni
cenni; doppiamente insufficienti perché
a chi sta per morire, e non vuole, è
estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria morte.
All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all’uomo il respiro, impedendogli di vivere.
L’uomo può incominciare a vivere solo se
vuole trasformare sé stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo
non può nemmeno compiere quella
trasformazione di sé che è il respirare
in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli impedisce di
trasformare sé e il mondo. La Barriera è
l’Ordine immutabile della natura. Solo se la
penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e
ottenere ciò che egli vuole. La Barriera
è l’altro gigante: il Tremendum (per
servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché
l’uomo può incominciare a vivere solo se
domina le parti della Barriera
frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del frutto proibito, frantumando cioè l’icona
stessa del divino, può diventare Dio (
eritis sicut dii, «sarete come dèi», dice il
serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto essenziale del sacro, del divino, del Dio. La Barriera divina vive inviolata solo se
uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se
uccide Dio. Il fuoco è il simbolo
essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo
all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto
da due secoli egli è l’avversario della
tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò
che più salta agli occhi, ossia
l’allontanamento della modernità e soprattutto
del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla «vita della fede». (In questo contesto, la
corruzione della Chiesa è più grave di
tutte le forme passate del suo degrado.)
Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da
chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo
l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata,
ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha trovato meno
tremendum e più fascinans, e gli si è
alleato, diventando uomo di fede, non solo cristiana ma anche quella degli dèi
- delle barriere - in cui consistono le
forze (sopra menzionate) via via dominanti nel
mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la potenza di questo furto a
nascondersi, per lo più inesplorata,
sotto le «rapide mutazioni» del nostro tempo,
«turbato da questioni di gran peso per la vita della fede». Una delle
radici dello Stato moderno è il desiderio
dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una «macchina
tecnicamente razionale» a cui viene
riconosciuto il monopolio della forza e
che quindi consente a ognuno di «calcolare» in anticipo le conseguenze delle azioni proprie e altrui.
Così si esprime Max Weber; ma questa
constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si
chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale
(a differenza delle forme violente di
acquisizione della ricchezza). Tuttavia
è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti
inseparabili, fino a che il capitalismo
esiste nella sua forma tradizionale. Il talento
dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è imprevedibile: la forma
relativamente più remunerativa di
investimento. A sua volta, il talento è
inseparabile dalla fortuna. Il più
«capace» degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che una teoria
scientifica non è valida se non è
confermata e che tale conferma è una forma di
fortuna, una «circostanza felice». Ma l’imprenditore capace deve avere una fortuna incomparabilmente più
grande di quella sinora richiesta per le
teorie scientifiche: egli ha tanto più
successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni
della razionalità scientifica - che
essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro
adottabili anche dalla concorrenza.
Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque
in direzioni opposte: azzeramento e
moltiplicazione del rischio. La
tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua
base sta il crescente potenziamento
dell’economia e il crescente
indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel potenziamento corrisponde non solo
l’indebolimento dello Stato, ma anche
quello della produzione economica legata
principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo imprenditore. La «macchina» economica tende
cioè a diventare l’erede della
«macchina» statale e del compito,
proprio di quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio del vivere.
Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto rispetto ai bisogni della società civile, le
destre mirano invece, ancora, a
un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non
esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in
questo modo si mira a qualcosa che corre
a sua volta il rischio di diventare obsoleto
prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha
il diritto di rischiare e di imporre il
rischio alle minoranze, credendo che la
fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori statali. Però è opportuno sapere quel che si
sta facendo. La difesa dello Stato
tradizionale contro le prevaricazioni
dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta stentano a comprendere la tendenza, di cui si
è detto, che conduce dalla «macchina
tecnicamente razionale» dello Stato a
quella di una economia sempre più simile alle procedure scientifiche e sempre meno bisognosa del
carisma e della fortuna di certe persone
- la presenza delle quali può peraltro
costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre credono nella necessità di rafforzare
l’iniziativa privata; e la concezione
minimalista dello Stato non equivale, per le
destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre continuano a credere nella capacità
dell’apparato giuridico statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello
Stato può essere superata restando
all’interno della politica. Ma si vuol
riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e quella economica sono «tecnicamente»
razionali? Non è già significativo che
tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo
siano considerati delle «macchine»? Si tratta di comprendere che è la tecnica a conferire potenza agli
Stati e alle economie. E si è richiamato
che nel suo significato più autentico la
tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero filosofico degli ultimi due secoli - alla
voce cioè che mostra l’inesistenza di
ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e
innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la condizione che
consente all’operatività tecnica di
accrescere indefinitamente la propria potenza.
Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del vivere, non sarà più né la forma tradizionale
dello Stato, né lo Stato-azienda, ma la
tecnica, di cui entrambi hanno così
bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato
o lo Stato-azienda che si servono della
razionalità tecnologica, ma quest’ultima
che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati mezzi: mezzi di cui la
tecnica può servirsi per accrescere il
proprio dominio sul mondo. Se a questo
punto si vuol usare ancora la parola «politica», si può dire che la «grande politica» è
destinata a restare estranea alle destre
e alle sinistre mondiali sino a quando non
comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla dominazione dello Stato e dell’economia
conduce alla dominazione della tecnica. In
uno dei suoi significati economici più importanti la «collaborazione» -- di Grice, ‘the principle
of conversational helpfulness – efficenza e solidarieta -- riguarda oggi, nel
sistema capitalistico, il rapporto tra
datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio di questo termine). Con la fine del
socialismo reale è finita anche, nelle
società avanzate del pianeta, la volontà di
soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col suo opposto, cioè con la lotta di
classe. La collaborazione riguarda il
rapporto tra gli interessi di chi lavora
e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si
propone soltanto il proprio interesse,
cioè l’aumento del profitto, ma anche la
salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il lavoratore collabora con gli
interessi del capitale quando non si
propone soltanto di aumentare il proprio
tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione conduce alla «solidarietà»; il secondo
all’«effìcienza». Fino a questo punto,
si può credere che, sia nell’ambito del
capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la collaborazione di cui stiamo parlando, ci si
proponga, in egual modo, la sintesi di
efficienza e solidarietà - la sintesi in cui,
appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il centro del problema stia nel saper realizzare
le condizioni che conducono alla
collaborazione. Ma in questo modo si va fuori
strada: non si scorge la configurazione autentica del problema e ci si priva degli strumenti per poterlo
affrontare. Visibilissima in tutte le
società avanzate, la lotta tra capitale
e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della «lotta di classe» marxista; ma non si
estingue con la realizzazione di quella
sintesi di efficienza e solidarietà che
sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del 55
capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui
tale sintesi è perseguita da queste due
forze. Oggi si tende a mascherare
questa diversità. Per esempio dicendo che
efficienza e solidarietà «devono alimentarsi in
una circolarità virtuosa» - una espressione che si è fatta strada tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel
mondo cattolico (o, in generale,
cristiano) e in quello delle sinistre. Nella
alimentazione circolare i due elementi in circolo sono posti sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è
un’apparenza la «virtù» del
circolo. Infatti, dal punto di vista
del capitale i «livelli di solidarietà»
(quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta la solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di
sotto dei quali il capitale ritiene che
l’efficienza (cioè l’incremento del profitto)
non possa scendere. Ma dal punto di vista del lavoro i livelli di efficienza (cioè fino a che punto debba
essere promosso lo sviluppo economico)
sono stabiliti dai livelli al di sotto dei
quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio tenore di vita e la qualità della propria
vita. Nel primo caso la collaborazione
di efficienza e solidarietà ha come scopo
primario e dominante l’efficienza; nel secondo caso la collaborazione ha come scopo primario e
dominante la solidarietà. Nel primo caso
la solidarietà è un mezzo per realizzare
l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per realizzare la solidarietà. In entrambi i casi
le due semicirconferenze della
«circolarità virtuosa» sono diseguali,
si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante, cioè viziosa. I due avversari possono gettarsi a vicenda
polvere negli occhi, invocando ed
elogiando la collaborazione. Ma quando
la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come scopo il
bene comune della società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di
collaborazione, dove lo scopo dell’agire
economico è la solidarietà e
l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che «non si può dire a un capitalista
“limita il tuo guadagno”», perché «un
imprenditore deve produrre ricchezza e
quanto più lo fa, più opera per il bene della
società», il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza e di solidarietà, cioè a una forma
di collaborazione dove invece lo scopo
dell’agire economico è l’efficienza e la
solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una
circolarità viziosa, dove ognuno dei due
fattori circolanti tende a fare dell’altro il
proprio «alimento» evitando di diventare a sua volta l’«alimento» dell’altro. Ciò significa che la «collaborazione» è un
paravento, una maschera che più o meno
consapevolmente nasconde il proprio
opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la
collaborazione tra interessi del
capitale e interessi del lavoro esistesse per
davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e pertanto non esisterebbe
più né il senso autentico dell’intrapresa
capitalistica, né il senso autentico del
lavoro; e che se invece questi due fattori esistono per davvero - come in effetti esistono storicamente per
davvero -, allora ognuno dei due vuole
diventare lo scopo dell’altro e ridurre
l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro «alimentarsi in una circolarità virtuosa»
svanisce, cioè svanisce la loro
collaborazione. Si tratta infatti di
comprendere che se lo scopo dell’agire
economico è la sintesi di quei due fattori - ossia è la sintesi costituita dalla loro collaborazione -,
allora, in questa loro sintesi, ognuno
dei due limita l’altro, gli impedisce di espandersi sino a diventare l’unico
scopo, e quindi ne distrugge la
configurazione originaria. Se un uomo (fuor di
metafora: l’agire economico) ama due donne (fuor di metafora: la crescita del profitto e la
solidarietà), e crede che il suo amore
per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a
«collaborare», cioè ad «alimentarsi in una circolarità virtuosa», quest’uomo si inganna, perché
l’amore che darebbe a una se non ci
fosse l’altra non può esserci più quando oltre a quell’una ama anche l’altra. Se i due amori
si alimentano virtuosamente e
collaborano, ognuna delle due donne è meno
amata, l’amore «vero», «esclusivo» che ci sarebbe potuto essere per lei è andato perduto; se invece
questo amore «vero» ed «esclusivo»
rimane, allora esso non potrà più dividersi tra
le due donne e cioè l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’una finirà inevitabilmente col detronizzare e
vanificare l’amore «vero» ed «esclusivo»
per l’altra. Fuor di metafora: o efficienza
e solidarietà collaborano, ma allora non
ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di «non limitare il proprio guadagno» - né dottrina
sociale della Chiesa o delle sinistre,
che, sia pure in modo diverso, non
intendono limitare la realizzazione del bene comune, sacrificandone parti o aspetti al profitto;
oppure efficienza e solidarietà mantengono
i caratteri che storicamente sono loro
propri e per i quali ognuna di queste due forze intende essere lo scopo primario dell’agire economico, ma
allora non ci potrà essere
collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto più o meno mascherati. Per ora, si può dire che ognuno dei due
antagonisti tende a predicar male e a
razzolar bene. Cioè predica la
collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno consapevolmente, la propria rovina - e questo
è appunto il predicar «male»), ma in
effetti persegue il proprio scopo
tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e questo è appunto il razzolar «bene»). Ci sono
avvisaglie, nel mondo, che oltre a
predicar male i due avversari incomincino
anche a razzolar male, e cioè incomincino a «collaborare». Ma questo fatto vorrebbe dire che i due
avversari - efficienza capitalistica e
solidarietà cristiana o progressista - stanno
avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel «vero» amore per una donna quando esso viene a
trovarsi in compagnia dell’amore per
un’altra. Stanno avviandosi al tramonto
perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. Che cos’è oggi un «governo
tecnico» in Europa - e, con qualche
riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni,
vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica, si propongono il benessere di
quel popolo. Ma tale «benessere» non è
lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa
cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell’«uomo» e
del «bene». Appunto per questo, quando
si produce un forte condizionamento
politico dei partiti che sostengono un
governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una
mescolanza di competenza scientifica e
di volontà politica, e la competenza
scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte
hanno del benessere del popolo che esse
intendono guidare. Tale concetto non ha
un carattere scientifico. L’azione
politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la «politica» (Yazione politica) è un’«arte»,
avvolta quindi da quell’alone di
arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade
quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto
più lontana dalla coerenza scientifica
quanto più accentuato è il contrasto delle
forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere
puramente strumentale, il cui scopo non
ha un valore scientificamente appurabile; ma
è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene
affidata la sorte del mondo. (Certo, si
dovrà poicapire che cosa sta dietro la
ragione scientifica.) Ma nei
governi tecnici che agiscono nelle economie di
mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il condizionamento
politico, è il benessere quale è inteso,
appunto, all’interno delle categorie della produzione capitalistica della ricchezza. In questa
situazione, il capitalismo è la
condizione ultima della politica e del governo
tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo si serve. Chi si propone ancora, nel mondo democratico,
una economia non capitalistica? Tolta
qualche eccezione, anche le sinistre
vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di marxismo o di economia pianificata. La
contrapposizione tra destra, sinistra,
centro ha un consistente denominatore
comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico. Parlare dunque di un condizionamento
capitalistico dei governi tecnici e
della politica sembra soltanto un’owietà. E
lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro,
destra, sinistra significa,
innanzitutto, adottare correttamente e
seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano che il «riformismo» del governo di Monti si
sia rivolto a (quasi) tutte le
formazioni politiche, rendendo più visibile che
(quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno della logica capitalistica. Tecnica e politica sono un
mezzo di cui il capitalismo si serve per
realizzare i propri scopi. Sennonché
nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza
economica può sostenere che esso è la forma più efficace di produzione della ricchezza, ma all’essenza
del capitalismo appartiene il rischio,
Yazzardo, mentre la scienza è
essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano leggi a rischio, azzardate, e dunque
arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del
capitalismo, ha sostenuto che la sua
crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la routine delle procedure tecno-scientifiche.
D’altra parte, anche per il carattere
rischioso del proprio agire, il capitalismo
si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento
del capitale 61 privato. Anche per il capitalismo si deve
dunque affermare che esso, assumendo
come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la
scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come «la ragione»
per eccellenza) serva a realizzare la
non-ragione. Tuttavia, la situazione si
complica ulteriormente quando accade che
la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma
anche, e magari fortemente, dalla
dimensione religiosa, per esempio dalla
Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo
(evitando le degenerazioni dell’agire
economico e politico e anche religioso),
servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il
capitalismo lo scopo primario dell’agire
economico e quindi del governo è
l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto
non deve essere il profitto, ma il «bene
comune» quale è appunto concepito dalla
dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del
«bene comune». Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da
tempo) che il capitalismo abbia come
scopo il «bene comune» e non il profitto
è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo
primario il profitto, vuole, a volte non
rendendosene conto, la distruzione della
società cristiana. È un problema, questo, che
non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che
governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni
fa, in un articolo sul «Corriere» poi incluso
in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al
convegno di Cernobbio di quell’anno, di tenere
insieme efficienza capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo mostrato
le difficoltà a cui va incontro non solo
tale proposta, ma ogni progetto politico
che intenda conciliare democrazia,
capitalismo, cristianesimo.)
Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia si renda percepibile quella gigantesca trasformazione
del mondo che è costituita dalla crisi
del capitalismo (e del cristianesimo - e
della politica). Un governo che assuma
come scopo primario sia l’efficienza sia la solidarietà, assume infatti uno scopo che non può essere né
quello del capitalismo né quello della
Chiesa, i quali non intendono avere al loro
fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove l’efficienza subordina a sé la solidarietà,
servendosene, e la solidarietà, a sua
volta, subordina a sé l’efficienza,
servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in posizione paritaria sia l’efficienza
capitalistica sia la solidarietà cristiana
si illude, cioè si propone di realizzare una
contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati
soddisfacenti: significa che tali
risultati saranno inevitabilmente provvisori,
instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di poter ottenere. Come di regola
accade lungo il corso storico. Comunque, sia illudendosi di unire
efficienza capitalistica e solidarietà
cristiana (e politica) sia evitando questa
contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso dell’efficienza e della solidarietà e dunque
della loro unione, proporsi come scopo
tale unione servendosi delle competenze
tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità
umana (la tecno- scienza, appunto) è
posta al servizio di forme meno rigorose
di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al servizio della non potenza. E la potenza, la
capacità di realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo. Proporsi, come accade nei governi tecnici
d’oggigiorno, di eliminare le
degenerazioni della politica e dell’economia è
però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce col capire che le società diventano potenti e
ricche non eliminando la «cattiva»
politica e la «cattiva» economia, ma
mettendo la buona politica e la buona economia (che anche risanate sono pur sempre forme meno rigorose
dell’agire razionale) al servizio della
tecnica guidata dalla scienza - della
tecnica, il cui scopo è precisamente l’aumento indefinito della potenza.
64 Ili Democrazia e tecnica 1. Europa e America Difficile smentire, nel loro insieme e nel
loro senso più corrente e generale, le
osservazioni proposte nel 2003 dalla
rivista «Liberal» (n. 19) per la discussione intorno agli Stati Uniti d’America. Esempio. «Dall’Europa, dalla
sua cultura politica prevalente, si
guarda sempre più all’America in modo
semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua democrazia e a sottolinearne, al contrario, i
limiti.» Se le espressioni «Europa» e
«sua cultura politica prevalente»
indicano soprattutto gli umori dell’opinione
pubblica europea, allora è un «fatto» che mentre alla fine della seconda guerra mondiale gli Americani erano
per gli Europei i «liberatori», oggi
vengono piuttosto sentiti come i cittadini
di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del proprio operato. Questo è un problema di
«psicologia delle masse», facili a
dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il ricambio generazionale fa sì che i dimentichi
di oggi non siano più i beneficiati di
ieri). Se invece «Liberal» intendesse
affermare che oggi in Europa è in atto
una critica dei valori espressi dalla
Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire che in Europa cresce la preferenza (o la
nostalgia) per lo Stato autoritario. Ma
questo non è vero (in Europa i partiti di
estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze); e non sembra nemmeno che «Liberal» voglia
sostenere questa tesi. Fuori
discussione, invece, che quella americana è la
prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo moderno - la prima, cioè, dove il principio
della libertà dal potere politico si
unisce al principio dell’eguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge. E fuori discussione, inoltre, che «gli
Stati Uniti sono nati da una grande
decisione collettiva di proteggere gli interessi e il bene comune», definiti soprattutto in
relazione a ciò che essi significano
nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto
più essa ha inteso arginare (con
maggiore o minore successo) gli interessi e il
bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse e il bene
comune, ma l’interesse e il bene
privato, cioè l’incremento del profitto (sì
che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica, non sono lo scopo dell’agire economico, ma
una conseguenza, un sottoprodotto di
quell’incremento). Relativamente allo
sfondo (o al contenimento) liberal-
democratico del capitalismo si può dire, con «Liberal», che «è la natura della democrazia americana a
presentarsi come un fenomeno unico anche
nel contesto più generale
dell’Occidente». La domanda
centrale (e, se non mi inganno, retorica) di
«Liberal» suona comunque: «Non è forse questo» - americano - «l’unico modo di vivere una
democrazia, che altrimenti si
limiterebbe ad essere un insieme di
procedure...?»; e tale domanda è preceduta dalla affermazione della capacità della democrazia
americana di credere in sé stessa e di
assumersi le proprie «responsabilità».
Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni eterogenee: da un lato, la tesi che la
condotta storico fattuale degli Stati
Uniti è sostanzialmente fedele al proprio
ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa avrebbe il miglior ordinamento costituzionale
se adottasse quello statunitense; e,
anche che gli Europei condurrebbero la
miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si adeguassero alla propria rinnovata
costituzione così come gli Americani vi
si adeguano. 66 Tesi, queste ultime, che possono essere
veramente discusse, ma che lasciano
fuori campo la questione preliminare e
decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta
americana, in Afghanistan e in Iraq,
all’attacco terroristico dell’11
settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno Stato che agisce in base alla
convinzione di essere di fatto rimasto
l’unica Superpotenza alla guida del
mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a esserlo?
La risposta americana all’attacco subito era inevitabile (come in altre sedi ho motivato), ed era
inevitabile che la risposta avvenisse
nella forma della «guerra preventiva»
concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel che si è detto in proposito, non sta qui il
problema - il problema preliminare e
decisivo. Esso riguarda il contesto
delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa fase della loro storia. Altro è infatti
credere che i supremi interessi dello
Stato americano richiedano che esso si difenda
adottando misure come la «guerra preventiva», ma lo si creda sapendo che tali misure, prese in modo così
fortemente autonomo, sollevano il
problema, non meno grave di quello del
terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia americana e il resto del mondo, e cioè
sapendo che tale problema è, appunto,
problema e non soluzione; altro è che
gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano convinti che, poiché sono di fatto venuti a
trovarsi alla guida del mondo, o hanno
il compito di porvisi, allora l’autonomia
esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza naturale della loro primazia planetaria. Due
atteggiamenti profondamente diversi,
questi due, e, soprattutto negli ultimi
tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto è alimentato dalla coscienza crescente che
gli Stati Uniti non 67 possono reggere da soli il peso immane di
cui il secondo, e trionfalistico, di
quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli.
Affermare che «l’unico modo di vivere una democrazia» è quello americano significa certamente che
l’Europa non può mettersi in rotta di
collisione con gli Usa. Ma significa anche
che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della riflessione politica auspica che l’Europa non
allenti i legami con gli Usa e che
d’altra parte non ne sia succube. Ma può
l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè militarmente forte, o addirittura competitiva
rispetto agli Usa - e continuando ad
affidare aU’America la propria difesa? Sembra che vi sia stata la tendenza a
sottovalutare l’asse
Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in contrapposizione alla guerra Usa contro
l’Iraq. Ma si parla anche
dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi
passi verso l’economia di mercato sia
per la rinnovata visibilità della Chiesa
ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo è stato poi incluso ne II declino del
capitalismo, cit., col titolo L’Europa
tra America e Russia ): «Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è che la Russia, una volta
aiutata dall’Occidente a uscire dalla
crisi economica in cui si trova
attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella protezione militare, contro le minacce del
Sud, di cui gli Stati Uniti hanno oggi
il monopolio - e in nome della quale
possono pretendere che l’Europa stia in posizione subordinata, perché non può restituir loro un
vantaggio di egual peso. Scambio che
invece è possibile nel rapporto tra Europa
e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria
potenza militare, ma anche la Russia,
che può consentire questo aumento, ha a sua
volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un processo che
d’altra parte già allora si presentava
tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto
riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente
l’efficienza solo se la gestione e il
controllo di esso fossero effettuati, oltre
che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la
situazione è cambiata: la crisi
economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto meno forte nella contrattazione con una
Russia che ha superato il trauma dovuta
al tramonto del marxismo e dell’economia pianificata. Da ciò si spiega
l’aumento della diffidenza dell’Ue
(perfino della Germania) nei riguardi della
Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà superata, il processo che conduce a una più
stretta collaborazione politica tra
Europa e Russia subirà un inevitabile
rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i quali diventa peraltro sempre più pesante il
compito di contenere anche in Europa la
pressione del mondo arabo -, l’Europa
non intende diventare satellite della Russia. D’altra parte è nella natura della storia dei
rapporti secolari tra Europa e Russia,
della situazione geopolitica e degli attuali
rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a formare un unico sistema euroasiatico di
controllo della conflittualità internazionale,
insieme a Stati Uniti, Cina, India. E se
da un lato è nell’interesse della Russia che la
decadenza dell’Europa venga arginata per non essere coinvolta, dall’altro lato la Russia non può
non capire che gli Stati Uniti non
accetterebbero mai che per tale decadenza la
Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se oggi l’Europa è più debole che in passato
nella contrattazione con la Russia,
esistono tuttavia le condizioni perché il
rapporto tra queste due aree tenda a riequilibrarsi. Non si tratta qui di «auspicare» (o
«temere») la simbiosi Europa-Russia, ma
di constatare una tendenza che è
nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze, innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono
gli Usa come l’unica Superpotenza che
non può rinunciare a questo suo status e
che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche
la Chiesa cattolica, che vedrebbe
ridimensionata la sua presenza in Europa
ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa, per bocca dell’allora ministro degli Esteri
vaticano Tauran ha manifestato
perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione europea, aggiungendo che
prima si dovrebbe pensare all’entrata di
Stati come l’Ucraina e la Moldavia.)
Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la pace nel mondo, nonostante l’insanabile
contrasto ideologico delle due
superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha anche contenuto e controllato la loro
aggressività. Impensabile, in quel
tempo, un terrorismo islamico. Per
quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in modo decisivo ad assicurare la pace delle
società democratico-capitalitiche. Da
quando si è creduto che il bipolarismo
fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati
sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante dal fatto che la Russia, avviandosi verso la
democrazia e l’economia di mercato, si è
sempre meno presentata come guida delle
rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più schierata in favore delle popolazioni slave
contro quelle mussulmane. Il bipolarismo
Usa-Urss è stato (come da vent’anni
sostengo) la prima incarnazione dello Stato
mondiale - ossia del «monopolio legittimo della violenza» esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La
tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi 1988); e sin dalla caduta del
muro di Berlino sostengo che la scomparsa del
bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il bipolarismo ha un carattere
primariamente militare, che non è certo
venuto meno per il fatto che l’arsenale
nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa, non è più gestito da una ideologia
totalitaria (Cfr. E.S., Il declino del
capitalismo, cit.). Se il bipolarismo
gestito da irriducibili avversari ideologici
ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato l’ingenuità della convinzione che le due
maggiori potenze della terra
considerassero seriamente la possibilità di
distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso un
bipolarismo costituito da due dimensioni economico- politiche (Usa e Europa-Russia), che, in
parte già omogenee, per quanto riguarda
l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi
e che, insieme, possono costituire quel centro
dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito da una sola delle due. È nello stesso
interesse di quest’ultimi che tale nuova
forma di bipolarismo prenda piede. Ed è
prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro autentici interessi. Degno di nota, in
proposito - ripetiamo - che in Italia il
presidente del Consiglio del governo di
centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia nell’Unione europea. Le considerazioni qui
sopra sviluppate indicano il contesto in
cui tale proposta può avere fondamento.
E forse è interessante anche (e non paradossale, come a prima vista potrebbe sembrare) che
quella proposta sia accompagnata dalla
volontà di mantenere un asse
preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella proposta può essere infatti condotta a
significare che l’Europa può essere la
vera alleata e dunque non subordinata
ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza economica, anche quella militare, che oggi
continua ad avere il suo fulcro in un
arsenale atomico invincibile, cioè in un
apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire (nonostante la chance nucleari di Francia e
Inghilterra), ma che la Russia realmente
possiede, e la cui perpetuazione diventa
tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta, quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza
che in un mondo sempre più pericoloso
l’invincibihtà atomica è un bene
irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il capitale atomico cedendone porzioni in cambio
dei vantaggi economici che i compratori,
più o meno affidabili, potrebbero
assicurarle. L’entrata della
Russia in Europa pone indubbiamente enormi problemi - soprattutto, si è già
detto, per quanto riguarda la gestione
dell’apparato nucleare russo -, che però
sono pur sempre inferiori a quelli dell’alternativa costituita da un mondo sempre più complesso (anche per
l’affacciarsi di nuove grandi potenze
come la Cina) ed esplosivo, dove gli Usa
fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e dove le difficoltà economiche della Russia
potrebbero farle perdere il controllo
del proprio apparato nucleare a vantaggio
del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli ricchi e poveri si risolve riducendo il loro
dislivello economico; ma la tendenza
verso l’entrata della Russia nell’Unione
europea e il conseguente rinnovato bipolarismo
stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro
indifferibile decisione di ridurre la
loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. La costituzione americana è
un grande modello di società
liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa senza tener conto del processo storico reale
che spinge l’Europa a confrontarsi col
problema-Russia. È un’astrazione anche
perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e dell’economia di mercato è che quest’ultime,
dopo la fine del socialismo reale, non
abbiano alternative. Ma, anche qui,
debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo. Infatti il Meccanismo inaggirabile -
richiamato anche nelle pagine precedenti
- per il quale le grandi forze che oggi
guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri,
socialismo reale), e che lo guidano
servendosi, come mezzo, della tecnica moderna,
sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale
dunque è destinata a diventare il loro
scopo. Ma la tecnica destinata a
diventare scopo non è la tecnica
scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico- tecnologico in quanto esso va unendosi
all’essenza della filosofia
contemporanea, ossia alla struttura concettuale che negli ultimi due secoli ha mostrato
l’impossibilità di ogni limite assoluto
all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è
guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la
guida e le fa scorgere l’impossibilità
di ogni limite assoluto dell’agire, la
tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica che invece sia assunta
come mezzo e pertanto sia limitata e
frenata dagli scopi delle forze della
tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la destina - in un mondo che crede sempre di
meno nei valori assoluti della
tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica che funzioni come mezzo per
la realizzazione di tali valori. Già da
questo ordine di considerazioni si può capire che lo strumento vincente conduce a una situazione
dove la sua tutela e Fincremento della
sua potenza sono destinati a diventare
lo scopo delle forze che invece vorrebbero
trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la democrazia si serve della
tecnica, ma il mondo procede verso un
tempo in cui sarà la tecnica (intesa in
quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia
a utilizzare l’organizzazione
democratica della società per realizzare
Fincremento della propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo
politico che appartiene all’insieme dei
limiti assoluti di cui il pensiero
filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo della tecnica è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla
democrazia che diventa mezzo della
tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè dell’etica, è qualcosa di
essenzialmente diverso della ricchezza
che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di
essenzialmente diverso dall’etica di cui
la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato
perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile -
un rovesciamento, peraltro, che pur non
dicendo affatto l’ultima parola, è destinato
a dominare per lungo tempo la storia del
pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi
della tradizione occidentale, Marinotti
1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su
diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S., Capitalismo senza futuro, cit.).
La democrazia europea e americana continuano a concepire la tecnica come mezzo per
realizzare un mondo democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si
può vedere nella costituzione americana
il modello stesso della vita
democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo
nella misura in cui diventa mezzo della
tecnica, e se la democrazia come mezzo è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il problema dell’adeguazione
della democrazia europea al modello
americano diventa obsoleto, perché a
questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova configurazione venga ad assumere -
negli Stati Uniti, in Europa, in Russia
- la democrazia, una volta che essa sia
ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge
lo stesso problema, prima considerato,
relativo al rapporto tra Usa, Europa,
Russia. Il processo che conduce verso
il nuovo bipolarismo democratico è
inscritto cioè nel più ampio e più profondo
processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito potenziamento della tecnica - in quanto unita
alla consapevolezza filosofica che non
esistono limiti assoluti all’agire umano
(«Dio è morto») - diventa lo scopo delle forze
che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa lo scopo della stessa democrazia. La
rivista «Liberal» rileva che la democrazia
americana «crede anche nelle
responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i suoi principi di riferimento». A fondamento
di questa fede si trova la volontà di
non cedere agli avversari; e tale volontà è
concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le consente di
non cedere. Ma sino a che tale apparato
è mezzo, strumento, esso è soggetto al
logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia stessa non può permettere che abbia a
logorarsi lo strumento che le assicura
la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in quanto evita che la tecnica,
ossia il proprio strumento, attualmente
insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo
accennato, la strada dove la democrazia
stessa rinuncia a porsi come lo scopo
dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire la tutela e rincremento indefinito della
potenza del proprio strumento. Lo stesso
discorso va fatto a proposito di tutte le
altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della tecnica come mezzo per la realizzazione dei
loro scopi (reciprocamente
escludentisi). D’altra parte la
liberal-democrazia americana è unita
all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è più lo scopo dell’azione storica degli Stati
Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza
planetaria, non intendono sviluppare la
propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di incrementare il profitto dei grandi trust del
capitalismo americano, ma, all’opposto,
intendono servirsi del profitto che
l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di sviluppare la propria potenza e dominare il
mondo. Infatti, anche questi due scopi
sono tra loro conflittuali; ed essere
potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e quindi la stessa ricchezza che dalla potenza
è resa possibile e sostenuta. L’inevitabile percezione di questa
conseguenza spinge l’America verso un
atteggiamento dove essa vuole essere ricca
per essere potente, cioè per incrementare la potenza del proprio apparato tecnologico, di cui ci si
illude ancora, negli stessi Usa, di
servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più
giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del tramonto dei valori della tradizione
occidentale - tra i quali, va
sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo
scopo dell’agire non è più l’incremento
capitalismo del profitto, e quindi non è più la liberal-democrazia in quanto a
esso unita: lo scopo diventa la tecnica;
e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare. Ma già qui è
opportuno rilevare (e l’osservazione vale per
tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il «rovesciamento» in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo -
il meccanismo cioè del rovesciamento - è
un «movimento» che si costituisce
alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede appartiene alla follia estrema del mortale
(cfr. cap. VI). Come tale follia diventa
coerente quando essa nega ogni immutabile
e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per dominarlo, così la follia estrema diventa
coerente quando la volontà di far
diventar altro le cose esce dalla situazione in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed
entra nella situazione in cui il
potenziamento infinito della tecnica
diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle
cose, e pertanto della volontà di farle
diventare altro, il «rovesciamento» di cui
stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello sguardo del destino,
invece, appare che, commisurato alla
verità autentica ossia al destino della verità,
il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non
essendo invece un nulla la fede, la
certezza che tale contenuto non solo non sia
un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che
l’apparire di quelVeterno, che è la fede
di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da
quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa scopo - dove questo rovesciamento, cioè
questo scambio delle parti, ha un
carattere vincolante, ossia è qualcosa di
inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà
interpretante, ossia della fede. In
altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla
propria logica, afferma la «necessità»
che quella volontà di far diventar altro le cose, in cui la tecnica consiste,
divenga, da mezzo, scopo. Il discorso
va esteso all’intero contenuto della volontà
interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma tutte le determinazioni che restano evocate
dalla volontà intepretante sono degli
eterni che appaiono con necessità così
come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente diversa da quella che compete alla logica che
guida la fede e la volontà
interpretante. Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in queste pagine si afferma che lo «scambio
delle parti» - ossia il rovesciamento
del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo
senza futuro, cit.). Nell’agire, lo
scopo, come «idea» - ossia come primum in
intentione, come «presenza ideale nella mente di chi agisce» - determina il mezzo da cui è realizzato: lo
configura, lo orienta e gli assegna i
limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a realizzare tale scopo. Lo scopo, come «fatto
reale» - ossia in quanto è Yultimum in
executione -, è prodotto dal mezzo; ma,
prima e durante questa produzione, la «presenza ideale» dello scopo guida, controlla, regola la produzione
del mezzo. (Ad esempio, la decisione di
far guerra guida, controlla, regola la
produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di
cui quella decisione si serve per realizzarsi?) Se uno scopo è in conflitto con altri scopi
e non intende farsi sopprimere da essi,
e anzi intende prevalere e sopprimerli,
l’agire che mira a farlo prevalere non può evitare di potenziare il più possibile il mezzo di
cui tale agire si serve per far
prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre i limiti al di là dei quali il mezzo non è più
guidato, controllato, regolato dallo
scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo
non può concentrare tutte le proprie energie nella produzione e nel perfezionamento e potenziamento del
mezzo, altrimenti non resterebbero più
energie e tempo per la realizzazione
dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e potenziare il più possibile il mezzo con cui
ci si propone di realizzare uno scopo
sottrae il mezzo alla guida, al controllo,
alla regola che lo scopo stabilisce per la produzione del mezzo. Se, nel conflitto tra scopi (e nella
storia dell’uomo nessuno scopo si è
trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia
alla propria o a una parte della propria
determinazione del mezzo e potenzia il
mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo, gli scopi antagonisti saranno certamente
vinti, ma il vincitore non sarà nemmeno
lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a
determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso. Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe
essere il suo scopo, il mezzo che ha
vinto non ha realizzato il proprio scopo
perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che, insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato
uno scopo diverso da quello che
inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è
stato realizzato è diventato il
potenziamento del mezzo che doveva realizzare
un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale potenziamento, il vecchio tenta di restare
aggrappato per poter mantenere ancora la
propria funzione di scopo. Ma invano,
perché la fine di un conflitto è solo una parentesi nella conflittualità che è ineliminabile
perché è dovuta all’esistenza stessa
dell’agire e della volontà; sì che viene alla
luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del mezzo, che non consente ai vecchi scopi di
restargli aggrappati per sopravvivere
come scopi. Anche lo Stato parassitario
che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a
tramontare. Una situazione, poi,
in cui nessun agire oltrepassi i limiti
che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi sarebbe una situazione non conflittuale, cioè
una situazione impossibile, perché le
cose che la volontà di una certa forma
di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le stesse che la volontà di una cert’altra forma
di agire vuol trasformare per ottenere
uno scopo diverso, e quindi il conflitto tra le due volontà è inevitabile. Quando si afferma che il fine non giustifica
i mezzi, si intende che i mezzi devono
essere coerenti al fine voluto. Il fine
giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la giustificazione dei mezzi è anche la loro
limitazione. La giustificazione dei mezzi
da parte del fine è la loro
mortificazione, il loro freno.
Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per
realizzare scopi, è una contraddizione, dove,
da un lato, lo scopo guida il mezzo da
cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che impediscono tale realizzazione, lo scopo non
guida il mezzo. Da un lato il mezzo è
potenziato fino a un certo punto,
dall’altro è potenziato oltre quel punto. La «libertà» dell’individuo moderno è la
facoltà di realizzare una serie di
scopi, e nella democrazia la libertà di
un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri individui. Lo Stato moderno dovrebbe
garantire l’equilibrio, cioè i limiti
che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma anche
all’interno dello Stato moderno queste
diverse serie sono tra loro conflittuali, e
pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione. La libertà del cittadino è contraddizione.
All’interno della contraddizione si
trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù,
che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel
conflitto, chi ha vinto un avversario
autentico - cioè che non si limita a subire lo
scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario - ha dovuto potenziare i
propri mezzi oltre i limiti che
determinano i mezzi e definiscono lo scopo del
vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per non perdere ha dovuto a sua volta
oltrepassare il più possibile 83 i limiti che determinano i mezzi di cui
disponeva e che definiscono gli scopi a
cui mirava. L’avversario autentico non
perde (diventando in tal modo «servo» o «schiavo») perché non ha oltrepassato quei limiti, ma perché,
oltrepassandoli non ha ottenuto dai
propri mezzi la potenza che dai propri è
riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è contraddizione proprio perché è
contraddizione anche l’agire del vinto.
Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi in vista della realizzazione di scopi, e si
trova essenzialmente all’interno di una
situazione conflittuale, l’agire umano in
quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso punto di vista di chi non vede l’alienazione
dell’agire in quanto volontà che
qualcosa divenga e sia altro da ciò che
essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla situazione conflittuale di particolare
rilievo storico, dove le grandi forze
dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi conflittuali servendosi ognuna di una certa
frazione dell’apparato
scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo
dell’uomo. La filosofia del nostro tempo
mostra infatti, nella propria essenza,
che non può esistere alcuna dimensione divina e
immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso da quello tecnologico, cioè da ciò che nella
tradizione filosofica era l’adeguazione
dell’uomo e dello Stato alla verità
svelata dal sapere filosofico.
All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende guidare, controllare, regolare e
quindi limitare il mezzo tecnologico di
cui essa dispone. Ma nella situazione
conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze
sia oltrepassato e che il potenziamento
della tecnica divenga lo scopo supremo di
tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello «scambio delle parti» e, insieme, la
forma più imponente 84 della contraddizione dell’agire.
Capitalismo, comuniSmo, democrazia,
cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o
sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo tecnologico a loro disposizione, e,
dall’altro, sono (o sono stati)
costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il
potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la
tecnica è il fondamento della salvezza
di ogni scopo e quindi ogni scopo, per
salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo: per salvare
sé stesso ogni scopo è costretto a
rinunciare a sé stesso. Nel saggio di S. La tendenza fondamentale del nostro
tempo (Adelphi), ma anche prima in
Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in
altri scritti ancora, si mostra in che senso e per quali motivi è «necessario» affermare, da un
lato, che l’«essenza» - Inanima» - della
civiltà occidentale è il pensiero
filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro tempo, quando si riesca a scendere nel suo
sottosuolo essenziale, mette in luce
l’«inevitabilità» del tramonto della
grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto «inevitabile» destinazione della tecnica al dominio del
pianeta. Ma, fino a che non si scorge il
significato autentico di queste
affermazioni, esse scadono al livello della semplice notizia. (Se non intende essere la semplice opinione di
qualcuno, ogni affermazione dev’essere
infatti «argomentata». La parola
«argomento» proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che indicano il porre in chiara luce. Poiché la
luminosità può essere maggiore o minore,
per affermare qualcosa in modo adeguato
bisognerebbe dire che cosa propriamente significa «luce» e qual è il grado di luminosità di cui
la risposta si avvale. Da millenni
l’uomo tenta di dirlo.) In che consiste
l’«identità» dell’Europa? È stato indicato in
molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa in luce l’indicazione che è in grado di
includere tutte le altre e che non è
inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che essa sia la più «astratta». In quanto è
comune alla maggiore o minore «concretezza»
di tutte le altre, tale indicazione sta
infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla. L’«astratto» non è qualcosa di negativo; è
anzi il segreto in cui è riposta
l’adeguatezza della diagnosi. Si tratta
di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da cui è costituita la
storia europea. Oggi il sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi,
che la forma più rigorosa del sapere sia
la specializzazione scientifica - che,
appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni
sapere autentico - si dice - dev’essere
specialistico e quindi il senso dell’Europa
si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e
del frammento. Ma se solo il frammento
ha senso - se cioè il senso è
frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di inevitabilmente comune : di essere, appunto,
dei frammenti. Inoltre l’Europa è,
originariamente ed essenzialmente,
tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose. A un certo momento, in Grecia si incomincia a
pensare che una «cosa» è «ciò che è» -
l’«ente» - ed è come ciò che non era e
non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può
avere alcuna relazione con ciò che già
esiste, instaura relazioni provvisorie e
accidentali che verranno meno quando ciò che è non sarà più.
Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso contrario, ogni cosa è un frammento, è
isolata da ogni altra. La
specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella filosofia greca, che stabilisce una volta per
tutte il significato delVesser-cosa, con
un gesto che si rende sempre più presente
e operante in ogni azione e in ogni conoscenza: in ognuno degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che
formano la storia dell’Europa, dapprima,
e, ormai, dell’intero pianeta. In
questo significato consiste Yidentità dell’Occidente. A esso sono essenzialmente legate la volontà di
potenza e la violenza estrema. Si può
voler annientare qualcosa solo se si
crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé stesse figlie del niente e a esso destinate.
E la violenza dell’annientamento inseparabile dalla violenza della
creatività. Dapprima l’Occidente non si
accorge del proprio essere volontà
separante e costruisce le grandiose cattedrali della volontà unificante: il senso filosofico del
Tutto, che raccoglie in sé le differenze
e le opposizioni più marcate, il «Dio» di
tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto figli di Dio, la volontà di essere
comprensibile da tutti, lo Stato che è
il Dio in terra e dunque principio di unità,
l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli, la scienza che, prima di diventare
specializzazione, vuol essere a lungo
unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo che si rivolge ai lavoratori di tutto il
mondo perché si uniscano, la
«globalizzazione» del nostro tempo: sono alcuni
degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che, essendo stato concepito e vissuto come
separato, non può essere unito. È innanzitutto il sottosuolo del pensiero
filosofico del nostro tempo a portare al
tramonto la volontà unificante della
tradizione. Dio muore e rimane la «terra infranta». Su questa base, non solo ogni «integrazione» e
«interazione» tra i popoli, ma anche tra
gli individui dello stesso popolo, della
stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi provvisori.
Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari Schmitt). Anche su base linguistica, lex è
l’ordinamento imposto alle cose, che
quindi le costringe a stare insieme. La
«verità» è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole legare ciò che è vissuto e inteso come
originariamente separato. La verità è
quindi destinata al tramonto. E auctoritas
significa «potenza» (anche qui la linguistica lo conferma). La legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia
della costrizione che lega insieme le
cose. 88 La potenza della legge può essere maggiore
o minore. Oggi la potenza maggiore è la
tecnica guidata dalla scienza moderna.
Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha distrutto la «verità» e quindi autorizza la
tecnica a facere legem. La
specializzazione scientifica, Lisciamento e il
frammento sono legati alla costrizione che con la propria potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è
il fondamento di ciò che vien chiamato
«globalizzazione». Ma se ogni volontà di
unire ciò che non può essere unito è una
costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema della configurazione dell’evento che è
destinato a lasciarsi alle spalle la
stessa civiltà della tecnica. Stiamo parlando a un pubblico composto
soprattutto da giuristi. Che però sono
anche filosofi del diritto e quindi
comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento tenga conto anche delle sollecitazioni che
prima mi sono state rivolte. Innanzitutto è il caso che ci si chieda che
cosa significhi «filosofia». Se già qui
non ci intendiamo, faremo poca strada
insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia come un sapere che dipende dalla scienza, se
riteniamo cioè che la filosofia, per costituirsi,
debba incominciare col tener conto di
quanto si afferma nell’ambito del sapere scientifico. Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo,
e nel mondo c’è anche la scienza; ma ciò
non significa che la filosofia debba
fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne sono anche altre). Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza,
meglio lasciarla perdere, la filosofia;
che non potrebbe andare molto oltre una
specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar parlare questo sapere. Prima è venuto fuori
il nome di Searle. Che, anche lui
insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà
appunto per scontato che esista quella forma di storia del mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora
non esiste, seguita da un tempo nel
quale l’uomo esiste, e infine da un
tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il mondo continuerà a esistere più o meno a
lungo. Certo, la scienza procede
adottando la convinzione che la realtà esista
indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma
con eccezioni) gli scienziati (per
esempio Max Planck) lo affermano esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza
essere idealista, ammette la possibilità
che il mondo intero sia incominciato a
esistere da pochi istanti, corredato di tutte le esperienze che ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo
più lontano passato e con tutte le
aspettative e i progetti riguardanti il
futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus habens. Non credo tuttavia di esserlo, se
affermo che la filosofia non può
presupporre alcune delle pur mirabili
costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta di un sapere che, come l’amico Giorello sa
benissimo, oggi riconosce il proprio
carattere ipotetico. Ora, sarebbe
sorprendentemente improprio che si desse
credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al «senso comune», e lo si sollevasse al rango
di verità incontrovertibile, là dove il
sapere scientifico, perfino il sapere
logico-matematico, mette in questione la propria incontrovertibilità, la propria verità
assoluta. La filosofia è critica
radicale, radicale problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i
risultati della scienza (o di qualsiasi
altra sapienza, quella filosofica
compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la filosofia, autenticamente
intesa, richiede una concettualità estremamente
più radicale di quella scientifica.
Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere (ripeto) un panorama del sapere scientifico, o una specie
di pattuglia in avanscoperta dove alcuni
audaci, o incoscienti, si inoltrano nel
deserto per tentar di vedere di sfuggita e
approssimativamente come stanno le cose, in attesa che poi arrivino le truppe regolari, quelle della
scienza, che stabiliscono come le cose
effettivamente stanno e rimandano nelle
retrovie le avanguardie filosofiche. No: sin dall’inizio la filosofia ha inteso essere 1’evocazione
dell’innegabile, della verità in quanto
innegabilità assoluta. Anche quando si contrappongono i «fatti» alle
«interpretazioni» si tende a considerare
il «fatto» come l’innegabile, come ciò che non
può essere negato, mentre l’«interpretazione» - lo richiamava il professor Zaccaria - rende sì
particolarmente significativo il
«fatto», ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per cui da ultimo, nel confronto,
è il «fatto» che prevale - e prevale in
quanto, appunto, lo si ritiene
innegabile. La filosofia evoca
il senso radicale dell’innegabile unendolo
al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere
che i Greci chiamano alétheia la verità.
A-létheia significa, alla lettera, «non
nascondimento». Ciò che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il
pensiero greco la verità, nel suo senso
radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes
alethéias («scienza della verità» è una delle traduzioni correnti di questa espressione). Ciò che si disvela
neW alétheia è il contenuto assolutamente
stabile (epistémonikón ). Il tema -ste
di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta, nomina appunto lo stare di ciò che, disvelato, si impone
«su» (epi) tutto ciò che vorrebbe
spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire che epistéme tes alethéias esprime
sia un genitivo oggettivo (il sapere
assolutamente stabile che ha come
contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità assoluta che è il contenuto del
disvelamento). Questo senso radicale
della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è innegabile - è evocato
una volta per tutte dal pensiero greco.
«Una volta per tutte», anche perché
quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si dichiara di non voler proporre verità
assolute, incontrovertibili, definitive,
ci si riferisce appunto al senso
radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana. A questo
punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra nella sua stabilità, significa
che ciò che oggi è chiamato «coscienza»
è il luogo dell’innegabile. È nella
coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si rendono visibili. I Greci chiamano
phàinesthai la visibilità, l’ apparire (phàinesthai
deriva da phos, «luce», e il visibile,
essendo ciò che sta in luce, garantisce la propria esistenza). Ma come la semplice affermazione che X è X,
o che a X non possono convenire Y e
non-Y, non è sufficiente per poter
affermare che il principio di identità e di non contraddizione sono innegabili, così la semplice
affermazione che qualcosa appare non è
sufficiente per rendere innegabile il principio
della fenomenologia - che in effetti non riesce a essere che un presupposto, un dogma. Perché ciò che appare
non può essere negato? Con questa
osservazione alludo alla necessità di
procedere oltre l’immediata elevazione del visibile al rango dell’innegabilità. Il senso greco deìYalétheia
(da cui discende il «principio di tutti
i principi» della fenomenologia) è
ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta stabilità e innegabilità richieste dal pensiero
filosofico. Quando, sul «Corriere della
Sera», intervenni nella polemica sul
cosiddetto «nuovo realismo» (cfr., nel presente
saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali siano le possibilità del realismo e
dell’idealismo, ossia di forme
filosofiche che si presentano all’interno della storia dell’Occidente. I miei scritti indicano
tuttavia la dimensione che mostra perché
tale storia è il culmine de\Y alienazione
della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso della verità, ma aprono anche la strada al
pensiero in cui si intende come verità
ciò il cui contenuto è, in modo radicale,
l’alienazione della verità. In quel mio intervento sottolineavo la potenza concettuale di Giovanni Gentile;
ma non, ovviamente, perché il pensiero
di Gentile sia libero da 93 quell’alienazione. Ciò a cui quegli
scritti si rivolgono è abissalmente
lontano dal pensiero di Gentile. La potenza
concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale pensiero è massimamente rigoroso nell’errare.
Non tenendo conto di questa potenza
dell’errare, il cosiddetto «nuovo
realismo» (all’estero e in Italia) non fa cheriproporre (sembra senza rendersene conto) quel realismo della
tradizione greco- medioevale che è stato
messo in questione, e fuori gioco, dallo
sviluppo fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a Kant, all’idealismo fino, appunto,
aH’idealismo gentiliano. Giacché - qui
entriamo nel vivo della questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e
idealismo o tra realismo e ermeneutica,
ben più decisivo è il problema della
sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la verità
(l’incontrovertibile, l’innegabile) ha
assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad assumere
- e inevitabilmente. Queste considerazioni coinvolgono anche la
dimensione del pensiero giuridico.
Quando si confronta il fatto con
l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più compete il carattere dell’innegabilità, della
verità. Tuttavia in campo giuridico il
problema del rapporto fatto-
interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in relazione con la norma : l’accertamento del
fatto intende stabilire la compatibilità
del fatto con la norma. E l’accertamento
della convergenza o divergenza del fatto
rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché sia fatta giustizia. Il problema del rapporto
fatto-norma rinvia al problema della
giustizia; e tale problema riceve oggi (penso
ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente diversa da quella che gli viene data lungo la
tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di
«giustizia»? Nella Summa Theologica
Tommaso d’Aquino scrive: «Iustitia est
constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi», «la perpetua e costante volontà di assegnare
a ciascuno il suo ius». Una definizione
in seguito continuamente ripetuta
(qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio). Sono note le critiche che sono state rivolte
a questa definizione - non solo
tomistica, ma classica - di «giustizia».
Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il
definiendum, ma ius, che compare nel
definiens sarebbe daccapo identico al
definiendum). Eppure questa
definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a
Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : «giustizia» è, sì, che «ciascuno non abbia ciò che è di
altri e non sia privato di ciò che è suo
(IV, 433 e), ma quel che è decisivo è
95 che ciò che è «suo» è ciò
che gli spetta in relazione
all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito dell’ epistéme della verità mostrare,
indicando pertanto in che luogo di tale
Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La
verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la
giustizia è il riconoscimento, nel
conoscere e nell’agire, di ciò che, in
verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel
definiens della definizione qui sopra
menzionata non è dunque la semplice
ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter
mostrare in modo incontrovertibile
l’esistenza di un Ordinamento assoluto e
immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è solo in quanto ha il posto
che le spetta all’interno di tale
Ordinamento), la giustizia è appunto il
riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni cosa, e pertanto quella definizione della
iustitia non è un circolo vizioso. (Né
ciò significa che lungo la storia del
pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa grandiosa concezione della giustizia
illumina e domina anche la dimensione
giuridica della tra dizione occidentale.
Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il rapporto tra «diritto naturale» e «diritto
positivo». Il diritto naturale è il modo
in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato
dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società accade, i «fatti», e le norme
che la regolano. Tali norme si
inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò che spetta a ciascuno aH’interno di esso,
ossia ciò che a ciascuno spetta «per
natura» - la «natura» non essendo altro
che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale afferma che l’uomo ha un posto che gli
spetta 96 necessariamente, per natura,
nell’Ordinamento complessivo e
incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le «interpretazioni», ma le constatazioni (ossia
ciò che è ritenuto «constatazione»),
qui, hanno il compito di accertare se i
«fatti» (ciò che accade) siano o no compatibili con le norme. Al diritto naturale si contrappone oggi il
«diritto positivo». Questa
contrapposizione è la conseguenza, in campo
giuridico, di un evento grandioso e spaesante: il tramonto delle forme sapienziali e pratiche della
tradizione dell’Occidente, il tramonto
cioè al cui fondamento agisce il
tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento immutabile che essa ha inteso mostrare. Essenzialmente più decisiva del rapporto tra
idealismo (o pensiero ermeneutico) e
realismo - ognuno dei quali intende
valere come il contenuto della verità - è, dicevo prima, la domanda: «Che ne è della verità?»; e quindi:
«Qual è la storia della verità?».
Infatti il problema della contrapposizione tra
realismo e idealismo può essere risolto solo accertando perché si debba tener ferma la verità dell’uno
piuttosto che la verità dell’altro.
Tutto ciò significa che il problema relativo a quella contrapposizione, e pertanto alla questione
del rapporto tra fatti e
interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale sia il contenuto che è necessario porre come
verità, ossia come
incontrovertibilità. Vado
richiamando da tempo che l’autentico e profondo
avversario della tradizione occidentale non è il relativismo (come ad esempio la Chiesa cattolica invece
ritiene). Al di sotto del rifiuto
appariscente ma impotente della tradizione
occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto, ossia nel luogo che vado chiamando
«sottosuolo filosofico del nostro tempo»,
agisce un pensiero tendenzialmente nascosto,
ma capace di mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento immutabile e
divino della tradizione sia il contenuto
dell’ epistéme della verità. Fra i pochi abitatori del «sottosuolo», Giovanni Gentile, Nietzsche, e
ancor prima di loro Leopardi. Nell’
epistéme della verità quell’ordinamento
immutabile domina il mutamento degli enti del mondo, domina cioè il loro uscire dal nulla e il
loro ritornarvi. L 'epistéme è il
riconoscimento originario dell’esistenza del
mutamento così inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale riconoscimento che nel «sottosuolo» essenziale
del nostro tempo si mostra (ne
accenneremo tra poco) Vimpossibilità
dell’esistenza di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e ogni sapienza sono pertanto storiche,
temporali, contingenti, finite. Da ciò
segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto positivo sul diritto naturale, cioè segue la
necessità che ciò che spetta a ciascuno
e ciò che non deve essergli sottratto è tale
non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica dove le forze sociali che sono riuscite a
imporsi sulle altre stabiliscono (con
una voluntas che quindi non è constans et
perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non
gli può essere tolto. Hanno carattere
storico, pertanto, non solo i fatti, ma
anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati, interpretati e giudicati. E, questo, sia che
i fatti vengano sia che non vengano
considerati come indipendenti dal loro
essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza immutabile è quindi l’orizzonte comune al
realismo e all’idealismo - la cui
contesa si risolve peraltro in favore
dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla dimensione che l’attualismo gentiliano (come
altrove ho mostrato) ha saputo
indicare. 98 3. Il «sottosuolo» filosofico del nostro
tempo e il positivismo giuridico Se si vuole richiamare in breve il senso
essenziale della potenza concettuale del
«sottosuolo» filosofico del nostro tempo
(degli ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si vuole richiamare in breve e in una forma che
possa valere come tratto comune agli
abitatori del «sottosuolo» (che d’altra
parte hanno elaborato in modi specifici e differenziati tale tratto) -, si deve innanzitutto
richiamare la convinzione di fondo che
incomincia con la vita stessa dell’uomo sulla
terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un sottosuolo sta invece alla luce del sole,
mostrando ciò che non viene in alcun modo
messo in questione lungo l’intera storia
dell’uomo: si tratta della convinzione che la terra si trasforma, e l’uomo con essa. La trasformazione è il
diventar altro da parte delle cose, il
loro diventare altro da ciò che dapprima
esse sono. Le «teogonie» e le «metamorfosi» confermano il carattere archetipico di questa
convinzione. Con l’avvento del pensiero
filosofico il diventar altro da parte
delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro diventar altro si spinge fino al loro
diventare quell’assolutamente altro che
è il loro non essere, ossia il loro
esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla, diventano quell’assolutamente altro dal nulla che è il
loro essere, ossia il loro esser enti.
La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia dell’Occidente e ormai del
pianeta, non solo il senso della verità
come assoluta incontrovertibilità, come
epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per
tutte, lungo quella storia, l ’epistéme
della verità pone tale senso come il proprio
contenuto originario. È a
partire da questo contenuto che, nella tradizione, Yepistéme della verità si
porta oltre di esso («oltre», cioè metà,
nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come sapere che mostra la necessità di affermare,
«al di là» delle trasformazioni del
mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento
immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il quale il diritto naturale si fonda su di
un’etica assoluta. Il senso ontologico
del diventar altro diventa in tal modo
l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia della tradizione dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico
del nostro tempo, sia degli amici sia
dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e
il carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la forma più radicale e rigorosa della fedeltà a
ciò che lungo l’intera storia
dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque
anche all’interno del sapere scientifico, religioso, artistico e ormai dello stesso senso comune - è ritenuta
la suprema evidenza del senso ontologico
del diventar altro. (È per questa
fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di etica, su di una Grundnorm, che è tale solo
in relazione a una certa epoca storica e
che quindi - la tesi è resa esplicita da
Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.) Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto,
sin dai suoi primi pensatori, che
l’evidenza suprema sia il provenire degli
enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche Parmenide lo creda: nel senso che egli
afferma l’esistenza di una regione dove
si crede evidente il provenire e il ritornare
nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli qualifica come illusione, dóxa). All’interno
di questa convinzione il futuro è
«l’ancor nulla», il passato è «formai
nulla». D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme della verità, che lungo la tradizione
dell’Occidente intende affermare
l’esistenza di un Ordinamento (o Legge)
immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini soltanto il presente, ma deve ritenere che il
suo dominio si estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè
che futuro e passato non possano
sottrarsi al suo dominio e alla sua
legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che dall’ormai
nulla del passato possano ritornare cose
che si sottraggono a tale Ordinamento e
siano per esso qualcosa di imprevisto.
Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la Legge. La
Legge deirimmutabile è universale (e chi
ha creduto di poterla violare si è
ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla
Giustizia e dalla Punizione).
Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del futuro e l’ormai nulla del passato
e gli prescrive tutto ciò che da essi
può veramente (e non apparentemente e
provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla
da parte deH’Immutabile rende essente il
nulla, lo entifica e quindi cancella o
rende apparente il senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è
un diventare dal nulla e un diventare
nulla. E tale entificazione del nulla non
soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per
prima a riconoscere -, ma nega e
sopprime anche quella differenza tra il
cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale nessun divenire, e tanto meno il divenire
ontologicamente inteso, può esistere.
Così parla il «sottosuolo» essenziale (cioè
filosofico) del nostro tempo. Se
una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è impossibile che esistano quel
divenire e quella volontà di far
divenire le cose che per l’intera storia
dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile
evidenza. È appunto nel «sottosuolo»
essenziale del nostro tempo che l’Occidente giunge a scorgere, sul fondamento
di tale evidenza, che l’autentica realtà
e l’autentica verità immutabile sono il
divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto sono la volontà sempre più potente di
trasformare il mondo. Non rendendosi
conto del proprio carattere essenzialmente
antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico- ontologica dell’Occidente elabora la pur
potente struttura concettuale in cui si
intende mostrare che gli enti divenienti
esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del «sottosuolo» essenziale del nostro tempo,
scorgendo il carattere antinomico della
tradizione, si rendono conto che gli
enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun Ente immutabile. E questa è conseguenza
necessaria della fede che il divenire
sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se il «sottosuolo» non ama questa espressione,
esso è dunque la forma più coerente
dell’ epistéme tes alethéias, perché esso
mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è il rapporto tra il divenire e l’Immutabile,
ma l’esclusione necessaria di ogni
Immutabile. Appunto in forza di questa
necessità tale «sottosuolo» non ha nulla a che vedere con le ingenuità del relativismo e dello
scetticismo. Dalla potenza concettuale
del «sottosuolo» deriva l’impossibilità
di ogni «diritto naturale»; il prevalere del
«diritto positivo» è inevitabile. Il tramonto della forma tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega
dai Greci a Hegel) è cioè anche il tramonto
della configurazione giuridica di tale
forma, ossia è il tramonto del «diritto naturale». Il senso autentico del conflitto tra diritto naturale
e diritto positivo può essere quindi
compreso solo se lo si vede inscritto nella
grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario degli Immutabili. Tuttavia, anche per il positivismo giuridico
la giustizia è volontà di ius suum
unicuique tribuere: nel senso che ciò che spetta a ciascuno non è quanto viene
mostrato dalYepistéme della verità, ma
ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale
e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento
della distruzione dell ’epistéme della
verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni
luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa
che esce dal proprio nulla e vi ritorna;
sì che la giustizia consiste nel salvaguardare
e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di oltrepassare ogni limite
assoluto (e di non costituire un limite
siffatto). In questa situazione, ogni forza si
propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli
individui si servono tutte, per
prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo di
tali forze, essa impedisce che
l’anarchia totale prenda piede e, subordinando
a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro
spetta alFinterno di tale gerarchia e
pertanto realizza la forma suprema di giustizia
a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius suum unicuique tribuere. 103
4. Realismo e idealismo Quanto
alla contrapposizione tra realismo e idealismo
(nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella
vicenda, qui sopra tratteggiata, del
tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale
contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una complessità ben più profonda
del modo in cui il realismo viene oggi
sostenuto in ambito «analitico» e
«continentale» e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo viene conosciuto. Ad esempio si tende a
ignorare la «necessità» che conduce dal
realismo premoderno alla riflessione
cartesiana sull’ impossibilità che - se la «vera» realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso
(come vogliono il realismo premoderno e
lo stesso Cartesio) - la realtà pensata
(il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente
dal pensiero. E si tende a ignorare
l’ulteriore «necessità» (mostrata
dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia
dunque un concetto autocontraddittorio.
(Nella tradizione l’«idea» è «ciò
attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale», essa è id quo objectum cognoscitur; Cartesio mostra la
necessità di intendere l’idea come «ciò
che è conosciuto, id quod cognoscitur,
ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà l’«essere formale»: Kant vede l’impossibilità
di conoscere la vera realtà, la «cosa in
sé»; l’idealismo, rilevando
l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di realtà al di là del pensiero, mostra la
necessità che Vobjectum del pensiero sia
«idea», ma mostra insieme che l’idea è la
stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso
sviluppo si ripropone nella riflessione
sul linguaggio, che conduce alla
cosiddetta «svolta linguistica»; lo sviluppo dove, dapprima, nella tradizione, la parola è intesa come id
quo objectum 104 dicitur - e Yobjectum sta al di là della
parola poi ci rende conto che, in quanto
detto, è Yid quod dicitur a dover essere
Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori
di sé la «cosa»; infine si intrawede che
anche la «cosa» è in qualche modo detta
e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il linguaggio stesso è la «cosa», che peraltro
continua a esser concepita come ciò che
esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche
il realismo premoderno è ben più complesso
delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad esempio, è propriamente solo quando Yepistéme
della verità ha dimostrato l’esistenza
della Realtà immutabile, è solo allora
che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se
ricordo bene, in 1139 b), si dice che
«quello che sappiamo epistemicamente non
può essere diversamente da com’è; ciò che può essere diversamente da come è, quando esca
dall’osservazione [ci] rimane nascosto
se esso sia o non sia». La potenza di questa
affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa del pensiero fenomenologico dei nostri tempi.
Il testo greco dice: ho epistàmetha, che
ho tradotto con «quello che sappiamo
epistemicamente», ossia ne\Yepistéme della «verità». Ciò che sappiamo in modo epistemico
met’endéchesthai àllos échein, «non può
essere diversamente [da come è]». Questo
non poter essere diversamente è l’innegabilità, l’incontrovertibilità, la definitività
deìYepistéme della verità. È in modo
assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa essere
diversamente; esso non può assolutamente
essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il
testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle «cose che è possibile che stiano
diversamente» (e che quindi non sono
contenuti àe\Yepistéme), e dice che, «quando escono dall’osservazione» ( hótan éxo tou theoreìn
génetai), allora lanthànei, cioè «rimane nascosto», ei estin e mé, «se esse
siano o non siano». L’«osservazione»,
theorein, è la nostra visione delle cose
del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il
phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto theorein con «osservazione» perché theorein è
costruito su theorós, ossia lo
«spettatore», «colui che osserva e vede con i
propri occhi». Quando le cose non epistemicamente note escono dall’apparire rimangono, appunto,
nascoste, e quindi rimane nascosto se
continuino a esistere o no. Ciò che invece
continua a esistere anche quando non appare nella conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui
esistenza è dimostrata, all’interno
deWepistéme, sul fondamento del
principium firmissimum che nega la contraddittorietà degli enti.
D’altra parte, l’apparire degli enti che possono essere diversamente è l’apparire del loro diventar
altro; e tale apparire è ciò che
innanzitutto il pensiero greco considera
come l’evidenza originaria e supremamente innegabile e quindi come appartenente eàYepistéme della
verità. Ciò si spiega, perché se quelli
divenienti sono gli enti che possono
diventar altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed essere diversamente da come sono è qualcosa
che, appunto perché appare, ossia è
originariamente evidente e innegabile,
non può diventar altro e non può essere diversamente da come è. Appunto per questo Leibniz potrà
considerare come «verità» (ossia come
epistéme della verità) non solo le «verità
di ragione» (riguardanti ciò che non può essere diversamente perché è contraddittorio che lo sia), ma
anche le «verità di fatto» (che appunto
riguardano ciò che può essere diversamente
perché non è contraddittorio che lo sia).
Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e continuerà a esistere anche quando l’uomo non
ci sarà più, tuttavia la scienza è una
fede; certo, oggi, la più potente. Ma la
106 potenza non è la verità.
Il mondo che esisterebbe
indipendentemente daH’«osservazione» e dallo «sperimentare» non è comunque qualcosa di
osservabile e di sperimentabile. Questo
anche se all’interno delle regole della
fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che
conducono alla tesi dell’indipendenza
del mondo dall’osservazione umana. Ma,
appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una fede. Sul fondamento della convinzione che le
cose del mondo diventano altro è
inevitabile che prevalga la sapienza del
«sottosuolo», in cui si mostra l’impossibilità di ogni Immutabile e quindi di ogni verità
incontrovertibile che, da un lato, si
ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si
mostra nel «sottosuolo». Ma il destino
della verità (così viene chiamato nei miei scritti) sta al di là della fede nel diventar altro
delle cose e degli enti, ossia al di là
deWintera storia del mortale e dell’Occidente,
dunque al di là dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al
sottosuolo essenziale del nostro tempo.
Sta pertanto al di là dell’inevitabile
prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità immutabile. Il destino sta «al di là»,
nel senso che contiene, mostrandola, la
storia del mortale e dell’Occidente. Il
destino è l’apparire del senso autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno.
E la testimonianza del destino non è né
realismo né idealismo, perché sia il
realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono esistere anche se altre non
esistono ancora o non esistono più;
laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo
può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza l’uomo e senza la più «irrilevante»delle sue
parti. Poiché si obbietta - come anche
in questo nostro incontro è accaduto -
che l’affermazione dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare,
ossia nega il diventar altro delle cose,
concludo accennando al motivo di fondo
per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il contenuto che
appare incontrovertibilmente, e che, in
quanto tale, appartiene alla struttura
del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro sentire nei concetti di
«esperienza», «osservazione», «dato»,
«fenomeno» ecc. Quando si crede
che gli enti che si manifestano non siano
stati (totalmente o in parte) e tornino a non essere (totalmente o in parte), quando cioè si crede
che escano dal nulla e vi ritornino, è
impossibile (contraddittorio) che si
creda che gli enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si manifestino già così come appaiono e si
manifestano quando incominciano a essere;
ed è impossibile che si creda che essi,
annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così come appaiono e si manifestano prima del
loro annientamento. È impossibile,
perché altrimenti, nel diventar altro,
il «prima» non differirebbe dal «poi» e quindi non ci sarebbe qualcosa come un diventar altro. È
quindi necessario che, quando si crede
nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si
creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo in cui appaiono quando incominciano a essere,
pur apparendo ed essendo in qualche
altro modo nel loro esser attesi,
sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che, quando vanno nel nulla, non appaiano più nel
modo in cui appaiono quando ancora
esistono, pur apparendo ed essendo in
qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie forme in cui ci si riferisce al passato. Ciò significa che nella misura in cui si
crede nel tempo in cui un ente è nulla
(prima o dopo il suo essere), in questa
misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene alla totalità degli enti che appaiono - la
quale include anche gli enti che, in
quanto attesi e ricordati, non sono un nulla.
Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché
di ciò che non le appartiene ancora
(quando esso è ancora nulla) e non le
appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno
mostrare che gl’enti escono dal nulla e
vi ritornano, appunto perché il loro
esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli appartiene nemmeno che gli enti sono già e
continuano a essere anche quando non
appaiono). Nella misura in cui qualcosa
non è (ossia è nulla), in questa misura esso non appare e pertanto l’apparire non può mostrare
il suo non essere. (Facendo
corrispondere il cielo alla totalità degli enti
che appaiono e il sole a uno di questi enti, allora, quando il sole non è ancora sorto e quando è ormai
tramontato, non si può chiedere al cielo
che ne sia del sole quando non si mostra
nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte del sole.) Aristotele - si è rilevato -
afferma che, quando un ente che «può
essere diversamente» (ossia che diviene) non
appare, «rimane nascosto», cioè non appare se esso sia o non sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero
Occidente, che certi enti che appaiono
possano non essere. Eppure non può
essere l’apparire a mostrare il non essere degli enti che, non essendo, non possono nemmeno apparire. Il non essere di ciò che ancora non è e di
ciò che non è più è dunque una
interpretazione, non una constatazione; una
interpretazione che non solo richiede un fondamento, ma che è negata dal destino della verità, che scorge
in tale interpretazione il culmine
dell’estrema follia in cui l’uomo si
trova. (Tale interpretazione non ha un fondamento incontrovertibile - anche se è sollecitata
sia dal modo, spesso terribile, in cui
ciò che all’uomo sta a cuore esce dall’apparire, sia dalla constatazione che ciò che esce in
quel modo dall’apparire «non ritorna
più».) Ma qui ci si deve arrestare. Il
linguaggio, ora, è di fronte al tema
decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto essente non sia. (Sta al centro di tutti i miei
scritti.) Il linguaggio è cioè, insieme,
di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla
dimensione, già da sempre salva, che circonda la follia del mortale e
dell’Occidente. Dalla relazione tenuta
al convegno «fatti e interpretazioni» rivolto a un pubblico di filosofi
del diritto, tenutosi all’università di
Padova, il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei
proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli altri, dei Illetterati, Milanesi, Scilironi,
Testoni. Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo
delle stagioni, che i popoli arcaici
considerano sacri. I giorni dedicati alla
rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro
mezzo, il Capodanno, festeggiato
dovunque. Soprattutto in quei dodici
giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la vita del mondo, consumate e perdute durante
il tempo che veniva chiamato l’«anno». Ripetono
la creazione originaria compiuta dagli
Dèi o dal Dio supremo. Oggi i popoli
credono sempre meno nel divino; ma la loro
cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali.
Tale cultura è la tecnica
scientificamente orientata e controllata dalla
produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede «energia». Il
consumo di «energia» ne richiede il rinnovo,
la reintegrazione. Richiede la
ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana
della creazione divina. Il Capodanno può
essere anche la festa del ciclo
energetico. Noi capiamo subito
che l’«energia» si consuma e dev’esser
rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si
risponde, anche l’analogia tra tecnica e
rifondazione mitica del mondo rimane
sospesa nel vuoto. Eppure quel bisogno
è molto meno stravagante di quanto possa
sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il
concetto di «volontà» (un 112 aiuto di cui non si approfitta adeguatamente
non solo da parte delle scienze
dell’uomo). Poi indicherò come le
implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è
per noi irrilevante, ma è anche il
nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere.
Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili,
si muore. La volontà è la vita. Ma
quando la volontà apre gli occhi non
ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare:
l’Inflessibile. Per il singolo è
l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi
si presenta, appunto, come la Barriera
di fronte alla quale l’uomo si sente
impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il
voluto e dunque per vivere. Un varco
nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza
suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile
acquista per l’uomo il volto del divino,
in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve
quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo.
Volendo essere «come Dio» Adamo vuole
uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo
rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo
si senta colpevole, in debito. Il
bisogno di vivere diventa bisogno di
espiazione. Ogni giorno, ogni
ora, ogni istante facciamo esperienza di
ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si
lascia spezzare, ci spegneremmo subito.
La volontà, per ottenere, ha bisogno di spezzarlo, di agire sui frammenti,
sulle parti del blocco. L’agire richiede
l’isolamento delle parti dal blocco e tra di
loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia «seria» solo se fa conoscere parti del mondo, non il «Tutto»,
vanamente inseguito dalla vecchia
sapienza filosofica. La scienza chiama
«specializzazione» la propria conoscenza delle parti. E la tecnica, da essa guidata, agisce sempre su
parti. (Anche l’arte si chiude nel
«frammento».) Adamo che vuol uccidere Dio ha
già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima teologica. E il senso di colpa affiora anche nell’uomo della
civiltà della tecnica, ben al di là
della preoccupazione per la propria
incapacità di realizzare uno «sviluppo sostenibile». Per quanto ci dicono le scienze storiche si
può dire che ogni forma della religiosità
arcaica (e monoteistica) abbia al
proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la condizione dell’esistenza del mondo.
Dall’Oceania alla Mesopotamia,
dall’India alle popolazioni germaniche e alle
società greco-cristiane i miti raccontano la creazione del mondo come effetto del sacrifìcio originario
di un Dio, di una Dea, di un Eroe, di
uno sposo o di una sposa del Dio:
Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani),
Purusha e Prajapati (India), Osiride
(Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo. La
creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in
quanto usa, consuma, gode le membra, le
parti del Dio. Anche la morte di Cristo
sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato
consumandosi e morendo in conseguenza
del peccato. E nel Genesi si dice che
Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto» e da cui era stato dunque consumato e
indebolito. Ma il divino rimane pur
sempre la fonte della vita. L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così
come lo era l’inflessibilità originaria
del divino. E la morte è il pericolo
estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario che si restituisca al divino quel che gli si
è tolto e che tuttavia è stato consumato
e non c’è più. È a questo punto che il genio
religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell
uomo) come ripetizione del sacrificio
divino e dunque come rifondazione del mondo.
Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l’essenza della ripetizione del
sacrificio divino e della fondazione
divina del mondo è la consapevolezza della
necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima
offerta dall’uomo al Dio è radicalmente
incapace di assolvere il compito
gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi uomo e
vittima con la quale Dio restituisce a
sé stesso quello che la violenza e il peccato
dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e fare cose vere», si porterà oltre il mito da
cui è preceduta (e da cui sarà seguita),
le sue prime parole (quelle di
Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in
esso, scontando la pena
dell’«ingiustizia» commessa con tale separazione - dove la separazione dal Dio è l’eco dello
smembramento- sacrificio mitico del
divino, e la pena da scontare è l’eco della
ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel nostro tempo, non si crederà più né negli dèi
del mito né in quelli della «verità», e
la lotta contro la morte sarà affidata
soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo
Sacrificio, dovrà corrispondere una
civiltà in cui le saggezze e sapienze del
passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni loro
aspirazione al dominio del mondo, e cioè non
contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica. Sin dagli inizi della storia deH’uomo il
giorno del Capodanno, rifondando il
mondo e aprendo un nuovo ciclo alla
vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della «vecchia terra», ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia
cadere nell’oblio. (Accade anche nel
grande Capodanno de\YApocalisse di
Giovanni, dove l’«anno» della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno
«rievoca» soltanto le vicissitudini
della volontà: non le rivive. Ma a
questo punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso
autentico della volontà - alla quale
invece ci si affida come alla cosa più
sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel
senso. Ora si aggiunga che quando,
all’inizio, si trova di fronte
all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Infatti non può tornare indietro.
Tornando indietro, riuscirebbe non solo
a far diventare altro il mondo, ma a
ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché tornare indietro è lasciarsi alle spalle la
Barriera che le impedisce di trasformare
il mondo. Ma la volontà riesce a vivere
solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica un tempo in cui la volontà è bloccata e muore
(è originariamente morta). E non può
nemmeno, e per lo stesso motivo, muoversi
di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che
all’inizio la volontà si trova di fronte
all’inflessibilità della Barriera, la volontà è
insieme avvolta da essa. Le
metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a comprendere perché, essendo di fronte e
insieme avvolta dalla Barriera, il far
breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116
Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la
volontà e la Barriera, dicendo che le
cose del mondo, «separandosi»
dall’«Uno», «divino», ne escono - escono dal luogo da cui proviene la loro «nascita» ( génesis ). Far
breccia dall’esterno è lo stesso far
breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è avvolti e commettendo «ingiustizia» (adikia).
La volontà può riparare l’ingiustizia (e
qui la volontà è il mondo stesso che si
è separato dell’«Uno») solo ritornando nel luogo, separandosi dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo
morendo le cose che hanno voluto
separarsi dal divino possono «rendergli
giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes adikìas). E così si comprende perché le cose
debbano tornare là da dove son venute.
Dove il sottinteso è che la morte subita
dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera del «divino» è diversa dalla morte a cui la
volontà (ossia la totalità delle cose
del mondo) va incontro ritornando nel
divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è incominciare a vivere la vera vita. Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto
in Anassimandro, è un sottinteso anche
la ferita del divino prodotta dalla
breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso. L’intenzione esplicita della filosofia, sin
dall’inizio, è di affermare, come dice
Anassimandro, che il divino è «eterno e
non invecchia», è «immortale e incorruttibile»; eppure la Barriera che la volontà umana trova dinanzi e
attorno a sé, a sbarrarle la strada, è
sentita da essa come la Potenza dominante,
sacra e divina come il Tremendum-Fascinans,
l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio, ucciso in quanto Inflessibile, perché la
volontà possa vivere. (D’altra parte la
Barriera, smembrata, è anche la condizione
perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per questo, oltre che a essere il Tremendum, essa
è anche il 117 Fascinans .) E che l’uscire delle cose
dall’Uno divino sia inteso da
Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso che il divino è ferito e
ucciso dall’avvento della volontà. Il
pensiero della tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la
contraddizione per la quale il divino,
in quanto trascendente il mondo, Altro dal
mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di evitarla sia con la fede
nell’unità del divino e del mondano
(ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede
nell’esistenza di una molteplicità di
dèi (per la quale la morte riguarda uno o
alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore definitivamente, ma muore e
risorge. Ma, detto questo, la questione
decisiva rimane ancora tutta da
esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla quale invece ci si affida come alla cosa più
sicura del mondo. Non si scorge che la
storia della volontà si svolge interamente
al di fuori di quel senso.
118 2. Essenza del nostro
tempo ed essenza del nichilismo Dai
Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di indicare come si configura il contenuto del
sapere che ha il carattere dell’assoluta
incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme
(alla lettera: il «sovra-stare») della verità. Tale epistéme è per Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 -
una parola che è negazione della
negazione di màrtys, «testimone», colui che
essendo in presenza delle cose non può errare nei loro confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a
cui compete il carattere
delfincontrovertibilità ha un contenuto che non
solo è «ciò che è», l’«ente» (tò ón ), ma è l’ente che assolutamente (pantelós) e primariamente è,
l’Ente immutabile ed eterno, il divino
che è fondamento (trascendente o
immanente) degli enti che sono ma non sono
assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al loro essere e viceversa. Per la tradizione filosofica Yepistéme è
prevalentemente sapere metafisico. Con
alcune rilevanti eccezioni (ad esempio
lo scetticismo), la più profonda delle quali è l’antimetafisicismo kantiano. Che però
intende mantenere il carattere primario
àe\Y epistéme della verità, cioè
l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura a priori della soggettività finita
(immutabile, quindi, sino a che il
soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la storia
delfincontrovertibilità dell’epistéme e del
modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme
metafisica è Dio. Vessenza della
filosofia degli ultimi due secoli è invece la
distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque, che - nella sua essenza,
appunto - è a sua volta grandiosa.
Purché la si sappia cogliere. Oggi come
ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono 119
per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di una scelta che da ultimo è arbitraria (anche
quando si presenta come «ragionevole»,
rationabile obsequium). Sul piano
filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici e nemici di Dio non è per lo più consapevole
della grandezza e profondità della lotta
tra il presente e il passato della
filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto meno entrambi gli avversari si rendono conto
che l’abbandono del passato non è una
semplice scelta o una semplice
constatazione storica, ma è la fondazione
incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso mondo filosofico la grandezza di
quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o
addirittura sepolta. Non mancano certo
forza e competenza, a quel mondo, che si
usa ancora dividere tra «analitici» e «continentali». Ma le due prospettive sono molto meno divise di
quanto possa sembrare. Giacché per
entrambe la fine deH’affermazione
filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione. Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto
assente la discussione sull’autentico
fondamento filosofico che ha condotto
alla negazione di Dio. Una negazione che tende
quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al
livello che è proprio della fede. Accade
quindi non di rado che oggi sia la
filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad
esempio, di essere la semplice
constatazione che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di
essere una scelta, una prassi - dunque
una fede, che preferisce un universo in
cui Dio non esista. Rinunciando a
quella fondazione, e a ogni fondazione
assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel «relativismo» o «nichilismo» concettualmente
inconsistente a cui gli epigoni della
tradizione filosofica - tra cui la Chiesa
120 cattolica - trovano comodo
o tendono a ridurre tutto ciò che la
filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo modo quegli epigoni non riescono ad avere di
fronte il loro autentico avversario, e
gli avversari della tradizione filosofica
ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono. Da tempo i miei scritti mostrano la distanza
tra Yessenza profonda e tendenzialmente
nascosta del pensiero filosofico del
nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta alterata e svigorita, e che è costituito
appunto da quel «relativismo» e
«nichilismo» di cui ci si può sbarazzare molto
facilmente. L’avversario
autentico della tradizione filosofico-metafisica è appunto quell’essenza. Tale essenza - si
diceva - è la fondazione radicale
delfimpossibilità di Dio. «Radicale»
significa «che procede dalla radice stessa della storia dell’Occidente», la radice che fa vivere sia
gli amici sia i nemici di Dio, sia
l’essenza del pensiero filosofico del nostro
tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi, uomini di azione e di pensiero. Questa radice
è la persuasione che le cose del mondo
siano un divenire in cui esse escono dal
nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano nel nulla. Per la filosofia che è amica di
Dio questa oscillazione delle cose tra
l’essere e il nulla non è un assurdo
solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della filosofia del nostro tempo tale oscillazione
non è un assurdo solo se il Dio
immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul
fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono dal nulla e vi ritornino che Yessenza del
pensiero filosofico del nostro tempo
mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e
che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale
essenza è la fondazione «radicale»
delfimpossibilità di Dio perché si fonda
sulla radice che essa ha comune con la tradizione 121
filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza autentica del nichilismo la cui forma più
coerente si presenta nell’essenza del
pensiero filosofico del nostro tempo.
Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di questi cenni. Qui si può solo indicare il
senso generale del discorso, rinviando,
per quel suo senso concreto, agli scritti
sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema dell’essenza autentica del nichilismo e
quindi mostrano che la persuasione che
le cose oscillino fra l’essere e il nulla è
soltanto una fede. Innanzitutto,
ciò che è stato chiamato «essenza della
filosofia del nostro tempo» ha un contenuto storico determinato: è un nucleo, circondato da un
alone che più si distanzia dal nucleo
più ne perde di vista la potenza. Per
quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un
perimetro breve. È costituito dalla
dimensione centrale del pensiero di Nietzsche
e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi - e conosciuta da entrambi -, la filosofia di
Giacomo Leopardi. All’alone appartengono
invece pensatori che oggi sono ritenuti
tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein. Non si tratta di mettere in questione la loro
importanza, bensì di rendersi conto che,
nonostante essa, in modi differenti
lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è fuggito. Una porta che invece non è lasciata
aperta dai pensatori di quel sottosuolo
essenziale (e dunque da Leopardi, la cui
potenza filosofica, soprattutto nella filosofia
anglosassone, è completamente sconosciuta). L’essenza della filosofia del nostro tempo
consiste nel mostrare che se esistesse
il Dio immutabile ed eterno della
tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui le cose provengono e il
nulla in cui esse ritornano. Pertanto
il nulla diverrebbe un ascoltatore e un
suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un ente. Ma la persuasione che gli enti
provengono dal nulla e vi ritornano
implica necessariamente che l’ente e il nulla
differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se, nell’ambito dell’essenza della filosofia del
nostro tempo, il principio di non
contraddizione è visto come negazione del
divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione, la negazione dell’esistenza del Dio
immutabile ed eterno della tradizione è
incontrovertibile perché tale esistenza implica
necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è impossibile quel divenire degli enti che sta
al fondamento non solo del pensiero
metafisico (che procedendo dal divenire
intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece distrugge la tradizione metafisica, ma anche
delle stesse opere e istituzioni che
costituiscono la civiltà dell’Occidente.
Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza della lotta tra tradizione e distruzione
radicale di essa - anche il dialogo tra
credenti e non credenti rimane alla superficie,
ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma autentico del mondo attuale. L’essenza della
filosofia del nostro tempo mostra
l’impossibilità di porre limiti assoluti
all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata dalla
scienza moderna e il supremo Limite
assoluto è la Legge in cui consiste il Dio
immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in grado di ascoltare la voce dell’essenza della
filosofia del nostro tempo. Nessuna
meraviglia, visto che nemmeno la filosofia
contemporanea e il cosiddetto «laicismo» sono in grado di ascoltarla e si riducono a essere una
semplice fede nell’inesistenza di Dio.
Ma quella voce e la tecnica esistono, ed
è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro unione consente la maggiore potenza di cui
l’uomo abbia mai potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario
del Dio della tradizione: non
l’incredulità dei popoli europei o il
consumismo dell’«Occidente». Ma
il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le due grandi forze in lotta tra loro -
l’essenza del passato e l’essenza del
presente della civiltà occidentale, ormai
planetaria - è il loro prender coscienza della propria anima comune: io. fede che le cose del mondo escono
dal nulla e vi ritornano. Che non ci sia
bisogno di un Dio perché ciò accada è la
fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due
fedi si oppongono è certo grandioso,
esso è ciononostante qualcosa di
subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima comune, cioè rispetto alla fede che le cose hanno nel
nulla la loro culla e il loro
sepolcro. Abbiamo più volte chiamato
fede quell’«anima comune» che invece,
sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è
l’evidenza suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di
lasciarsi alle spalle anche quel passo
decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il passato e il presente dell’Occidente.
Volgendosi verso quel culmine si
vedrebbe che in entrambi - cioè sia
nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la
convinzione che le cose (ossia gli
essenti, che non sono un nulla) sono nulla:
proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente nulla. E, come sopra si
accennava, la convinzione che ha come
contenuto l’Errore estremo, l’estrema
Follia, non può essere che una fede.
L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio
dell’essere. E, insieme, è la forma
fondamentale dell’omicidio. La convinzione che l’uomo, di per sé, sia nulla, e
come le altre cose sia il prodotto di
Dio o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni
decisione non è forse, ormai, la volontà
di far passare le cose dall’essere al
nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina
forse il de-cidere e l’uc-cidere?) Nonostante
il riconoscimento altissimo e crescente della
sua grandezza poetica e filosofica, il genio di Leopardi, insieme al genio di Eschilo, è forse quello
di cui meno si è visto il carattere
decisivo nello sviluppo storico della civiltà -
dunque non «soltanto» della cultura - occidentale. L’accostamento dei due nomi non è casuale.
Eschilo appartiene al ristretto convegno
di sovrani con il quale incomincia la
filosofia. Appunto per questo la sua poesia è
tragica. La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo
estremo: che il divenire delle cose del
mondo è il loro venire dal nulla e il
loro ritornare nel nulla, da cui non si ritorna più, sì che anche la morte dell’uomo assume il volto e
l’anima tragici dell’annientamento. Se
non ci si rivolge a questo, che è il
passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso autentico di ciò che Leopardi ha inteso dire
nelle sue «prose» e nelle sue
«poesie». Anche quel portare alla luce
è qualcosa di assolutamente inaudito. La
filosofia è la radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa stessa
consiste) come la sta¬ bilità del sapere
che non può essere in alcun modo scosso o
smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità assoluta del sapere innegabile. La chiama,
appunto, «epi-sté- me» (in cui risuona
lo sta -re e che inadeguatamente
traduciamo con la parola «scienza»). La stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i
millenni dell’esistenza guidata dal
mito. Ma proprio perché attribuisce questa
stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla (proprio perché afferma
che Tesser preda del nulla è verità), la
filosofia getta l’uomo nelYangoscia più
profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il
mito conferisce al mondo un senso che
non si mostra nella luce, ma è voluto, e
quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede che esso
mostri la realtà. Tuttavia la filosofia
è, insieme, la radice del senso che la
tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa sorgere nell’uomo anche la ricerca del «saldo
rimedio» (secondo l’espressione di
Eschilo) contro il dolore e l’angoscia.
Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce l’esistenza di un «Principio» {arche) divino,
eterno e incorruttibile, sì che la
nascita delle cose è dovuta al loro
«separarsi» da esso e la loro morte è il loro farvi ritorno, lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia
tutto ciò che nelle cose è l’effetto di
quella separazione (Anassimandro). Il
Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che
dà senso al mondo e al dolore è avvolto
dal divino, e tuttavia non si mostra
nella luce, non è «saldo». Eschilo, per
primo in modo esplicito, porta alla luce che
Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della
salvezza e della felicità. Questo
pensiero è il fondamento di ogni forma
culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non
può essere quello comune e che solo
impropriamente è riconducibile al
«teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che culmina nella
contemplazione della «Verità». Il
«dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non
capisce di avere nel «teatro» di Eschilo
il proprio più potente predecessore.
Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e
l’illusorietà del quadro grandioso della
tradizione occidentale. Un altrettanto grandioso, terribile e inevitabile
gesto, quello di Leopardi, la cui
potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei
culmini della cultura europea. Ma come è
possibile capire questo gesto - presente
in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto
resta distrutto, ossia ciò che qui sopra
abbiamo sommariamente tentato di
indicare? A proposito di un passo
di Diogene Laerzio, in cui si richiama
il fondamentale principio di Socrate, Leopardi
afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»: nel senso che «dobbiamo», che «è necessario»,
che è tutto l’opposto a dover esser
portato alla luce dalla filosofia. Che
cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un
solo male [kakón], il non sapere [
amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere» (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni
bene, infatti, è tale solo se è vero, se
appare non nell’opinione, nella fede, nel
mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la
morte, solo se esso è un vero, saldo
rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce
dall’ epistéme della verità. Quest’ultima
è dunque la radice di ogni bene, e, in
questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la
felicità e la salvezza del male,
prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del
mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra
che è «tutto l’opposto», cioè che Yepistéme
è l’unico male e che il non sapere
(amathia ) è l’unico bene. Alla
base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può
esistere alcun 128 Principio eterno, incorruttibile, divino,
e che quindi tutte le cose sono nulla, perché
sono circondate dal nulla infinito che
le precede, le segue e le attraversa.
Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e
muoiono - si è qui al cuore
deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e
illusoria apparenza; laddove l’uscire
dal nulla e il ritornarvi sta al centro della
verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è
innegabile, la verità è che l’Eterno,
l’Infinito è impossibile. Questa, la potente
anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte di Dio».
Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per
l’uomo non saperla, la verità, che
saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme.
(Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e
stupenda, cit., che ho pubblicato per
Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e,
per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce
il legame profondo che unisce Yamanthìa,
l’ignoranza della verità, alla poesia e
all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è
illusione, inganno, menzogna, senza di
cui la vita sarebbe però impossibile.
Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno
letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella
dove il canto fa sopportare il dolore e
la morte. Nell’illusione poetica - che
peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto
all’Infinito e aH’Eterno. In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere,
la poesia non debba mostrare la verità,
cioè la nullità di tutto - e il canto
L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel
«mare» delFInfinito è «dolce». Ma poco
dopo egli sviluppa la grande teoria del
«genio» che unisce nella propria opera la verità terribile dell’esistenza e la potenza
poetica: unione di filosofia e poesia.
Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto, ma, sia pure
provvisoriamente, convergono nella
potenza del canto, in modo che «l’anima
riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua
propria». Infinita ed eterna è questa
forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre
finita e caduca, con cui egli riesce a
esprimere la morte, cioè la finitezza e
caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si
può ancora illudere. E sono la suprema
salvezza e «consolazione» concesse a chi non
può salvarsi né essere consolato.
La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il «fiore» è il
genio. Egli è mortale, nasce per morire,
e questa nascita è «natura». Ma «nobile».
«Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo «profumo» (la potenza del canto) e
Yepistéme della verità che vede il
«deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un
profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito
illusoriamente cantato come reale:
l’Infinito è morto («è distrutto Iddio»,
scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali
incontra al comun fato, e che con
franca lingua, nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte.
Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte («il comun fato»), non
nasconde la verità, non le detrae nulla.
Egli non è l’uomo comune, per il quale
Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che unisce Yepistéme
dXYamanthìa del canto poetico e che intende
come «vero amore» il porgere agli uomini
questa unione. Come vero amore e come unico
rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, potranno, sia pur fugacemente godere, prima
che il fuoco del «vulcano ardente» abbia
a distruggere la ginestra, il fiore del
genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne vede il vero senso, e insieme lontanissimo,
perché il suo «profumo» «consola» il
deserto. Il «genio» che consola il
deserto non è la volontà dell’«oltreuomo»
che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne
vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa «vetta della
contemplazione», come egli la chiama,
che si porta ancora più in alto della vetta
raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta tuttavia più in alto del
linguaggio di Nietzsche), allora si può
dire che sia come filosofia sia come poesia il
pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se
ciò che viene portato alla luce dall’ epistéme
della verità è il vortice che getta le
cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla, allora il pensiero di Leopardi
indica la conclusione inevitabile della
storia dell’Occidente e del mortale. Ma
proprio a questo punto si fa innanzi la questione decisiva. Possiamo formularla così: è così
indiscutibile che quel vortice - in cui
crede sia la tradizione dell’Occidente, sia
la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi - appartenga
all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente
indiscutibile? Ogni linguaggio è problematico: non solo quel che
esso dice lo dice all’interno di
un’interpretazione, che non può mai
essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il contenuto di una
interpretazione. Noi dialoghiamo perché,
nonostante la problematicità
dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio delle parole, ma anche a quello
del comportamento, ma poi a tutte le
cose dalla terra e del cielo -, abbiamo
fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro interlocutore (se esiste) sia a sua volta un
interpretare e ponga a fondamento del
suo interpretare le stesse regole che noi, e,
daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche «noi» - e
anch’«io» - siamo contenuti di una
interpretazione. Di solito quelle regole non
vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi eventi
sensibili siano linguaggio, che un certo
oggetto sia un libro e che sia scritto
in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di interpretazione che ne scaturisce in virtù di
certe altre regole - analoghe alle
«regole di trasformazione» di cui parla la
logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche
(o un certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende
affermare che ogni sapere sia
interpretazione. Anzi, solo sul fondamento
dell’apparire della verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è
interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile
della storia del pensiero occidentale -
e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr. E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi).
L’attenzione maggiore deve essere dunque
rivolta all ’inevitabilità della
distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto
alla semplice circostanza che - come lo
stesso Nietzsche qualche volta ritiene -
la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa - nonostante il peso
che le religioni hanno riacquistato
negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche,
si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è
risorto? L’«obbiezione storica
decisiva», che per Nietzsche
consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero
di Nietzsche sta altrove. Non la si trova nemmeno quando si riduce il
pensiero di Nietzsche al
«prospettivismo» - che sostanzialmente non
differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in forma non ingenua quando - di fronte ad
avversari che si limitano a rilevare la
contraddizione della sua tesi che
sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare chiedendo per quale motivo non ci si debba
contraddire; e a questa sua domanda ben
pochi sono in grado di rispondere in
modo adeguato.) Nella sua
essenza autentica - tanto più autentica quanto
più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo non è scetticismo. Non lo è, certamente, il
pensiero di Leopardi e di Giovanni
Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche,
seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro tempo conduce alla sua forma più rigorosa
l’essenza dell’Occidente, cioè la fede
nell’esistenza del divenire, inteso
nella configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato: la fede
nell’evidenza originaria e
irrinunciabile di tale configurazione.
134 Appunto sul fondamento
della fede nell’evidenza del divenire -
inteso secondo tale configurazione - Nietzsche
(come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità -
Yinevitabilità, appunto - di questa
fondazione. Che Dio sia morto - cioè che
non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si tratta di capire il senso di
questa necessità. E, insieme, di capire
che Nietzsche porta al culmine la storia
dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per
essere la potenza suprema è la potenza
della volontà che vuole l’eterno ritorno
di tutte le cose. Capire cioè
che, proprio perché è necessario che Dio sia un
morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale
ritorno divenga il contenuto essenziale
della volontà che costituisce la tecnica.
Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è chiamato da Zarathustra l’«Uno»,
il «Pieno», il «Satollo», l’«Immoto»,
l’«Imperituro». La fede nel divenire,
che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente, implica con necessità l’impossibilità
dell’esistenza di questo Dio.
Zarathustra dice: «Affinché vi apra tutto il mio cuore, amici, se vi fossero degli dèi, come potrei
sopportare di non essere Dio! Dunque non
vi sono dèi» ( Sulle isole beate). Ma
nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di quel «Dunque» è quanto Zarathustra dice verso
la fine del capitolo: «Che cosa mai
resterebbe da creare se gli dèi
esistessero?». Ma nemmeno questa è un’affermazione che non abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche
aveva ragione ad affermare
l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la comprensione di Così parlo Zarathustra, da
lui considerato il più importante dei
suoi scritti. 135 Se si vuole richiamare in astratto la
sequenza essenziale che costituisce la
grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere
così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale evidenza implica con
necessità l’impossibilità di ogni Dio.
La stessa necessità che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose,
il ritorno che in quanto voluto dalla
volontà di potenza conferisce alla tecnica
la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale «necessità»). Questa è una indicazione astratta. Senza la
concretezza corrispondente (a cui
L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca
strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non esprime le
molteplici tematiche che nel discorso di
Nietzsche le sono più o meno
strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza essenziale presente neWAnello del
ritorno esprima qualcosa che appartiene
a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se
ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia
convinzione), ebbene non avrei troppe difficoltà
ad affermare - modestia invita - che
quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non cesserebbe di
esserne il culmine), per il fatto di non
appartenere a Nietzsche. b) «Affinché
vi apra tutto il mio cuore» «Che cosa
mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?» Nulla! Questa è la risposta richiesta
dall’interrogativo retorico. Creare e
annientare: sono gli aspetti fondamentali
del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al divenire: andare dal non essere all’essere e
dall’essere al non essere. Creare:
condurre nell’essere ciò che non era, che era
nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a essere. Negare l’esistenza del creare e
dell’annientare è negare 136 1’esistenza del divenire, ossia di ciò che
per l’Occidente è l’evidenza suprema. Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo,
se gli dèi esistessero? Nulla!
L’esistenza degli dèi rende impensabile la
potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita dell’uomo - giacché è questa potenza a
formare il centro di ogni divenire, e
dunque il centro dell’evidenza originaria.
Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e impossibile il creare e l’annientare
dell’uomo? Incominciamo a rispondere
dicendo il motivo per il quale
Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e
l’Imperituro». È ben più profondo di
quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta
raccolta nell’immutabile e imperitura
unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa unità anche se lo si pensa separato dal
mondo. Il mondo non aggiunge nulla alla
pienezza del dio, che dunque è sazio anche
se ha lasciato al di fuori di sé il mondo. Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte
le cose. Ne è la Legge. Egli non può non
prescrivere sé stesso; non solo a tutto
ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio,
avesse una propria legge, un proprio
ordine e senso, una propria vita, diversi da
quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio, avrebbe ancora qualcosa di cui potersi
saziare. Egli prescrive sé stesso al
presente, al passato, al futuro, al
tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta intorno
a sé, nei secoli dei secoli, catturando
e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da
sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire dell’uomo e della terra non resta
dunque nulla. Nulla da creare e da
annientare. Il divenire sarebbe impossibile, «se vi fossero degli dèi». Se vi fossero, «come potrei sopportare di
non essere dio!?», dice Zarathustra. Non
si tratta di una esclamazione vana e
infine patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo dalle molte pretese, ma per il pensiero che
intende vedere la verità e che non può
sopportare che l’esistenza del dio renda
impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire. Il dio è infatti
la Legge suprema a cui tutto deve
adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla
emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la sua legislazione e mostri che solo
apparentemente egli era sazio e immoto.
Con la propria pienezza e sazietà egli ha già
raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È «pieno» perché ha riempito tutto
di sé. Che cosa resterebbe da creare,
che divenire resterebbe, se egli avesse
tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato futuro, passato,
presente, imponendo al futuro di non
essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già una regione totalmente adeguata alla Legge;
e, trattenendo a sé il passato,
impedendogli di essere un ormai nulla e
prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge, andandosene in una regione dove si possa
essere liberi da essa? Che vita
resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo
dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive. Dunque dio non può esistere. Il divenire implica che esista un non essere
da cui gli enti divengono e in cui
ritornano. Ma un dio immutabilmente
pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti del non essere: da essi non può provenire
alcunché di cui egli non sia già sazio,
e nemmeno nel vuoto in cui le cose si
portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si sia ancora impadronito o che si sia lasciato
sfuggire di mano. Ciò significa - ecco
il tratto decisivo e fondamentale - che 1’esistenza del dio, la cui
legislazione si estende al tutto e alla
totalità del tempo, trasforma il non essere, che è necessariamente richiesto dal divenire, in un
ascoltatore e in un suddito dell’essere.
Il dio identifica il nulla con l’essere, e
quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza originaria e suprema del pensiero e delle opere
dell’Occidente. Molti a questo punto
possono domandarsi se sia così
scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia nulla. Non è forse ben nota la
spregiudicatezza di Nietzsche nei
confronti dei principi «logici»? Eppure, chi crede nell’esistenza del divenire, quella
spregiudicatezza non può averla - o ha
un senso del tutto diverso da quello che
comunemente le si assegna.
Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e il poi, tra ciò che
ancora non è, ed è un nulla, è ciò che
ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è
più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del principio di non contraddizione proposte dal
pensiero del nostro tempo negano tale
principio in quanto esso si presenta ai
loro occhi come negazione del divenire, ossia come negazione del senso autentico della non
contraddittorietà, del senso consistente
appunto nella ineliminabile differenza, nella
struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla.
Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla
tradizione dell’Occidente e soprattutto
alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un passato che agli occhi di Nietzsche si
presenta come una foglia secca, ancora
attaccata al ramo - una grande foresta disseccata
che all’uomo della tradizione appare ancora come una vegetazione animata dalle linfe della
terra e quindi ancora capace di guidare
l’umanità. Ma se Dio è veramente morto
139 come è ancora possibile
questa illusione? c) Eterno ritorno e
tecnica La seconda parte di quella che
sopra abbiamo chiamato la «sequenza
essenziale» del pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza di
Dio implica anche l’eterno ritorno di
tutte le cose. Si può esprimere questa tesi
anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista la concatenazione essenziale
di tre capitoli che nel testo compaiono
invece separati l’uno dall’altro: Sulle
isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno
ritorno di tutte le cose. Zarathustra
racconta che ci sono due strade, una che
procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure,
assicura Zarathustra, si incontreranno e
tutte le cose che camminano su di esse
si ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate - ad esempio questo
ragno e questo chiaro di luna e il
colloquio tra Zarathustra e il nano.
Zarathustra, qui, «racconta».
Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di «raccontar miti». La sua è una «gaia
scienza». Gaia; ma scienza. Non la
scienza come epistéme che afferma resistenza
di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere incontrovertibile e innanzitutto affermazione incontrovertibile dell’esistenza e
dell’evidenza del divenire di tutte le
cose e, su questo fondamento, conoscenza
incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende impensabile e impossibile resistenza del
divenire. Il pensiero di Nietzsche
appartiene al culmine dell’essenza
autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i miei scritti mostrando la Follia estrema -;
ma, proprio perché è la forma più
radicale del nichilismo, esso è anche la forma più radicale di fedeltà alla
fede nel divenire. Gli amici di Dio, che
pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non posseggono tale fedeltà. Appunto per questo
sono destinati al tramonto e a essiccare
anche se sono attaccati ai rami. Il genio
di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto fra la creatività dell’uomo e Dio è del tutto
analogo al rapporto fra tale creatività
e il passato. Come il Dio immoto,
imperituro e sazio è immodificabile
dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come immodificabile dalla sua volontà. Sul passato
non si può più intervenire, non lo si
può cambiare. «Così fu.» Ma questa -
agli occhi della fede nel divenire - è la voce della non-verità; come è la voce della non-verità quella che
afferma che Dio è vivo. Il passato
possiede la stessa anima, la stessa essenza
dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende impossibile il divenire, così il
divenire è reso impossibile
daH’immutabilità del passato. Sebbene
Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire che anche il passato - quando sia visto da
chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è
«l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e
l’Imperituro». La sua esistenza è infatti la legislazione che condiziona tutto il futuro. Non in senso
deterministico, ma nel senso che anche
quando ci si vuole liberare dal passato e
dai suoi condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché la liberazione da
ciò che non può essere diverso da come è
stato non può renderlo diverso da sé e
non può non esserne condizionata. Una liberazione apparente. Ci si potrà proporre di evitarne
le conseguenze, ma non si potrà evitare
che la totalità del futuro si mantenga
in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in
questo senso più profondo. In nessun
luogo del divenire si potrà evitare di
rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere più ciò che è
stato. La coscienza umana può
«ricercare» il passato - pensa la fede
nel divenire -, ma è prigioniera della convinzione di non poter far sì che ciò che è stato non sia
stato. La legislazione in cui anche il
passato consiste potrà essere dimenticata ma non distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé
ogni spazio vuoto del nulla in cui il
futuro consiste. Anche questo nulla diventa
quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così come il nulla implicato dal divenire diventa,
con resistenza di Dio, un ascoltatore e
un suddito di essa, diventa cioè un
essere. Proprio perché non può essere modificato o annientato, il passato è il «macigno» che
anticipa il futuro, e quindi lo
annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun
evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne conto, ossia potrebbe configurarsi
indipendentemente da esso. Inoltre, da
un lato il passato è ciò che è diventato nulla;
dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al
futuro, così come non vi rinuncia Dio;
sì che anche in questo senso il «così fu» è
l’identificazione del nulla e dell’essere. Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo
crede che il passato sia immodificabile,
si presenta come qualcosa che non
proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto dall’essenza del divenire -, ma proviene dal
«macigno» del passato, da cui dipende
come si dipende dal «macigno» di Dio.
Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di quella
novità autentica che è la nullità di ciò
che è ancora un futuro. Come Dio, anche il
passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non ci può essere divenire, in un essere, in un
ascoltatore del passato. Pertanto, come è necessario affermare che
Dio è morto, 142 così è necessario affermare che è morto
anche il passato, in quanto esso è
pensato e vissuto come l’assoluta
immodificabilità del «così fu». La creatività della volontà implica cioè necessariamente la sua capacità
di trasformare il passato, di volere il
passato come si vuole il futuro. Si tratta
ora di indicare come ciò sia possibile.
d) Volere Veterno ritorno e volere il passato Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra
- che nonostante i suoi tentativi di
sviare il lettore contiene tutti gli
elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una conseguenza inevitabile della fede nel
divenire - richiamiamo dunque il modo in
cui Zarathustra mostra come la volontà
possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da quanto è stato qui sopra rilevato), senza
essere una semplice velleità. La volontà è il tratto essenziale del
divenire. La sua libertà è innanzitutto
il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale da ogni forma che gli immutabili possono
assumere. Proprio per questo, è libera
nel senso che non è sottoposta ad alcun
disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso. Se essa si presenta dapprima come volontà che
vuole il futuro, ormai Zarathustra ha
mostrato l’unilateralità di questo
aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del passato come del futuro. Essa vuole anche il
passato. Ma essa non può volerlo
separatamente dal proprio volere il futuro,
perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto, diventerebbe un passato su cui la volontà non
ha potenza. È cioè necessario che il
volere «in avanti» - il volere che vuole il
futuro - sia lo stesso volere che vuole «a ritroso», ossia che vuole il passato. Questa identità è possibile
solo se volendo «in avanti» si percorre
un circolo: un percorso in cui si finisce
col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - l’«anello
del ritorno» - rende possibile che, volendo il futuro, si voglia per ciò stesso il passato. Solo se
il divenire del mondo è un circolo, e un
circolo che ritorna su di sé alfinfinito - «un
anello del ritorno» -, la volontà che vuole il futuro vuole per ciò stesso il passato, e lo ottiene come
ottiene il futuro. Ogni punto del
circolo è un punto di partenza. Altrimenti,
se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto immutabile, Yarchè del processo: sarebbe,
daccapo, un Dio immutabile che
anticiperebbe in sé la totalità del divenire,
vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se inizio e fine sono il nulla (come invece
pensa Leopardi con un rigore che è
massimo all’interno di una prospettiva in cui,
tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di tutte le cose), perché anche in questo caso
il divenire avrebbe una direzione, cioè
sarebbe sottoposto a una legge che
attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri dell’anticipazione divina del tutto. Se il
nulla stesso fosse l’origine unica e
inamovibile da cui tutto proviene e il termine
a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la cosmologia si muovono per lo più nei paraggi
di questa tesi), il nulla preordinerebbe
il futuro e riceverebbe il passato in
modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono rispettivamente preordinati e conservati da
Dio. Ciò non significa che il futuro
non sia un uscire dal nulla e il passato
non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla del futuro e del passato si distacchino dai
punti del circolo dell’eterno ritorno e
si configurino come dimensioni
teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla casualità del divenire. Nemmeno il nulla può
essere lo scopo e il riposo eterno
dell’uomo. L’esistenza non ha senso.
Che il divenire abbia un «senso» è un modo di affermare che il divenire è guidato da un Dio. Appunto
perché è 144 impossibile che un qualsiasi immutabile
esista, è necessario che il divenire - e
cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia assolutamente senza senso. Come è impossibile
un inizio assoluto, così è impossibile
uno scopo assoluto. Il pensiero di
Nietzsche mostra dunque non solo che ogni
Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma che la forma più potente della volontà è
quella in cui la volontà vuole l’eterno
ritorno di tutte le cose. Sino a che la
scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una volontà che vuole soltanto «in avanti» e che
non sa di avere potenza anche sul
passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno
ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la potenza massima cui è destinata. Il destino
della tecnica è di ascoltare la voce
dell’eterno ritorno di tutte le cose e di
realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile dall’esistenza (e a sua volta destinata a
declinare, a ridursi, per poi
ricomparire infinite volte). La tecnica
è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che
ancora è la più lontana dalla coscienza
che scienza e tecnica hanno di sé stesse
(anche se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in considerazione aH’interno
del sapere scientifico). Più vicina a
quella coscienza è la dottrina che la
morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata
come un dogma simmetrico a quello degli
amici di Dio, ma deve essere vista nella
sua necessità. Tutto ciò che qui è
stato sommariamente tracciato trova il
proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di quel mio scritto,
la considerazione dell’aspetto
speculativamente più rilevante del pensiero di
Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è 145
avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del divenire implica
necessariamente l’eterno ritorno di
tutte le cose, tale fede implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno non è la
riesumazione di un’antica dottrina
metafisica, esso è tuttavia pur sempre
un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato in faccia (e che quindi non ha nulla
a che vedere con le considerazioni di
Nietzsche sulla tragedia attica) e che
tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del
divenire: che il divenire non è
divenire. Il genio di Nietzsche è
infinitamente maggiore di quello che egli
è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore, perché, senza volerlo - e anzi
volendo l’opposto - mostra l’abisso
senza fondo su cui si libra la fede che regge
l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire
allora che il librarsi della fede nel
divenire sull’abisso senza fondo della negazione di questa fede - il legame indissolubile che
lega questa fede alla propria negazione
- è il librarsi stesso della Follia - non
quella che lacera la mente di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla
radice del modo in cui l’uomo ha abitato
e tuttora abita la terra? Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’
Foscari parlando di Heidegger-, mentre
ponevo termine alla nostra
conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer era imminente, volli avanzare quello che mi
sembrava il punto decisivo, e gli dissi
che tra Heidegger e l’essenza della
tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer rispose con un «no» tanto perentorio quanto
gentile. Ma è proprio su questo punto
che vorrei un po’ soffermarmi; quindi mi
è cara l’occasione per riprendere quel discorso
interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero di Heidegger con l’essenza della tecnica, con
quell’essenza che secondo Heidegger si
colloca agli antipodi della sua posizione.
Ieri si è parlato di «differenza ontologica»: vorrei prendere le mosse da questo concetto. «Differenza
ontologica» significa che esiste una
essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere e l’ente. Significa che l’ente non è
essenzialmente legato all’essere e in
questo senso è un evento che sopraggiunge
improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è opposto a quello di «differenza ontologica» è
la «non- differenza ontologica». Questa
lega l’essere all’ente; questo legame,
per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia della metafìsica. Legare l’essere all’ente
vuol dire assicurare le cose al loro
essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e arginano, bloccano, il sopraggiungere delle
novità storiche. Allora, parlare della
«non-differenza ontologica» è parlare
delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose. Recentemente, è uscita la traduzione di Was heisst Denken,
dove viene sviluppato il concetto che al
culmine di questa assicurazione degli
enti all’essere, al culmine della «non-differenza ontologica» sta il pensiero di Nietzsche.
Heidegger cita il frammento della Volontà di potenza, dove si parla della «vetta della contemplazione»: la vetta della
contemplazione è il ritorno di tutte le
cose. Questa, per Nietzsche, è l’«estrema
approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere». Heidegger vede in Nietzsche, in
quanto teorico dell’eterno ritorno,
l’anticipatore della civiltà della tecnica,
perché la civiltà della tecnica consiste nella programmazione che esclude la differenza ontologica; la
programmazione che, stabilendo la
routine, la ripetizione dell’inedito, esclude la possibilità del sopraggiungere del nuovo, del
diverso. Heidegger si muove certamente
verso l’espressione dell’essenza del
pensiero occidentale, in quanto,
allontanandosi dalla maggior parte delle forme del pensiero contemporaneo, capisce che l’essenza di tale
pensiero va vista in termini ontologici.
Ma è appunto in questa raffigurazione
heideggeriana dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale solidarietà
fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo
parlato prima. Perché? Il tema
dell’«eterno ritorno» dice dunque che il nuovo è impossibile, ed «eterno ritorno» vuol dire
«estrema approssimazione del mondo del
divenire al mondo dell’essere». Ecco,
penso che tutti colgano il significato della
parola «approssimazione», che è «estrema», ma è pur sempre approssimazione. Ciò vuol dire che la
distinzione tra il mondo del divenire e
il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo
tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia inevitabilmente un margine dove il divenire
non è l’essere. È il massimo che si può
compiere per identificare i due mondi;
ma il tentativo è uno sforzo, non riesce. Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce
col bloccare il divenire, ma il divenire
è bloccato solo in quanto se ne
riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che Heidegger
stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della tecnica, allora l’immutabile, cioè la
non-differenza ontologica in cui
consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile soltanto sul fondamento del
riconoscimento dell’esistenza del
divenire. L’immutabile protegge dal pericolo
della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta
con sé, appunto per questo
l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del divenire.
Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli
si vuole assolutamente cautelare dal
divenire - questo riconoscimento del
divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che Heidegger chiama «differenza ontologica».
Perché, se «differenza ontologica»
significa accidentalità dell’ente
rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente all’essere da parte dell’ente, allora
«differenza ontologica» vuol dire
appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la loro eventualità è il loro andare e venire -
un processo in cui le cose sono lasciate
nel loro andare e venire. Voglio dire che
quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da Nietzsche quando egli intende rendere
radicale (e insieme difendersene) con
1’evocazione dell’eterno ritorno, quel
divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger quando egli lo esprime in termini puramente
ontologici, come, appunto, «differenza
ontologica». D’altra parte è chiaro che
quando Heidegger parla della
programmazione operata dalla civiltà della tecnica, che impedisce la storia, dissente da questo acme
che la metafisica occidentale raggiunge
nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà
della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare Heidegger per il quale egli verrebbe a
equivalere simpliciter a Weber, non è
quello che intendo sostenere. Dal punto di vista filologico è ovvio che
Heidegger intende prendere le distanze
dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica la possibilità del nuovo in contrapposizione
all’eliminazione del nuovo. Allora, una prima domanda: qual è il
fondamento dell’esigenza del nuovo?
Perché ci deve essere il nuovo? Perché
non ci può essere un sistema che predetermini la totalità dell’evento, precatturando appunto
ogni novità e rendendo impossibile ogni
novità? Che cos’è ciò che fonda questa
esigenza del nuovo, che è l’esigenza dell’esistenza della storia? Lo so, è l’esigenza di tutti
abitatori dell’Occidente: noi vogliamo
che la storia esista. Ma perché deve esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo che Heidegger
esprime semplicemente l’esigenza, ma non
più che l’esigenza, della esistenza del
nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è
proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può escludere il sopraggiungere di un sistema il
quale riesca a fare ciò che Hegel non è
riuscito a fare. Per escludere il sistema,
per riuscire a escludere la negazione della storia e della novità è necessario un approfondimento del senso
ontologico del divenire, che rimane
invece nel sottosuolo del pensiero di
Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo, Armando 1978, il capitolo intitolato
Gòtterdàmmerung). Seconda domanda:
quando Heidegger polemizza contro la
civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non si dimentica forse della caratteristica
essenziale della scienza moderna, cioè del
carattere ipotetico della scienza?
L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina
radicalmente la novità. Se è già aperto
il senso del mondo, se il senso del
mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile. Ma la scienza
moderna si è costituita proprio
attraverso la distruzione d elYepistéme; quindi la programmazione, il piano, in
cui consiste la civiltà della tecnica, è
una anticipazione ipotetica del futuro: se
teniamo presente il concetto di scienza come «metodo sperimentale», allora, all’interno di questa
prospettiva, la scienza, come
sperimentazione, è una programmazione che
però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la
novità; dice alla novità: Io so già che
cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la
scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo quell’atteggiamento di apertura verso la
novità storica, che Heidegger si limita
a invocare. Questo sarebbe un primo
senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica erede dell’atteggiamento che Heidegger
intende proporre. Ma vi è un senso più
sostanziale. Il senso più originario e
più nascosto della volontà di potenza è
la volontà che la storia (il divenire, la «differenza ontologica») esista. Solo se si stacca l’ente
dall’essere e lo si fa oscillare tra
l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente. Alla base della volontà di dominio sta la
volontà che esista il campo del
dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza dell’Occidente. E in questa essenza
convengono quindi anche la tecnica e il
pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di
Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria essenza, perché mentre la tecnica, volendo il
dominio dell’ente, porta a compimento
l’originaria volontà di potenza (cioè la
volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele alla propria essenza, Heidegger contrappone
alla volontà di dominio il «lasciar
essere» gli enti: quel «lasciar essere» che è
stato originariamente violato (anche) dal pensiero di Heidegger, proprio perché la volontà che
separa l’ente dall’essere - e che quindi
vuole la nientità dell’ente - non lascia
essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo essere unito al suo essere. In questo senso,
la volontà di potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce
la propria essenza), mentre la tecnica
si libera da questa incoerenza ed è
quindi la coerenza del pensiero di Heidegger
(e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il pensiero di Heidegger è unterwegs zur
Technik, in cammino verso la tecnica. O
anche: il pensiero di Heidegger esce
dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze che si contendono il dominio dell’ente, e
quindi come il lasciar essere
l’organizzazione tecnologica del mondo, che
ormai ha avuto il predominio su ogni altra forza. *
Intervento al convegno su «L’eredità di Heidegger», tenutosi
all’università di Padova nell’inverno
1978 (con la partecipazione, tra gli altri, di H.G. Gadamer, A. De
Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi
pubblicato in «Verifiche». Le religioni soddisfano i desideri più
profondi deiruomo. I miti gli dicono che
può accostarsi e unirsi alle potenze
supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo felice in un’altra vita. Dando ascolto a
queste voci, per millenni e millenni
l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra
quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha fede in esse, ne è certo. Ma queste voci asseriscono,
raccontano: non possono impedire che il
dubbio si insinui e si faccia largo nella gran
massa delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è inaffidabile. La salvezza è il contenuto di
un sogno. Nemmeno le religioni più
evolute riescono a uscirne. Si fa
avanti allora la religione. Intende mostrare come il dubbio possa esser vinto. La storia breve
della religione: due millenni e mezzo.
In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò
che è sogno sono andati sempre più perfezionandosi. E tuttavia il contenuto del sogno non è stato
sostituito da una veglia altrettanto
salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto
vedere - e, di assolutamente affidabile, ha visto soltanto l’assoluta precarietà della propria
condizione. Scienza e tecnica fanno sì
prevedere, qui sulla terra, l’avvento
del loro paradiso. Ma fanno anche capire che
nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno. Sanno che, per quanto raffinate, le loro procedure
razionali sono ipotetiche, fallibili. La
condizione umana è precaria, perché
precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà dell’umano. Sia pure in modo diverso, la
salvezza dal dolore e dalla morte
continuano a essere qualcosa di sognato. In questa situazione, i miei scritti
indicano qualcosa che non può non
sembrare esorbitante e velleitario. Può essere
espresso con l’affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi
non sperano né suppongono». Intendo: da
cose che sono infinitamente «di più» di
ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di ottenere; infinitamente di «di più» di ciò
verso chi vuole condurre la stessa
speranza cristiana, e dunque «di più» di
ogni «immortalità» e di ogni «resurrezione della carne» che a speranze di questo genere sono connesse - e
infinitamente «di più» di ciò a cui lo
stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo
destinati a qualcosa che è infinitamente «di più» di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può
volere. Ma il carattere esorbitante di
queste affermazioni è ancora maggiore,
perché quel che esse indicano non si presenta, nei miei scritti, come il contenuto di un mito,
ma come lo stare, in modo assoluto, al
di fuori del sogno in cui rimane ogni mito
e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al di fuori del sogno non si tratta di «attendere»
l’avvento dell’insperato: già ora, da
vivi, gli uomini sono avvolti da una «veglia»
assoluta che è infinitamente «più» radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura
critica della ragione - dunque anche di
quella delle scienze logico-matematico-
naturali. È all’interno di questa «veglia assoluta» che si mostra la destinazione dell’uomo a cose che egli non
spera né suppone. L’uomo non è ciò che
il mito e la ragione gli fanno credere
di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa veglia assoluta. In essa appare l’infinito
allargarsi di sé stessa, cioè la sua
Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia che l’uomo, da
ultimo, è. Nei miei scritti tale
«veglia assoluta» è indicata dalla parola
«destino», intesa come costruita in modo analogo a termini quali de-amare, de-vincere, dove il de
esprime l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì che il destino è l’intensificazione estrema dello «stare»,
cioè dell’inamovibilità in cui consiste
la «veglia assoluta». Il destino è
l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è sé stesso e
non diventa altro da sé, e dunque è
eterno; e appare che il variare del mondo è il
sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia;
e, insieme, nel destino appare che la
negazione del destino è negazione di sé
stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il destino è il senso autentico della verità. E, ancora, nel destino appare che l’uscire
dal nulla e il ritornarvi non appaiono,
ma appare il sopraggiungere di quegli
eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia. Il cadavere - gli eterni che sono
«oltrepassati» quando tramonta
l’isolamento della terra dal destino. Nell’isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta
alla luce la volontà di salvezza e di
potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il divenir altro (ossia è l’impossibile); e
da sempre i mortali hanno tentato di
vincere la morte diventando altro da ciò che
essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere
la morte con la morte. Certo, tutto questo, detto in questi
termini, può sembrare un ennesimo mito
che ripropone quanto la tradizione
filosofico-metafisica dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di quanto interessa l’uomo e di quanto la
ragione può dire (l’unità tuttavia che
non può essere realizzata né dalla
coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma,
lungo la storia stessa dell’Occidente,
quella tradizione è tramontata.
Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra 155
l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in quella dimensione più profonda del pensiero
filosofico del nostro tempo, che questo
stesso pensiero per lo più non riesce a
raggiungere. D’altra parte sin dal suo
inizio la filosofia porta alla luce non
solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso radicalmente nuovo della salvezza: si tratta
di salvarsi dal nulla da cui le cose del
mondo sporgono improvvisamente. Il mito
prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede nemmeno che la morte è annientamento. Non
vede il pericolo estremo e quindi non salva
da esso. Pensando l’eternità del divino,
la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla sia possibile. Ma se si sa scendere nella
dimensione profonda della filosofia
degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi
Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni «verità eterna», incontrovertibile,
definitiva. Ciò significa che sia la tradizione
filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia l’intero passato sia l’intero presente della
civiltà occidentale, e dunque, ormai,
planetaria, hanno in comune il grande mito -
la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte
degli essenti. (Il mito che dunque
accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio,
ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo, la cosiddetta «filosofia analitica» e la
cosiddetta «filosofia continentale»). La
volontà di salvezza - che è la stessa volontà
di potenza - è la figlia di questo mito. Ma è inevitabile che si obbietti: «Come può
essere sostenibile un discorso che
ritiene di essere l’unico a non
appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre fatto perno sul divenir altro delle cose; e
proprio quel discorso, che pretende di
smentire quel che l’uomo ha sempre
pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato, dovrebbe esser l’unico detentore della
verità?». 156 Possiamo richiamare così la risposta a
questa obbiezione - che peraltro è
sempre stata rivolta ai filosofi e al «campo di
lotte senza fine» (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che esistano altre coscienze, oltre a quella che
appare nel destino è, originariamente,
un problema, non una verità assoluta.
Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di individui umani. Ed è un problema anche ciò
che i linguaggi dell’uomo intendono
dire. Li si interpreta; ma
l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque un’interpretazione anche Yesistenza del
dissenso rispetto al linguaggio che
indica il destino - del dissenso che si esprime
dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una interpretazione anche l’esistenza della
storia, di cui prima si è detto, che
conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini sia sempre rimasto al di fuori del
destino, e abbia sempre agito secondo
questa sua alienazione, è
interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente
dire: se c’è stato qualcosa come «mito»,
e se c’è stato qualcosa come «ragione»,
allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra rilevato. Certo, al destino appartiene anche la
necessità del suo essere presente in
infiniti altri cerchi dell’apparire - e in
questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di esser
uomo, ossia è una «società». Ma poiché è
sul fondamento del destino che
l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata incontrovertibilmente, allora, se si scopre
che tale molteplicità è tutta o in parte
un dissenso rispetto al contenuto del
destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò sul cui fondamento è affermata
incontrovertibilmente la sua esistenza.
Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le esorbitanti pretese del linguaggio che indica
il destino non è 157 un «fatto»: è anch’esso un mito. Quando il
destino mostra di essere presente in
un’infinità di «coscienze» e mostra il loro
dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale dissenso esista viene affermato infatti proprio
in base a ciò da cui si dissente. La
fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più
generali dell’umanità»: gli «archetipi»
(ad esempio il divino). «Diffusa
dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Cari Gustav
Jung. Platone vede nelle «idee» le
immagini originarie di tutte le cose, gli
archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non
appartiene ai «misteri» dello spirito umano,
bensì alla «scienza» ( epistéme ) della
«verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della «fantasia» intesa
come evocazione misteriosa, e quindi da
ultimo oscura e arbitraria, di mondi.
Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo
la propria storia. Ci si imbatte nella
forma originaria della fantasia, di cui tutti
quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell’uomo e delle cose che gli si
fanno incontro. Infatti si può pensare
che la più antica origine di questa parola
indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa,
uomini e dèi, il dolore e il piacere:
cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della
loro vita e poi da molti di essi si
allontana. La terra: gli stormi delle cose che
vengono e vanno. Da che cosa è
accolta la terra? Da che luogo si allontana? I
mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo
eterno in cui appare ciò che da sempre
la verità è destinata a essere: il «destino
della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino»
e «verità». Nell’uomo sopraggiunge la
terra. Ma insieme a essa 159 sopraggiunge e si fa dominante la
convinzione che l’uomo sia un mortale, e
con lui tutte le cose; ed egli vive come se in
verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa
Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli
stati delle une e degli altri. Anche la terra è
eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità. Com’è lontano questo discorso da tutto ciò
di cui sono convinti i mortali. Anche e
soprattutto in questo caso la sua
inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e
da lontano, in che senso è necessario
risalire molto più indietro di ogni
archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la «verità» dei mortali sia
la loro «fantasia» hanno la stessa anima
e che quest’anima è la forma originaria
della fantasia. In una delle sue
accezioni più comuni, la fantasia è la
capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole
ritenere esistente. Ma questi due tipi
di mondi, cioè di andirivieni, entrambi
evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo
mondo e della sapienza di Dio, ma anche
della fantasia. E la terra si inoltra
nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che
leggono queste righe sta pensando che
esse non abbiano nulla a che fare con la
«realtà» e la «serietà della vita». Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno infinitamente di più di
quanto credono di sapere. Sono
l’apparire del destino. L’autentica fantasia
originaria è cioè la convinzione che la «realtà» con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto,
le cose che vengono e vanno, terrestri o
celesti, le cose della terra ; e ormai
160 si pensa che tutte le cose
vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è
avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal
destino della verità, nella terra che
appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la
separazione della terra dal proprio
destino. Una metafora può forse aiutare a
comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma
il pensiero più radicale, essenzialmente
più radicale e inevitabile di ogni altra
forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non
lo vedano più. Non si produce in essi
qualcosa come un «oblio» del cielo e del più
alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono
più a vedere gli archetipi che appaiono
nella «pianura della verità». Quei
cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse
loro del cielo direbbero che le sue son
fantasie e che sono gli uccelli le cose
con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro
che a prenderli, gli uccelli; ed
effettivamente li prendono, e gettano loro
addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo irretito
degli uccelli. L’arte tenta di rievocare
il libero volo, ma, per quanto splendente,
rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può
capire che, nella metafora, il volo
degli uccelli corrisponde alla pura terra, il
cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la
terra dal destino della verità. Tale
isolamento è la forma originaria della
fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti,
filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. Discutere il destino della
verità, concretezza delVerrare,
isolamento della terra, linguaggio
Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico - nonostante i tentativi di eliminarlo, ma
anche in seguito alla loro presenza -
riguarda la «verità» di ciò che è conosciuto e
voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza e rigore la filosofia del nostro tempo rifiuta la
possibilità di una «verità» assoluta e
definitiva, capace di affermare qualcosa di
Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa ben diversa dal considerare superfluo il tema della «verità»;
e che là dove è adeguato al proprio
compito è un rifiuto inevitabile. Esso è
tuttavia la coerenza estrema del nichilismo. Da quando abita la terra l’uomo intende le
cose del mondo come un «diventare
altro»; da quando la terra è abitata dalla
filosofia la filosofia concepisce la «cosa» come «ciò che è» («ente») e definisce il suo diventar altro
come «passaggio dal suo non essere al
suo essere» e viceversa. La cosa che
incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui essa non era e incomincia, e la cosa che finisce di
essere torna nel nulla nella misura in
cui essa finisce e non è più. Procedendo da
questo senso dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia pervenga al rifiuto di ogni verità assoluta e
definitiva e di ogni Ente immutabile e
«divino»; e viceversa, tale rifiuto è
inevitabile solo se procede da quel senso - che domina progressivamente non solo i pensieri ma anche
le opere della civiltà occidentale e,
ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non
significa che questa dominante inevitabilità stia davanti agli occhi di tutti i protagonisti della filosofia
contemporanea: all’opposto, va invece
rintracciata nel sottosuolo del nostro
tempo.) Il senso greco
dell’esser cosa domina la terra perché è
ritenuto indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In questa
domanda traspare la dimensione ignota alla storia della terra. Tanto più ignota quanto più tale
dimensione si mostra non come un
semplice domandare, ma come negazione di
quel senso e quindi come negazione di ciò sulla
cui base è inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni verità incontrovertibile. Tale dimensione è
il destino (inteso secondo il senso
richiamato nelle pagine precedenti). Il
destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e del loro non essere. Essi sono le
differenze. Proprio per questo il
destino è la manifestazione dell’impossibilità che «ciò che è», in quanto tale, non sia: è
l’apparire della necessità che Tessente
in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia
«eterno». Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è tale solo in quanto è la
dimensione in cui appare
incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e Tincontrovertibilità di tale dimensione: non
è la fede nella propria
incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non può che rimanere astratta, formale, si può
indicare il senso
delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo che esso è la dimensione la cui negazione
nega sé stessa. Il destino è la
negazione della fede, cioè dell’errare.
L’«uomo» di cui si parla all’interno della terra isolata dal destino è anch’esso il contenuto di una fede.
Con ciò si intende qualcosa di
essenzialmente più radicale
dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede nell’esistenza dell’uomo della terra isolata
è un errare, un sogno. La terra intera,
in quanto appare separata dal destino, è
il contenuto del grande sogno in cui consiste la «vita» e che è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un
essente, anche il sogno è un eterno.) La
vera essenza dell’uomo è il destino.
Essa non «appartiene» ad alcuno degli abitatori, umani o divini, della terra isolata. È all’opposto la
terra isolata ad appartenere al
contenuto che appare nel destino - giacché
solo nel destino può apparire incontrovertibilmente l’esistenza dell’errare, della fede, del
sogno, ossia della negazione del destino
della verità. Discutere il destino è un
modo di negarlo, sì che tale discussione
nega sé stessa. Infatti «discutere» significa
affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in vari modi gli si oppone. E il destino - si è
detto - è innanzitutto l’apparire del
senso che compete alla differenza (ossia
alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al destino è quindi un differirne. E proprio per
questo è condividerne, più o meno
inconsapevolmente, il tratto originario:
l’affermazione della differenza. In questo differire - condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si
ripresenta l’indicazione, prima
sommariamente richiamata, del senso
dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Discutere il destino
è condividerlo; ma è anche negarlo, e
pertanto è negare tale condivisione, sì
che discutere il destino è negazione di sé stesso. È necessario affermare l’esistenza delle
differenze non perché esse appaiono
all’interno della fede e del sogno in cui
consiste la terra isolata dal destino - e dunque, da ultimo, non perché si vuole che esse siano. È nel destino
che appare la necessità della differenza
dei differenti e la necessità della loro
eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da sempre si apre al di là del percorso dove gli
abitatori della terra pervengono
inevitabilmente, sul fondamento della fede
nel diventar altro, alla negazione di ogni verità e di ogni Ente immutabile.
Discutere e opporsi al destino, quindi condividendolo, è pertanto solo il tentativo inconsapevole di
condividerlo. Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene essenzialmente in quanto esso è la negazione
della propria negazione (e questa
negazione del destino non è un semplice
tentativo di esser negazione); altro è la negazione che appare nella terra isolata dal destino e che se (a
differenza dell’altra negazione) si
rende visibile agli abitatori di questa terra,
tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere negazione del destino. Già il vivere è trovarsi nelle differenze -
è, appunto, credere, aver fede di
trovarvisi. Forse la differenza più antica è
quella che la volontà è convinta di esperire tra i propri desideri e le resistenze da essi incontrate.
Oggi la tecnica guidata dalla scienza
moderna è il modo più potente con cui la
volontà domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la tecnica, nonostante il loro rigore
concettuale, riescono a porsi al di là
della fede e pertanto della fede nell’esistenza delle differenze.
La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di liberarsi dalla fede - quindi dal mito, che è uno dei contenuti
più antichi della fede e che a lungo ha
raccolto in sé e dominato ogni altra
forma di fede (e ancora permane in molte parti del mondo). Eppure la filosofìa conserva il tratto
centraledella fede prefilosofica nelle
differenze: conserva, appunto, la fede nel
loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede che le differenze siano anche un
differenziarsi, e nel modo più radicale.
I miti raccontano cosmogonie, teogonie,
metamorfosi: le grandi forme del diventar altro. La filosofìa, però, intende essere il «vero»
racconto. La sua grandezza sta nell’aver
evocato una volta per tutte il senso
radicale della «verità». La «verità» è il mostrarsi dell’assolutamente incontrovertibile. Si è
poi trattato di stabilire il senso
dell’«assolutamente incontrovertibile» e il contenuto di cui è necessario
affermare tale incontrovertibilità. Ma
lungo la storia dell’Occidente la fede è
prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi sviluppata come fede nel differenziarsi delle differenze, la
filosofia si è sempre più consolidata
come fede nell’incontrovertibilità della
manifestazione («esperibilità», «osservabilità») di tale differenziarsi. «Verità» si dice in molti sensi anche perché
molti ambiti della vita si presentano
come «verità» - e per questo si parla di
«verità» religiosa e morale, di «verità» degli istinti, degli affetti, dell’arte, di «verità» della
filosofia e della scienza; e,
complessivamente, di «verità» dell’esistenza della vita e della terra (quale appare nel suo essere isolata
dal destino). Ma poiché queste «verità»
non sono il destino della verità, esse
sono tutte «verità» controvertibili - per quanto diversa possa essere la loro «plausibilità» («probabilità»,
«ragionevolezza», «potenza» e «coerenza»
concettuale) e potenza - e raffermarle è
sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella propria incontrovertibilità. La «più
plausibile» è lontana dal destino tanto
qua nto la «meno plausibile»: infinitamente.
(Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita lontananza che tuttavia si presenta come
«inevitabile», nel pensiero del nostro
tempo, la distruzione di ogni «verità»
assoluta e di ogni Ente immutabile.)
Si può chiamare «filosofia futura» il linguaggio che, invece, testimonia il destino della verità. Essa è
futura perché se nel presente la sua
voce è soverchiata dalle voci della terra isolata dal destino, tuttavia essa è destinata a
mostrarsi come il linguaggio dei popoli.
D’altra parte, testimoniando il destino,
la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è inclusa, ma - più antica del più lontano
passato - include la totalità del tempo
che viene affermato all’interno della terra
isolata. 167 Tuttavia, le stesse voci che si levano
nella terra isolata, e sono quindi
negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse
«sempre più concreto» il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più concreta quella negazione
del destino che essenzialmente gli è
unita, e in questo senso gli appartiene,
e quindi senza la quale il destino non potrebbe
essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto l’opporglisi che, si è detto,
proprio perché intende differirne
condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di condividere) l’affermazione della differenza
che in esso appare: tale discussione è
insieme l’arricchirsi della negazione
del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo senso tutto l’infinito
contenuto della terra isolata dal
destino - il contenuto che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la
negazione del destino e quindi il
destino stesso, in quanto negazione di tale
negazione. D’altra parte, la
terra isolata, in quanto fede originaria, è
interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso è un «conferire», non
gli può competere l’incontrovertibile
necessità del destino, ed è quindi
volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso che, nella terra isolata che appare nel
destino, certi eventi appaiono come
linguaggi e come linguaggi che negano il
destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti
dell’interpretare (cioè del sogno) che
appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un tratto del destino). Gli eventi
della terra isolata sono interpretati
come linguaggi che, proprio perché
testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che dunque esista la discussione del destino
offerta dalla terra isolata, è qualcosa
di voluto dall’interpretare (che appare nel
destino). Né può essere diversamente, perché se nella negazione del destino il destino apparisse, essa
apparirebbe come negazione di sé stessa,
e l’apparire di tale autonegazione sarebbe
l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile «esser convinti» della sua negabilità e
controvertibilità. Lo si può discutere e
negare, se ne può affermare la
controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e negarlo è un linguaggio che nella terra
isolata testimonia soltanto essa - cioè
un linguaggio che nel destino appare
come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così evocati anche i linguaggi che, all’interno
dell’interpretazione, mostrano di essere
affermazione del destino, o di
«condividere» il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso linguaggio è evocato dall’interpretazione in
quanto esso appartiene al passato,
mostrandosi con la proprietà dell’«esser
mio». Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi del destino) si rivolge la discussione del
destino nella misura in cui essa riesce
a costituirsi - visto che essa riesce a
costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne contiene l’apparire, non lo «capisce»: solo
in quanto non ha come contenuto il
destino, nel quale la negazione-discussione
di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque: nella misura in cui riesce a costituirsi la
discussione del destino si rivolge al
linguaggio che lo testimonia, perché non è
non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte le condizioni richieste per essere «capito»
dai linguaggi «altrui». L’uomo vive
soltanto se crede - nel senso più ampio di
questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una specificazione, per quanto eminente. Vivere è
innanzitutto credere di esistere e di
agire nel mondo. E ogni credere, ogni
fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto
vuole che le cose presenti e passate
siano ciò che essa crede che siano e
siano state. La fede-volontà è interpretazione. Tuttavia credere-volere-interpretare è stare
al di fuori della verità non smentibile.
Credere è errare. Ma se l’uomo fosse
soltanto un vivere, cioè un credere,
allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che vivere è credere e volere - affermazione
condivisa peraltro da gran parte della
cultura non solo filosofica del nostro tempo.
E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa - questa affermazione non è un credere, ma è
una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo non è soltanto
vita, cioè fede, ma è, originariamente,
l’apparire della verità non smentibile. È
all’interno della verità che - in modo non smentibile, incontrovertibile - appare la vita, cioè la
fede, la volontà. La «verità» a cui si
è rivolta l’intera storia dell’Occidente
non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che d’altra parte s’illumina nel fondo più
nascosto di ogni uomo (e ovunque
qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la chiama «destino della verità» - come appunto
nei miei scritti viene chiamata. Ma,
anche qui, che questo linguaggio sia
l’agire di «qualcuno» - che qualcuno ne sia l’«autore», che tale linguaggio abbia il carattere dell’«esser
mio» -, questo è daccapo uno dei
contenuti in cui la vita può giungere a
credere (come crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e che sia
l’«autore» dei linguaggi che parlano del mondo). Il nichilismo - inteso nel senso indicato
nei cosiddetti «miei» scritti - è la
forma più potente della vita, cioè della
fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche in questi scritti, che sono andati via via
liberandosene. D’altra parte sono il
contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma
di vita che è il voler dire e quindi
anche il voler dire in cui consiste quel
linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in che senso non è
contraddittorio che quella duplice forma
di fede (cioè di non-verità) possa
«condurre» al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto tale, non è un «punto di arrivo», ma è il
punto di partenza di ogni percorso. In un senso che è fondamentale i miei
scritti hanno quasi subito guardato
nella stessa direzione. Però il loro è stato un
percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni
Cinquanta), ma l’oltrepassamento del
nichilismo è stato progressivo^ Anche
ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura
consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture filosofiche) si può quindi muovere
l’obbiezione, considerata nel paragrafo
precedente, di essere uno sviluppo dove il
linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che
ora esso dice non dovrebbe essere a sua
volta negato da un suo ulteriore
sviluppo? Tale obbiezione e la
relativa risposta hanno in questo caso
un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e il linguaggio che lo
indica. I molti significati della parola
«verità», comunque, non tolgono di mezzo
la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui 171
contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino della verità,
appunto - e tutti gli altri sensi, nei
quali, alla luce della verità così intesa, le diverse forme di «verità» appaiono invece come sapere
il cui contenuto non è qualcosa che non
possa essere in qualche modo negato.
«Saperi», si è detto (si pensi ad esempio alle
espressioni «verità morale», «verità dell’arte», «verità della fede», «verità del cuore», ecc.), ma anche
intuizioni, emozioni, certezze, fedi,
impulsi profondi, desideri, costumi,
tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del contenuto dell’«incontrovertibile», ossia del
«non poter essere altrimenti» (secondo
la definizione aristotelica): il contenuto
che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come «verità» (« epistéme della verità») non è
riuscito a essere l’assolutamente
incontrovertibile. Rispetto
all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose che differisca da esso è un modo del
«controvertibile», cioè tien stretto un
mondo che d’altra parte può sottrarsi alla
stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e preteso dalle
viscere e dal cuore. L’incontrovertibile
autentico è il destino-, e la struttura
originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme pianura infinita del destino. Nella sua
essenza autentica l’uomo - ogni uomo -
ne è l’eterno apparire (e tale
affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si sta
considerando in questo e nel precedente
paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e
«terra». Nel destino appare la «terra» - ossia tutto ciò che sopraggiunge nell’eterno apparire del destino
ma appare nel suo esser isolata dal
destino, appare cioè come il luogo
originario del controvertibile - ossia del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata
si crede inoltre che 172 il linguaggio non parli d’altro che delle
cose della terra (lo si crede, senza
poter sapere che sono le cose - umane e divine
della terra isolata dal destino).
E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra isolata anche il linguaggio che testimonia il
destino riesce ad affacciarsi; e appare
che non è impossibile che tale linguaggio
sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e
dominano alfinterno dell’isolamento
della terra - le negazioni più
perentorie dei tratti del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i «miei
scritti» sono eventi della terra
isolata, che nello sguardo del destino appaiono
alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento della terra - appaiono
all’interno dello sconfinato contenuto
dell’isolamento. L’obbiezione che si
sta prendendo in considerazione è una
voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo
dove il linguaggio giunge a dire
qualcosa che prima negava è un presupposto
controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto configurantesi così come attualmente
si configura - potrebbe venire a
mostrarsi come incontrovertibile: quella
configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della «vita»
(che appaiono tutte nella terra isolata)
- tutte le forme del controvertibile - sono
alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste appunto nel rilevare che tale
obbiezione non solo è un presupposto
controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema dell’alienazione della
verità che è l’isolamento della
terra. In relazione allo sviluppo del
mio discorso filosofico - quale appare
all’interno della terra isolata - dell’intera storia 173
isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che conducono da La struttura originaria (1958) a
La morte e la terra (Adelphi 2011), e
nelle quali, tuttavia, il centro di quello
scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel
tragitto, la «svolta» (così è stata
chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la
messa in questione dell’intera storia
dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione
dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che domina tale
storia lascia per un certo tempo le sue
tracce anche neìYalone che nei miei scritti
avvolge quel centro.
L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il
«cristianesimo», come ogni altro evento
«storico», appare all’interno
dell’interpretare secondo cui si costituisce la terra isolata dal destino della verità. Che il cristianesimo
esista e che degli uomini abbiano una
«fede cristiana» è cioè il contenuto di
una fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra. Nello sguardo del destino non è invece il
contenuto di una fede l’esistenza di
quella fede e dell’interpretare che compete
all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che chiamiamo «la nostra vita» è contenuto della
fede interpretante. (Appare aH’interno
di quella fede anche l’intera vicenda
che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli
2001. Questo «scontro», che appare
all’interno della fede della terra isolata,
sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa forma dell’alienazione della
verità che è il cristianesimo e la sua
configurazione storico-istituzionale, ma
tale «scontro» è, innanzitutto e propriamente, la negazione, da parte del destino della verità, della
«verità» di ogni contenuto della terra
isolata - e quindi anche del cristianesimo, in quanto appartenente a tale
contenuto.) 175 5. Il destino e l’errare Il mondo è interpretato. Non nel senso che
l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà
di interpretarlo. Anche gli uomini e i
loro rapporti appartengono infatti al contenuto dell’interpretazione. La quale, dunque, pur
essendo volontà interpretante, non è a
disposizione dell’uomo, ma dispone
l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa stabiliti e modificati. È l’interpretazione
originaria. Ma l’interpretazione non è
verità: è fede, volontà, ossia errare. Il
mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare. Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno
della verità. Non delle verità del mondo
- che sono a loro volta form e particolari di interpretazione -, ma di ciò
che nei miei scritti è chiamato «destino
della verità», o semplicemente «destino».
L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La «terra isolata» è ciò che appare in questa
separazione. Anche le teorie
dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono alla terra
isolata. L’interpretazione, che evoca i
propri contenuti sul fondamento di
regole e di criteri (di cui essa è più o meno
consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali essa può
affermare che l’uomo esiste come
molteplicità di individui umani e che gli
uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di coerenza rispetto alle
regole e ai criteri adottati. Ma anche e
innanzitutto il destino della verità vede
la differente coerenza delle interpretazioni evocate dall’interpretazione originaria. Che la
«storia» dell’«uomo» sia storia del
mortale, cioè della fede che, in modi estremamente diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso
diventano altro da ciò che essi sono e
quindi muoiono via via ciò che sono stati,
fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è una
interpretazione; che però si presenta come la più «coerente», sino ad ora, rispetto a ogni
altra interpretazione di quella «storia»
(la cui stessa esistenza è un contenuto
interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito a una svolta radicale delle discipline
storiche, linguistiche, antropologiche,
psicologiche ecc., si imponga una nuova
forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai creduto che le cose siano un diventar altro. Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione «più coerente» è tuttavia in grado di
mostrare quell 'ulteriore coerenza, per
la quale i diversi modi di pensare e di vivere il diventar altro delle cose è esso stesso un
mostrarsi sempre più coerente a sé
stesso, lungo il percorso che conduce
dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla «verità» e, in seguito, dalla distruzione
della «verità» (ossia della «verità» che
appartiene alla terra isolata) alla civiltà della tecnica.
Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove YErrare estremo perviene alla propria estrema
coerenza; ma è anche questo stesso
percorso, in quanto isolato dal destino e
dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar sempre più coerente alla fede nel diventar
altro, dalla quale tale percorso si
sprigiona. Non potendo sapere di essere
l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più coerente (e, dal suo punto di vista, sempre
più «vera») la propria fede nel diventar
altro, che all’inizio della storia
dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come convinzione che le cose del mondo,
corruttibili, escono dal loro non essere
(dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché
questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della terra isolata - è
convinzione che l’essente in quanto
essente sia niente, la storia dell’Occidente è
storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da 177
quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia della filosofia si
costituisce il proprio costituirsi come
sistema : non in senso hegeliano, come sistema della «Verità», ma come sistema dell’Errare. Il compito gigantesco da cui è atteso il
linguaggio che sul fondamento del
destino mostra il nichilismo dell’Occidente è
di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega l’Occidente l’analisi in cui appare il suo
carattere di sistema : allargarla alla
dimensione religiosa, artistica, economica,
politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae, oltre che, appunto, a
quella delle diverse forme della scienza
in quanto sapere della natura e dell’uomo
e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste dimensioni è possibile scorgere il percorso
che rende sempre più coerente e visibile
il nichilismo che in modo specifico le
avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima
tutti gli altri luoghi dell’Occidente e
ormai del pianeta - e tanto più quanto
più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo articolarsi dev’esser data
la precedenza. Per indicare l’Errare è
necessario esserne al di fuori: solo in
quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra
parte non è qualcosa di accidentale
rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del
nichilismo non è una semplice «confutazione» di un errore che, esercitando una maggior attenzione e
perspicacia, si sarebbe potuto evitare.
La grandezza della verità richiede la
grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni storiche del pensiero
filosofico, per la loro inevitabilità -
cioè per la loro capacità di andar oltre le
forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché sono queste stesse forme a richiedere di
essere oltrepassate senza peraltro
riuscire a soddisfare questo loro intento più
178 profondo, è un modo di
pensare la filosofia che troppo presto è
stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva abusato. Recuperandone la forma (e non il
contenuto, si è già detto), si dovrà
comunque distinguere il senso che
l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto considerato alfinterno della logica
dell’Errare e il senso di tale
inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino. Al culmine della propria coerenza - e
dunque nell’incombere della propria
distruzione - il nichilismo si presenta
come civiltà della tecnica. Come ho
richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo carattere
scientifico-matematico (che peraltro,
oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una concettualità più potente - anche se questa
insostituibilità è una situazione di
fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie
spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è
la messa in opera del rapporto
mezzo-fine: l’organizzazione di mezzi in
vista della produzione di scopi, e propriamente di quello scopo che è l’incremento indefinito
della capacità di produrre scopi. Se
qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica -
se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo, costituendosi pertanto come il supremo
dominio e come la potenza suprema, tale
qualcosa sarebbe la tecnica autentica,
cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e usa come mezzo non soltanto le forze che si
illudono di servirsi di essa come mezzo,
ma si serve anche di sé stessa o di una
dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine di quell’illusione), che qualcosa si serva
della tecnica significa che la tecnica,
ossia ciò che oggi si presenta come la forma più potente del divenire, si serve e usa sé
stessa o una sua dimensione parziale.
Poiché la volontà di accrescere
all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa volontà è la forma «trascendentale» del
divenire, che servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme particolari, «empiriche» del divenire. Detto
in modo sommario: si serve di sé, in
quanto potenza massima attualmente
realizzata, per produrre sé in quanto potenza
ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si serve e usa anche le forme di volontà di
potenza che credono ancora di poter
guidare la tecnica (e lo credono nella misura
in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente
nascosta, del pensiero filosofico del
nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto alla volontà di accrescere la
propria capacità di realizzare scopi).
La tecnica - che può essere mezzo solo in
quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del
divenire, rispetto alla quale il
divenire «naturale» si presenta come
routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così, il culmine
della coerenza del nichilismo (anche se
ancora resta da esplorare, da un lato, il
rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche intendono la forma trascendentale della
volontà che si fa avanti alla fine
dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto tra questi modi e l’attualismo gentiliano). L’anima
dell’Occidente: la persuasione che le cose e gli eventi - gli essenti - escano dal niente e si
annientino. Ciò significa che
annientati sono niente, e che prima di
uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione è la Follia essenziale, la più profonda che possa
manifestarsi nel mondo dell’uomo e nel
Tutto. È infatti la persuasione che un
essente, un no n-niente, divenendo, sia, in quanto essente, niente (come passato e come futuro). In forme
diverse, la Follia domina la storia
della terra, ma al di fuori della Follia
appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni evento, di ogni stato del mondo, di ogni essente che
non sia uno stato del mondo. Il
«mantenersi al di fuori della Follia essenziale» non è una semplice fede, un mito, un
desiderio vano, un dono divino, una «filosofia»,
e non è nemmeno un atteggiamento
scientifico: non perché non riesca a raggiungere il rigore delle scienze della natura e delle scienze
logico-matematiche, ma perché, nel suo
significato autentico, il «mantenersi al di fuori della Follia» ha un «rigore»,
un’«incontrovertibilità», una
«stabilità», e dunque una «verità» e «necessità» essenzialmente più radicali di quelli che
competono al sapere scientifico, e a
ogni altra forma di «sapere» e di «coscienza».
La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la coscienza critica del nostro tempo è
conseguenza inevitabile della
persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in
quanto appare, nella Non-Follia, la
Follia di tale persuasione, quella
conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire, al pensiero che si mantiene nella Non-Follia,
di essere la verità e necessità
essenzialmente più radicale di ogni «verità»
e «necessità» della conoscenza scientifica, e di ogni altra forma di conoscenza. «Destino della
necessità» si può chiamare questo senso estremo della verità e della
necessità, che si mantiene eternamente
presso di sé. Il destino della
necessità è l’essenza autentica dell’uomo:
come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente altro dall’essere un che di effimero, preda
del tempo e del nulla, più o meno raggiunto
dalla grazia di un Dio o di un
Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno che accoglie la terra, ossia tutto ciò che
sopraggiunge - e tutto ciò che
sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale
appartengono non solo gli «individui umani», ma la stessa Follia essenziale, cioè la stessa fede che
gli essenti possano uscire dal niente e
ritornarvi. Stando aH’interno della
Follia, gli uomini chiamano «storia del
mondo e dell’universo» il sopraggiungere degli eterni, ossia la terra. Al di fuori della Follia, la
storia del mondo e dell’universo non è
la produzione e la distruzione degli
essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti, cioè degli eterni. La morte appartiene alla
manifestazione degli eterni, è un evento
interno al cerchio eterno dell’apparire
degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte non travolge e non disperde l’uomo, ma è l’uomo a
comprenderla in sé stesso come parte
della totalità in cui egli consiste. Da
sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della verità del destino. La terra sopraggiunge nel
cerchio del destino - che dunque è una
dimensione finita. L’uomo è sì
l’apparire infinito del destino della verità, ossia l’apparire di tutto ciò che è, nella sua
verità assoluta - e dunque è l’apparire
in cui non può sopraggiungere alcunché
(appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio del finito:
nell’uomo, in quanto luce finita del
cerchio del destino, l’eterna luce infinita è
destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra, 182
in quel cerchio. Come eterno
oltrepassamento di tutte le contraddizioni del
finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio dell’uomo, in cui egli è destinato a
inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne
sanno, intanto, gli «individui umani» - o i
«popoli» - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità, ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si
mostra nella piena luce e parlano
soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra
appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la potenza di trasformare e dominare cose ed
eventi. «Due anime abitano nel nostro
petto»: l’apparire del destino della
verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di vivere - il mondo del dolore
e della morte - è il volto che la terra
viene a mostrare nel suo essere così
separata e isolata. Ma intanto,
prima del tramonto della Follia l’uomo è
rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente di più di quel che crede di essere.
Rattrappito, perfino quando crede di
essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia immortale o che anche il suo corpo possa
risorgere. È rattrappito anche nei suoi
desideri: non perché debba desiderare di
più, ma perché l’uomo desidera quando non è
consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale ricchezza gli si faccia innanzi
lungo un percorso a sua volta infinito
al quale, dunque, si addice la parola «Gloria». E, tutto questo, non certo perché sia io o tu o
un popolo o un Dio a dirlo, ma perché
appare, non smentibile, nel più profondo
di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser
uomo. L’isolamento della terra dal
destino della verità è il fondamento, la
radice più profonda della Follia essenziale.
L’isolamento della terra non è una «colpa», una «decisione» 183
dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto cerchio finito del destino. Solo all’interno
della terra isolata può apparire
qualcosa come «individuo umano», «popolo»,
«società». Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi, nell’apparire, la Follia essenziale e la
storia dell’Occidente, che è ormai
storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali sentieri la terra è destinata a
percorrere nel cerchio finito
dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è
insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi
in quel cerchio durante la «vita» e dopo
la «morte» - che, comunque, non può
essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica l’uomo non solo
è l’eterno apparire degli eterni e degli
eterni della terra, ma è la luce che si
allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni
configurazione della terra) è destinato
a essere oltrepassato dal sopraggiungere,
nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e le
azioni dei mortali - è destinato al
tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto
con la terra isolata. L’essenza
autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni, che si allarga senza fine, è la
Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a
questo rapporto tra la Gioia e la Gloria
- che dunque non è un premio concesso a chi abbia usato «bene» la propria «volontà libera» -. È
necessità che, dopo il tramonto
dell’isolamento della terra - e dunque dopo
il tramonto della «vita» e della «morte», della «volontà» e dell’«abulia» - l’uomo sia l’inesauribile
apparire della libertà della Gloria
dalla terra isolata. Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò
che nel cerchio dell’apparire è
oltrepassato è insieme totalmente
conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente è anch’esso eterno, non fosse eternamente e
totalmente conservato nel cerchio
delfapparire, il suo oltrepassamento
sarebbe una semplice immagine, un’astratta rappresentazione (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001). Poiché la «Gloria» - il dispiegamento
infinito degli eterni nel cerchio finito
delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un
verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare questa «mia» fede di essere una forza, «individuo» capace
di trasformare consapevolmente le cose;
per altro verso la Gloria è il
dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro cerchio, degli infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è
destinata cioè a sopraggiungere, in
carne e ossa, la totalità infinita dell’umano
e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e sarà isolata. Questo è il «venerdì» santo che
precede la «pasqua» della terra libera
dall’isolamento. Si dice, di Cristo:
Nonne oportuit haec pati Christum et ita intrare in gloriam suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo
trasformare la terra per prendere su di
sé il dolore del mondo, egli «vuole» qualcosa
che invece è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire, e il cui accadimento è richiesto con
necessità dalla destinazione di ogni
cerchio alla Gloria, oportet haec pati in
Gloria - e nella Gioia. Cfr. su questo punto, per restare agli studi più
recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino, Mimesis
2008; Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, ETS 2010; Né laico, né
cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana
2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, Mimesis 2011. A Messinese interessa
valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria (La Scuola) - e in generale la prima fase del
mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche perché, a suo avviso, essa sarebbe
compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto del nichilismo permanga
in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli
scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185
anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il
nichilismo permane in quella prima fase e
tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo,
compiuto appunto in tale fase, che è
quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri. Eschilo
(E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a essere uno dei più grandi poeti sono anche
uno dei più grandi filosofi che i
mortali abbiano mai avuto... e che proprio
perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in me così grande la poesia... Ma... c’è anche dell’altro... Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è
molto! - non ti può bastare... e non
certo perché tu sia insaziabile... E.
Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo
Corteo lo vede fermarsi (o muoversi per
inerzia)... e credi che sia sorpassato
da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro tempo: la civiltà della «morte di Dio», come
Nietzsche si esprime, la civiltà della
tecnica... Non è così?... I. In qualche
modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta
non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la più gran questione, a partire dai Greci, è il
senso della «verità»... Quanto al
semplice dire, anche i bambini sono capaci
oggi di dire che Dio è morto... E. ...
e tu credi invece che si possa sapere il vero perché di questa morte! I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo
capire... E. Lo so... Perché poi, a tuo
avviso, tutti e due quei Cortei di cui
ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una stessa cadenza... o, se preferite,
dalla stessa Anima... Come se la loro
marcia fosse scandita dallo stesso Canto...
(che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna
più di quanto 188 la loro inimicizia li divida...: come se
celebrassero un rito comune... che però
è inviso al Cielo... (chiamiamolo così).
I. Sì... purché ci si intenda sulla parola «Cielo»... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce
colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare
il riconoscimento che tu dai della mia
grandezza poetica e filosofica! Ti
sembra che mi ci trovi bene alla testa di un
Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a
quest’altro non ottiene il favore del
Cielo? L Dipende da questo «Cielo» che
le cose vadano così. Cioè né da me né da
te... Ma, intanto, su questo possiamo esser
d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che Dio sta
«nell’alto dei cieli»?)... ma nemmeno
essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo al soffitto delle loro case... Non credo che avremo tempo di parlare del
significato del «Cielo» inaudito al
quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo
dire questo... E. Certo! E ... che se non ottenere il favore del
«Cielo» significa essere nell’Errore,
l’Errore è però prezioso come la verità...
Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso
in cui quell’altro grande che è Emanuele
Kant osservava che senza la resistenza
dell’aria le colombe non potrebbero volare... E. ... Intanto siamo al mio «Cielo»: il
«Cielo» di Dio... che d’altronde non è
nemmeno il cielo di Cristo... e non solo
perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato... L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue
parole - «con un sapere che sta e non si
lascia smentire»; e questo sapere non può
189 essere la fede cristiana
né alcun’altra fede. Avvolto nello
splendore della tua poesia, è tuttavia il «Dio dei filosofi» e tu sei stato uno dei primi re del pensiero ad
affermarlo. La grandezza di ciò che tu
hai visto non poteva essere espressa che
da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli amanti della poesia ma ha fatto perdere di
vista che lì stava nascendo la
filosofìa, la più grande delle avventure del
mortale... E. Di solito, quando
si dice «Dio dei filosofi» si pronuncia
questa espressione con un accento di più o meno larvato rimprovero, mentre il volto e la voce si
rischiarano, quando a codesto Dio si
contrappone il «Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe» e, soprattutto, il Dio di Gesù... I. Ma il rischiararsi di quei volti e di
quelle voci è poca cosa rispetto al
chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al «sapere che sta e non si lascia smentire»! E. È il chiarore della filosofia. Quando
pronuncio l’espressione phrenòn tò pàn
intendo parlare del «culmine della
sapienza»... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare «filosofia».
E il «culmine della sapienza» è il
«sapere che non si lascia smentire»...
Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei, «nella luce», nel vero chiarore... I. Sì, nella tua lingua «luce» si dice phàos
e la parola «filosofia» contiene le
parola sophia... che è costruita sulla
parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel «so» di so-phia è un
prefisso che rafforza, intensifica e,
appunto rende grande il significato della parola da cui è seguito, cioè, in questo caso, il
significato della parola phàos. I. ... e quindi si deve dire che
philo-sophia significa «aver cura per
ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce»... La cura per qualcosa
che è essenzialmente più radicale del
rigore del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede. E. ... e che per questo, ma solo per questo,
può essere detto «sapienza»... Forse ora si potrebbe incominciare a capire
ciò che tu affermi del modo in cui io
intendo la «sapienza»: quel che sta al
culmine della luce è «il sapere che sta e non si lascia smentire»...
L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente
quando affermi di rivolgerti a
Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio
pant’epistathmómenos ... che tradotto
alla lettera nella vostra lingua significa «ponderando bene tutte le cose»... Ma tradotto così alla
lettera dice ben poco... Se si è capaci
di scendere nel senso profondo di queste
mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande
parola: la parola epistéme che alla
lettera vien tradotta con la parola «scienza»,
ma che nel suo significato originario significa «lo stare» (- stéme), dove lo stante non si lascia scuotere
dalle forze che vorrebbero scuoterlo,
abbatterlo e smentirlo. I. Ti ringrazio
per quanto hai detto di me... A questo punto
sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo «Inno a Zeus» - l’«Inno a Dio» - che,
parlando del culmine della sapienza, sta
esso al culmine della sapienza che guida
la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto in cui compare la rapida e potente
espressione che ho tradotto con «il
sapere che sta e non si lascia smentire»...
E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e
con qualche ritocco... «Se il dolore, che getta nella follia,
dev’essere cacciato 191 dall’animo con verità, allora, soppesando
tutte le cose con un sapere che sta e
non si lascia smentire, non posso pensare che
a Zeus [...] che ha vinto tre volte».
Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha
stabilito che il sapere acquisti potenza
sul dolore. Quando, invece del sonno,
goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza che lo vogliano, sopraggiunge nei
mortali un sapere che salva. Questo è un
dono dei dèmoni che siedono potenti sul
sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo
occorrerebbe per portare alla luce la
grandezza di queste parole!... Bisognerebbe mostrare, innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la
filosofia, nascendo, chiama «Dio»... e
che tu sei tra i pochi che la fanno nascere...
E. Zeus «ha vinto tre volte»: ha vinto per sempre la propria mente... quindi è il «totalmente essente»,
come tu hai tradotto l’espressione
pantelés, che compare nella mia tragedia
Le supplici ... I. ... e, ancora,
bisognerebbe mostrare che tu incominci a
intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a pensare quel significato radicale del nulla
che prima di Parmenide, di te e di pochi
altri era rimasto nell’ombra... e portandolo
alla luce avete fatto sì che gli uomini
incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo estremo e più terribile... E. Morire sapendo di andare nel nulla dal
quale «non c’è ritorno» è infatti
qualcosa di essenzialmente diverso dalla
morte di chi, la morte, non la può vedere legata al nulla perché ancora non sa nulla del nulla... I. All’estremo opposto di Zeus che «ha vinto
per sempre» la propria morte e per
questo è «totalmente essente», c’è il panóles, la parola con la quale tu
indichi Tesser totalmente distrutto» di
chi è spinto nel nulla dalla morte...
E. Eppure... eppure nel mio «Inno a Zeus» dico che «il dolore che getta nella follia deve essere
cacciato dalVanimo con verità»...! e il
dolore getta nella follia quando lo si patisce
come messaggero della morte!... Nel mio Inno io indico anche il «Rimedio»!... il Rimedio contro la
follia in cui getta l’angoscia della
morte!... il «Sommo Rimedio»! I. Sì, tu
hai indicato il «Rimedio»... Di più: alTinterno della storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a
indicarlo a chiare lettere... Di più
ancora! Il tuo «Rimedio» è il Riparo sotto il
quale si sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia dell’Occidente... e si semplificano troppo le
cose dicendo che il tuo Rimedio è
Dio!... E. Certo, si semplificano
troppo, perché anche nel mio Inno dico
che... «con verità» è necessario cacciare la follia del dolore... «con verità»!... cioè con un
«sapere che sta e non si lascia smentire»...
e questo sapere non può essere nessuna
sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno quella che per chi è venuto dopo di me è
stata la fede cristiana o la fede nella
tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti, cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e
della fede, non è forse il mio Prometeo,
a urlare: «La tecnica è troppo più
debole della Necessità»? Sono io a pronunciarle, queste parole, perché la Necessità è proprio ciò che
si manifesta alTinterno del «sapere che
sta e non si lascia smentire», e che nel
mio Inno chiamo sophronéin, cioè «sapere che salva», come tu hai tradotto... L Siamo al centro del tuo pensiero e del
pensiero della tradizione occidentale:
la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno
lo metti in piena luce. E.
«Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il 193
sapere acquisti potenza sul dolore» e questo è il sapere che sta e non si lascia smentire. I. Ha in mente te e gli altri grandi
filosofi greci, Gesù, quando dice: «La
verità vi farà liberi»! Liberi da che cosa se
non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...? E. ... solo che in lui la verità è ormai
diventata la verità della fede, la
volontà che un sapere sia verità perché è lui a
rivelarlo... I. ... mentre la
filosofia ha cura per il sapere che mostri da
sé stesso di non poter essere smentito... E. Su questo pensiero la filosofia si è
curvata per millenni... L ... si tratta
di aver cura per la luce che non inganni e della potenza che può essere suprema, divina,
supremamente liberatrice solo in quanto
essa appaia in questa luce... E. «Saldi
rimedi»; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla fine della mia Orestea... Su questo pensiero
la filosofia si è curvata per
millenni... L ... e si è spezzata... e
questo è insieme lo spezzarsi
dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del mondo...
E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui parlavamo all’inizio?... il Corteo della
tradizione, della verità liberatrice,
del divino... L Sì, e il Corteo del
tempo presente, dove invece si scorge
l’inesistenza di ogni «Rimedio», di ogni «Riparo» dalla nullità dell’uomo.
E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i mortali sporgono provvisoriamente dal nulla,
ma ha anche pensato che dall’angoscia in
cui spinge il pensiero della nostra
nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non smentibile, e mostra il divino che ha vinto
per sempre la 194 morte e in cui in qualche modo restano
salvate dal nulla tutte le cose
mortali... I. ... ma una volta che il
tuo Corteo ha evocato il canto terribile
della nullità delle cose era inevitabile che il
controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal nulla si rivelasse senza forza e si
spegnesse, e si facesse innanzi l’altro
Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio
legittimo del tuo: l’Inno del nulla,
della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da
quest’altro... E. ... ma tu dici anche
questa inevitabilità non è a portata di
mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo debba essere guidato da loro... I. Sì, lo «credono»... si illudono... perché
sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del
nulla. Leopardi canta così: ... a noi
presso la culla immoto siede, e su la
tomba, il nulla e questo canto finisci
col sentirlo anche al di sotto delle voci
delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più
possibile il dolore e la morte. L La tua sentenza che «la tecnica è troppo
più debole della Necessità» deve essere
rovesciata: oggi appare che la Necessità
è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se
la tecnica stessa che è molto più forte
è poi del tutto impotente rispetto al
nulla che attende ogni cosa! E.
Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato
all’inizio!). Mi sembra che tu voglia
dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo
cantato di poter 195 cantare anche quello a Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro
colloquio si concluda... E. ... e
sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a ottenere il favore di
quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe
abissalmente diverso sia da quello degli
amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità
autentica, non quella che si fa vincere
dalla tecnica, ma la Necessità che tutto
sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda, anche i due Cortei, e anche i due
Inni... I. ... questo Cielo non è una
dottrina che passi dalla testa di uno a
quella degli altri. E. ... risplende in
ognuno di noi anche quando non ce ne
accorgiamo... I. Ti ringrazio di
aver accennato a queste cose.. E. ...
arrivederci, allora! I.
Arrivederci! 196 2. Parmenide 1 Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li
chiami «mortali». Della loro mente dici
che è plaktón. Dovrebbero riflettere a
lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante». Non è sbagliato - purché si sappia che cosa
spinge la loro mente a errare. Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare
perché credono che 1’esistenza della
nascita e della morte, cioè l’uscire dal
nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello
che voi chiamate «frammento 8». I. Ma quando dici che la mente dei mortali è
plaktón rendi ancora più profondo il
senso dell’errare che viene espresso da
questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei mortali (fr. 6), prima ancora che «errante»,
significa «colpita». E chi è colpito
patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è impotenti quando non si
riesce a ottenere ciò che si vuole.
Quando ciò accade si è preda del dolore, e
allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è «errante» perché è
«colpita». È colpita dalla convinzione
non vera che nascita e morte esistano. E,
preda di questa convinzione, patisce.
P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa impotenza, angustia, mancanza, questo essere
avvolti dal dolore quando non si segue -
così lo chiamo - il «sentiero della
Verità». Amechame indica l’assenza di mechané, ossia della «macchina» (nel senso originario di
questa parola), ossia del «mezzo» che
consente di liberarsi dall’impotenza
angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: «Nei loro petti
un’impotenza angosciata governa la mente
colpita ed errante». I. Dunque tu dici
che credendo nell’esistenza della nascita e
197 della morte, nell’essere e
non essere di ciò che è, la mente dei
mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... ! P. ... e che da questa «Notte» si esce
andando «verso la luce» della
Verità. I. Nietzsche ha scritto che
tutto il pensiero filosofico, prima di
lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia
dell’Occidente. Un celebre filosofo
della scienza ha sostenuto non molto tempo fa
che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici
del nostro tempo sono stati parmenidei.
Di nessun altro Platone ha detto quel che ha
detto di te: «Venerando e terribile», l’espressione che Omero riferiva agli dèi. Sono d’accordo con
Platone. Ma tu sei un grande dio
bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto
stavamo dicendo prima della mia
digressione. Quando parli dei mortali dalla
mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu
dici, sono «ottusi», «accecati»,
«storditi». E sostieni che è necessario cacciare via dalla mente, con verità, tale impotenza, che
li rende folli. P. Anch’io ho compiuto
il gran viaggio verso la Verità,
accompagnato dalle «Figlie del Sole», e mi sono lasciato alle spalle le «case della Notte», le case di
quell’impotenza. I. Non è un caso che
Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a
Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: «È necessario cacciar via dalla mente, con verità, il dolore che rende
folli». P. Sì, son proprio le sue
parole... I. ... e anche le tue; anche
se tu, la mente, la chiami nóos e lui
phrontìs; e il dolore che rende folli tu lo chiami amechame, mentre lui lo chiama àchthos. Ma
quell’affermazione di Eschilo, e la tua,
indicano la nascita stessa della filosofia -
198 anzi, sono questa
nascita. P. Sì, la filosofia è il
«sentiero della Verità». Se lo si percorre
si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa impotenza che la rende folle. I. Anche prima della filosofia ciò che i
mortali vogliono sopra ogni altra cosa è
riuscire a vincere il dolore e la morte.
Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi credono nell’esistenza delle potenze
demoniche e divine della terra e del
cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno opinioni, si illudono
e nutrono «cieche speranze» (anche
queste sono parole di Eschilo), la loro
è una salvezza sognata. P. Sì, per
uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera salvezza, è necessario che la Verità venga incontro
e si mostri all’uomo, e mostri in che
consista la vera Potenza. Ma l’uomo può
scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità. Questo è il culmine della sapienza. I. Non deviamo dal nostro discorso se a
questo punto ricordiamo che per
Aristotele la filosofia nasce dalla
«meraviglia». Con questa parola si traduce solitamente il termine greco thàuma. Ma è una traduzione che
porta fuori strada. Basta tener
presente, per giustificare questa mia
affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito (l’«amante del mito», philómythos) «è in certo
qual modo filosofo», perché anch’egli è
preso dalle reti di thàuma. Ora, è
ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia l’esangue sentimento della «meraviglia» a
esser capace di far rivolgere l’uomo e
di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze
che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare contro l’immane sorpresa del dolore e della
morte. Thàuma è l’angosciato stupore,
l’angosciata e dolorosa impotenza. P.
Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che 199
la filosofia conduce «nello stato contrario» a quello da cui essa procede. Il viaggio che descrivo all’inizio
del mio Poema conduce anch’esso allo
stato contrario: dalla «Notte»
delYamechame al «Giorno» della Verità, «dove il mio animo vuol pervenire» (fr. 1, v. 19). Lo stato
contrario a thàuma, a cui la filosofia
conduce, è per Aristotele la felicità, per quel
tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza. I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il
pensiero che stabilisce il senso di ogni
sapienza e di ogni agire - e dunque
della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che importa una salvezza se non è vera? E una
virtù, una sapienza, una potenza che non
siano vere? È un amore per il divino se
l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per primi con te filosofarono spetta questa
gloria ineguagliabile: aver capito che
l’avventura più alta dell’uomo consiste nel
portare alla luce il senso della Verità. P. I più pensano ad altro. Lo dice anche
Eraclito: «I molti vivono come avendo
una loro propria saggezza» (fr. 2), che è
del tutto estranea alla Verità di tutte le cose. I. «Tutte le cose»! Il Tutto! Tu e quel coro
di dèi che voi siete - voi, i primi
pensatori greci per la prima volta sulla
terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di quello in cui,
come si racconta, l’uomo si è rizzato
sulle gambe e ha incominciato a guardare
il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è
necessariamente richiesto dal senso
della Verità. Infatti il «cuore» della Verità «non trema» (è atremés). Trema il cuore
delYamechame; trema il cuore di tutto
ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il cuore non tremante della Verità non può esser
negato né da uomini né da dèi. Proprio
per questo la Verità non può essere la verità di una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe
esposta al pericolo che dalle altre
parti si faccia innanzi qualcosa capace di
smentire la «verità» di quella parte - la verità, cioè di dimensione particolare dell’essere -, e il
cuore della verità non cesserebbe mai di
tremare. P. Questo è uno dei motivi per
i quali affermo che il Tutto non è
«divisibile», ossia non ha parti. I.
Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco. Ora vorrei aggiungere che la Verità non può
essere negata né da uomini né da dèi,
non perché per ora essi non siano capaci
di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano potrebbero diventarne capaci... P. ... ma perché è impossibile che lo
diventino. I. Solo che è questo
«impossibile» a dover render conto, ora,
del proprio significato. Da questa «impossibilità» dipende infatti 1’esistenza di un cuore non tremante
della Verità. P. Infatti, il Tutto è
«ciò che è», «l’essente» (tò eón). E al
centro del mio Poema sta questa affermazione: «È impossibile dire o pensare che Tessente non sia».
L’impossibile è appunto questo: che
Tessente (ciò che è) non sia. I. E qui
tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi sembra che tu voglia anche affermare che
l’«impossibile» non ha un significato
per proprio conto, indipendentemente dal
significato dell’espressione «Tessente non è»; ma che «impossibile» significa proprio questo: «il
non essere dell’essente». O almeno mi
sembra che nel tuo Poema le cose vadano
così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo dire che è impossibile che Tessente (il
Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di
affermare che ciò che è, è «ingenerato»,
«imperituro», eterno dunque. E non è un’audacia avventata, ma dà da pensare ai millenni e a tutte le
sapienze che son 201 venute dopo di te - a tutte, dico, anche
quando esse non se ne sono rese conto e
ancora per molto continueranno a non
rendersene conto. P. Ma non ci
sono quelle due affermazioni che tu hai
lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la
seconda, la tua riserva - almeno così mi
è sembrata - a proposito della mia tesi che il
Tutto - Tessente - non è «divisibile», cioè non ha parti. I. Andando avanti per questa strada - tu lo
sai bene - ci avviamo verso una regione
impervia e insieme grandiosa, che in
questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di
capire che cosa significa «essente». P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con
potenza mirabile perché io escluda che
Tessente abbia parti. E affermo questa
sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un «parricidio», come lui dice, nei confronti
del mio pensiero, cioè ha mostrato che
Tessente è necessariamente molteplice,
ossia ha parti. I. Diciamolo,
intanto, che cosa significa che Tessente non
ha parti. P. Significa che il
mondo, in apparenza ricchissimo di parti
nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti, non può essere Verità. Nel mondo, «Tocchio
non vede», «l’orecchio è stordito», «la
lingua straparla». Le cose del mondo sono
soltanto «opinioni dei mortali, a cui non
compete alcuna vera convinzione». Sono illusioni. Sono soltanto «nomi». Dicevo all’inizio che i
mortali sono spinti a errare anche
perché credono che nascita e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle
molte cose, così è illusione la nascita
e la morte. I. E Platone mostra perché
tu neghi che Tessente abbia parti
202 (terra, cielo, piante,
animali): perché, se le avesse, ognuna
dovrebbe differire dall’essente. Infatti «cielo» (o «casa» o altro) non significa «essente», cioè non è
essente, e il non essente non può
essere. Quindi le molte cose del mondo non
sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici,
come è necessario che Tessente sia, così
è necessario che il nulla non sia. P.
«Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che non sono siano.» So che, secondo alcuni, io
non avrei negato la molteplicità delle
cose. Ma se fosse così dovremmo dire che
pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano letteralmente capito quello che ho
detto. I. Sono d’accordo con te. Io
sostengo da tempo che non è stata capita
la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare che tale potenza non è stata capita, altro è
affermare che non si è capito quel che
il tuo Poema ha esplicitamente affermato.
P. Tu hai scritto anche più volte che il mio pensiero può sembrare il punto in cui l’astro
dell’Occidente viene a trovarsi più
vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il buddhismo, dico anch’io che il mondo è
illusione - maya, dice l’Oriente. Ma
quale differenza! I. Infatti: sono
simili le tesi. L’Oriente possiede tesi
analoghe a quelle che si leggono nel tuo Poema, ma, separate dalla cura per la Verità, separate dal perché
le si afferma, esse non sono filosofia,
ma miti. P. Prima di noi l’Oriente è
philómythos, non philosóphos. Poi
rileggerà i propri pensieri - il cui splendore è indiscutibile - alla luce dei nostri. I. D’altra parte, proprio perché il tuo
discorso sulTimpossibilità che Tessente
abbia parti è ben comprensibile, non può
evitare di confrontarsi con Platone, che
mostra, all’opposto, la necessità che Tessente sia molteplice; e lo mostra
portando alla luce un principio che
resterà alla base dell’intero sviluppo dell’Occidente - dell’Occidente, dico, non della sola cultura
occidentale. P. Lo so: Platone mostra
che l’affermazione che Tessente è una
molteplicità di essenti... I. ...
l’affermazione che il mondo esiste...
P. ... non implica, come invece io sostengo, che le cose che non sono siano... I. ... cioè non implica che il nulla sia. P. Di questo gran passo di Platone parleremo
un’altra volta... I. D’accordo, qui vorrei allora restare
alTinterno del tuo discorso, ed
esprimerti quella che tu prima hai chiamato la
mia «riserva», invitandomi a non dimenticarla. I mortali, tu dici, vivono nell’«opinione» ( dóxa ), che è
illusoria: credono che esista la
molteplicità delle cose e la loro generazione e
corruzione. P. Nascita, dolore e
morte, infatti, non possono esistere se
non esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li fa errare lontani dalla Verità, li «colpisce»
e li fa sprofondare nell’
amechanie. I. Ma tutto questo significa
che, per te, l’opinione illusoria e
Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono, esistono, non sono un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a
essere, ma anche il mondo illusorio dei
mortali - giacché, ripeto, quando dici
che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire che, dunque, è nulla... P. ... e allora tu mi stai obbiettando che
dunque, ciò che è, Tessente, è
costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo
dell’illusione, che poi è a sua volta
costituito dalle molte cose illusorie che sono soltanto «nomi» - e, anche qui,
tu diresti che per me i molti nomi non
sono un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io stesso verrei ad affermare quella
molteplicità delle cose che invece
dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai «nomi» che per i mortali sono cose, ci sono
le parole che nel mio Poema indicano la
Verità e si distinguono le une dalle
altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti per il fatto che sono molte... ... Ma a questo punto puoi andare avanti e
dirmi perché, prima, mi hai chiamato un
grande dio bifronte - e, mi pare di aver
capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui sarei bifronte già per il fatto di affermare
implicitamente quella molteplicità delle
cose che invece esplicitamente nego. I.
Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più
conta dovremo quindi lasciarlo da parte
- e ciò che più conta non è soltanto il
senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto all’essenza autentica del nichilismo, ossia
dell’anima e del fondamento dell’intera
storia dell’Occidente e, ormai,
dell’intero pianeta. P. Se
questo è il tema, allora so quel che sostieni. Tu dici che io sono colui che indica il «Sentiero del
Giorno» e, contemporaneamente, spinge
verso il «Sentiero della Notte»: colui
che indica che cosa sia veramente il nichilismo e quale sia il senso autentico della sua negazione,
ma che, insieme, apre la strada che
conduce nel baratro del nichilismo. I. L’essenza
del nichilismo è infatti affermare che ciò che è non sia. Non si pensa mai che ogni
annientamento degli uomini e ogni
devastazione della terra sono possibili perché,
innanzitutto, si crede che ciò che è possa non essere. L’errore estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi
anche tu - anche tu! -, anche la tua
mente è colpita come quella dei mortali «dalla doppia testa», dikranoi, come tu
dici: anche tu affermi che ciò che è non
è, ossia che le molte cose del mondo sono
nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te, nella misura in cui sono il contenuto
dell’opinione illusoria. P. E questo lo
dici perché Platone ha mostrato che se una
qualsiasi cosa del mondo, ad esempio «la luna», non ha lo stesso significato di «ciò che è», o di
«essente» - se dunque la luna non è
Tessente -, d’altra parte «la luna» non ha
nemmeno lo stesso significato di «nulla», «luna» non significa «nulla», e pertanto non è un nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando
che la luna è, non si è costretti ad
affermare; come invece tu sostieni, «che le
cose che non sono siano», ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose sono. P. Ma so anche che, per te, Platone,
salvando il mondo da me, si porta
dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno penso di uccidere)
il mondo. Tu dici appunto che, col
parricidio compiuto nei miei riguardi,
Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno
di questa cattiva cura del gregge che
poi si farà innanzi, lungo la storia
dell’Occidente, ogni «buon pastore».
I. Ma quando parlo del nichilismo che anima quella storia, non intendo dire che gli uomini avrebbero
potuto pensare meglio di come hanno
pensato - e qui mi riferisco
innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era necessità che pensassero e agissero; e anche
il cielo e la terra procedono nel modo
in cui è necessario che procedano. In
proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un momento su quel discorso che facevo a
proposito della luna, cioè del suo non
esser né Tessente né un nulla. Questo non
significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di 206
intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa invece che quel «ciò che è», separato dalla
molteplicità delle cose che sono, è esso
un nulla. Certo, «luna» non significa
«essente», «ciò che è»; ma Tessente non è il non composto, il «semplice», ma è ciò che ognuna delle molte
cose è, ossia è ciò che è presente in
ogni cosa. P. Vedo dove il tuo discorso
sta andando. Tu dici che, essente, è
ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli
essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che Tessente non sia - e appunto per l’accecante
splendore di questo pensiero mi chiami
un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è ogni
cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è impossibile che non sia, è cioè necessario
affermare che è eterna. I. Hai detto bene anche questo: che quello
splendore è accecante. Ha accecato
tutti, tutte le menti più alte
dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in tutta la sua
forza e in tutte le sue luci, la Verità
non potrebbe esistere; così come il Giorno non
potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il linguaggio parli e del Giorno e della Notte,
ma che dica «sì» al Giorno, non alla
Notte. P. Della Notte parlano i
mortali, la cui mente, colpita dal
dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa,
per i quali «Tessente non è ed è necessario
che non sia», il linguaggio della Notte
gliel’hai messo in bocca proprio tu! P.
Cioè? I. Voglio dire che, per quanto ne
sappiamo, quei mortali sei stato tu a
evocarli per la prima volta. P.
Perché? I. Perché, per quanto ne
sappiamo, tu sei stato il primo a
pensare e a parlare dell’essente come di ciò che è assolutamente opposto al nulla. L’Oriente
ignora la radicalità di questa
opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei supermortali per i
quali Tessente non è ed è necessario che
non sia. Esistevano i comuni mortali del
mito, che ancora non potevano sapere che la
morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io non solo ho evocato
per primo la Verità dell’essente, ma per
primo ho anche evocato i suoi nemici,
quelli che tu hai chiamato i supermortali.
I. Che sono per davvero tali, perché, a partire dall’atmosfera aperta dalle tue parole, essi
hanno incominciato a credere di morire
dinanzi al nulla che li attende, sì che
la loro morte ha incominciato a essere
infinitamente più angosciante di quella del mito. Proprio per questo tu hai guardato alla Verità come sommo
rimedio contro l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche
se abbiamo dovuto soltanto sfiorarle. Di
molte altre, e grandi, che a gran voce
chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci. A presto! Dal testo
richiestomi da Pressburger per le «Interviste impossibili», tenutesi nel 2007
al Teatro Stabile di Trieste. Dialogo
richiestomi dal «Corriere della Sera». Di tutti i miei possibili critici,
(dunque, oltre che di quelli passati e
presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti, con maggiore o minore potenza sviluppano il
Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti. Questa affermazione non suona
paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo 6, della sezione prima. Non suona paradossale
nemmeno se si aggiunge, e lo si deve,
che tutte le possibili critiche al
Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno rilevanti, di quel Contenuto (una parola,
questa, che va con la maiuscola, «miei
scritti» andando invece con le minuscole).
Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità. Immodesto non sono «io»: immodesta è la
verità che ne ha il diritto perché non è
cosa modesta e attira a sé il linguaggio
imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su questi temi.
La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la
rende ferma, nel senso che essa ha il
«cuore che non trema» - per usare
un’espressione di Parmenide - solo in quanto mostra che essa è e significa «errore» e la necessità di
negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne
è l’eterno apparire), solo in quanto
l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e fiorisce ed è robusto, coerente,
razionale, suggestivo, cioè quanto più
sviluppa la ricchezza che gli
compete. La verità ha cioè
bisogno degli scavatori che portino alla
luce questa ricchezza con la convinzione di portare alla luce la verità
(una convinzione che è presente anche quando
scrivono libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per
portare alla luce la verità non riesce a
fare così bene, o non gli dedica il tempo e
la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i critici e tutte le possibili critiche al
Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e
spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è
appena fatto intorno al rapporto tra
verità e errore, agli scavatori
dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La magnificenza dell’Occidente, che ormai
conquista la terra, è il tempo
dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non abbandona a sé stesso l’errore:
esso cresce secondo le leggi della
verità. L’errore cresce secondo le
leggi della verità anche perché ogni
obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e l’ignorarlo è la forma preminente della
negazione di esso) è convinta di
affermare qualcosa che differisce da tale
Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire non sia cosa di poco conto. E infatti è di
tantissimo conto. Il Contenuto di cui si
sta parlando è infatti la manifestazione del
senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È
il punto infinitamente più stabile di
quello che ad Archimede sarebbe bastato
per sollevare la terra. Ben vengano dunque,
daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero obbiezioni; ossia intendano differire da ciò
contro cui obbiettano e tengano quindi
in gran conto la differenza dei
differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in
gran conto proprio quel Contenuto contro
il quale esse vorrebbero andare. Gli
scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che scavano
la verità. Nel tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo deH’«uomo», cioè con l’uomo quale è inteso
all’interno della terra isolata dal
destino della verità -, l’errore crede di
conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si crede capace di distinguere questo, che gli
appare come l’errore, dall’errante. Ma
là dove domina l’errore che è tale agli
occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e distruggere ciò che ai suoi occhi è errore,
ma non l’errante, là è inevitabile che
ci si convinca che il fiorire degli erranti
finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è ritenuto verità, e si finisca col condannare,
e punire e distruggere anche gli
erranti. Questa confusione tra l’errore e
l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure anch’essa contribuisce alla costituzione
della concretezza dell’errore. Tutta la
storia della sofferenza umana è richiesta
da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001,
cit., Oltrepassare, Adelphi 2007, La
morte e la terra, 2011, cit.). Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca
a conoscere una verità assoluta e
irrefutabile. Se ci si ferma a questa
definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma allora
va anche detto che quella negazione
della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e
in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per
quanto grande fosse il suo stile? No;
perché a quella definizione non ci si può
fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta
afferma egli stesso che nemmeno questa
sua affermazione è una verità assoluta.
(Le cose non sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare che
egli intende proprio negare e insieme
affermare la verità, perché no?, visto
che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il «principio di non contraddizione» egli
potrebbe daccapo rispondere che quel
principio, così semplicemente affermato,
è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è
tutt’altra cosa. Nega tutto
l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede che il relativismo possa appoggiarsi
anche a Pascal, per il quale la verità
assoluta non potrà mai esser trovata perché
«tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può
esistere nemmeno un Dio eterno e
assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il
quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel
«tutto che muta» è, propriamente, il
mondo. Nietzsche arriva a tanto perché,
fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un
qualsiasi Essere 212 eterno e assoluto, al di là (o
all’interno) del mondo. Ma tale
persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente
- e, ormai, del pianeta. Sin dall’inizio
l’avanguardia dell’Occidente - la
filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il
mutamento sia un passare delle cose dal
non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del
modo in cui esso era stato precedentemente
inteso dall’uomo). O gli odierni
relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il
contenuto di una «conoscenza fallibile,
congetturale» (per usare una nota
espressione di Popper)? E la «ricerca della verità», che i relativisti preferiscono al suo «possesso»,
tale ricerca, dico, non è forse una
forma rilevante di mutamento del mondo? E
l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il
contenuto di una conoscenza fallibile e
congetturale? No di certo. (O vedano
loro che cosa intendono sostenere.)
Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è
necessario concludere che non esiste
alcuna verità assoluta e irrefutabile
oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e assoluto
oltre agli esseri che mutano nel tempo
(cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche
e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo -
sanno fare cioè quel che i relativisti
d’oggigiorno non sanno fare; e non lo
sanno anche perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che
anche per loro è una verità irrefutabile
e assoluta che nel mondo tutte le cose
mutano col tempo.
Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione 213
dell’Occidente condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del mondo è una verità
irrefutabile; ma, a differenza dei
relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia anche l’esistenza di un Essere eterno e
assoluto al di là o aH’interno del
mondo. Sono gli amici della «metafisica». Nel
sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto l’impossibilità della metafisica. D’altra
parte, ai relativisti che stanno fuori
del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo
sentito, cioè che se tutta la nostra
conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche Taffermazione che tutta la nostra
conoscenza è fallibile e congetturale.
Ed è quindi inevitabile che i relativisti di
superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la metafisica e la verità assoluta e
incontrovertibile. Per trarsi
d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di
superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e congetturale.
(Sembrerebbe il culmine
dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo
liberale americano Richard Rorty lo ha
riconosciuto. In Italia lo aveva
riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non essere
americano e di essere fascista, come il
suo maestro Giovanni Gentile - che invece,
insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a
tutti i Popper. Comunque, se il
relativista riconosce che tutto quel ch’egli
sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale, pronta ad «abbandonare i propri valori»
teorici e morali «se altri si rivelano
più credibili», lo ascolto con interesse
(condividendo anche i suoi buoni sentimenti). Ma aggiungo che anche questa autocritica del
relativista è apparente. Domando: chi si
dichiara pronto ad abbandonare i propri
valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita 214
di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?». È
uno che dice: «Forse son pronto, perché
non escludo che anche se ne vedessi di
più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si son capite le domande, la risposta non può
che essere negativa. Anche questo
relativista, cioè, non mette in dubbio,
è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque
assolutamente vero il proprio trovarsi
nello stato in cui egli è disposto ad
abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di
quel che dice. E se dice: «Dubito di
quel che dico», egli non dubita di dubitare.
(Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non dubita, la
maggior parte delle volte che l’apre
dice però cose false; mentre le considerazioni
di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile
e congetturale di tutta la nostra
conoscenza va dunque replicato che, d’altra
parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto, più o
meno consapevolmente, di conoscere
verità assolute e incontrovertibili
(anche se sbaglia quasi sempre). Come ne
sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) «che
non ci è possibile dimostrare vera,
assolutamente vera, nessuna teoria».
Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono
un’implicazione necessaria, cioè assolutamente
vera, tra relativismo, libertà,
democrazia. E allora? Allora,
nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e anzi spesso negandolo - sono convinti di
conoscere verità assolute, si trovano anche
gli uomini dell’Occidente, per i
215 quali la verità assoluta e
incontrovertibile dominante è che le
cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la
necessità che tutte le cose mutino,
nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che
afferma il divenire e il travolgimento
di ogni cosa e di ogni verità. Restano
travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente,
consistevano nell’adeguare la vita dello
Stato e dei singoli individui alla
verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare «con verità». Se
oggi qualcuno auspica una politica
capace di parlare «con verità», deve tener
presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo in un mio
articolo sul «Corriere» avevo domandato
a Ernesto Galli della Loggia, che cosa
intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare «con
verità». Glielo avevo chiesto anche
perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa
ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano
legate alla verità incontrovertibile e
assoluta della metafisica tradizionale
(aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la
democrazia procedurale, una «libertà
senza verità». La risposta di Galli
della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una
politica che parla con verità è quella
che non nasconde ma dice in che stato
miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che
non riguarda la verità, ma la
«sincerità», giacché se non c’è verità senza
sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del
rapporto tra relativismo e
antirelativismo - visto che l’accentuata corruzione della politica e della
morale è una conseguenza dello stato di
transizione in cui il mondo si trova: tra la
tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della verità, e il
tempo futuro: il tempo in cui - con
l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo - quella
forma suprema dell’agire umano che è la
tecnica viene autorizzata, a prendere in
mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la «vera» «buona»
politica. (Un processo, questo, in cui
consiste il senso autentico dell’«antipohtica».) Con la lettera del pontefice a
Eugenio Scalfari il dialogo tra
«credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente
tutelata. Anche da parte di chi è
soltanto uno spettatore - che però, come me,
sia interessato al problema. Il pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al
prossimo. Ammirevole, anche, il
desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per
fimportanza di questa inedita forma di
dialogo è però altrettanto importante che
non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi. Il pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede
se il pensiero secondo il quale non
esiste alcun assoluto e quindi neppure
una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il
pontefice risponde: «Io non parlerei,
nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”,
nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la
fede cristiana, è l’amore di Dio per noi
in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non
significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro». Si riferisce anche alla verità della fede.
Ora, Scalfari aveva sì parlato di
«verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è
slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il papa gli
risponde che no, non è variabile e
soggettiva: «tutt’altro». In questo modo, la
domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen
fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta Scalfari, nella recente
intervista a Otto e mezzo, ha lodato
l’innovazione di papa Francesco rispetto alla
costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa
Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo
loda per qualcosa che papa Francesco si
è ben guardato dal sostenere. Chiedeva
Scalfari: la verità è variabile e soggettiva?
No, risponde il pontefice: «Tutf altro»! Una seconda possibilità di equivoco, tra i
due interlocutori, vorrei segnalare, e
ben più importante. Dopo aver scritto che
la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l’esclusione», il pontefice aggiunge che «da
ciò consegue anche - e non è una piccola
cosa - quella distinzione tra la sfera
religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di
Cesare”, affermata con nettezza da Gesù
e su cui, faticosamente, si è costruita la
storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi
permetto di dirgli che invece, proprio
lui, dovrebbe chiederli. In questo caso
sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquantanni (che rispetto alla
storia dell’Occidente sono certamente
nulla) vado mostrando che quel detto
evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega
tale distinzione. Non ho mai ricevuto
una risposta adeguata - e mi sembra grave
mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito
pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche
sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui
debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come
d’altra parte non vergognarmi di doverlo
fare ancora una volta? Domandiamo a
Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa
dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi Assolutamente no! Ciò significa che le leggi
dello Stato non potranno essere contro
le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della
cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. 219
Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini
sia di agire contro Dio, sia di non
essergli contrari. Ancora una volta Gesù
risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si
lascerebbe ai cittadini la libertà di
vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato
cristiano (anzi cattolico); con la seconda
lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro
Dio. Quindi per Gesù le leggi dello
Stato debbono essere cristiane (e
cattoliche). Ma esistono leggi
dello Stato la violazione delle quali non
implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza
accorgersi della connessione tra questo
dire e il detto di Gesù - è necessario
che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in
terra prima che nell’al di là. Ma in
questo modo la «distinzione tra la sfera
religiosa e la sfera politica», che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere conseguenza di
quel detto, è invece radicalmente negata
da questo detto. Certo, Yintenzione di
Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli
afferma è inevitabilmente la riduzione
della sfera politica a quella religiosa.
O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e
religione con la loro reciproca
opposizione (giacché anche la politica che non
crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare).
Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il
pensiero laico, che vuol tener separate
quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il
comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. Nel dialogo tra Scalfari e il pontefice i
problemi che ho indicato non sono gli
unici, i più importanti stanno più in
fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo. Davanti alla
filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro
presente, hanno ragione. Soprattutto se
non sa essere altro che una riflessione sui
risultati della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della
scienza sono inevitabilmente filosofici:
in un senso ben più radicale di quello a
cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si
paragona il dibattito tra Einstein e
Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M.
Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley 1974). E se il fisico Léonard Susskind, nel suo
libro La guerra dei buchi neri (2008,
Adelphi 2009), scrive di non essere «molto
interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza», tuttavia la sua «guerra»,
combattuta contro il collega Stephen
Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di
tutti gli altri. Per Hawking i «buchi neri»
presenti nell’universo sono voragini in
cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la
violazione del primo principio della
termodinamica, per il quale la quantità
totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la
«costanza» dell’energia è il suo
continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro
ridiventare «non essere», «nulla».
Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della
termodinamica non può disinteressarsene:
lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è
aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando i suoi cultori alzano le spalle davanti alla
filosofia, che a quest’anima si rivolge
sin dall’inizio. Si ritiene tuttora che
la teoria generale della relatività d’Einstein e la fisica quantistica di
Heisenberg siano incompatibili. Ma
Einstein e Heisenberg si contrappongono
mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬ occidentale dell’«essere» e del «nulla»: per
il «determinismo» di Einstein le forme
di energia escono dal proprio esser nulla
e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile («determinato») e quindi prevedibile; per
Heisenberg tale percorso non è né
inevitabile né prevedibile; ma anche per lui
le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli abbia ricondotto il
concetto di «onde di probabilità» al
concetto aristotelico di dynamis, «potenza»,
cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato).
Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col
quale ebbe peraltro rapporti cordiali:
«Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo,
cioè sulla caducità delle cose del
mondo, che oggi è data comunque per scontata. La filosofìa sostiene spesso la tesi del
carattere controvertibile della scienza.
La discussione è tuttora aperta. Anche
al tema deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da sempre. Per il grande matematico David
Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni,
condizione oggigiorno d’una importanza
proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E
II più grande spettacolo della terra di
Richard Dawkins (Mondadori 2010),
eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di
giorno in giorno e non sono mai state
più solide». Esse «dimostrano come la
“teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile». Ma quel che rimane
oscillante e alla fine oscuro in queste
pagine è proprio il concetto di «prova», di
«fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro filosofia.
Sono un buon paradigma di quanto tende ad
accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le
specie escono dal proprio non essere e
vi ritornano così come accade per le
forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. «L’evoluzione è un fatto», «oltre ogni
ragionevole dubbio», «è la pura verità»
«confermata da una valanga di prove», con
la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è
molto più grande della terra e che
l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica e quella della deriva dei continenti. Si può
certo convenire. Ma il punto sul quale
va richiamata l’attenzione è il senso
dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una
valanga di prove nessuno lo nega. La
questione è se tali prove e la loro
abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della «certezza assoluta» che di esse
«non ci sarà smentita». A meno che
Dawkins - e allora il discorso potrebbe
finire qui - non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie
dello stesso tipo, e per dare risalto al
suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e improprio, che però, tirate le somme, risulta
inoffensivo. (D’altra parte egli
sottoscrive il vecchio principio che «a rigor
di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Parole che però debbono
fare i conti con quest’altra sua
dichiarazione: «Nel resto del libro dimostrerò
che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare
davvero qualcosa», allora il suo libro
non matematico non dimostra «davvero»
che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste possano sembrare all’illustre collega
considerazioni da «pedanti» e da
«sofisti», però è diffìcile sostenere che non
siano «a rigor di logica».) Ma che cosa intende Dawkins affermando che
il suo libro «dimostra» che l’evoluzione
darwiniana è un fatto? Egli sa bene che
essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta, la quale,
come egli sottolinea, è inaffidabile. La
sua «dimostrazione» vuol essere quindi
un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di tale
processo, al suo essere, appunto, un
«fatto». Egli sa bene che anche «l’inferenza si
deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento
come un omicidio è meno affidabile
dell’osservazione indiretta delle
«conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare
piuttosto che un sistema di inferenza
indiretta come il test del Dna» . Sì, posto
che sia «più facile», non è però impossibile che in certi casi l’osservazione diretta sia più affidabile.
Anche per Dawkins. Esser «più facile»
non significa essere incontrovertibile, ossia
è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità
dell’«inferenza» con cui egli intende
dimostrare che l’evoluzione è un «fatto»
incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza», e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono
soltanto «ipotesi». (Egli rileva inoltre
che i cambiamenti evolutivi sono «troppo
lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco della sua vita. Ma chi si propone di
dimostrare che l’evoluzione è un fatto
non può presupporre l’esistenza di tale
fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione
è un processo lentissimo, afferma
arbitrariamente che essa non può essere
direttamente osservabile perché è un processo lentissimo.) Deludente anche il modo in cui egli si
sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand
Russell, la quale, sino a quando non si
mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la
possibilità che l’evoluzione, almeno come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice
dunque Russell: «Può anche darsi che
abbiamo cominciato tutti a esistere cinque
minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti». A parte lo stile di molti
filosofi anglosassoni, che preferiscono
parlare di calzini bucati piuttosto che della
Passione secondo san Matteo di Bach, e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul
serio - a parte cioè il senso che
all’esistenza viene conferito dall’intero
pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica, temporale, provvisoria abitatrice dell’essere
e preda del nulla (dunque degna di esser
cominciata cinque minuti fa) anche
quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della poesia o di altra nobile e austera dimensione
- a parte tutto questo, come risponde
Dawkins a Russell? Risponde scrivendo
che sì, «è possibile, a voler esser
pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di
un colossale inganno», cosicché, «se
l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe
un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare
credito». Risposta deludente.
Innanzitutto perché la verità incontrovertibile
dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa
di scientificamente inaccettabile. In
secondo luogo perché dal fatto che i
teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa
esser perpetrato e che quindi l’ipotesi
di Russell sia da respingere. Queste
osservazioni non hanno il benché minimo intento
di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono
nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che
decide dove stia la «verità» non è il
costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro 226
incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai
progetti che l’apparato
scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la
«verità incontrovertibile» dei propri
contenuti combatte una battaglia di
retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle
logico-matematiche. L’esistenza delle
geometrie non euclidee, ad esempio, implica
che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai
postulati e agli assiomi su cui essa si
fonda, e dunque non sia assolutamente ma
relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità,
ossia come ciò contro cui non ci si può
rivoltare (vertere), ma che non intende
essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile
«principio di non contraddizione»
attraversa tutta la storia della cultura. Per
Hilbert la questione «più importante» è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non
si potrà mai arrivare a dei risultati
contraddittori». Ma Kurt Godei
dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la
possibilità di essere un sistema
concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins quando afferma che
«solo i matematici sono in grado di
dimostrare davvero qualcosa». Infatti,
«dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella
possibilità. Il primo grande libro di
Darwin è intitolato L’origine della
specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista linguistico «origine», che rinvia al latino
orior («provengo da...», «sorgo»)
corrisponde all’antico greco arché, la parola
con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il «principio» da cui tutte le cose provengono e
in cui tutte 227 ritornano. La filosofia ha voluto giungere
in modo incontrovertibile
all’affermazione dell’esistenza del
«principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose,
per stare dinanzi a lui - e quindi
l’uomo stesso -, abbiano bisogno di qualcosa
d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli
antenati e dei fondatori della stirpe,
il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo
sottinteso di questa fede è la
convinzione (a cui prima si è accennato) che
le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare,
sono di per sé incapaci di «essere», e
sono preda del «nulla». Cose morte. La
morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche
la scienza si muove all’interno della
fede nell’origine (ormai divenuta fede
filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni
mondane che di quell’origine conservano
l’essenziale. Così accade per Yarché e
l’«origine della specie», per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come
origine della coscienza. E ancora: per
il lavoro, la società, la storia, il
linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e della cultura. In generale, per le
«cause» prossime e remote degli eventi.
E perfino il nulla è un succedaneo dei
vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia
l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente
l’intera sapienza dell’uomo. Ma proprio
perché la fede nell’origine porta sulle
spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo? In
Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato l’affinità tra la «tesi» centrale del mio
discorso filosofico - l’eternità di ogni
ente e pertanto di ogni stato del mondo - e
la «tesi» di Einstein che «per noi fisici, la distinzione tra passato, presente e futuro non è che una
testarda illusione». Ho messo tra
virgolette la parola «tesi», per sottolineare che quando le «logiche» che conducono «alla
stessa» tesi son diverse, son diverse
anche le tesi che suonano apparentemente
identiche. E la logica della fìsica einsteniana è essenzialmente diversa da quella secondo cui
si manifesta la necessità dell’eternità
di ogni essente a cui si rivolgono i miei
scritti. Ciò non vuol dire che
ci si debba disinteressare del rapporto
tra le due «tesi», soprattutto ora che molti fisici mettono in questione il concetto di «tempo»,
che sta in piedi solo se il presente
differisce dal passato, ossia dall’«ormai
nulla», e dal futuro, ossia dall’«ancor nulla». L’esempio più recente e tra i più rilevanti di questa crisi
del tempo nel mondo della fisica è il
libro del fisico Julian Barbour, La fine
del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi 2003).
Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia
intende comprendere il senso della
scienza e della tecnica, scienza e
tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un
fisico come Steven Hawking prevede
(1979) che la fìsica debba lasciare il
posto a una «Teoria del Tutto», si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse
alla filosofia che, da sempre, è stata
la «Teoria del Tutto». Ma poi la filosofia
giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio mira
appunto a questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico,
falsificabile ecc., ma è il sapere
assolutamente incontrovertibile - in un senso
essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica attribuisce all’incontrovertibile e di cui la
filosofia del nostro tempo ha mostrato
l’impossibilità. Barbour scrive: «Da
una quindicina d’anni un numero esiguo
ma crescente di fisici, me compreso, comincia a
considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento». Posso
invitarlo a tener presente che la
riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento è presente nei miei scritti sin dalla metà
degli anni Cinquanta e che a metà degli
anni Sessanta la discussione su questo tema
è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere vivo? Egli non è
uno di quegli sprovveduti che non vedono
relazioni tra fisica e filosofia: nella
prima pagina del suo libro (di grande interesse e avvincente) scrive che «ben pochi pensatori,
nelle epoche successive, hanno preso sul
serio le idee di Parmenide; io invece
sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una radicata illusione». Dirò allora al professor Barbour che qui in
Italia, da mezzo secolo, quelle idee
sono state prese molto sul serio non solo da
me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son certo che al professore non interessa
favorire quella sorta di incompetenza
che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. Letteratura, scienza e
religione, confrontandosi con la
filosofia, si danno spesso la mano.
La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra le sue più importanti e ricche della loro
disincantata sobrietà: La letteratura e
gli dei (Adelphi 2001). Indicano la Bellezza
che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli
dèi pagani, soprattutto quelli greci,
che si eclissano in oscurità variamente
profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme di «evidenza». Ad esempio nella pittura fra
il Quattrocento e il Settecento.
Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: «l’età eroica della
letteratura assoluta» che incomincia con
la comparsa della rivista «Athenaeum»
(Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé. Letteratura «assoluta» perché indipendente da
ogni legislazione esterna, soprattutto
quella della «comunità» è «alla ricerca
di un assoluto» e perciò non può che
«coinvolgere» «il tutto». Un anello - Calasso ne intende decifrare la lega - unisce letteratura,
linguaggio, mitologia, poesia, arte e
gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il
sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla «letteratura assoluta». Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che
la filosofia si è sempre rivolta con
l’intento di preservare il proprio sguardo
da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla «comunità» e dal «sociale»? E, se è così, la discordia tra
«letteratura assoluta» e «filosofìa» non
è la discordia tra due forme della
filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa lontananza Calasso scrive ad esempio: «La
letteratura cresce come l’erba tra
grigie, possenti lastre del pensiero». Ma è un
«accertamento poliziesco di identità» (come dice Calasso dei 231
tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se quelle parole di Calasso sono erba o lastra?
Certo, l’esperienza degli dèi, in cui
consiste la «letteratura assoluta», «intender
non la può chi non la pruova». Ma o quest’ultima espressione non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è
innegabile tale senso, è la mano che
incorona la testa di quell’esperienza, e
pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione
romantica della superiorità assoluta
dell’arte. Ma se non è una possente lastra
del pensiero a conferire assolutezza alla «letteratura assoluta», allora, a conferirla, è erba che appassisce,
semplice aspirazione all’assoluto. Oltre l’«età eroica della letteratura
assoluta», ma nel suo clima, si ricorda
nel libro, Gottfried Benn scrive che al di
sopra del linguaggio che «raffigura» vi è «il linguaggio», cioè Nietzsche: «E allora viene Nietzsche e
incomincia il linguaggio, che non vuole
(e non può) altro che fosforeggiare,
luciferare, rapire, stordire». Calasso commenta: «Nietzsche era stato il primo tentativo di evadere dalla
gabbia delle categorie di origine
platonica e aristotelica. Che cosa si
estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato». Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da
parte mia, chiedo a Calasso se non gli
sembra che su questo punto il suo
discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio,
che come dice Benn, non vuole altro
che...» non è forse un «volere»? E non
si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, «volere»? (E, certo,
l’affermazione che al di sopra del
linguaggio che «raffigura», vi è il linguaggio che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in generale
arte-scienza è stato teorizzato da
Brecht in Scritti teatrali (Einaudi 1962). Una
prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente 232
antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come l’autore delle tre versioni di Vita di
Galileo -, per altro verso va incontro a
una delle esigenze più profonde espresse da
Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti. Platone, infatti, invita a diffidare dei
poeti tragici e dell’arte in genere
proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni e non scienza intorno ai grandi temi della
vita e della morte, dello Stato, della
pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai
quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito. Certo, Brecht riconosce che «il piano della
scienza e quello dell’arte sono
diversissimi». Tuttavia non solo si rifiuta di
considerare semplici «hobby» gli interessi scientifici di Goe¬ the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi
offerti da Platone nel libro X della
Repubblica («grandi passioni», «storia dei
popoli», «impulso del potere»), sostiene che anche nell’arte «i grandi e complicati avvenimenti non possono
essere sufficientemente riconosciuti in
un mondo di uomini che non si provvedano
di tutti gli strumenti utili ad intenderli».
Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto solo da chi conosce da vicino la nascita
della scienza moderna. E Brecht, che per
la Vita di Galileo ebbe a ricorrere
anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a riconoscere che «una quantità di letteratura
è a uno stadio fortemente
primitivo». Platone respinge l’arte
perché non ha competenza di ciò a cui
essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece questa competenza ce l’abbia, lasciando al
suo destino la sterminata quantità di
«letteratura» che invece si trova, per la
sua incompetenza, «a uno stadio fortemente primitivo». Rimane il problema di come «il contenuto scientifico
che può essere racchiuso in un’opera
poetica» debba essere «completamente
risolto in poesia». Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata
a una vita immortale, e un Brecht, che
in sintonia con il pensiero filosofico
del nostro tempo, scrive: Lo confesso:
io non ho nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita.
Io ci vedo. Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla ( Poesie, Einaudi
1962). Non è allora del senso del nulla
che (anche) l’artista deve avere la
massima competenza? Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza
stessa riconosce ormai il proprio
carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza
sono giunte prima delle scienze della
natura e logico-matematiche. In modo
indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è
mancata sinora» scrive «una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia
dell’umanità.» Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una «istoria»
senza filosofia, cioè, per lui, senza
«verità»: una conoscenza storica che mostra sì
un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un
senso unitario, e quindi lasciandole
allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova»
deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle
scienze storiche sino a che rimangono
separate dalla filosofia. Ma il nostro
tempo - e innanzitutto l’essenza
(tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge
immutabile ed eterna, sì che le scienze
storiche si trovano oggi a conservare
proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse
in quanto separate dalla filosofìa. La
Scienza Nuova è stata ripubblicata da
Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un
importante saggio introduttivo di
quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo
l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le
edizioni del 1730 e del 1744.
Un’imponente operazione culturale. Molto opportunamente, Vitiello mette in luce
il carattere problematico della
conoscenza storica e in generale della
nostra memoria. Vico e tutte le
successive riflessioni sulla conoscenza storica
non mettono però in questione Yesistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in
questione Yesistenza della natura.
Storia e natura sono cioè trattate come
indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va
affidato il compito di mostrare la
verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica
- quindi problematica -, oppure è una
conoscenza innegabilmente vera, e quindi
non scientifica? Né il senso comune può farsi
avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può avere la pretesa di possedere una conoscenza
superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del mondo è una
verità innegabile significa affidare
alla filosofìa il compito di mostrarlo. È
sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non
può» esser messo in questione. Da questo
punto di vista, non mettendo in
questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile,
Vico rimane indietro rispetto al compito
essenziale della filosofia. Ma per altro
verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di
fronte alla storia, alla natura, al
mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima
affermazione. Il «senso comune»,
in cui si trova ognuno di noi da quando
nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue
forze. (Vi crede anche la scienza, anche
quando essa si discosta dal senso 236 comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede
nella sua esistenza, e non può fare a
meno di crederlo - così come non può fare a
meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a
muoversi attorno al sole, che sta fermo
rispetto a essa. Ma la fede non è la
verità innegabile. La fede mette in
manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente
ha meno forza del credente. Sennonché la
verità non è una forza o violenza
vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per
essa è la verità innegabile: 1’esistenza
del divenire del mondo, cioè del
divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni «verità» che pretenda imporsi su di esse e
regolarle. Affermando che la verità
innegabile è il divenire del mondo
(implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del
nostro tempo lo afferma perché è
riuscita a mettere in manicomio o a
distruggere chi la pensa diversamente da essa. In verità, il mondo non è il mondo (storia,
natura, lo stesso altro dal mondo) quale
appare all’interno della fede nella sua
esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che
nella verità appaia la non-verità:
innanzitutto perché la verità è negazione della
non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la
fede nel mondo, al cui interno si
costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede
nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa
che, in verità, il mondo è la fede nel
mondo e che la non-verità della fede nel
mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità. Quando Vico pensa una
«scienza la quale sia insieme istoria e
filosofìa dell’umanità», non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di
una fede, ma crede che nell’unione di
storia e filosofia la storia sia illuminata
dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è
inseparabile dal proprio opposto, cioè
dalla fede, dall’errore. Quale volto
deve avere la verità che si mette
autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato
«Prospezioni vichiane » Vincenzo
Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura
della “possibilità” del futuro, che non solo, in quanto futuro, non è, ma neppure è necessario che sia». Sono
d’accordo che questa sia una
«prospezione vichiana», un proseguire cioè
lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero
aperto dalla filosofia greca e in cui
consiste la storia dell’Occidente: il
Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del
futuro e ritornare nel nulla del
passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di
un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero della Notte» - dove la «Notte» è l’errare
estremo. Quella «prospezione vichiana»
raggiunge il proprio culmine e la
propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della
filosofìa del nostro tempo, ossia nella
distruzione di ogni Legge e di ogni Essere
immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale - l’essenziale non-verità
del mondo - che sta al fondamento di
quel Sentiero e che impedisce alla verità di
essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori
del pianeta che il futuro e il passato
non sono e non è necessario che
siano. 238 Ho detto che tutto questo vado mostrandolo
«da gran tempo»? Mi son lasciato andare.
Rispetto alla grandezza della posta in
gioco quel tempo è minimo. 239 8. «Suicidio dell’Europa» «Lasciar da parte la brocca riempita di vino
e porre al suo posto una cavità dove si
trova del liquido.» È quel che fa la
scienza, secondo Heidegger, rendendo «un che di nullo» la brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la
scienza lascia da parte gli aspetti più
concreti e intimi delle cose; e questa
astrazione è chiamata da Hegel «intelletto». Non è nemmeno un discorso perentorio, perché si potrebbe
replicare che anche la poesia «annulla»
tutto ciò a cui invece si rivolge la
scienza. E quella cosa che è
l’«Europa»? Pietro Barcellona non si
confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo libro l’Europa è proprio come la brocca piena
di vino che è stata annientata dalla
scienza e dalla tecnica moderne: è stata
sostituita con una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la scienza è un fenomeno europeo l’annientamento
dell’Europa è un autoannientamento. Il
libro di Barcellona è infatti intitolato
II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona si dichiara
d’accordo con vari aspetti del mio
discorso filosofico. A modo suo, con
sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: «Bisogna fare a pugni oppure aprire le braccia». Non mi
sembra che le apra alla mia tesi che la
dominazione della tecnica e della scienza è
inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo
soddisfano le pagine che ho scritto a
proposito di tale inevitabilità. In esse si
mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è un albero dove i rami più alti
(tecnica e essenza profonda della
filosofìa del nostro tempo), per respirare e
vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente),
sebbene, come 240 quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle
stesse radici e dallo stesso tronco.
Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima
parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del
mondo. Barcellona mi concede che gli
eventi del mondo siano l’apparire e lo
scomparire degli Eterni, i quali sono pace,
guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che non si lascia vedere e che culmina nella gioia
e nella gloria a cui l’uomo è destinato.
Ma Barcellona parla anche degli
«intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno
di questi intervalli, mi ci ritrovo io -
scrive - che, non avendo (ancora) visto
la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male». Dice infatti che la tecnica distrugge
«avvenire», «speranza», «promessa»,
«profezia», rende tutto presente, calcolabile,
manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale però per il pensiero filosofico tradizionale
(i rami bassi dell’albero di cui sopra
parlavo). Volendo essere tale pensiero
incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che
ancora, per l’intero Occidente, è un
nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono
invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta, lasciandola vivere e
aprendosi all’«awenire». Inoltre la
filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni Eterno che stia al di sopra delle cose
create e annientate, ma che non ha nulla
a che vedere con gli Eterni, di cui
parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e regolano quella creazione e annientano, ma
sono le cose stesse. Questa sintesi di tecnica e filosofia del
nostro tempo, alla quale ben pochi guardano,
è animata da quella volontà di
«avvenire», la cui mancanza fa star male Barcellona e anche altri. Mi
sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione allo spirito del nostro tempo - che, proprio
in quanto tecnologico, e contro quel che
di solito si pensa, intensamente vuole e
promuove l’«awenire» - e l’adesione al mio discorso filosofico, dove anche la totalità del futuro
è già, eterna, e attende di venire alla
luce, oltrepassando quell’Eterno che è la
Follia da cui è dominata la terra.
A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo modesto. Alla base del suo discorso c’è invece
una filosofia per la quale la verità non
può essere che «visione». È il principio
della fenomenologia. «Ma si può dare davvero un
rapporto necessario con la verità» scrive «che non sia la visione?» Rispondo: sì, perché la semplice
visione non potrà mai essere
«necessità». Limitarsi, in un paradiso, a «vedere» Dio, significa esporsi al dubbio di essere
vittime di una illusione. La semplice
«visione» non mostra la necessità di
quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la «necessità» che egli fosse il Figlio di
Dio. Tempo fa, in un editoriale di
«Liberal» (n. 19, 1998) il direttore
Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove «regole di un equilibrio mondiale» e
affermava la necessità che l’Europa
abbia «una propria autonomia politica di
difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare «saggio» «pensare che tale autonomia debba servire a
riproporre un ordine mondiale basato su
un “bipolarismo antagonista” nei
confronti degli Usa». Poiché in un mio articolo pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a
prima vista sarebbe potuta sembrare
affine a quella che l’editoriale non
considerava «saggia», nel numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che l’Europa si trova
all’interno di un processo storico che
la vede e continuerà a vederla alleata
242 degli Usa. D’accordo,
anche, che un alleato non è un suddito.
Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’«autonomia» di cui Lei parla. A meno che l’alleato debole
abbia grande autorità su quello forte.
Ma non è il caso dell’Europa rispetto
agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle esortazioni del Papa). Nel mio articolo rilevavo che il processo
storico in cui si trova l’Europa la vede
anche avvicinarsi alla Russia, nel senso
che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la potenza economica europea e la potenza
nucleare russa. L’unione di questi due
fattori fa nascere appunto quell’alleato
degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila dunque un semplice «antagonismo» rispetto
agli Usa. Perfino il bipolarismo
Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin
dagli anni Settanta, «Duumvirato» (l’espressione era piaciuta anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla
concordia discors del Duumvirato di
allora, il Duumvirato che si sta profilando (e
che il mio discorso si limita a constatare) vede considerevolmente ridotta la discordia.
D’altra parte gli alleati sono veri,
solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle possibili prevaricazioni dell’altro. Solo
questa forma di alleanza tra
Europa-Russia e Stati Uniti può consentire
all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto al resto del mondo. Lei rileva invece che la logica della
deterrenza nucleare è obsoleta. Il
terrorismo è evanescente e asimmetrico.
(D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un ombrello nucleare russo che sostituisse
quello che gli Usa hanno tenuto e tengono
aperto sull’Europa. Ora, contrapporre al
terrorismo l’armamento nucleare è
ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le cosiddette «nano-tecnologie» di basso costo e
di altissimo potenziale distruttivo
dalle quali è estremamente difficile difendersi. Ma perché i terroristi non le
hanno usate, per esempio per difendere
l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento
nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine, sono soprattutto degli Stati ad alimentare il
terrorismo. Gli Usa non parlano forse di
«Stati canaglia»? Rispetto a
quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è
obsoleta. E allora non si dovrà dire che
il terrorismo si astiene dall’uso delle
armi chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da
parte degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al
terrorismo dell’11 settembre non è stata
forse l’attacco a due Stati? E un articolo
di questo numero di «Liberal», scritto da un americano, non è forse significativamente intitolato E adesso
l’Iran^ È proprio così obsoleto il
possesso di un arsenale invincibile (e
invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento
nucleare sta diventando sempre più
pressante - come proprio in queste
settimane stiamo constatando? A
parte il riferimento alla «potenza economica europea», che come già si è accennato nelle pagine
precedenti si è nel frattempo
notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute
ferme. «Non credo alla sopravvivenza»
Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la comprensibilità del discorso di Jacques
Derrida ha tratto, un notevole,
giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati
Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive
che per Derrida, «cercare di far sì che
non tutto scompaia è stato al centro delle
sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica» (p. 20). A dar ragione a Ferraris, è lo stesso
Derrida che dichiara: «Non penso che
alla morte, ci penso sempre, non passano
dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della
sopravvivenza, è veramente la sola cosa
che mi interessi, ma proprio nella
misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò
che faccio, sono, scrivo, dico» (J.
Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto,
Laterza 1997). «Nella cenere tutto viene annientato» dice da qualche parte. Ma di quel continuo analizzare «il fenomeno
della sopravvivenza» non trovo traccia
nelle pagine di Ferraris. E lo si spiega;
perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che
continua a pensarci, ma è difficile
venire a sapere che cosa egli abbia pensato in
proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli «non crede alla sopravvivenza post mortem».
In questo senso, non solo Ferraris ha
ragione a sostenere che in Derrida non
c’è «una meditatio mortis narcisistica», ma verrebbe da dire che non c’è affatto una meditatio
mortis. Certo, a dirlo così nudo e
crudo si sbaglierebbe, perché Derrida
conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che
è una 245 meditazione «fenomenologica», che cioè non
si pronuncia sui problemi «metafisici»
come 1’esistenza di Dio, la
sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque l’impressione che Derrida abbia distolto lo
sguardo da ciò che maggiormente lo
assillava. Che è certamente quel che
più conta. Sono d’accordo. Ma sono
d’accordo perché al tema della «cenere» in cui «tutto viene annientato» ho invece dedicato tutto
quello che ho scritto. Tutto quel che ho
scritto si riferisce alla necessità che
ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa si annienti nel cosidetto suo diventar
cenere. Vi si riferisce argomentandola e
mostrando il senso della «necessità» e
dell’«argomentare». Peccato che in proposito Derrida non abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi
a dichiarare la propria incredulità
intorno a qualcosa non è il momento più
alto della filosofìa. All’amico
Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire, in questo, Derrida. Che, per quanto ne
sappia, non si è mai interessato di
Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è
grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è soltanto «fenomenologia». Leopardi crede di
poter mostrare che nessuna cosa è
eterna. Ma come è alto e ricco, e
argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li disturba
ben poco. Se non si guarda da vicino il
senso del pericolo, cioè
dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia, quale consistenza può avere la
ricerca di un rimedio contro la morte
ossia di quel «far sì che nontutto
scompaia»? Per Derrida il rimedio era la «scrittura», che trattiene ancora per un po’ le cose
nell’esistenza. Proust questa tesi
l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui,
com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura nel senso
più ampio, cioè, come «opera» del «genio», ossia di chi sa dire con potenza la nullità di tutte
le cose. 247 10. Follia giudiziosa Per le scienze del linguaggio il «sacro» è
il «separato»: tiene lontano l’uomo;
anche se insieme lo attira. Freud ha visto
neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme
del sacro Umberto Galimberti scrive
tuttavia che «a conoscere questa follia non
sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione».
Ma la religione - osservo - è solo un «credere»; e se un sapere riuscisse a mostrare che l’occhio
della religione vede più lontano degli
altri e riesce a scorgere la profonda verità
della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è chiamato «filosofia») ad avere l’occhio più
acuto? Più in alto di una testa
incoronata sta la mano che la incorona.
Per Nietzsche al di là della ragione c’è il «caos». Per Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio
è il luogo in cui non vige più il
principio di identità e di non contraddizione.
La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la verità ultima dell’esistenza. In ognuno di
questi casi, si apre alle spalle della
ragione il mondo dell’«indifferenziato», dove,
scrive Galimberti, una cosa è «questo e anche altro». La ragione, tuttavia, non trova scandaloso
pensare che un vino possa essere forte e
anche nero. I problemi incominciano
quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e non nero: «indifferenziato», appunto. Platone
e soprattutto Aristotele sostengono che
il contenuto di questo pensiero non può
esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere. Qui mi limito a riproporre una domanda che
può sembrare oziosa. Quella follia che, separata, sta al di là
della ragione, è forse non separata? Se
ne stata forse al di là, ma anche al di qua,
dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia, 248
del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la follia non, è forse, anche, non follia? A
questo punto quegli amici perderanno la
pazienza e diranno di aver già detto che
la follia è follia - punto e basta.
Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa follia che se ne sta ben attaccata a sé
stessa (e dunque al principio di non
contraddizione), e non vuol essere «anche
altro», cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le somme, non si permette di essere folle? 249
IL Paradosso e monocromia
«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo
trascende» scrive Biagio de Giovanni nel
suo studio, importante e suggestivo,
dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale principio regola anche il
pensiero di questi due grandi protagonisti
del «moderno». La complessità del saggio
di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano politico, richiede che qui si accenni solo ad
alcuni punti. Quel principio della
metafisica classica domina effettivamente sia
l’«antico», sia il «moderno»; non però il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede
altro che sé stesso. Il mondo non ha
bisogno di Dio. Che il divenire
richieda una condizione trascendente,
indiveniente, infinita, significa che essa salva il finito - il divenire (nascita e morte) essendo appunto il
regno della finitezza. La tesi di de
Giovanni, che l’intento di fondo di Spinoza
e di Hegel è di salvare il finito, è quindi del tutto consequenziale. Ed egli, questo intento, lo
fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo,
che insieme, a suo avviso, rende
esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando molto il suo discorso, si può
dire che il mondo è salvato solo da Dio,
ma che il rapporto tra Dio e Mondo
produce inevitabilmente un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a
sciogliere i problemi prodotti dalla
coabitazione di quei due termini. Ciò
significa che le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e
Spinoza non sono imputabili alla
limitatezza del loro pensiero, ma sono
strutturali. In una delle pagine
decisive del suo libro de Giovanni
scrive: «I grandi testi della filosofia non sono grandi precisamente
perché gravidi di altissimi contrasti, che sono il vero sale del pensiero?», e questo sale non è
forse «la profonda istituzione di una
dualità che non aspetta vera conciliazione e
che però ambisce a vincere la scissione senza poterla abolire?», sì che «proprio questo paradosso è
la stessa vita umana»? Ritengo che i
punti interrogativi non siano retorici.
De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza delfinfinito, non ne progetta nemmeno la
fondazione, né la richiede a Spinoza e a
Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè
l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor più del finito, il luogo dove i problemi e le
contraddizioni maggiormente si
addensano. L’infinito-invisibile è infatti per
lui il contenuto di una «fede».
Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso all’essenza dell’uomo, ossia a quel
«paradosso» che avvolge non questo o
quel gruppo umano; non questa o quell’epoca,
ma «la stessa vita umana» in quanto tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel
senso che diventa ancora più complesso,
la fede nell’invisibile essendo appunto
ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o «sottosuolo della filosofia
del nostro tempo», dove il Tutto resta
identificato alla totalità del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante
all’«antico» e al «moderno» (e si tratta
di millenni), ma non intende allargarla,
e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia dell’uomo e che
quindi sostiene sia la fede
nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici della Terra.
De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare la «storia dell’Occidente» a quello dei miei
scritti, che «considera il pensiero
dell’Occidente come preso in un unico
solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il
significato delle differenze», ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p.
117). Credo che qui de Giovanni si
riferisca alle differenze intese come
differenti modi di errare, non come differenze tout court - giacché l’affermazione dell’esistenza e
anzi dell’eternità delle differenze
(ossia delle molte cose e dei molti aspetti del
mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso filosofico.
Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi
di errare; che però hanno questo di
identico, di essere errori, cioè negazioni della verità. E l’avere in comune il loro esser
errori non cancella i differenti modi
dell’errare - così come, per i colori, l’avere in comune Tesser colori non è una monocromia,
ossia non cancella il loro differire
l’uno dall’altro. Nei miei scritti si
mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore, ossia il suo
essersi separato dalla verità. De Giovanni mi gratifica di un
riconoscimento che mi piacerebbe
meritare («Sono convinto che la profondità
speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che
nasce da questa profondità è muta,
perché riduce la dialettica interna alla
storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione dell’errore». Nei miei scritti si mostra che
l’Errore è la fede nella trasformazione
delle cose, il loro diventar altro da sé.
Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, un solo punto, nella storia
dell’uomo, dove non si creda
nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di errore diversa da
questa fede. Poi, se vorrà, potremo
discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la
sua apparente plausibilità ed evidenza,
è l’Errore più profondo a cui l’uomo è
stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico dell’uomo è già da sempre
libero. Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere male intesa) che «non esistono fatti
ma solo interpretazioni». Nietzsche non
è un «realista». Ma implicitamente il
bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a
Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi
pensatori, a partire appunto da
Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i «fatti», la
«verità», il «realismo». Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più
di mezzo secolo va dicendo che il senso
autentico della verità non è investito
dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità» quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e
quindi anche dal «realismo». Ma Ferraris vuol far rivivere «fatti»,
«verità» e «realismo» dando come cosa
per sé evidente (almeno così sembra) che la
realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con
verità, scorgendo appunto i «fatti», ed
essendo quindi una certezza che ha come
contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel
chiamava appunto «identità di certezza e
verità». Non dubito che Ferraris (e Eco)
l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma filosofica del senso
comune. Anche per le scienze della
natura la realtà esiste
indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli,
il loro «senso comune». Ma ben prima
della scienza è la filosofia, sin dai
suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la realtà - e sul significato di queste due
dimensioni. Prevale, con la grande
filosofia classica (Platone, Aristotele), la
254 conferma del senso comune.
E più tardi tale conferma sarà chiamata
«realismo». La prospettiva espressa dal principio di Protagora che «l’uomo è la misura di tutte le
cose» (e che quindi la realtà dipende
dal modo in cui l’individuo pensa e vuole)
resta a lungo emarginata. Ma, proprio
perché conforma il senso comune, il
«realismo» filosofico non è il senso comune. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un senso
prima sconosciuto della parola «verità»
- il senso che domina l’intera tradizione
dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità come «scienza» (epistéme) incontrovertibile,
fondata su principi primi innegabili e
per sé evidenti e il realismo filosofico
ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la filosofia a conoscere la verità del senso
comune, non il senso comune. Per avere un esempio della potenza e
complessità concettuale del realismo
filosofico si tenga ancora sott’occhio
(cfr. sezione prima, cap. Ili) questo passo deW Etica Nicomachea di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo
scienza non può essere diversamente da
come; delle cose che possono essere
diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra osservazione, rimane nascosto se esistano o
no». (La parola «osservazione» traduce
la parola theoréin : l’osservazione
appunto, la manifestazione del mondo, che accade con l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in
questo passo sia addirittura anticipato
quell’importante atteggiamento del
pensiero contemporaneo che è la «fenomenologia» fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tutto
ma anche solo ciò che è osservabile
(manifesto, immediatamente presente,
sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato qualcosa intorno a ciò che
non è osservato. Proprio per questo la
fenomenologia non è una conferma
255 del nostro senso comune.
Aristotele non riconoscerebbe ciò che
pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto
sussistente al di fuori della conferma
che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso
dice non è «scienza» (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste
indipendentemente dall’uomo è più ampia
della realtà di cui, secondo la
«fenomenologia» c’è scienza (e anche Husserl intende la filosofia come «scienza rigorosa»). La
scienza è infatti, per Aristotele (come
per l’intera tradizione occidentale) anche
scienza di Dio, «metafìsica». Il
«realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso
tee.) e quindi nella dottrina della
Chiesa cattolica e delle altre Chiese
cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a una
forma più elaborata di conferma del
senso comune. E il realismo è stato
messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della
filosofia degli ultimi due secoli, Marx
e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma
quanti conoscono l’idealismo da cui ci
si deve liberare? Per l’idealismo (e il
neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste
indipendentemente dalle singole
coscienze degli individui umani. È dalla coscienza «trascendentale» (liquidata con troppa
disinvoltura) che la natura non è
indipendente. La scienza, si diceva
sopra, è realista. E la «filosofia
analitica» sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna
(che non è più epistéme). Sennonché, se
il «realismo» della scienza moderna non
vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo
filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le
concezioni non realistiche sfuggono
completamente al moderno sapere
scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al «nuovo realismo», stando al modo in cui esso
è stato presentato. Si aggiunga che la scienza intende fondarsi suh’«osservazione». Ma la gran questione è
che la realtà - che per la scienza
esisterebbe egualmente anche se l’uomo non
esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell’universo) -,
in quanto esistente senza l’uomo è per
definizione ciò che non è osservato
dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che
esiste quando l’umano non esiste. Quindi
l’affermazione che la realtà è
indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è
considerata come «altamente
probabile». Comune al «nuovo realismo»
e al «pensiero debole» di Vattimo e
Rovatti è comunque l’istanza politico-morale,
messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il
mito e poi la scienza moderna - è nata,
sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla
morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofìa (come il mito e la
scienza), nascendo dalla paura, è mossa
da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia
si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere «verità», e la «verità»
non può fondarsi sulla dimensione
politico-morale. Per la sua assoluta
spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve
saper rispondere. Altrimenti essa è
semplice edificazione. Un’ultima
osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma
solo interpretazioni non va intesa in
senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo
esista non è per Nietzsche
un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il
divenire (la storia il tempo) esistano è
per Nietzsche - anche per Nietzsche -
l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna
immutabile, «divina» che sovrasti il
divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera
storia dell’Occidente e, ormai, del
pianeta. La fede che da tempo i miei scritti
invitano a dar conto del suo incontrastato potere. Persiste il silenzio
su uno dei tratti più importanti della
cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia decisivo il nucleo essenziale del
pensiero filosofico del nostro tempo.
Sebbene possa sembrare inverosimile, tale
nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a
questo dominio nonostante altre
candidature, ad esempio quella capitalistica,
politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare
autenticamente ascolto alla filosofia.
Quel nucleo mette in luce che ogni
Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione
metafisica, è impossibile; e dicendo
questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le
conferisce la reale capacità di
superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla
tecnica che essa ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale
c’è sicuramente il pensiero di
Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile,
la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia
continuamente si parla. Invece su
Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante
(sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di
lingua inglese, sia in quella
«continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in
relazione al tema filosofia-tecnica a
cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi
comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un
elemento frenante, «reazionario»,
rispetto alla progressiva emancipazione
planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe
quindi la chiarificazione dei motivi che
producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più
modesto, riguardante alcune conferme di
tale silenzio e alcune
implicazioni. Per Gianni
Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’«antirealista»,
cioè la critica alla «concezione
metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p.
100). Si tratta della critica alla
definizione di «verità» come «corrispondenza» tra intellectus e res, tra «l’intelletto» e «la
cosa». In tutto il libro Gentile non è
mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con
maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano)
l’insostenibilità di quella definizione.
In sostanza egli argomentava - per sapere se
l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è
necessario che il pensiero confronti la
rappresentazione dell’intelletto con la
cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è «esterna» al
pensiero, ma gli è «interna». Ciò
significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna
cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa
guidare, prendendolo alla lettera, da
quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono
fatti, ma solo interpretazioni» e che
«anche questa è un’interpretazione»,
ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo
intende tener ferma questa «sentenza» di
Nietzsche dovrà dire allora che anche la
critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di
revocabile. Capisco quindi che egli
consideri anche la propria filosofìa soltanto
come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui
motivazioni sono soltanto decisioni etico-
politiche (p. 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo
come una minaccia alla libertà e alla
progettualità costitutiva
dell’esistenza» (p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile
perché altrimenti libertà e democrazia
verrebbero distrutte; ma in questo modo
mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual
cosa è soltanto una bandiera politica o
teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti
altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva» dell’esistenza è solo un’interpretazione
revocabile? En passant, egli è
stranamente fuori strada quando mi
attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo
sviluppo» (pp. 164- 165) e rifacendomi a
Heidegger. Il quale però sostiene che
l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da
questo carattere; mentre i miei scritti
sostengono che ogni cosa è un essere
eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che
afferma la totale storicità del
contenuto del pensiero (sebbene Gentile
differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente). Comunque, già l’idealismo classico tedesco,
soprattutto quello hegeliano, è ben
consapevole dell’impossibilità che la
verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una
grande metafisica; sì che la critica a
tale corrispondenza toghe di mezzo solo un
certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire
dell’uomo, e in generale al divenire
delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri,
come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre
e che sopra chiamavo il «nucleo
essenziale» della filosofia del nostro
tempo. Se Vattimo, che condivide la
critica heideggeriana alla verità come
corrispondenza, su questo punto è
inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un
«nuovo realismo» (che peraltro condivide
con molti altri) al quale forse
rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è
d’accordo con Maurizio Ferraris (non più
allievo di Vattimo), che presenta in
Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un
«argomento» che conduce alla tesi
seguente: «C’è qualcosa che noi non
abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità». L’«argomento» è che, una volta
ammesso che «noi» produciamo qualcosa,
noi però non produciamo il «fatto»
consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi».
Gabriel lascia indeterminato il
significato di quel «noi» (sebbene egli
interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che
è Gentile risponderebbero che, certo,
questo o quell’individuo non producono
il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato
(anche da Gabriel, sembra) e, in quanto
pensato, non può essere, come invece
questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto
pensiero. «Io propongo di definire
l’esistenza come l’apparizione-in-
un-mondo», scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho
trovato alcun chiarimento sul
significato del termine chiave «apparizione».
Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. 262
L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende
che c’è apparizione di un mondo anche
senza che appaia questo o queU’individuo
empirico, allora, su questo punto, sono
d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e
un caso di esistenza è l’apparire in cui
tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto,
come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»? Per lui ciò che esiste esiste
necessariamente «all’interno di un campo
di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che
qualcosa esiste solo in quanto
differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono
d’accordo (ma esortando Gabriel a
rendersi conto che egli, contrariamente ai
suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al
rango di assoluto principio
incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover
concludere che qualcosa come «il Tutto»,
la «totalità degli enti», non può esistere
perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere sé stesso, giacché è
necessario che il Tutto, in quanto
contenente differisca dal Tutto in quanto
contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per
Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa
apparizione contiene sé stessa proprio
perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il
contenuto è insieme il contenente. Da
gran tempo i miei scritti si sono soffermati su
questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto
del Tutto. (A proposito del tema del
«nulla» è curioso che Vattimo, per il
quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - 263
tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico,
perché senza il loro annullamento e
nullità iniziale non si vede in che possa
consistere la loro contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a
ssoluto realismo, perché il contenuto
del pensiero non è una rappresentazione
fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare
Gabriel e i vari neorealisti a studiare
Gentile. Certo, la difficoltà maggiore
è capire il carattere «trascendentale»
del pensiero, che si è presentato in modo
sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni
pensiero, l’«assolutamente Altro»,
l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui
l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo
è pensato. Per questo Gentile afferma
che il pensiero non può essere trasceso
e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso.
Questo trascendimento è la verità. L’idealistica trascendentalità del pensiero
è stata sostituita oggi dal consenso,
cioè dall’accordo sociale su un insieme di
convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la
comunità più ampia possibile è
d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo
concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità»,
giacché «siamo esseri storici e la
massima evidenza disponibile qui e ora si
costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (p. 109). Ma,
daccapo, questa sua affermazione è una
verità incontrovertibile? Oppure che gli
uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o 264
discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar
d’accordo nel far rivivere la metafisica
e altre cose non desiderate dalla
filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo
intento è di prendere le distanze da
ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche»
dell’Essere) finisca col valere, nel suo
discorso, come un’evidenza oggettiva e
indiscutibile. 265 14. Realismo e idealismo in relazione
all’ostacolo La tecnica può riuscire a
porsi alla guida del mondo solo se si è
in grado dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della
tradizione (quali il capitalismo, le
religioni, la politica e la concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può
mostrarlo? Non certo la tecnica e la
scienza. È invece l’essenza
tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra
che non possono esistere quei Limiti
assoluti, indicati dalle forze delle
tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un
carattere decisivo. Di qui l’importanza
di saper cogliere ciò che chiamo «essenza
della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a
questo contesto si riferiva anche il mio
articolo («Corriere della Sera», la
Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra parte, continuo a ripetere, quell
’essenza è la forma più coerente della
Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza
dell’uomo - la Follia del nichilismo).
Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo
esista indipendentemente dalla coscienza
che egli ne ha. Questa, la base di ogni
forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo
individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il
pensiero filosofico della tradizione
(sia pure in modo profondamente diverso) vedono
in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina», di Volontà, capace di dominare la materia di
cui le cose son fatte o addirittura
capace di produrre ogni aspetto del mondo,
come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, che però
indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli
è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è
Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non
dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica
è fondata nel modo più rigoroso. Marramao
(«Il Secolo d’Italia») è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore
- osservando giustamente, tra l’altro,
che uno dei motivi del disinteresse per
Gentile sta nel suo stile «pesante» e
«ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente superiore a quello
del neohegeliani del mondo anglosassone del
XIX-XX secolo. Contrariamente alle loro
intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi hanno offuscato e complicato la potenza
speculativa di Hegel, determinando una
reazione «realistica» non immune da
consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella
forma di neohegelismo non avesse
impedito la presenza di Gentile. Ma
soprattutto - per quanto riguarda il predominio del realismo rispetto aH’idealismo - la
tecno-scienza si presenta quasi sempre
come «realismo» (assunto come ipotesi di
lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua il «realismo» filosofico dà spesso per
scontato che la filosofia non possa
procedere indipendentemente dalla
scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il
predominio del realismo rispetto a ogni
altra forma filosofica. Nell’intervento
di Maurizio Ferraris («la Repubblica» 18
settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che
fare con cose in sé, ma sempre e
soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi». No: questo lo si può dire
di Kant (e propriamente del Kant della
Critica della ragion pura), non di Hegel
o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose
in sé. E a sua volta Gentile ribadisce
che solo se si presuppone
(arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero
siano soltanto fenomeni. Per confutare
l’idealismo Ferraris richiama
l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo,
l’imprevedibilità degli eventi.
L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non
fossero pensate e che quindi esse non
stanno al di là del pensiero, indipendenti
da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle
avversità e muoiono. I miei scritti
stanno tuttavia al di là dell’opposizione
realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente («Corriere» 27 settembre 2011)
i loro temi centrali, che nel mio
articolo avevo messo tra parentesi per
non complicare troppo il discorso.
Invece Gianni Vattimo («Corriere» 21 settembre 2011) mi trova troppo affezionato «al vecchio
argomento antiscettico» (se uno dice che
non c’è verità sostiene peraltro che quel che
lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un «giochetto logico-metafisico».
Un giochetto che però (per richiamare
solo due tra molti) Platone ( Teeteto) e Aristotele ( Metafisica) prendono
molto sul serio. Platone scrive
addirittura che quell’argomento è
«raffinatissimo» (kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama «giochetto», nel
suo libro (Della realtà, cit., p. 25) lo
chiama invece «giusta accusa di
autocontraddizione». (Comunque nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non
voler dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son
d’accordo. Ma poi, non è proprio per non
esser vinto dall’argomento contro lo
scettico che Vattimo, per sostenere la propria
negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi
desideri - sì che quell’argomento ha un’importanza
decisiva nel suo discorso?) Da parte mia
ho scritto invece più volte che quell’argomento
non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obbietta che si contraddice egli può
ancora replicare chiedendo perché mai
non ci si debba contraddire - e qui il
discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con
qualcuno significa andare «a braccetto»
con lui. Ora, vado sì dialogando con
Gentile, con l’«essenza del pensiero del nostro tempo», con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non
vado «a braccetto» con loro. Dialogo
anche con Vattimo...) Per Markus
Gabriel («Corriere» 29 ottobre 2011) il
contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista, scrive che «apparteniamo alla stessa
famiglia, il cui capostipite fu
Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma «un essere indipendente dall’ambiente
umano». Sennonché da più di mezzo secolo
i miei scritti vanno mostrando che ciò
che Parmenide dice dell’«essere» va detto
invece degli enti : di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia
è impossibile - è contraddittorio - che
non sia), e quindi è eterno anche ogni
«ambiente» e pertanto anche Cambiente
umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e il niente. Nessun
ente può essere stato o può diventare un
niente. Se «realismo» significa che certi enti
potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una
tesi autocontraddittoria) - come
l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe
esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) Gabriel aggiunge che
«la realtà è parzialmente
contraddittoria» (e cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà)
perché gli uomini continuano a
contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo
secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è l’impossibile, il necessariamente inesistente
(Cfr. sezione terza). Con una metafora:
i pazzi esistono - e sono pazzi e non
sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di
cui i pazzi son convinti non esiste.
L’esistenza del contraddirsi non rende
dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione - che peraltro, in relazione
al modo in cui è stato storicamente
inteso, è ben lontano dal presentarsi come
un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo. 270
15. Stelle e formiche Qualche
chiarimento a proposito delle considerazioni
(«Giornale di Brescia» 4 settembre 2012) che Massimo Borghesi ha dedicato al mio
libretto-intervista Educare al pensiero,
gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo a indicare, con un po’ di esagerazione, il
senso complessivo di quanto intendo
dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea
della Divina Commedia affermando che essa è una illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi,
se non proprio evitando di citare
l’ultimo verso della Cantica - E quindi
uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me la vita sarebbe cioè infeliceì ) Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma
vorrei sfatare l’impressione complessiva
che si può avere leggendo l’articolo di
Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte soprattutto, che il mio discorso consista nel
sostenere che noi tutti siamo
eternamente dannati e con noi tutte le nostre
convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la metafora dantesca, nei miei scritti si mostra
che ognuno di noi è infinitamente di più
di quel che crede solitamente di essere:
è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore delle «stelle», l’eterno apparire del
firmamento. Sennonché (lo mostro nei
miei scritti), nella luce del firmamento
che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta.
Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in
quel che per lo più crediamo di essere e
non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un Firmamento ancora più
infinito). Per quanto riguarda la parte
dei miei temi considerata dal Borghesi
troverei invece molto più adatte queste parole di Angelus Silesius: «Uomo, smetti di esser uomo
se vuoi raggiungere il Paradiso: Dio
riceve solo altri dèi». Oppure, «Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non
vi entrerai mai». Certo anche queste
sono metafore: ogni loro parola indica e
nasconde. Ad esempio è sommamente occultante
Yimperativo («smetti di esser uomo»), perché ogni uomo ha già smesso da sempre di essere quell’uomo che
per lo più crediamo di essere, e già da
sempre, necessariamente, ha dentro di sé
il «Paradiso» che peraltro è destinato a
raggiungere. Ma poi sono le parole «uomo» «Dio», «dèi», «Paradiso» a dover deporre il loro timbro
mitico-metaforico - anche perché sapere
che cosa significhi «uomo» non è per
nulla più facile che sapere che cosa significhi «Dio». Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che
il mio è «un sistema di pensiero che
rifiuta l’idea che l’uomo possa
cambiare». Detta così, questa sua affermazione altera il senso del mio discorso, e, anche qui, perché ne
mostra soltanto un lato. Proprio nella
prima risposta dell’intervista dico: «Invece
gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto
che ho scritto da qualche parte che
“solo l’eterno può divenire”. Nel senso
che lo spettacolo che sta davanti, costituito dall’apparire degli eterni, è continuamente variante», «è il
variare che dapprima si mantiene
all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal destino” [cioè l’Inferno di cui parlavo] e
poi continua al di là della terra
isolata dal destino della verità [dove il “destino” è l’apparire, che noi siamo, dello splendore
delle “stelle”]. Questo proseguire della
variazione degli spettacoli eterni è un
proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La Gloria è l’infinita adeguazione del finito
all’infinito» (p. 18). Ogni uomo è
destinato a compiere questo percorso.
Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16 maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei miei scritti,
un’immagine certamente più adeguata di
quella da lui proposta in prima battuta.
In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma qualche altra è forse
opportuno che ne aggiunga a proposito di
questo suo nuovo articolo. Mi sembra
che egli non condivida la tesi che Inesistenza»
dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a lui, che è cattolico, posso ricordare che
all’inizio del Vangelo di Giovanni si
legge: «E la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta». La «luce» è
innanzitutto la verità; le «tenebre»
sono l’esistenza dell’uomo nel «mondo», e sono
«tenebre» perché sono sogno, non-verità; errore, negazione della verità. Dicendo questo,
«delegittimiamo» forse le tenebre, come
Borghesi in sostanza sostiene, criticandomi? Si
delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che ferrare implica)? Certo, il pensiero filosofico non può
accontentarsi del senso che le religioni
danno alla verità e alla non-verità; ma è
anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si
tratta allora di capire perché, nei miei
scritti, si afferma che ogni uomo è già
da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo è nel modo che gli è proprio e che lo
distingue da ogni altro uomo. Ogni uomo
è già da sempre Oltreuomo - anche se
questo suo esserlo è contrastato dalla convinzione ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo
più a vivere. E, ancora, si tratta di
capire perché in quegli scritti si
afferma che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed estese di quelle a cui si riferisce Giovanni,
e perché da quel contrasto siamo tuttavia
destinati a uscire, e perché la luce
lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è un «dualismo». E allora? Questo suo dire è
solo una descrizione, non una
confutazione. Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire cose che non ho mai detto -, soprattutto
quando afferma che per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’«inutile affaccendarsi» di un «formicaio». Ancora una
volta, vorrei chiedere a Borghesi: ma la
vita degli uomini che pensano soltanto
al «mondo» (alle «tenebre» di Giovanni), e non a Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo,
l’inutile affaccendarsi di un formicaio? Tuttavia preferisco ricordare che il sogno
nel quale consistono le tenebre di cui
parlano i miei scritti non è quel vagare
delle formiche che per chi non sa che cosa sia un formicaio è senza senso, un «inutile
affaccendarsi». Il grande sogno si
svolge anch’esso secondo la necessità del destino (come peraltro lo stesso mio critico
riconosce); e con un ritmo e secondo una
struttura che in molti ma molti miei libri
sono andato indicando, chiamandola «storia del mortale» (ossia dell’abitatore del sogno). La follia
che produce il grande sogno è la
persuasione che le cose si strappino da sé e
divengano altro, invadendolo, dividendolo, spezzandolo. Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà
di far diventar altro le cose. E anche
qui si tratta di capire perché è
necessario che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella storia della razionalità teorico-pratica
dell’Occidente, e infine nella
distruzione di questa razionalità e nella progressiva dominazione planetaria della tecnica. È
necessità che nelle tenebre si proceda
illuminati dalla luce di Lucifero.
L’autentica «educazione» è il linguaggio che mostra tutto questo, e non invita a incrociare le braccia
(anche il rinunciare a volere, sappiamo,
è un volere), ma mostra che cosa, in
quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati a volere.
Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa, su «30 Giorni», ebbe a scrivere che «Severino
su un punto ha ragione: la tecnica è
l’orizzonte assoluto del nostro tempo». Ringraziandolo, con molto ritardo, per
aver salvato uno dei miei punti, osservo
che non per caso la tecnica è l’orizzonte
assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo
della struttura qui sopra indicata. Se
la si studia, si può constatare che,
nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo interlocutore: «Tu non pensavi ch’io loico
fossi». La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo
si manifesta. Tale Rifiuto nega che il
giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi
stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che
questa negazione è presente anche nel
sogno e perfino nella pazzia. Nei primi
decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella
«mentalità primitiva» quel Rifiuto è assente
o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss
mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l’uomo,
compiere il gesto più semplice, ad
esempio bere dell’acqua, se la «mentalità
primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si
rifiuta di crederlo. Tale Rifiuto sta
all’«origine» e alle «fondamenta» della vita
umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché,
che viene tradotta anche con
«principio». Già per la filosofia greca il
Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa intende il
Rifiuto originario in un modo
radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra,
e così via. La filosofia sostiene che
questa negazioni non sono semplicemente
un «volere», ma un sapere assolutamente non
smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità
originaria. Aristotele dice appunto che
tutte queste negazioni sono espresse da
un’unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata «principio
di non contraddizione». Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del
pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà, facendone la suprema
«verità» incontrovertibile, è destinato
a fallire. Ad esempio lo ritengono
Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte
della filosofia contemporanea; e
qualcosa di simile accade (sia pure con
vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte, nella coscienza religiosa. Popper rileva sì che senza il
principio di non contraddizione
crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale principio è il fondamento dell’atteggiamento
«razionale»; sennonché, per lui, ciò che
fa scegliere tale atteggiamento è una
«fede irrazionale», e quindi è innanzitutto il principio di non contraddizione a esser dominato e guidato
da una volontà («fede») senza verità. 1
Al di sotto della propria maschera tale
principio è in effetti, nelle sue diverse
configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel
modo da esso prescritto. (Anche la
filosofia ha sostanzialmente trascurato
l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà.)
Tale principio serve certamente a
vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia
vera. Ma tutta la vicenda che abbiamo
sin qui sommariamente richiamata - la
storia cioè del Rifiuto originario - copre e
nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto
autentico, ossia l’autentica negazione
che le cose siano altro da ciò che esse
sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto
dalla volontà. Dall’altro lato quella
vicenda copre e nasconde il sapere più
alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni
cosa è sé stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa -
dunque ogni stato di cose, ogni stato
del mondo e dell’anima, ogni situazione
ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. La teoria della relatività afferma sì che
ogni stato del mondo (ossia del
cronotopo quadridimensionale) è eterno,
ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica
scientifica, che è ipotetica, e quindi
controvertibile, falsificabile. Anche la
teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia
YEternità (anch’essa da intendere
autenticamente, cioè in senso essenzialmente
diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da
prospettive diverse, ai miei scritti, che
indicano il senso autentico del Rifiuto
e delfEternità come un dito indica la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una
risposta adeguata alle loro
osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e
ricchissime le indagini contenute nel
sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro
Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei
invitare Sasso a rimuoverlo, quel
congedo, a non restargli fedele, innanzitutto
perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio - che
generosamente, anche in queste sue pagine,
considera importante per lo sviluppo delle
sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e
delfEternità. Lo sa bene, e
sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬
nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze
della metafisica. Heidegger, Lowith,
Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana
2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia 278
(Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre
la luna, indicata dal mio dito, alla
base di ogni sapienza. Un tentativo
compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo
accadere per noi (Vita e Pensiero 2013).
Molto interessante e ricco di spunti
anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il
postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge
alla luna e al mio dito. Carlo Sini
scrive invece che, sì, io lo costringo ad
«arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e
allora?!» (La verità è un’avventura,
GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se
non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni
affermazione contenuta in questo e negli
altri suoi libri sia la negazione di ciò
che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi «siamo quel che abbiamo e che per il
fatto stesso di averlo siamo destinati a
perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a
riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha
presente (come mi sembra che accada a
Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non contraddizione» è la
semplice volontà che il mondo non sia
contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può
certo disinteressare del proprio
contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose
appunto: «Sì, compagno, mi contraddico,
e allora?!». Raffinato e penetrante
come gli altri scritti di Alessandro
Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli
2010). Scrive Carrera che questo suo
saggio fa parte di un trilogia incominciata con
La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino 279
(Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di
Severino, di ogni ipotesi heideggeriana,
nietzscheana o altrui, in base alla quale il
passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e
per i fini del presente» (p. 181). Sì,
la consistenza del passato è implicata
dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni
tempo, ma nel senso che il fluire del
tempo non porta via con sé, nel nulla, questa
luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è
destinata a ritornare. 280 17. Continuando un dialogo su tecnica e
diritto «Perché - mi domando, e domando
a Severino - la tecnica come capacità
indefinita di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata a
soverchiare la tecnica della forza, che
è immanente al diritto e che accompagna ogni
norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella volontà di potenza è più potente di questa?»
È la domanda che Natalino Irti mi
rivolge anche nel suo libro più recente
L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra
noi due sul tema della tecnica. E la
prolunga in modo quanto mai felice,
innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me «nella concordia discors del pensiero». Lo
ringrazio di cuore. Con altrettanta
generosità l’eminente giurista rileva di quanto
si sia ridotto il suo sentirsi «discorde». Rimane però quella domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui
altre volte ho risposto. Dev’esserci
quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e
che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo
della risposta (attendendo che Irti le
consideri). Il mio discorso sulla
tecnica non indica uno stato di cose già
in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è
oggi in via di formazione il progetto
che ha lo scopo di aumentare senza
limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo vado
scrivendo che la tecnica, in quanto è
tale progetto, è «destinata» a prevalere
sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La «destinazione» si riferisce al futuro.)
Questa capacità è «velata di astratto e
di generico» (come scrive Irti), ma solo nel senso che oggi l’uomo non può conoscere
concretamente e specificamente le
proprie capacità future. La sua volontà vuol
281 diventare «sempre più»
potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti
dalla Tradizione all’agire umano vanno
mostrando, soprattutto all’interno del
pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale. «Volontà di potenza» e «tecnica» sono
sinonimi; ma la Tecnica che progetta
Fincremento senza Limiti inviolabili
della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le forme di tecnica in quanto sottoposte a quei
Limiti e che pertanto le si oppongono.
Differisce da esse, spingendole altrove,
ma agendo al loro interno. Si chiamano economia, politica, morale, diritto, arte, le stesse
discipline scientifiche (fisica,
biologia, astronomia ecc.) e le «tecniche» da esse guidate (apparati industriali, militari,
burocratici, sanitari, scolastici ecc.).
Anche il capitalismo è ancora,
prevalentemente, una forma della Tradizione: pone come Limiti inviolabili (e pertanto come «verità»
indiscutibili e «naturali») l’uomo in
quanto individuo isolato e libero, la
proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato come dimensione che rende possibile il
profitto e la sua crescita, la
concorrenza e, anche, il sistema di leggi che
garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè che nelle società capitalistiche viene
chiamato «diritto» tout court. Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio
discorso, quella tra la Tecnica e le
altre forme di volontà di potenza sia la
contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica, quella fisico-matematico-biologica, e le
altre forme, tra cui il diritto (la volontà
capace di regolare altre volontà). E,
appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto che l’altra. Sennonché, dico destinata a
prevalere non quella forma particolare
(sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in
quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza presente nelle tecniche esistenti e che mira
a porre tale 282 incremento come la norma suprema - la
norma che è il più radicale superamento
delle Norme e Limiti imposti dalla
Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la testa di quelle forme («astratto e generico»), e non è
nemmeno la loro semplice somma, ma tende
a esser sempre più presente e dominante
in ognuna (e, certo, in modo più avanzato, nella forma fisico-matematico-biologica) e a
distoglierle dalla loro soggezione ai
Limiti inviolabili che via via sono stati loro
imposti. Nel diritto quei Limiti
si incarnano nel cosiddetto «diritto
naturale». Che però tende a essere sempre più emarginato dalla convinzione che il diritto sia
«positivo», posto storicamente dalle
volontà vincenti; non, quindi, espressione
di una volontà che rispecchia una immodificabile «Legge Naturale». Nel mondo occidentale (ma ormai
sull’intero Pianeta, sia pure in modi
molto differenziati e spuri) vincente è
ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà capitalistica, ed essa si impone come «la Legge», lasciando
sullo sfondo, quasi dimenticato, quel
carattere «positivo» della legge che sta
soppiantando la pretesa del diritto capitalistico, di essere «naturale». La «forza» e la capacità
«coercitiva» sottolineate da Irti non
competono cioè a una pura volontà giuridica
separata dalla volontà vincente,
ma alla capacità di quest’ultima di
rendere operante la forza e il carattere
coercitivo della volontà giuridica. (La contrapposizione tra potere politico e potere giudiziario - o
quella dove un gruppo economico è
sottoposto al giudizio della magistratura - si
svolge completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che tutela i valori dell’economia di
mercato). La volontà che progetta
l’incremento indefinito della potenza
non è quindi, come invece Irti mi obbietta, «astratta disponibilità, generica forza di raggiungere
risultati», «indistinta e indefinita
varietà degli scopi», «nome con
283 funzione riassuntiva» -
mentre il diritto avrebbe il vantaggio
di essere «decisione» che impone certi scopi escludendone altri (pp. 53-54). Le cose non stanno
così. Le decisioni del diritto sono le decisioni
del capitale, o dell’economia
pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in volta vincenti. Le volontà di potenza che
hanno come scopo la potenza di certuni e
non di altri, di certe concezioni del
mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la
crescita senza limiti ed esclusioni
della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo
reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la produzione dei beni che,
pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente,
non avrebbero mercato, e alimenta forse
quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè con la loro abbondanza e la caduta della
domanda, non avrebbe nulla da vendere. E
in ognuno di questi casi vengono
ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il
superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda
di Irti - la Tecnica è destinata a
prevalere sulle forme particolari di essa
nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi nella loro particolarità,
sia per Tesser ancora soggette ai Limiti
della Tradizione? E quindi: perché la
Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che,
nella misura in cui sono invece il
terreno in cui prende piede la Tecnica in
quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse, emarginandole, ma se
ne serve - o prevale nel senso che quel
progetto è lo scopo che regola i loro
scopi particolari)? Rispondo così. 1)
Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati) si presenta ancora come un mezzo,
anzi come il mezzo più potente di cui si
servono le volontà di potenza dominanti e tra
di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e, soprattutto la volontà oggi più potente, il
capitalismo. 2) Ma nella tecnica si sta
facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in
quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre ogni Limite «assoluto». 3) Il fondamento di
questa negazione è l’essenza - il
«sottosuolo» essenziale - del pensiero filosofico del nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni
volontà può prevalere sulle altre solo
se rafforza sempre di più il mezzo tecnico di
cui dispone. 5) Tale rafforzamento è ulteriormente rafforzato dal progressivo prender piede, nella tecnica,
del progetto della Tecnica di aumentare
all’infinito la potenza - e tale progetto è
a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di potenziare il mezzo di cui essa
dispone. 6) Pertanto lo scopo delle
volontà dominanti si trasforma. Infatti,
riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più
come scopo primario l’incremento del
profitto, ma la sintesi tra tale
incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più
spazio rispetto a queU’incremento. 7) In
tal modo la tecnica, da mezzo, tende a
diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui configurazione
originaria tramonta. La tecnica tende
dunque a diventare lo scopo del capitalismo e
del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere
su di essi e al dominio del mondo. 8) A
questo punto si tratterebbe di
richiamare il senso autentico di tale «destinazione» (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro
tempo, Adelphi 1988, o Capitalismo senza
futuro, Rizzoli). Ma, dicevo
all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione della risposta. Pieno di debiti nei Loro
confronti, non mi è concesso nemmeno di
esordire in modo originale. Perché anch’io,
come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo incominciare con i ringraziamenti.
Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi
è caro farlo. Mi rivolgo innanzitutto
al dipartimento di Filosofia,
all’università di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e
poi c’è l’appoggio finanziario dato a
questa iniziativa dal professor Luigi
Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha fatto piacere anche quella sorta di
preconvegno, organizzato dal professor
Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari dedicati ai miei scritti. Il professor Ruggiu ha anche opportunamente
sottolinea-to il senso centrale di
quanto è venuto fuori questa mattina, e
cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può essere sembrato un discorso.... «algebrico»,
«astratto», «filosofico» (nel senso del
formalismo filosofico), e le
implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione politica. Qui davanti ho appunto l’amico
professor Pietro Barcellona e l’amico
Natalino Irti, nei cui interventi questa
dimensione è emersa in modo più visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto
di incontri come questo, e mi sono
sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo
la qualità etica di chi festeggia come
decisamente superiore alla mia condizione di
festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo
nostro incontro come manifestazione
dell’amore per la filosofia. Perché è
chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto
l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa
università costituiscono un vanto. Il
dipartimento di filosofia
dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver
dichiarato da qualche parte) anche per
merito del dipartimento di filosofia di
Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di
altissimo livello. Anche per questo il
fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la
quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto
mai rilevanti e variegate. Come quelle ben
note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti,
Visentin, Perissinotto e di tutti quelli
che hanno parlato. Scusino se non li nomino
tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i
partecipanti a questo convegno, e allora
andava via tutto lo spazio per l’intervista,
oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che
è stato ricordato dal professor
Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è
direttore del dipartimento di
filosofia. Vorrei riprendere almeno uno
spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti;
quello relativo all’implicazione indicata
dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai
lavori, perché si può avere avuto
l’impressione - avevo incominciato a dire - di
una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-politici.
Come eliminare questa impressione? Tento di
rispondere. Che noi si viva nel
mondo, e che il mondo sia fatto così
come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono
forze politiche, economiche, religiose,
e industrie, fabbriche, Europa, Russia,
America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande
fede alla quale nessuno di noi vuole
rinunciare. Noi ci troviamo ad avere
questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo
parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin
è a Venezia, e Venezia è in Italia,
alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di
verità (usiamo così «alla buona» la
parola verità) a ciò che in quanto
contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al
di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui
ho sentito con estremo piacere e dai
quali ho imparato moltissimo e che terrò
presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro del quale
sta la nostra civiltà occidentale, la
quale, nell’interpretazione, ha uno
sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un
susseguirsi di frammenti caoticamente
giustapposti non vedono invece l’unitarietà
dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è
consistita (penso soprattutto a quello
di Barcellona e di Irti, ma poi anche a
quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione
delVOccidente. L’intento qui è di
stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla
forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti
ai lavori non si fosse raccapezzato
sentendo, da un lato, ripetere così
insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor
Spanio accennava a questa tematica), ad
aver sentito la mia simpatia per le forme
più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema,
chiederei il permesso di essere un po’
immodesto - ma visto che siamo in un
clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di
incrementare questa prova, mostrandomi
quindi ancora un po’ più immodesto.
Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che
io abbia scritto dei libri fa parte di
quella fede nel mondo di cui parlavamo
prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Che, come è venuto in chiaro da parte
degli amici che hanno parlato, è la
coerentizzazione della Follia estrema.
Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne
favoriscono lo sviluppo massimo, fino a
che il virus mostra tutte le sue potenzialità.
Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo,
su Leopardi, su Gentile - tratta di
quelli che sono i grandi nemici della verità.
Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della
negazione della verità. La verità non è
qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare 289
forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue
ultime conseguenze (consistenti nella
dominazione definitivamente vittoriosa
della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato
di quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado
di eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il
Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che
si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il
passo a un’altra). E qui siamo al centro
della nostra riflessione, perché gli eterni
dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati
del mio discorso filosofico. Dicevo
all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere
al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo
è il mondo, quello in cui crediamo noi è
il mondo vero; e quelle che sentiamo dai
filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio
inscritto è la nostra fede nel mondo. E
a questo cerchio è stata dedicata una parte del
convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo
prima, è stata dedicata l’altra parte. E
abbiamo incominciato con quest’altra
parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate
articolazioni concettuali che abbiamo
sentito, queste mie considerazioni sono
molto generiche. Qualche osservazione,
quindi, va fatta a proposito delle
obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello:
mostrano delle difficoltà, presenti
nelle mie tesi, senza pretendere di essere,
esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo
«struttura originaria del destino della
verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo
scientifico si produce quando si vuole
assiomatizzare un certo tipo di
discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è
ricondotta all’aritmetica. È
un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che
partendo da un certo gruppo di
postulati, o di ipotesi - che vengono assunti
senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i
postulati dell’aritmetica -, non si può
escludere che lo sviluppo di tali
postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri
postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla «struttura originaria
del destino», allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura
originaria (che si rivolge appunto a
quella «struttura») intende appunto
escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili,
problematici ecc... È chiaro che
partendo da postulati assunti semplicemente in
base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è
possibile che si deducano conclusioni o
teoremi in sé stessi contraddittori.
Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile
che si pervenga a mostrarne la
contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella «gòdeliana», perché il
fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è
impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa
base in modo da sviluppare conseguenze
che ne siano la negazione. E allora
l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una
certa dimensione concettuale ha l’ardire
di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie
che scaturiscono da questa base è un
mostrare solo ipoteticamente (mi pare che
con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base.
Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo
a Vitiello, ma anche a prospettive come
quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no:
altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(«ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica,
l’obbiezione assume come indiscutibile -
incontrovertibile! - la differenza tra
293 quello che essa dice e ciò
contro cui essa dice. Alla base di ogni
obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei
differenti, cioè il riconoscimento che i
differenti sono differenti - quella
differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la
struttura originaria è un incominciare a
essere d’accordo con la struttura originaria
(e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io
ringrazi nuovamente tutti Loro, con
ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua
relazione), che hanno parlato dopo il
mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione», rispetto all’affermazione
di Aristotele, che il semantema (il
significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola «essere». Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il
tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di
identico Tesser differenze. (Tra parentesi:
perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre
pensato parlando dell’on hei on di Aristotele:
che ci sia qualche cosa di identico
nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. «Apparire» è appunto la parola
italiana con la quale traduciamo
phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità
dell’esser differenze delle differenze)
il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si
sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro
IV della Metafisica, dove quando
Aristotele parla dell’essente in quanto
essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia
accidente, e poi arriva persino a dire
che anche il non-essere è un essente.
Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio
che corri tu, Berti, è quello di
arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che
vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze,
appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha
detto il caro Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro
ricorderanno che Brianese accennava alla
vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo
prescindere dal il concetto di causa
(ben presente in Spinoza)? Adottando il
concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione «causa
sui» - egli mostra di intendere le cose
come effetto di un’azione che nel caso del
Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la
causa delle cose, è perché le si
considera appunto come enti che possono esser
nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di
conatus essendi. Anche qui: le cose non
hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è
interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice
tesi filosofica non è la fondazione di
essa. Perché allora - hai citato mi pare
qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità.
Straordinarie. Viene fuori la tesi che
tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la
fondazione a dare significato alla tesi.
Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza
ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo
intendere l’essere monachos, che anche
se oggi, come ha ricordato il professor
Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però
bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia
contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende
positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione,
non-verità ecc. Bisognerebbe inventario
quell’altro Parmenide che oggi viene
emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi
anche di Heidegger). Non si capisce come
mai questi pensatori - grandi pensatori
(chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a
Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione
storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché
l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è
fondato sulla discussione,
l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la
pretesa di fondare l’atteggiamento
razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma,
osserviamo, il rilevamento di questa
«incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a
Popper, anche questa argomentazione, che
conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una «fede irrazionale», è a sua volta fondata su
una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi
alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di
Venezia. Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori
che ne sono i battistrada. La vita è
inseparabile dal male. Sin dall’inizio
hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore.
In qualche modo se ne libera, rendendolo
sopportabile. La più antica delle
immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa
«contemplazione», «immagine», appunto.
Nella festa sono fuse insieme le forze
che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa, «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste
forze separate si prolunga, sebbene
affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche
nelle arti figurative, dunque.
Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera
d’arte non mostra altro che lo splendore
delle forme della scultura greca, delle
«Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e profano» di Tiziano. Se il male fosse
dimenticato non si vedrebbe nemmeno la
bellezza e la bontà che sembrano le
uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener
lontano da sé il male, il brutto, il
dolore. Dove la bella forma sembra
dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena,
il male, altrettanto intensamente
visibile proprio per la sua assenza. Non
«vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del
male dovrebbe raccogliere tutte le
immagini visive. Nel 2005, una mostra a
Torino ha operato - né poteva, dunque, fare
diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il male si
rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male
in agguato dietro la scena, che provoca
un’angoscia ancora più inquietante
perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello
spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità
addizionale rispetto a quella suscitata
dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato.
Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in
queste figure - avvolte da una compiuta
e ferma serietà, da una perentoria
assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male assoluto, la
passione e la morte del Figlio di Dio,
che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture,
fotografie, film. Il criterio della
raccolta non era il valore artistico, ma il
contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte
la questione di come è possibile, oggi,
parlare di «valore artistico», è possibile
indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione
della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un
atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato
anche contro le proprie intenzioni,
anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per
dipingere, per celebrare la potenza
dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque
della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di
sé stessa e del rapporto a essa da parte
dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la
celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre
incombente il male - di cui il contenuto
cristiano dell’arte vuol essere il rimedio
ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la
propria potenza ed efficacia salvifica.
E accade che le moltitudini, accostandosi
all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno
dal contenuto cristiano di quelle forme.
È il dominio della luce sull’ombra - o
della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e
si riduce a essere la potenza
dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la
dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto
rispecchia sul piano figurativo
quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato
dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto
dall’essenza del pensiero filosofico del
nostro tempo. Ma la salvezza dal male,
separata dal divino, non può più avere
la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di
là di ogni «valore artistico» - altre
forme della rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme
di tecnica - e nel Medioevo le stesse
arti figurative non venivano considerate
arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti
meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi
partecipavano. Vivo la qualità etica di chi
festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente
ammirevoli i festeggianti. D’altra parte
considero questo nostro incontro come
manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto
intorno al mio discorso filosofico,
emerge soprattutto l’interesse profondo
286 per la filosofia da parte
di coloro che di questa università
costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca
nel panorama culturale italiano, dato
che (mi pare di aver dichiarato da
qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare
alla filosofia straniera. L’Italia ha
oggi pensatori di altissimo livello. Anche
per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la
quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto
mai rilevanti e variegate. Come quelle ben
note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti,
Visentin, Perissinotto e di tutti quelli
che hanno parlato. Scusino se non li nomino
tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i
partecipanti a questo convegno, e allora
andava via tutto lo spazio per l’intervista,
oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che
è stato ricordato dal professor
Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è
direttore del dipartimento di
filosofia. Vorrei riprendere almeno uno
spunto tra quelli che mi sono stati
suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già
accennato. E vorrei rivolgermi
soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo
incominciato a dire - di una discrasia
tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico- 287
politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere.
Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e
dell’uomo, e cioè con una struttura
sociale nella quale esistono forze politiche,
economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente
sviluppandosi -, ecco che noi si viva
nel mondo è la grande fede alla quale
nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a
credere che ad esempio ci troviamo a Ca’
Dolfin e che stiamo parlando di
filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc.
Ecco, questa fede (come ogni fede) è un
attribuire un valore di verità (usiamo
così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui,
però, noi non sappiamo rinunciare; non
sappiamo saltare al di fuori della
nostra fede. Allora, una parte
degli interventi - che qui ho sentito con
estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico
- si riferisce al contenuto di questa
fede, al centro del quale sta la nostra
civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente
coerente. Coloro che vedono la storia
del mondo come un susseguirsi di frammenti
caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie
fasi dello sviluppo. Allora, una prima
parte degli interventi è consistita (penso
soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il
calcolo, presente nei miei scritti,
della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che
spingono dalla forma iniziale della
civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della
tecnica. Vorrei evitare che qualcuno
dei non addetti ai lavori non si fosse
raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità
dell’essente e, dall’altro lato (anche
ieri il professor Spanio accennava a
questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della
storia dell’Occidente. Per quanto
riguarda questo secondo tema, chiederei il
permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa
duramente alla prova, mi rendo conto di
chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi
quindi ancora un po’ più immodesto.
Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che
io abbia scritto dei libri fa parte di
quella fede nel mondo di cui parlavamo
prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Che, come è venuto in chiaro da parte
degli amici che hanno parlato, è la
coerentizzazione della Follia estrema.
Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne
favoriscono lo sviluppo massimo, fino a
che il virus mostra tutte le sue potenzialità.
Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo,
su Leopardi, su Gentile - tratta di
quelli che sono i grandi nemici della verità.
Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della
negazione della verità. La verità non è
qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza
dalla concretezza dell’errare. E se la storia
dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione
definitivamente vittoriosa della civiltà
della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato
di quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado
di eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il
Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che
si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il
passo a un’altra). E qui siamo al centro
della nostra riflessione, perché gli eterni
dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati
del mio discorso filosofico. Dicevo
all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere
al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo
è il mondo, quello in cui crediamo noi è
il mondo vero; e quelle che sentiamo dai
filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio
inscritto è la nostra fede nel mondo. E
a questo cerchio è stata dedicata una parte del
convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo
prima, è stata dedicata l’altra parte. E
abbiamo incominciato con quest’altra
parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate
articolazioni concettuali che abbiamo
sentito, queste mie considerazioni sono
molto generiche. Qualche osservazione,
quindi, va fatta a proposito delle
obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello:
mostrano delle difficoltà, presenti
nelle mie tesi, senza pretendere di essere,
esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo
«struttura originaria del destino della
verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo
scientifico si produce quando si vuole
assiomatizzare un certo tipo di
discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è
ricondotta all’aritmetica. È
un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che
partendo da un certo gruppo di
postulati, o di ipotesi - che vengono assunti
senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i
postulati dell’aritmetica -, non si può
escludere che lo sviluppo di tali
postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri
postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla «struttura originaria
del destino», allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata
Struttura originaria (che si rivolge
appunto a quella «struttura») intende appunto
escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili,
problematici ecc... È chiaro che
partendo da postulati assunti semplicemente in
base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è
possibile che si deducano conclusioni o
teoremi in sé stessi contraddittori.
Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile
che si pervenga a mostrarne la
contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella «gòdeliana», perché il
fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è
impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa
base in modo da sviluppare conseguenze
che ne siano la negazione. E allora
l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una
certa dimensione concettuale ha l’ardire
di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie
che scaturiscono da questa base è un
mostrare solo ipoteticamente (mi pare che
con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base.
Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo
a Vitiello, ma anche a prospettive come
quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no:
altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(«ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica,
l’obbiezione assume come indiscutibile -
incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui
essa dice. Alla base di ogni obbiettare
- ma ora interessa riferirsi alla struttura
originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono
differenti - quella differenza che è
appunto il contenuto primario della struttura
originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la
struttura originaria (e pertanto
l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io ringrazi
nuovamente tutti Loro, con ammirazione
per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e di Pagani ieri (ottima la sua relazione),
che hanno parlato dopo il mio primo
intervento. Era solo per ricordare come
sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione», rispetto all’affermazione
di Aristotele, che il semantema (il
significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola «essere». Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il
tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di
identico Tesser differenze. (Tra parentesi:
perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre
pensato parlando dell’on hei on di Aristotele:
che ci sia qualche cosa di identico
nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. «Apparire» è appunto la parola
italiana con la quale traduciamo
phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità
dell’esser differenze delle differenze)
il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si
sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro
IV della Metafisica, dove quando
Aristotele parla dell’essente in quanto
essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia
accidente, e poi arriva persino a dire
che anche il non-essere è un essente.
Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio
che corri tu, Berti, è quello di
arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che
vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze,
appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha
detto il caro Giorgio Brianese. Molto
intelligente. E anche con te spero che
si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il
discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal
il concetto di causa (ben presente in
Spinoza)? Adottando il concetto di causa
sui - neWEtica Spinoza esordisce
pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra di intendere le cose come effetto di
un’azione che nel caso del Dio è un’azione
del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno
bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che
possono esser nulla. Allora si
tratterebbe di controllare questa espressione
spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non hanno bisogno di essere un
conatus. Cioè, è interessante che
qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle
o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai
citato mi pare qualche poeta - a me
vengono in mente quelle bellissime
pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione
di una tesi non ne è la fondazione - ed
è la fondazione a dare significato alla
tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in
Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo
intendere l’essere monachos, che anche
se oggi, come ha ricordato il professor
Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però
bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia
contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende
positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione,
non-verità ecc. Bisognerebbe inventario
quell’altro Parmenide che oggi viene
emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi
anche di Heidegger). Non si capisce come
mai questi pensatori - grandi pensatori
(chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a
Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione
storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper
la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza,
ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una
procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa «incoerenza» è a sua
volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad
affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una «fede irrazionale», è a sua volta fondata su
una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi
alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di
Venezia. 297 Sezione terza Postille alla sezione prima 298
Al capitolo I 1. La bellezza e
il male Gli uomini chiamano «male»
tutto ciò che essi non vogliono -
innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i
battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo
Yimmagine della vita. L’immagine si
libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più
antica delle immagini è la festa.
Nell’antica lingua greca la festa è
chiamata theorìa, che significa «contemplazione», «immagine», appunto. Nella festa sono fuse
insieme le forze che poi, separandosi,
si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,
«tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico
rimedio festivo. Anche nelle arti
figurative, dunque. Ma l’immagine
festiva e salvifica non può dimenticarsi del
male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della
scultura greca, delle «Madonne col Bambino»
di Raffaello, dell’«Amor sacro e
profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che
sembrano le uniche protagoniste della
scultura e del dipinto. Non ne vedremmo
la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella
forma sembra dominare occupando l’intero
spazio dell’immagine pittorica, c’è
sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua
assenza. Non «vedere» questo Assente è
non vedere la bellezza del bene. Una
mostra della rappresentazione visiva del male
dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque,
fare diversamente - una selezione
relativamente al modo in cui il
299 male si rende visibile
nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute
eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più
inquietante perché è lasciato
dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità
dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale
rispetto a quella suscitata dalla parte
visibile dell’opera figurativa. Se non vado
errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna
«Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da
una perentoria assenza del sorriso - lo
sguardo mostra di aver dinanzi ciò che
per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e
tuttavia ben presenti a coloro a cui il
dipinto si rivolgeva. La mostra di
Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il
criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato
secondo la selezione di cui dicevo.
Lasciando da parte la questione di come
è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo
storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come
scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco
alla volta si fa innanzi un atteggiamento
nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta,
non dipinge più per celebrare Cristo, ma
celebra Cristo per dipingere, per
celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel
progressivo rovesciamento dove il mezzo,
cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del
rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo
processo, rimane pur sempre incombente il male
- di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo
dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto,
va perdendo la propria potenza ed
efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate
sempre più dalla potenza della forma
pittorica e sempre meno dal contenuto
cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il
dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato 301 dall’immagine. La forma è tolta via dal
contenuto dell’opera d’arte figurativa
(e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come
contenuto la dissoluzione della forma,
il difforme, giacché la forma che prima
apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione
filosofica e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino,
non può più avere la potenza del divino.
Diventa un rimedio caduco, sempre più
incapace di impedire che - al di là di ogni «valore artistico» - altre forme della
rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme
di tecnica - e nel Medioevo le stesse
arti figurative non venivano considerate
arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti
meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la
realtà angosciante originaria, al di
sopra della quale già si era sollevata
l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la tecnica guidata dalla
scienza moderna pensa già alla
costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La
tecnica stabilisce la nuova aura
festiva, più potente di ogni immagine festiva
perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che anticipa l’Apocalisse
cristiana, dove la terra nuova e il
nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il
vecchio cielo. Ma la logica
della scienza, che sta al fondamento della
tecnica, non è una logica della verità assoluta e incontrovertibile. È una logica ipotetica. La
scienza stessa è un sapere
ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla sofferenza e dalla morte,
per quanto stupefacenti possano essere i
suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla
possibilità che l’intera legislazione
scientifica si mostri incapace di dominare
le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura nella propria
completa estinzione. La tecnica non
salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è
ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a farsi udire dalla tecnica, a farle sentire
che nessuna potenza può salvare
necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del nulla rimane
sospesa su ogni avanzamento tecnologico
della liberazione dell’uomo dal dolore e
dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce sostituendo l’antica immagine festiva della
realtà e della vita, si presenta così a
sua volta esposta al dolore e alla morte,
tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a
produrre. È a questo punto che l’arte
può riproporsi come l’ultimo barlume
dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della realtà - al di sopra cioè di
quella nuova realtà che con la tecnica
sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È, questo,
il pensiero di Leopardi: quando - dopo
il tramonto della verità definitiva e
assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui appartiene quel che Nietzsche chiama
«morte di Dio») - appare che nemmeno la
tecnica ha la potenza di salvare con
necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta
l’impossibilità di ogni salvezza non
ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume
di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella forma di festa dove è la potenza del
canto, e non il suo contenuto, a salvare
ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il nulla e la poesia. Alla fine
dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). A volte, certi essenti che chiamiamo
«opere d’arte» stanno in una relazione
specifica con l’«infìnito». Se non nel senso
che essi «rappresentano senz’altro l’«infinito», nel senso che qualcuno crede che lo rappresentino. Ma,
anche qui, ciò che la tradizione
filosofica intende per «infinito» non può essere sempre presente, nel suo autentico e concreto
significato, a chi crede in quel modo,
ossia a chi ha quella fede. D’altra
parte, anche se in tale fede l’«infinito» può apparire in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a
volte essa è tuttavia la fede di stare
dinanzi a qualcosa di ultimo, non
oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo comune è disposto a parlare della «bellezza»
di ciò che gli sta dinanzi; e sono i
casi in cui l’uomo comune nomina come
può l’«infinito». Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di costoro è il regno dei cieli - dove, in
questo caso, il Regno dei Cieli è il
regno della bellezza che appare aH’interno della fede (ingenua, umile) che qualcosa sia il senso
ultimo delle cose, inoltrepassabile,
intoccabile. Schelling, come Hegel, non
parla di «fede», ma di una
«rappresentazione» che, sia pure «per riflesso», è verità che essa abbia come contenuto l’«infinito», cioè
Dio. Si tratta della «verità»
dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può parlare di «arte contemporanea»
prescindendo dalla tendenza fondamentale
del nostro tempo? Si può parlare di un
uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che
sta migrando? Oggi il grande stormo del
nostro tempo sta migrando verso
l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione.
Schelling è ancora un grande amico di
Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza. L’arte contemporanea sta invece
vivendo anch’essa ciò che Nietzsche
chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la
«materia» è senza «luce», il «reale» senza «ideale». Il contenuto della «bellezza» si trasforma
radicalmente. La bellezza, ora, è
innanzitutto, ma non unicamente, la capacità,
da parte dell’«opera d’arte», di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel
senso ultimo del mondo che è il trovarsi
privi di Dio e la disperazione che ne
consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile bellezza da uomini «umili», «poveri di
spirito», che però questa volta non
possono essere «beati» (o la cui beatitudine
può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui vedono la propria infelicità, debolezza,
nullità). Il «tragico», la
«frantumazione» dell’«ordine» e del «sacro»,
il «frammento» sono aspetti della «morte di Dio». Questa è la «vertigine del moderno». Ma pensatori come
Benjamin e molti altri del tempo
presente hanno molto da imparare da
Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa di essenziale da insegnargli o un’obiezione
decisiva da muovergli. Proprio per
questo il nostro tempo è «tragico». Se
la negazione nietzschiana di Dio fosse oscillante, la speranza nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre
in verità è spenta, anche se molti sono
ancora quelli che sperano. In quanto
tendenza fondamentale del nostro tempo, lo
stormo di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di cui prima si è parlato - o il penultimo, se
si tiene presente che anche la civiltà
della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S., Oltrepassare, cit., cap. X). Del tragico le élites si sono accorte da
tempo; le masse stanno accorgendosene.
Infatti, come oltre ai modi adeguati di
rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al
cadavere di Dio, cioè nel pensare che
Dio è morto. Nel tempo della morte di
Dio, la «bellezza» è la fede di qualcuno - ma è una fede in espansione - per il quale il «tragico» è,
appunto, il senso ultimo del mondo e che
crede che in certi essenti, detti «opere
d’arte», questo senso si manifesti.
Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano. Migrano verso un tempo dove la Tecnica
sostituisce Dio. I due si assomigliano
molto più di quanto di solito si creda. Ma
la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso
la morte di Dio - come lo stormo della
tradizione volava verso la vita di Dio.
Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà di dominare gli spazi. Ma poi resta la questione di ciò che qui ci
limitiamo a chiamare «Aria» - che è
libera da ogni volo e sta al di sopra
della vita e della morte di Dio.
Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i modi in cui, all’interno dei voli, si è
voluto andare oltre Dio e gli dèi e si è
pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla terra come al suo cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica
anche il Dio suicida. Li accomuna la
volontà di manomettere l’essere. Nella
nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione demiurgica
crede pur sempre nella loro esistenza.
L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede
ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire
dell’eternità di ogni essere. Appare
allora, in questo apparire, che l’azione -
anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la «bellezza», ma
anche Inesistenza» dell’opera d’arte -
ossia dell’opera che «fa essere le cose che
non sono» (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. Dice Leopardi che,
nelle «opere di genio», «l’anima riceve
vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» (
Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma
che, sia pure per poco, rende possibile
la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada
all’intera cultura del nostro
tempo. La prima «opera di genio» è
quella dei popoli più antichi: la festa,
che è l’immagine della vita e dunque della morte. L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli
uomini festivi si identificano in essa e
si sentono quindi salvi dalla morte. Più
tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la
festa si celebra soprattutto in quelle
sue deformanti e impallidite derivazioni
che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor
misura, del cinema. Si dice che nei
precedenti film di Terrence Malick emerga
l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità.
Ancora più crudele la natura, nei film
di questo regista, quando il massacro è
circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si
uccidono dinanzi a una natura che mostra
a sua volta il proprio volto terribile, gli
uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende
sopportabili. Ma questa interpretazione
va nella direzione sbagliata. Per lo
meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne
sono la radice. Ma, per quanto vissuta
nei suoi derivati, la festa non ha
cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura
non è l’indifferenza, 309 incapace di rendere sopportabile il
dolore, ma è la forza con cui l’immagine
festiva, facendo sentire la morte, dà vita
air«anima». Se non si guarda in
questa seconda direzione, l’ultimo film
di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto
diversa da quelli precedenti. La strada
biblica (nominata quasi all’inizio del
film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le
religioni. Infatti il timore è vinto,
cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella
che si ritiene la Potenza suprema - e il
«Divino» è appunto questa Potenza.
Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla
1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si
può dire che Inalbero della vita» sia
questa alleanza. L’«anima» riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo
pensa. Se l’«uomo» è l’essere che
crediamo di conoscere, la fede nella
possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente
nella coscienza umana. La cultura
europea ha messo in discussione Dio, ma
non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a
ritrovarla nella tecnica guidata dalla
scienza moderna. In Europa le masse
avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che
d’altra parte non si vede ancora
sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica
della tecnica. Continuando a seguire
questa linea interpretativa, che conduce
il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché,
prendendo le distanze dai contenuti
dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, 310
sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene indicato qui avanti, ai contenuti
tradizionali della religiosità
americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale
cioè da averlo messo in grado di
pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che - si potrebbe osservare tra parentesi
- metterebbe in luce qualcosa di più
importante, cioè la porta che Heidegger
ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che
invece si rifiuta di venir sospinto
lungo questa strada. Heidegger guarda infatti
al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. «Solo un
Dio ci può salvare», egli scrive - a
differenza di pensatori radicali come
Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si
verrebbe a trovare vicino se lo sfondo
del suo quadro poetico fosse
l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che
ama, anche morbosamente, la madre,
dolcissima, e patisce l’esteriorità
della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non vede la
ragione di esser buono quando Dio è
cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia
con un mondo dove la madre offre a Dio
il proprio figlio, i morti risorgono e
tutti si amano. Ma allora - vien
fatto di dire - che la fede sia una lotta
continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La
tradizione religiosa americana
preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove
però, il dramma, più che risolto è
tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a
quella tradizione si ridurrebbe a ben
poco, cioè alla coscienza che quel dramma
esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è
d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro
lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi
ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa
dell’immagine non farebbe allora che
mascherare il contenuto edificante, cioè
l’aspetto scontato del film. Però
l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell’immagine. La quale
non esprime l’indifferenza della natura
per l’uomo, ma ha il carattere festivo
di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto
«americano» del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti
dell’antica tragedia greca sono una
serie di miti che tutti gli spettatori
conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che
parlano della vita, dunque della morte.
Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma
come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori
sopra la morte: l’immagine che è sentita
più reale e più rassicurante dello
stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare
l’uomo evoluto della polis solamente
quando esso si trasfigura nell’immagine
festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando
anch’esso si esprime nell’immagine
festiva della Divina Commedia, nella
Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore
dimensione del cinema avviene qualcosa
di analogo. In questo diverso senso,
L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» ( aedes facere ): «costruisce la casa» dell’immagine
festiva e salvifica. L’imperatore Giuliano, «l’apostata», si adopera perché tra
il popolo vengano diffusi e difesi i
miti e i riti pagani. E tuttavia non è
altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non meno assurdi delle «finzioni mostruose» del
cristianesimo. Che senso ha, allora,
questa sua difesa del paganesimo? Scritto
nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004)
aiuta a rispondere. Giuliano è filosofo autentico e grande
imperatore. Spesso danneggiato dagli
estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia.
Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il cristianesimo è uno dei maggiori fattori
della crisi dell’impero romano, la
volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una
volontà politica; non l’espressione di
una fede religiosa. Per lui, sia il
cristianesimo sia il paganesimo sono «miti», cioè «storie false in forma credibile». Però il mito pagano può
ancora salvare l’impero. In ogni mito -
egli scrive - il «senso» è
«contraddittorio» (falso, «indegno»), mentre l’«espressione» o è capace di mascherare la contraddizione del
senso - e in questo caso il mito ha come
contenuto il divino, oppure, come nella
«poesia», l’espressione non si preoccupa di
nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora «bambino» nel fisico o nella mente, può credere in
esso. In entrambi i casi, la
contraddizione è mobilitata per conseguire «un fine utile» o per «divertire» (Pascal parlerà di
divertissement), per allontanare cioè lo
spettro della morte. Affinché l’impero viva,
al popolo bisogna nascondere la «verità»: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente
come «straordinario» questo passo di
Giuliano. 313 Kojève: uno dei maggiori interpreti di
Hegel. Anzi, per lui Hegel è «il»
Filosofo oltre il quale non si può andare. E di
Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare un «“hegeliano” ante litteram». Proprio così.
(Per esempio legge in Giuliano
l’anticipazione del celebre tema hegeliano
del riconoscimento del signore da parte del servo.) Ora, è notevole che lo «straordinario»
discorso di Giuliano, intorno alla
contraddittorietà del contenuto del mito, per
Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il «senso») del mito,
cristiano o pagano che sia, è
contraddittorio, proprio per questo esso è
inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale dell’interpretazione di
Hegel è stato ed è tuttora il rapporto
tra questo pensatore e il «principio di
non contraddizione». Sono molti a ritenere incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia
pervenuto alla negazione di questo
principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera, contraddittoria. Quale occasione migliore
dello «straordinario» discorso di
Giuliano avrebbe avuto allora Kojève per
allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel
la Verità) che il discorso di Giuliano
non sta in piedi, appunto perché
identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un grande
interprete di Hegel. I Romani hanno
conquistato il mondo con la serietà, la
disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una
razza superiore e nata per comandare;
con l’impiego meditato, calcolato della
più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o
di volta in volta; con una risolutezza
incrollabile nel sacrificare sempre
tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con
l’arte di alterare nel terrore l’anima
stessa dei loro avversari, o di
addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una manipolazione così abile
della menzogna più grossolana da
ingannare persino la posterità e da
continuare a ingannarci. Chi non
riconoscerebbe questi tratti?» Una
pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940.
Alla domanda finale la Weil risponde che
in quei tratti tutti possono riconoscere
la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è una creazione specifica del popolo tedesco -
come la propaganda nazionalsocialista
sosteneva -, ma qualcosa di più
profondo, cioè l’imitazione di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia
europea, nell’Impero romano,
appunto. In Simone Weil questo giudizio
sull’antica Roma - che si estende al
rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano - è anche più pesante di quanto non
appaia dal passo riportato, ma non è
arbitrario (si pensi ad esempio alla
condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è
arbitrario nella misura in cui non
spinge sino in fondo il proprio significato. Ma intanto va completato
l’intreccio proposto dalla Weil:
rendendo esplicita una conseguenza - forse non adeguatamente sottolineata dalfautrice - che
discende, da un lato, dal suo giudizio
su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo
stato attuale del capitalismo.
Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non
tanto dal capitale privato, ma dal
capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo
l’espressione di Marx, una «macchina burocratica e militare», che è presente sia nello Stato
nazionalsocialista, sia nello Stato
sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun
denominatore di queste tre forze è
infatti la tecnica - la disumanità della
tecnica che riduce a «funzione» della macchina statale l’individuo umano. La conseguenza è che
l’impero romano è il modello non solo
per la Germania di Hitler, ma per l’intera
direzione fondamentale della storia.
Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli
Stati nazionali moderni, Richelieu,
Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla stessa
strada. «Per ulteriore disgrazia», scrive la Weil, a Roma si afferma il cristianesimo, che eredita il
Vecchio Testamento, dove la disumanità
verso i nemici vinti e il culto della forza «si
accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma» soffocando ^ispirazione divina del
cristianesimo». Il giudizio su Roma di
Simone Weil, dicevamo, non rende esplicito
il proprio significato più profondo. Ma avrebbe
potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non mette tra parentesi la «virtù romana», ma
mostra perché si trovi unita, come egli
dice, alla «durezza» e all’«atteggiamento
compostamente risoluto» dello spirito romano. Si tratta dello spirito che assume lo Stato come scopo
supremo e ultimo. 316 Tutto il resto è subordinato, a
incominciare dalla stessa vita familiare
e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per davvero questa affermazione, si comprende
l’inevitabilità di tutti gli aspetti
negativi, denunciati da Simone Weil,
attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i
Romani sacrificano con «risolutezza»
tutto al «prestigio». Ma se si va più a
fondo, il «prestigio» è l’aspetto assunto dallo Stato presso le genti quando vale come scopo ultimo
dell’esistenza. Ciò non significa che
questo spirito - la volontà di porre lo
Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze opposte e potenti: significa che, nonostante
le traversie a cui Roma è andata
incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo
anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di imporsi perfino su quei barbari che stavano
prevalendo ma che a lungo, nella maggior
parte dei casi, non hanno pensato di
distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai
mortali -, ma hanno inteso diventarne
essi la forza portante, e i loro capi hanno inteso porsi alla guida dei processi che
continuavano ad assumerel’Impero come
scopo ultimo dell’esistenza. Come si
spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di Roma (giungendo a Giustiniano), se lo spirito
romano non avesse esercitato
un’attrazione così potente? Appunto
alla volontà di potenza, da ultimo, ci si deve
dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito abbia avuto una tale forza di attrazione -
pur non essendo certamente stato la
prima forma di volontà di potenza nella
storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la potenza sprigionata dall’aggregazione dei singoli e
che appare subito superiore alla somma
delle loro forze. Lo Stato
(l’aggregazione), deve apparire quindi qualcosa di «divino». Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo
assuma questa potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere subordinato. Sin dall’inizio la dimensione
religiosa e quella politica si fondono,
sia pure con intensità diversa e con
diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere. Se lo Stato si mostra ben presto come lo
strumento più efficace per avere
potenza, tuttavia, proprio perché la potenza
sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto uno strumento nelle mani dei singoli e
pertanto qualcosa che non può non
risentire negativamente della loro impotenza. È
cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a cui qualsiasi interesse e scopo particolare
deve essere sacrificato. Lo spirito delle monarchie assolute
dell’Oriente riesce a sopportare a lungo
la contraddizione per la quale il monarca è
un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non individuale. Poi la contraddizione esplode, e
la democrazia greca tenta di superarla.
Senza riuscirvi, perché in Grecia la
democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè della coscienza che non solo non può
identificare l’individuo a ciò che non è
individuale, ma che, anche a proposito del
non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia l’impossibilità che uno scopo finito, quale è
lo Stato, possa essere assunto come lo scopo
supremo, e in questo senso infinito. La
sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza
di esso è maggiore quando cresce lontana
dalla radicalità della sapienza filosofica.
Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli
strumenti di cui egli si serve per
sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi come scopo ultimo. (Poi sarà la fede
cristiana.) «I Romani» dice Hegel nelle
Lezioni sulla filosofia della storia
«sono solidamente orientati all’attività pratica», «ma 318
non riflettono teoricamente» su questo loro orientamento. Hegel non dice che appunto questa riflessione
indebolisce il proprio oggetto, cioè
Inattività pratica», come appunto accade
alla polis greca. E non la sapienza radicale della filosofia, ma la sapienza del «diritto»
rafforza la fede nello Stato, appunto
perché a Roma il diritto si sviluppa
esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo
dell’esistenza, e contribuisce alla
realizzazione di tale scopo. Per i
Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno
dei più bassi. In entrambi i casi si
tratta però di porsi in rapporto al dolore e
alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella
tragedia, che è grande filosofia, i
Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e indicando il senso che il rimedio può
avere. L’anfiteatro romano, invece, si
limita a produrre realmente il dolore, e la
riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza
altrui. Qui, la «risolutezza» romana
raggiunge, insieme, il proprio apice
imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la propria distruzione, che
l’originaria e sobria lontananza romana
dalla radicalità della sapienza filosofica
aveva saputo evitare. Gl’ebrei hanno qualità positive di coesione e di
solidarietà che mancano ai tedeschi.
Affetti da «eccessivo individualismo», i
Tedeschi sono Ariani degenerati. Si
trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo.
Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono espressi da un severo critico della Germania
del XX secolo, ma da Hitler in persona,
nel suo scritto Mein Kampf. Funestamente
celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più diffuso in Germania sino alla fine della
seconda guerra mondiale. Per Hitler i
Tedeschi di quel tempo erano un
«armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero
Ariano (un giudizio, questo, ripetuto da
Hitler poco prima di uccidersi), ma che
aveva anche il torto di essere «oggettivo», insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si
pone al di sopra dell’«oggettività»), e
dunque inferiore allo spirito «dialettico»
degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento», di sottovalutare gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli
Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf («La mia
battaglia») non sta sentendo nulla di
nuovo, ma è nuovo e interessante il modo
in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni
psicosociali di Hitler. Un’analisi del
Mein Kampf, (Patron 2004). All’enorme
quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di grande rilievo sono state
condotte sul nazismo questo saggio
aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein
Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle
«corrispondenze» tra le espressioni più
ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi riportati all’inizio non risultano
irresponsabili, ma appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei
Paesi più civili del mondo. Stando ai risultati di questo saggio di
Capozza e Volpato è già notevole che al
centro delle pagine di Hitler non stia
«come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica», considerata come il prototipo della
razza «aliena» che ha di mira,
alleandosi con i «bolscevichi», la distruzione
della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che
tuttavia hanno ai suoi occhi alcune
qualità positive che costituiscono per i
Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi
per colpa degli Ebrei; ma non li
deprime, perché presenta loro quel Partito
nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li e farli diventare quel che essi sono nella
loro essenza ariana. Il suo partito è
unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo capisce i problemi della classe operaia. Cioè «Hitler» scrivono le autrici «suscitava
antisemitismo non solo tramite la
spiegazione dei fallimenti» dei Tedeschi,
«ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una importante dimensione di confronto: coesione,
solidarietà, omogeneità»: «una
dimensione in cui non si vuole essere
inferiori». Tanto che le autrici possono concludere che Hitler, «capace di raffinate intuizioni sull’uomo
sociale, per diffondere il suo programma
ha operato sulle motivazioni e i
processi previsti dalle teorie psicosociali». A loro avviso il testo «è basato su tre
idee»: «darwinismo sociale» («lotta
eterna tra forti e deboli», «selezione naturale», «spazio vitale» ecc.), «principio
etnocentrico» (al centro dell’esistenza
c’è una certa razza, un certo popolo) e principio «della personalità» (l’individuo superiore
guida «la massa 321 stupida e incapace»). Qui vorrei rilevare
che quei tre principi appartengono (in
modo filosoficamente ingenuo) a una
grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia
dell’Occidente. Quelli della «morte di
Dio». Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No; la «morte di Dio» è la figlia legittima,
inevitabile, della «vita di Dio». E
invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in
questione la «creatività» e la «volontà
di potenza» dell’uomo ariano e non
ariano che sia. 322 Al capitolo III 8. Piazza della Loggia Trentanni fa c’era molta incomprensione per
quanto stava accadendo in Italia con gli
attentati terroristici. Pochi giorni
dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero inadeguate le interpretazioni fornite delle
massime autorità della politica e della
cultura. Il presidente della repubblica
Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto responsabile dell’eccidio, era «morto per
sempre il 25 aprile 1945» e che di esso
non sopravvivevano che «squallide
minoranze». Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti
polizia e magistratura. C’era anche,
però, chi sosteneva la necessità di
adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -,
ripristinando magari la pena di morte.
Il giorno dopo la strage di Piazza della
Loggia Alberto Moravia scriveva sul «Corriere della Sera» che gli esponenti del fascismo erano soltanto dei
«razionalizzatori per lo più inconsci e
quasi sempre imbecilli delle proprie
private tare». Nel suo insieme,
questo modo di prendere posizione
rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro dietro le «squallide minoranze» o gli
«imbecilli» che razionalizzavano «le
proprie tare private». C’era il problema
dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i consensi elettorali ottenuti stava andando
verso la conquista democratica del
governo - e, questo, all’interno di una
situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non
avrebbe mai consentito che al governo,
in Italia, ci andassero i comunisti.
Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America, Kissinger non solo minacciò il ritiro delle
truppe americane 323 dal nostro continente qualora gli alleati
europei non si fossero allineati agli
Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo
pesante ingerenza degli Usa nella nostra
penisola Kissinger (è importante
ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la sfera di influenza dell’Urss, il mondo
democratico avrebbe poi rimproverato gli
Stati Uniti di non aver «salvato» l’Itaha
dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la minaccia di ritirare le truppe americane
dall’Europa, che a sua volta, e a maggior
ragione, doveva essere «salvata» dal
comuniSmo. Negli anni Settanta
ho dedicato una considerevole attenzione
alle connessioni tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi
1979, Rizzoli 2002) ne è la
testimonianza. Ma solo un poco alla volta è
maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a prima vista sembravano solo
esplosioni di una ottusa brutalità,
erano invece espressioni di quella dura
vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la sopravvivenza e i privilegi in un mondo
sempre più pericoloso. Il terrorismo che
ha portato a episodi come quello di
Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per
uscire dalla quale basta qualche pia
intenzione delle anime belle. Un discorso
analogo vale anche oggi.
Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano degli anni Settanta è un nano. Che però ha
alle spalle una forza enormemente più
gigantesca di quella del Pei: il sistema
democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di fronte alla possibilità di una conquista
democratica del potere da parte del
comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei
risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che avrebbero consentito il ripristino
autoritario della legalità e, 324 con la messa al bando del Pei,
l’eliminazione del pericolo comunista.
Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non
ha reagito illegalmente alla
«provocazione fascista» non è stato per
amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato, ha capito che alla legalità e al carattere
democratico del proprio operato era
legata la propria sopravvivenza; e
dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque di non dovere prendere il potere in Italia. A
quel tempo, scrivevo che al governo il
Pei sarebbe andato quando non fosse più
stato un partito comunista. 325 9. Tasse e amnistia L’aumento della criminalità in Italia è,
come si suol dire, un «fatto». Dunque
non solo in città come Brescia - dove il tasso
di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento caritativo della Chiesa nei confronti degli
immigrati non è l’unico dei fattori da
tener presenti nella discussione di questo
problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante. Dico questo, per l’analogia, apparentemente
paradossale, che sussiste tra il
problema delle tasse degli Italiani e il
problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal
centro-sinistra del secondo governo
Prodi e, direi, soprattutto e fortemente
dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle decise sollecitazioni della Chiesa cattolica
in quella direzione. Ed ecco quanto
intendo rilevare. È molto probabile
che, come a suo tempo aveva rilevato
l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente governo di centro-destra in tema di
tassazione avesse favorito e
incrementato la propensione degli Italiani all’evasione fiscale. Quando l’«autorità» sembra andare
incontro alle nostre inclinazioni
individuali, quest’ultime tendono infatti a
rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata un’«autorità», e accade appunto che
comportamenti televisivamente tollerati,
o lasciati scorrere con indulgenza sul
piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a imitarli.
Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il problema fiscale e l’amnistia carceraria che
ha rimesso in strada anche persone il
cui primo pensiero è stato di riprendere
l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche
immigrati 326 extracomunitari. Difficile, allora,
evitare il seguente ragionamento. Come è molto probabile che il clima prodotto
dalla politica fiscale dei governi di
centro-destra abbia favorito
l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il clima determinato dall’amnistia carceraria
abbia prodotto un clima che ha portato
la gente a credere che l’«autorità»
guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto civile e penale, un clima che quindi ha in
qualche modo favorito ed esteso la
propensione per quella diversa forma di
delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine. Inevitabile che chi ha subito questa forma
di suggestione, determinata
dall’amnistia, siano stati soprattutto gli
immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio perché tali, entrano nel Paese da cui sono
accolti senza avvertire - come invece
possono farlo coloro che in quel Paese
son nati - la presenza e il carattere bene o male vincolante delle leggi in esso in
vigore. Nel caso dell’amnistia la
suggestione è stata ancora maggiore,
perché il provvedimento era stato proposto non
solo dalle forze politiche al governo, ma anche da quell’«autorità» della Chiesa, che nel mondo
può certo vantare un’autorità maggiore
delle forze politiche italiane.
L’amnistia ha creato un’immagine pubblica del legame tra legalità e carità, che ha allentato il timore
di trasgredire la legge. Pensando a questo e ad altri ordini di
problemi avevo detto alla svelta, in
un’intervista rilasciata al «Corriere», che mi
risultavano «incomprensibili» certi atteggiamenti caritativi della Chiesa bresciana. Si parlava dei
delitti commessi a Brescia. Ma il mio
discorso era rivolto primariamente alla
Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito, 327
rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le proprie ricchezze. Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai
popoli ricchi di dare tutte le loro
ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può
seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può
di seguire Gesù: con le forme
tradizionali della carità. Le quali, per un
verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono, alfinterno dei
rapporti civili presenti nei singoli
Stati e diventano opere assistenziali di
vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente
non è l’unica responsabile dell’aumento
della criminalità nel nostro Paese, ma
che, altrettanto certamente, responsabile è. Lo sport è importante. Perché - forse
soprattutto - non è innocente. Tanto più
importante quanto più simula le forme
della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello sfogo delle proprie frustrazioni, che
altrimenti indirizzato le procurerebbe
gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la squadra in cui ci si identifica vinca e che
la vittoria non sia ostacolata.
Altrimenti lo sfogo straripa, diventa
incontrollabile. Nelle società
povere Finsoddifazione finisce col
trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno motivi per essere insoddisfatte. Si
percepisce che il mondo dei valori
tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a ogni altra. Ed è ormai un luogo comune
rilevare che i mass media, diffondendola
e moltiplicandola, la trasformano nel
modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è violenza, che acquista mille volti,
l’imitazione del modello violento
diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto
ripagati di molte delle loro
frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è in televisione.
C’è sempre stato qualcosa di analogo. La
violenza è una forma di potenza (o
addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è pubblicamente riconosciuta. Non esiste un
sovrano o un dio la cui potenza non sia
stata o non sia pubblicamente
riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o
violenti e se quindi non ci si rende il
più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di massa del nostro tempo sono la forma più
potente di riconoscimento pubblico e
quindi di produzione della potenza e
della violenza. Alla messa in scena del progressivo disfacimento dei valori morali, civili,
religiosi, estetici delle società avanzate si unisce la messa in scena del
disfacimento di ogni regola di
convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che
10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo homini lupus), ma gli Stati hanno continuato
a essere lupi gli uni per gli altri.
Questo è l’esempio che gli Stati danno agli
individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la ragione e la civiltà contro l’istinto e
l’egoismo individuale! E anche di questa
belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione
di massa danno continua notizia alla gente, dando la maggiore visibilità e quindi il maggior
respiro alla violenza. In Italia è tempo
di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che
come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione fiscale, così gli indulti e le amnistie della
sinistra incrementano la violenza del
crimine. Ma la gran ventura, che
riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi della civiltà dell’Occidente) non è
necessariamente negativa, è 11 guado
che dai valori del passato conduce al futuro. Ravaioli: La crescita produttiva
continua a essere l’obbiettivo più
tenacemente auspicato e perseguito da
economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel
discorrere più feriale, che so, al bar,
in treno, al mercato; dato come una
indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei
chiederle che ne pensa: è d’altronde un
avvio perfettamente calzante col
discorso che ci proponiamo. Severino (S.) Questo continuo parlare della
crescita come di cosa ovvia è in buona
parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni
che si va intravedendo l’equazione tra crescita
economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita
indefinita. R. Professore, sta dicendo
che l’economia è una scienza consapevole
delle conseguenze negative della crescita?
S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi.
Anche nel mondo dell’intrapresa
capitalistica - la forma ormai
pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita
illimitata (anche se poi si fa ben poco
per controllarla). R. Non si direbbe
proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa,
quando Lei scrisse quel suo bel libro
che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte
degli intervistati affermava che quello
del rapporto tra produzione economica ed
ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti... e anche le
dichiarazioni dei politici sono diverse
da venti o trent’anni. R. In pratica però non fanno che invocare crescita,
senza nemmeno nominarne i rischi... S. Be’, in periodo di crisi economica, di
fronte al pericolo immediato di una
recessione, è naturale che si insista sulla
necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche,
ignorandone la dimensione strategica. R.
E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che inconfondibilmente denunciano la pericolosità
della crescita... Dal Golfo del Messico
a Fukushima... per citarne solo un paio
dei più gravi e che hanno avuto massima
risonanza. S. Certo. Ma, facendo
un passo avanti, vorrei precisare che
prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica
in quanto tale, ma alla gestione
economico-politica della tecnica... Non sono
disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica... Sono
disfatte, cioè, del capitalismo (fermo
restando che l’economia pianificata di
tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti
insistono a invocare crescita continuino
a ignorare che tutto quanto vediamo,
tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che
dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in
sostanza viene «rimossa». I grandi
industriali che si confrontano a Davos,
Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili,
computer... tutto quanto esce dalle loro
fabbriche... di che cosa credono che
siano «fatti»? S. Ma è un
atteggiamento normale dell’uomo quello di
preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo
quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso
sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla... Poi si
pensa al luogo dove approdare. Certo, ci
sono quelli che stando nella barca non
pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle... Si
verificano allora tutti i comportamenti
che lei giustamente rileva. R. Scusi,
non vorrei aver capito male... La sua è una
giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco o tanto, è responsabile dell’economia
mondiale? S. No. Dicevo che è,
purtroppo, costume umano non aver occhi
che per i problemi immediati, ignorando quelli
fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però una mancanza di consapevolezza che ha
incominciato a incrinarsi anche prima di
cataclismi come Fukushima. Sebbene
ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte politiche...
R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente
denunciato dagli anni Cinquanta, ma
nelle scelte politiche è stato
completamente ignorato. S. Ecco,
forse su quel «completamente» si può non essere
d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha
parlato agli Americani della necessità e
convenienza di una crescita economica
sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria... R. Però nessuno di quelli «che contano»
sembra rendersi conto che la crescita
produttiva attualmente perseguita - che
è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto col sistema capitalistico. Anche
celebri economisti (vedi Stiglitz,
Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno)
333 riconoscono la gravità
della situazione ambientale, ma non
accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo. S. Sono pienamente d’accordo con lei: è
proprio questa la situazione... Ma
occorre anche dire che oggi, in un mondo
conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno «produttivistica»
significherebbe mettersi dalla parte dei
perdenti, indebolirsi anche sul piano
militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina... Nella situazione attuale, rinunciare alla
crescita, cioè alla potenza economica,
significa essere sopraffatti... E sembra
difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a
differenza di quanto spesso si continua a
credere, la potenza nucleare appare
decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si tende a non
affrontare nemmeno là dove si è
consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato
per la soluzione di tale problema
dovranno accadere disastri giganteschi...
con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto questo che lei dice
corrisponde a una lettura intelligente e
del tutto esatta della realtà. Mi domando
però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse
irrecuperabile - da un agire economico
fondato su una crescita produttiva che
non prevede limiti. S. È da
guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale che dice alle grandi
potenze mondiali: «Dovreste mettervi in
discussione». Le grandi potenze non
cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede
lei una Cina che 334 rinuncia a una politica economica
vincente, e al proprio tète- à-tète
attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai
anche in Europa la vita va avanti
alimentata dalle centrali nucleari. E
continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che sta succedendo: solo un
disastro di proporzioni senza precedenti,
dicevo, potrebbe convincere
l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale...
R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia?
S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità,
ancora più perentoria: quella del
tramonto del capitalismo. Diciamolo in
quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal
suo scopo, cioè dall’incremento
indefinito del profitto privato. Quando il
capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più
l’incremento del profitto ma la
salvaguardia della terra, allora non sarà più
capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così, cioè volendo avere come scopo il
profitto, distrugge la terra, la propria
«base naturale», e quindi sé stesso,
oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge
egualmente sé stesso. In questo senso
appunto parlo da decenni di inevitabilità del
tramonto del capitalismo. R. Lei
è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane
- sembrano aver definitivamente
rinunciato all’idea di superare il capitalismo.
Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli
spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più
povere... Ma no, anche le sinistre sono
allineate sull’invocazione della crescita,
di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari: ciò che certo è comprensibile, anzi
necessario, ma che forse potrebbe non
limitarsi (come per lo più sostanzialmente
accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari tentare di spingere lo sguardo un po’ più
lontano: dopotutto la globalizzazione è
un fatto, che riguarda tutti e - anche se
non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina... S. Quando parlo di declino del capitalismo,
parlo infatti di qualcosa che presuppone
anche il declino del marxismo,
delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione
avvantaggiata rispetto al capitalismo...
Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma
anche i totalitarismi e le teocrazie, e
la democrazia, e anche le religioni e
ogni «visione del mondo» e «ideologia»... - si sono illusi e si illudono tutt’ora di servirsi
della tecnica. Ma che cosa vuol dire
questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte
quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure
l’incremento del profitto privato,
oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del
capitalismo per quanto riguarda il
rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che
il socialismo è quel reggimento politico
in cui gli individui sono in grado di
controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria ecc.. L’«individuo» -
come il «capitalista» - si illude di
poter controllare l’apparato
tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione... R. Una prospettiva che dovrebbe poter
contenere tutti i possibili. S. Invece
andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico,
essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo - ed essendo la condizione perché
la terra possa esser salvata dagli
effetti distruttivi della gestione economica
della produzione - è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e
tutelata nei confronti di tutte le forze
che vogliono servirsene. Sommamente
tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti
siano per chi li persegue. Ciò significa
che la tecnica è destinata a diventare,
da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, e ogni
«ideologia» e «visione del mondo», ogni
movimento e processo sociale diventano
qualcosa di subordinato, diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza
tecnica, che è insieme l’incremento
indefinito di tale potenza... Perciò
spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può
più servire della tecnica... La grande
politica è la crisi della politica che vuole
servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove, dunque, anche le sinistre - e il capitalismo,
e tutte quelle forze in campo che ho
menzionato - saranno costrette a rinunciare
ai propri scopi e diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si serve. Non si tratta di un processo di
«deumanizzazione», o «alienazione», come
invece spesso si ripete, dove l’uomo
diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura - anche in quella che alimenta ogni
più convinto umanesimo - l’uomo è sempre
stato inteso come essere tecnico. Le sto
descrivendo il futuro: non prossimo, ma
neanche remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà destinata a rendere conto della sua primazia,
ma non dovrà renderlo alle forze che
ancora si servono di essa ma che sono
forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da decenni di
inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Professore, mi permetta
un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da
mezzo, sempre più sembra imporsi come scopo...
E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa funzione stia dando prove quanto meno
discutibili... S. No, perché come
dicevo prima, ciò che dà cattiva prova
di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state
organizzate le centrali nucleari: e lì
non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione
capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di centrali. (Debbo
però aggiungere - ma anche qui chiudiamo
subito il discorso - che la tecnica
destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o scientisticamente intesa, ma quella che
riesce a sentire la forza della voce essenziale
della filosofia del nostro tempo, la quale
dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire dell’uomo.)
R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le più avanzate e intelligenti, le più utili persino, finiscono
per essere nei confronti dell’equilibrio
ecologico «naturale» delle continue
aggressioni, o quanto meno delle minacce... S. Di nuovo rispondo di no, e che è la
volontà di profitto a rischiare oltre il
livello di rischio denunciato nelle previsioni
tecno-scientifiche. R. Ma non è
la volontà di profitto a generare, o almeno a
favorire, la creazione di tecniche?
S. Sì, le ha favorite (e in qualche caso generate), ma allo scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo
che questo scopo è destinato al
tramonto. R. Resta però il fatto che
molti istituti scientifici, anche di
largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi potentati economici... E questo in qualche
misura significa 338 condizionarli... S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma
la tendenza globale è un’altra.
Condizionarli significa indebolirli. È quindi
inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo,
perché, alla fine, condizionare (e
quindi subordinare e pertanto indebolire) la
tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi... R. Si diceva che le sinistre - a parte
l’impegno per la difesa del lavoro - non
dicono, né propongono cose gran che
diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio di quello che hanno le sinistre
oggi... Dopotutto non a caso l’inno dei
lavoratori era l’ Internazionale...
Tentare di guardare un po’ più lontano...
Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta
alternativa? S. Questo allargamento va
imponendosi da solo. Infatti non si può
separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti
politiche oggi si sente dire a proposito
dei problemi più importanti: «Non è
questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica». È un piccolo indizio del processo dove le
soluzioni tecniche prevalgono su quelle
politiche e «ideologiche». R. Mi riesce
difficile seguirla... la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal
capitalismo... S. Questo è lo stato
attuale che il mondo capitalistico
vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che
i servi si liberassero dei padroni. La
liberazione decisiva, rispetto alla
quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale.
R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica. S. Sì. O meglio: è la logica del
discorso a vederla. R. Una tecnica che
- insisto - porta alla devastazione della
terra... S. Se la tecnica
continua a essere gestita dal capitalismo, sì.
Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi che devastando la terra devasta sé stesso (e
cambiando rotta, cioè scopo, si
distruggerà egualmente). R. È insomma
l’intero sistema produttivo che di fatto agisce
contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte
delle sinistre? Dopotutto erano nate per
combattere il capitale, no? S. Ma il
discorso che vado facendo da molto tempo indica
qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà
politica. Riguarda un movimento che procede
per conto proprio, guidando e animando
la volontà così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli
capitalisti. Marx diceva appunto che i
singoli capitalisti sono le prime vittime del
capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale. R. Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza,
in qualche modo, come dire... operante e
avvertibile? Oppure si tratta per ora
soltanto di un’ipotesi filosofica? S. È
una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non «soltanto»
ipotetico) di fare filosofia. Per
essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile. R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un
suo recente articolo, apparso sul
«Corriere della Sera», al modo in cui il
Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio dal Sud del mondo, non ancora interamente
assimilato alle logiche e ai «valori»
del capitalismo, possa muovere una critica, e magari una messa in crisi della
cultura dominante? È qualcosa su cui più
volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio
quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di Cochabamba, un gruppo di «campesinos» lanciò
uno slogan che diceva: «Non si tratta di
cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema»;
aprendo un orizzonte enormemente più
ampio di tutte le altre «parole d’ordine» correnti, che insistevano soprattutto sui mutamenti
climatici, e di fatto denunciando un
rapporto Nord-Sud che per mille aspetti
ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le impone. È solo un episodio, ma non crede che
proprio da questi mondi potrebbero
partire spinte decisive alla messa in
crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’, il fatto che questi popoli vadano
riproducendo il modello occidentale
dimostra che l’Occidente ha raggiunto la
prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo
l’itinerario compiuto dall’Occidente...
L’autentico «cambiamento di sistema» è
quella destinazione. R. Professore,
certo è incapacità mia di seguirla fino in
fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle
questioni ambientali, su questo
crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi della natura... Spesso citando quello
straordinario libro, firmato dal grande
biologo americano Stephen J. Gould, che
si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica dell’intera vicenda umana, tutta centrata su
una impossibile sfida alla natura. Nella
quale peraltro sempre è evidente il
senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse... tutti sempre vengono puniti... La tecnica,
nella mitologia, è colpa... E lo è la
scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad
Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato il frutto dell’albero del sapere. S.
Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente
interessanti. Quando parlo in termini
«positivi» della tecnica, ne parlo nel
senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non
intendo affatto fare l’apologià della
tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi
e coerenti... Pensi al discorso di
Freud, che la religione è quella follia -
grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia dell’individuo... Nella
tecnica l’errore è destinato a diventare
massimamente rigoroso. L’errore nasce
con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti
né le altre forme della sapienza umana.
È vano combattere e incolpare Prometeo,
«che ha dato tutte le tecniche ai mortali», con
strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il capitalismo, il marxismo, il cristianesimo,
l’islam, il totalitarismo, la democrazia
ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma
con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però
sembra la forza più potente. R. Una volta ancora non posso non apprezzare
il suo pensiero... Non riesco però a non
domandarmi se non ci sia nulla da fare,
o per accelerare questo processo portandolo a
una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone
che si preoccupano per il futuro di un
mondo per mille versi sempre più
problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro
che cosa si sentirebbe di
consigliare? S. La ringrazio. Per ora
siamo gettati nell’errore; ma proprio
per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il processo che porta l’errore a
maturazione. Ecco perché parlavo prima
della «grande politica». Per praticarla è
necessario incominciare a guardare in faccia il senso essenziale della storia dell’Occidente, il
senso cioè della volontà di potenza: il
senso del fare. Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul
«manifesto» nel luglio 2011. Al capitolo V
12. Non veritas, sed auctoritas facit legem- Per considerare il rapporto tra «processo» e
«tecnica» si può certo rimanere
alFinterno della specializzazione
giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione Patteggiamento che non riflette sul senso
della specializzazione? Si vive in una
nave - la si vive come nave - quando non
si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E
d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa? (Si profila così
un’antinomia, che può essere il sintomo
del carattere contraddittorio della
specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il «processo» in
relazione, innanzitutto, ai limiti entro
i quali le competenze tecnico-scientifiche
devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il compimento delle procedure giudiziarie. In
questo caso, le competenze tecniche
(mediche, psicologico-psichiatriche,
chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione
e il compimento del «processo. A sua volta, il «processo» stesso, come
fatto giuridico, è scomponibile in un
momento tecnico-strumentale e in un
momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento tecnico-strumentale è, ad esempio, la
formazione dei magistrati, e in genere,
dell’organico, e il modo in cui sono
formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo scopo è la verifica dell’applicazione della
legge in rapporto ai casi intorno a cui
verte il processo. Ma, daccapo, lo
scopo di una società non è quello di
verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge «viga». Affinché viga è necessario verificare
se ciò avvenga. E questo significa che la verifica giuridica si dispone a sua
volta come strumento, come mezzo per la
realizzazione di quello scopo che è il
«regno della legge» nella società.
Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente indicato, dove lo scopo si dispone come
strumento di uno scopo superiore, ha un
prolungamento decisivo, che riguarda il
concetto stesso di «legge», sottoposto a una profonda trasformazione, dove l’atteggiamento
giusnaturalistico, proprio della
tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico che è proprio
del diritto positivo. E, anche qui, si
tratterà di comprendere l’ultima sezione di
questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua volta destinato a diventare, da scopo della
verifica giudiziaria, mezzo, cioè
strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta procedendo. A partire dal pensiero greco, e lungo la
tradizione occidentale, in cui il
giusnaturalismo si inscrive, non
auctoritas, sed veritasfacit legem. La «verità» è il fondamento, il principio ispiratore della legge. Lo ius è
dato dalla natura delle cose; e la
verità è il luogo in cui tale natura mostra il
proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del mito, un senso inaudito della
Verità: la Verità come sapere
incontrovertibile che mostra, manifesta (e
pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è
chiamato epistéme ( epi-stéme ). La Verità
mostra l’ordine immutabile al quale lo
Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla Verità che il
sapere filosofico ha portato alla luce e
alla quale si commisura la stessa rivelazione
cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua
adeguazione alla verità, in quanto
principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura forza, ossia da un
auctoritas che sia pura forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità. Ma dopo questa grande epoca della civiltà
occidentale, dove verità e legge formano
una unità indissolubile, si fa innanzi
con sempre maggior forza il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas,
sed auctoritas facit legem. È il
principio del diritto positivo, che acquista il
proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui viene formulato nella
filosofìa di Hobbes - in una filosofia
cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha
conferito alla «verità». La transizione
dal giusnaturalismo al prevalere del diritto
positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso processo
storico-critico, in cui la tradizione
dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e
fondamentalmente dal pensiero filosofico
degli ultimi due secoli. Poiché il diritto
positivo non si fonda su alcuna «Verità» assoluta, ed è positivo perché «pone» ciò che la volontà
sociale dominante (del sovrano,
dell’eletto rato, di una oligarchia economico-
politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si sviluppa alfinterno di
questa forma di legge è compatibile con
qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di
natura democratica o no. D’altra
parte, la transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie
forme di totalitarismo alla democrazia
del nostro tempo, che definisce sé
stessa come semplice «procedura», che di per sé non propone o impone alcuna «Verità» assoluta ai
cittadini ed è pertanto compatibile con
qualsiasi contenuto sollevato al rango
di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa radicalmente fondata - e inevitabile,
all’interno della storia dell’Occidente
- l’affermazione che non veritas, sed auctoritas facit legem.
Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo giuridico e alla democrazia sono aspetti
particolari - e molti altri potrebbero
essere menzionati - conduce al di là delle
forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno che Nietzsche ha chiamato «morte di Dio» - sì
che il passaggio dal giusnaturalismo al
positivismo giuridico è la morte di Dio
in ambito giuridico -, è la morte della forma
assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è grandioso, non solo per le sue
proporzioni, cioè per il suo aver
investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire tradizionali, ma anche perché si presenta
secondo una inevitabilità (cfr. sezione
prima, cap. V), per la quale tale
fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni da parte della società e dei suoi membri.
Solo cogliendo il senso di questa
inevitabilità si può comprendere che oggi
l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi verso la grande tradizione dell’Occidente - e
dunque verso il modo in cui all’interno
di essa viene realizzato e praticato il
diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è l’inevitabilità del tragico; ma non le si
possono voltare le spalle per il
semplice fatto che non va incontro a certe nostre aspirazioni.
L’espressione «dietrologia» è screditata. Ma può essere un sinonimo del concetto scientifico d’ipotesi:
l’ipotesi esplora ciò che «sta al di sotto» di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del
senso screditato della dietrologia,
l’ipotesi scientifica ha cioè un
carattere essenzialmente «dietrologico». Nemmeno quel tipo di disciplina scientifica che è il diritto
può evitare di formulare ipotesi, ossia
di andare al di là di ciò che
comunemente appare e che viene chiamato «il fatto». Gli estimatori del «fatto» - anche tra i non
giuristi - collocano spesso l’attività
giuridica in un ambito improprio; cioè
la considerano come la dimensione all’interno della quale «il fatto» riceverebbe uno dei più validi e
autentici riconoscimenti della sua
importanza e del suo carattere decisivo.
Tuttavia è nota la tesi di Popper, per la quale la struttura del processo giudiziario è il
modello dell’attività scientifica.
Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di Nietzsche, che non esistono «fatti», ma
solo «interpretazioni». Ma tale
corollario significa che alla base della
scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale circostanza rispecchia la struttura del
processo giudiziario, sì che
quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i «fatti» sono posti al di sopra di tutto, come
fondamenti indiscutibili - è inteso
invece come il luogo che si fonda su
«interpretazioni» rivedibili e falsificabili. Gli estimatori dei «fatti», che vedono
nell’attività giuridica la più autentica
valorizzazione dell ’infallibilità dei «fatti», non si rendono conto che la scienza riconosce
ormai senza complessi la propria
fallibilità e che quando intende chiarirne
il senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che sussiste tra procedura scientifica e
procedura giudiziaria. L’analogia può essere così espressa: il sistema delle
leggi scientifiche viene commisurato a
un insieme di elementi che non sono
«fatti», ma «interpretazioni» di fatti; cioè risultati di decisioni che un gruppo qualificato di
individui stabilisce di assumere come
base (o come fatti) del sapere scientifico, in
modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo giuridico il sistema delle leggi viene
applicato non a «fatti»
incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un gruppo qualificato di assumere un insieme di
eventi come qualcosa di effettivamente
accaduto. Il «veramente» accaduto è
inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere qualcosa come il veramente accaduto. Anche
per questo motivo la storia di un popolo
non può essere ricostruita in sede
giudiziaria, appurando i «fatti».
Comunque, anche questa crisi della verità del «fatto» appartiene al processo, a cui prima ci si è
rivolti, che conduce al tramonto
inevitabile della tradizione e della tradizione
giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il «giudice» è colui che «mostra con autorità»
la Verità - «giudice» essendo parola
composta da ius e dalla forma
congetturale dix, riconducibile alla radice indoeuropea deic, che indica appunto il «mostrare»; sì che
l’autorità del giudice gli deriva dal
suo rapporto con la verità. È
aH’interno della transizione inevitabile di cui stiamo parlando - cioè dalla vita alla morte della
Verità e di Dio - che assume un
significato particolarmente rilevante anche il
tema della «corruzione» della società italiana e del conseguente conflitto tra magistratura e
potere politico. In base a una logica
diversa da quella che intende «appurare i
fatti», cioè in base alla logica dell’interpretazione, è possibile affermare che nella seconda metà del xx
secolo è stata combattuta una lotta
mortale tra capitalismo e socialismo
reale, una lotta senza esclusione di colpi. Una situazione, questa, che,
ovviamente, ha costretto ognuno dei due
antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle proprie forme di offesa e di difesa. Anche le
società democratiche, dunque, sono state
costrette, per evitare il suicidio, ad
adottare questa strategia. Le democrazie
parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non democratico, giacché «democrazia» e
«trasparenza» (e dunque quella
trasparenza che avrebbe messo la democrazia
nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza democratica è il carattere pubblico delle
decisioni essenziali di una società; e
la democrazia, per sopravvivere, non poteva
rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non trasparenza, di
occultamento e di privatizzazione delle
decisioni essenziali delle società
democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la corruzione. L’illegalità di alto profilo
politico, cioè la necessità che per
sopravvivere la democrazia agisse in modo
non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati,
che ha accompagnato gli anni della
guerra fredda (che si è prolungata sino
ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura)
soprattutto in Paesi come l’Italia, più
esposti al pericolo comunista sia per la loro
posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che in tali Paesi erano guidati
dall’Unione Sovietica. La fine di quel
gigantesco fenomeno che è stato il
socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al tramonto della tradizione occidentale - non
ha lasciato il vuoto: sul terreno ha
lasciato un gigantesco cadavere, con il
quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben prima
cioè che esplodessero i disordini nelle
ex repubbliche dell’Urss. (Infinitamente più complessi di quelli, pur
consistenti, che si devono fare quando
un capofamiglia autoritario se ne va
all’altro mondo.) Durante e dopo
la «guerra fredda» c’è stato qualcuno che,
pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio
personale da azioni illegali, ha
combattuto il comuniSmo. È stata cioè di
alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per combattere il
comuniSmo e per la quale la democrazia
si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto
di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più sicuro, dal punto di vista anticomunista, il
sistema mafioso che non i partiti della
sinistra italiana.) Anche la «corruzione»
italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una
conseguenza della morte inevitabile
della verità, del diritto naturale, di Dio. Da
un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente in contraddizione con sé
stesso; dall’altro lato, ha sopportato
l’immoralità privata come tributo da
pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi questi due lati si costituiscono perché, a
differenza degli Stati totalitari, o
«etici», del fascismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale (che sono una versione
secolarizzata e distorta del divino), la
democrazia non crede più nell’esistenza
di una «Verità» che regoli la vita sociale e
individuale e che non possa essere in alcun modo violata. Come il giusnaturalismo sta al positivismo
giuridico, così lo Stato totalitario,
persuaso di possedere la Verità e di dover
adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la Verità alle spalle e si propone come
procedura di per sé indifferente alla
verità o falsità dei contenuti. Lo
stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà
luogo a un dilemma.Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia,
o, meglio, il capitalismo, in quanto
unito alla democrazia parlamentare. Esso
ha vinto il nemico mortale. È una forza
che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un
controllo che non può tener conto, in
quanto giuridico, della situazione storica
eccezionale in cui il capitalismo democratico è venuto a trovarsi. È presumibile che, se questo
controllo fosse condotto fino in fondo,
il capitalismo italiano (e non solo) vedrebbe
minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, il fascismo è
caduto, Togliatti ha evitato che la
burocrazia fascista - che in quanto funzionale
allo Stato fascista aveva agito in condizioni di illegalità - fosse incriminata e giuridicamente perseguita. E si
trattava di incriminare chi aveva perso;
non, come invece è il caso della
democrazia capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e ritiene un’ingiustizia essere punito per
un’illegalità funzionale alla vittoria.
Come incriminare certi nodi cruciali dell’assetto capitalistico vincente, operando con criteri
giuridici che si fondano sul principio
fiat iustitia et pereat mundusì Ma,
dall’altro lato, non può essere dimenticata la situazione drammatica del giudice consapevole della
propria funzione, perché a sua volta
egli è e si sente obbligato a procedere
contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che sino a che in Italia non si farà luce su questo
dilemma e non si prenderanno le
decisioni richieste per operare una chiara
distinzione tra illegalità di alto profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che
lo scontro attuale tra politica e
magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di
statico, ma è in evoluzione, come ora
proverò a precisare, ossia si trova
anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto quanto si
muove lungo di esso. S. inizia queste riflessioni mostrando una sequenza dove ciò che dapprima si pone come scopo,
diventa in seguito mezzo e strumento. Si
era detto che nella tradizione
occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla preistoria dell’Occidente) il regno della
legge, fondato sulla Verità, è lo scopo
della vita sociale e individuale. Ma la Verità
tramonta. Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che sono entrambi «positivi». Ogni sapere e ogni
azione ormai sono «positivi» - o è in
quanto «positivi» che essi guidano la
storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di adeguare alla
verità. Ogni grande forza oggi ancora
in vita (sia essa una forza della
tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha questo tratto comune: di servirsi
della tecnica. Ognuna intende servirsi
della tecnica, che è lo strumento più
potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della
tecnica. Ma la tecnica guidata dalla
scienza moderna è destinata a diventare,
essa, lo scopo di tutte queste forze.
Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la conflittualità che contrappone le une alle
altre: dopo il socialismo reale, il
capitalismo, la democrazia, il
cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia
scientistico-tecnicistica (che non è più
capace delle altre forze di cogliere l’essenza
autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di cui spesso ci si dimentica, e
cioè che lo scopo di un’azione determina
e stabilisce il senso e la configurazione di
essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso
da quello che inizialmente la definiva e
stabiliva. Un diritto, o una democrazia, che si pongono come scopo della
tecnica sono qualcosa di essenzialmente
diverso da un diritto, o da una
democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si costituiscono come mezzi per la realizzazione
di tale scopo. Una situazione
conflittuale, come quella che sussiste tra le
forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello
strumento - la tecnica - di cui si serve
per imporre i propri scopi su quelli
antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale strumento. Altrimenti
soccombe. Ma quando ha di mira i due
tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla
strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello
strumento che dovrebbe realizzarli.
Anche senza avvedersene, tende a uno
scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di
essere. Andiamo verso un tempo in cui
non saranno più la democrazia e il
diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a servirsi, se ciò
varrà ad accrescere la sua potenza,
della democrazia e del dir itto. I due
avversari che oggi si combattono - dimensione
politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato, sono
pertanto destinati a riconfigurare il
loro conflitto in relazione alla
circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma
tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il
potenziamento crescente della tecnica -
di una tecnica che non è la tecnica che intesa in senso tecnicistico, scientistico,
riduttivistico, merita di essere
soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a dare sempre più ascolto alla voce essenziale
del pensiero che porta al tramonto la
tradizione dell’Occidente. Mostrando la
morte di Dio e della «verità» tale pensiero mostra l’assenza di ogni
limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma suprema dell’agire in cui consiste l’apparato
scientifico- tecnologico: la forma di
volontà di potenza a cui va già
sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza apparsa lungo la storia della terra. (Dopo di che sarà la volontà di potenza a dover
dar conto di sé - giacché le
considerazioni che ho sviluppato non
intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima parola.)
356 15. Tecnica e pluralità
delle tecniche 1 La gente si accorge
che le leggi difendono spesso gli
interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono sembrare «giuste». Però la gente
crede ancora che ne sono fatte e se ne
potrebbero fare di buone. Nelle scienze
giuridiche tradizionali, «buone» e «giuste» sono innanzitutto quelle che rispecchiano la «natura»
dell’uomo: leggi, appunto, del «diritto
naturale», per il quale la «natura» dell’uomo
rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla
luce dal pensiero filosofico sin
dall’inizio della nostra civiltà e poi
interpretato dal cristianesimo.
Da uno-due secoli questa concezione giuridica è profondamente in crisi (sebbene non sia
ancora morta). Si pensa cioè che non
esista alcun diritto «naturale» e che ogni
legge esprima un «diritto positivo», «posto», «imposto» dalla libera volontà dell’uomo. Anche alla radice
di questa crisi si trova la filosofia,
quella che mostra l’inevitabilità della «morte
di Dio» e la conseguente morte di ogni «natura» che, in qualsiasi campo, intenda rispecchiare
l’Ordinamento vero e divino della
realtà. Anche il diritto (come la democrazia)
diventa pertanto semplice «procedura» in cui può essere immesso qualsiasi contenuto - quello delle
democrazie parlamentari, del capitalismo,
del nazionalsocialismo, del socialismo
reale, del cristianesimo, della grande e piccola criminalità. (La procedura correttamente
praticata può anche sopprimere sé
stessa.) Che una forza si imponga sulle altre
non dipende dalla sua «verità», ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di
grande e rara apertura filosofica,
discuto da tempo questi problemi. Un
nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha
pubblicato in seguito il 357 volume Nichilismo giuridico (Laterza 2004),
sul quale tra i temi centrali figura una
consistente ripresa della discussione
avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste pagine mostra nei
miei riguardi - anche se mi sembrava di
aver già risposto a quanto egli mi
obbietta. D’accordo con me,
sostiene che il diritto, ridotto a
procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui «l’essenza tecnica del diritto» abbia già, di
fatto, del tutto eliminato ogni «diritto
naturale» e ogni Ordinamento vero e
divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato sopravvive. Anche se è una foglia secca
attaccata al ramo il punto è che può
persino credere di stare alla guida del mondo
- si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane del 2004. Per
questo, da parte mia, si parla di una
«tendenza» che, certo inevitabilmente,
conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà della tecnica -, ma che
ancora deve fare i conti con la
sopravvivenza di fatto del passato. Per
Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica «almeno» il capitalismo e le «discipline
fisiche e naturali». Non allunga
l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio,
delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati
del comportamento umano non si può
ancora dire che siano già tecnica.
Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in quanto
si serve, della tecnica, ne differisce.
Non sono già tecnica: stanno
diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come mezzo, sono infatti sempre
più costrette ad assumere come scopo non
più i valori che esse perseguono, ma
l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il
loro scopo. Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che «la tecnica si scompone nella pluralità delle
tecniche», in modo che la tecnica a cui
io penserei si svuoterebbe di ogni
contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico che la tecnica non mira «a uno scopo
specifico e escludente», ma all’incremento
indefinito della potenza, intendo che la
tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa) tende a far sì che gli scopi da essa
realizzati non impediscano la
realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza disponibile. Ad esempio tende a far sì che la
produzione di farmaci che arricchiscono
certe industrie non impedisca la
produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o
che le istanze ecologiche siano soddisfatte
evitando la catastrofe economica; o che
le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a vicenda. Irti vede solo lo
scontro (il cui esito sarebbe
imprevedibile) tra le forze che ormai sono già
tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come
«astratta» capacità di produzione. Io
gli rispondo che non ho mai pensato a una
tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica
moderna, cioè tra le forze del passato -
fra cui il «diritto naturale» - che ancora
tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile
tendenza di questi apparati a farsi
strada e a diventare essi gli scopi di quelle
forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la
più potente perché avverte sempre più la
voce della filosofia. Tale voce dice che
davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna «natura» da rispettare. Con ciò non si intende negare la presenza di
qualsiasi forma di limite. Infatti, la
tecnica si dà limiti che, pur non essendo espressione del diritto naturale,
sono espressione del diritto positivo. E
se in un primo tempo anche il diritto
positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica, nell’età della dominazione del senso
autentico della tecnica nemmeno il
diritto positivo può essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone
pertanto la potenza. Anche il diritto
positivo è cioè destinato a diventare un mezzo
che rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il diritto positivo,
peraltro, sa di non essere una «verità»
necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor
meno della «Verità» della tradizione può avere la pretesa di porsi come scopo del potenziamento
dell’apparato scientifico- tecnologico. In
latino «uccidere» si dice anche mactare. Noi diciamo «mattanza». In spagnolo «uccidere» si dice
appunto matar. Ma la parola latina
mactus significa «ingrandito»,
«rafforzato», «innalzato», «glorificato». Ha la stessa radice di magnus («grande»): la radice indoeuropea
magh, che è presente anche nel greco
mechané («strumento»). Una sorta di
etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come magis auctus, cioè «reso ancora più grande e
più ricco». Su mactus si forma il verbo
mactare, che significa appunto
«ingrandire», «aumentare», «glorificare», «innalzare», e anche «onorare», «placare»; ed è parola specifica
del linguaggio dei riti, soprattutto di
quello del sacrificio. Mactare sposta allora
la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, «rafforzare» il dio con le viscere delle
vittime del sacrifìcio), allo strumento
del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a
mactare deum, compare mactare victimam.
In qualche modo il linguaggio nasconde
la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel proprio opposto. Ma dai recessi dove il
linguaggio costruisce le apparenze da
cui sono guidati i mortali si deve risalire ben
più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore i mortali. Essi sono appunto coloro che
«vedono» le trasformazioni, cioè la
morte delle forme. Fame e sazietà,
freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e svanire nelle costellazioni celesti, allegria
e angoscia, vita e morte; e le
metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta, roccia. Non appena il mortale si afferra a
qualcosa, fuori o dentro di sé, le cose
gli diventano altro da quello che sono.
L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia
evocando come rimedio la forza più potente
e rendendosela amica: la forza del dio.
Agli occhi del popolo greco questo processo
361 incomincia a mostrarsi
nella sua intensità estrema: cose,
eventi, stati incominciano a trasformarsi in quell’assolutamente altro che è il nulla. Al
culmine della storia dell’Occidente, con
la morte del vecchio Dio, si crede che la
tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il rimedio efficace contro l’angoscia del divenir altro. La
storia della fede nel divenir altro è la
storia della Follia più profonda. Quella in cui
si ha fede che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa non è, e infine si ha fede che le cose - gli
essenti le cose che non sono un nulla -
siano nulla. Affinché Dio ci salvi,
bisogna che abbia forza. Bisogna che
l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo
offre al Dio sé stesso e quanto
possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in
lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé, ed è quindi immutabile, eterna, e custode di
tutte le cose che nella vicenda terrena
son divenute cose morte. Anche in questo
secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede
al Dio la propria eternità e
immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide, dunque - sia come Dio religioso sia come quel
Dio tecnologico - che permane al di
sopra del tempo degli individui, ma
rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per
sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando Feuerbach mette in tensione la sentenza di
Moleschott: der Mensch ist, was er isst
(«l’uomo è ciò che egli mangia») con
Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche «Dio è ciò che egli mangia») il nesso tra ontologia
e nutrimento - e tra nutrimento,
sacrificio e annientamento - non ha più nulla
di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più
importanti in questa direzione e che
insieme si porta al di là dell’ontologia
da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il «diventare Dio» esprime
in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un «sacrificarsi» al Dio.
Hegel pensa che nella religione lo
«Spirito assoluto» veda sé come Altro, ceda
sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi hegeliana pensando che è l’«Uomo» a
cedere sé stesso al Dio. In entrambi i
casi il Dio consuma l’essere dello «Spirito
assoluto» e dell’«Uomo». E anche Hegel e Feuerbach fondano l’alienazione dello «Spirito» e dell’«Uomo»
sulla fede nel divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del
divino lo svuotamento dell’uomo che si
aliena in Dio rispecchia lo svuotamento
del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo.
Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la
salvezza dell’uomo, che sta al centro
del messaggio cristiano, sta al centro
dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto
dal sacrificio dove la vittima è il Dio
(Prajapati, Dioniso, Cristo) che deve
morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra
il Dio e l’uomo, dove il Dio è il
Tremendum la cui inflessibilità non lascia
vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera
inflessibile, ossia deve uccidere il Dio
- giacché abbattendo la barriera e facendo
sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’«al di là» e infine negandone
l’esistenza) l’uomo uccide il Dio
originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi). Particolarmente
interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco
Totaro. Qui rispondo brevemente solo ad
alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr.
gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata). Riprendendo un problema già sollevato in
quel libro, Vitiello osserva che la
volontà, che nella dottrina dell’eterno
ritorno dell’uguale rivuole il già voluto,
«non vuole al modo del precedente volere», e quindi ciò che ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso.
L’interpretazione dell’eterno ritorno
data in quel libro non riuscirebbe quindi a
mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno si rispondeva anticipatamente a questa
obbiezione (p. 258) dicendo che il
ritorno dell’uguale non può essere il ritorno
dell’assolutamente identico, appunto perché un qualcosa differisce dal ritorno di tale qualcosa.
D’altra parte, Nietzsche fonda la
necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si
limita a indicare l’assurdo che
scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche tale necessità sussiste nel
senso che è necessario che ciò che
nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la
totalità che dunque è «finita»), ma non
la forma del contenuto, cioè il ritornare di
esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia Inattività» del volere cresca
all’infinito. E poiché nemmeno ogni
nuova ripetizione può costituirsi come un
«così fu», cioè come un passato immutabile e indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova
ripetizione sia essa stessa eternamente
ritornante e ripetuta, eternamente
rivoluta: «l’attività è eterna», scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente identico;
la forma cresce all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a ritornare, aH’infinito, e in questo senso
«eternamente» essa stessa.) La critica di fondo sviluppata da Totaro nel
suo confronto con L’anello del ritorno
riguarda la tesi, fondamentale anche in
questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del divenire - inteso come venire dal non essere
e ritornarvi, da parte degli enti - è
l’evidenza suprema, la suprema verità.
Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico
degli ultimi due secoli (e Nietzsche è
tra i pochi abitatori di tale sottosuolo)
non intende essere un semplice scetticismo, relativismo, prospettivismo, ma intende essere anch’esso
verità assolutamente incontrovertibile,
ossia intende anch’esso come verità
assolutamente incontrovertibile ciò che per
l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente
incontrovertibile: l’esistenza, appunto,
del divenire, inteso nel modo indicato (e
una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità assolutamente incontrovertibile è una
forma di scetticismo). Anche per
Nietzsche la «rappresentazione» del
divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione,
quindi anche la rappresentazione del
divenire, è «la posizione di un
permanente» cioè «una inevitabile fissazione del divenire», una negazione di esso, «un andare
controcorrente rispetto al flusso del
divenire». Sennonché - rispondo -, se per
Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo carattere, non tutte le
rappresentazioni lo hanno: per lo meno
non l’ha quella rappresentazione che è
la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere,
questa teoria non potrebbe nemmeno
rappresentarsi il divenire come tale, cioè come quel «flusso» che viene
«fissato», negato da quel primo tipo di
rappresentazioni «controcorrente». È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come
divenire, ossia è identico a sé e quindi
permanente; ma se questa identità e
permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì, il divenire
sarebbe negato e fissato nel suo non
esser divenire. Come ho già detto altre
volte, a partire da L’anello del ritorno,
il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria potenza
(insieme a pochi altri abitatori del
sottosuolo essenziale del pensiero filosofico
degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso dell’essere che guida la tradizione
metafisico-morale dell’Occidente.
Ammesso e non concesso che questa
interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché violerebbe le proprie regole, bisognerebbe
dire che allora (modestia invita, ma inevitabilmente,
quella straordinaria potenza compete al
Nietzsche arbitrario che appare ne
L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il «mio» discorso filosofico dà anche una o due mani
affinché il pensiero del nostro tempo
mostri tutta la potenza che gli compete
- lasciandolo poi al suo destino, che è quello di essere la forma più coerente della follia
estrema del divenir altro. Le altre
interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che
stanno al suo passo) non mostrano questa coerenza e potenza. Restando ad esempio nell’ambito del convegno
a cui ci stiamo riferendo, un altro mio
critico, Umberto Regina, scrive che per
Nietzsche «Dio è impensabile perché non consente all’uomo di poter “sperare” di far suo tutto
il mondo». Ma - osservo - questo
discorso non intimorisce Dio, che,
rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a fare a meno di queste sue speranze, come
appunto incomincia ad accadere col Dio
veterotestamentario, che a W’erimus sicut dii - in cui si esprime la «speranza»
del primo uomo di far tutto suo il mondo
-, risponde deludendolo, cioè cacciandolo
dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale speranza - o sulle varie forme di
«prospettivismo» - per far morire Dio è
ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno ha invece la potenza di farlo morire per
davvero. (Per mostrare, poi, che la
filosofìa di Nietzsche non ha nulla a
che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte al principio di non contraddizione, ma, come
in Hegel, è una critica del modo
inadeguato di intendere tale principio, è
sufficiente pensare l’espressione «l’eterno ritorno dell’uguale» - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come
prima si è richiamato, ritorna
eternamente l’ identico contenuto - ritorna
«ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione», scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una
cosa può essere identica, la stessa,
solo in quanto non è le altre cose, ossia non
è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di tutte le cose.) Si parla di «governi tecnici»
e di «tecnocrazia». Ma il senso
conferito oggi a questi termini è essenzialmente diverso dalla più profonda dimensione tecnica sulla quale
(ancora una volta) inviterei a
riflettere. I «governi tecnici» - ad esempio
quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il governo costituitosi con l’asse
Sarkozy-Merkel - sono soltanto
epifenomeni di quella dimensione: così come
l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono soltanto un epifenomeno della «morte di Dio»
a cui si rivolge il pensiero filosofico
del nostro tempo. Dal punto di vista
etimologico, «tecnocrazia» significa,
certamente, «il kratos (il potere) alla tecnica». Ma per lo più questo termine ha il senso di un ottativo, di
un’aspirazione o di una deprecazione: di
un esortare verso la realizzazione o di
rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno realizzabile, più o meno incombente. Si può
andare più indietro di Veblen o
Spengler: si può arrivare agli inizi
dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di necessità, di doverosità, di opportunità di
dare il potere alla tecnica. Invece quella più profonda dimensione
tecnica a cui mi riferisco non è in
alcun modo qualcosa a cui si invita, un
progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il carattere di una descrizione, di una
constatazione - che peraltro si trova su
di un piano ulteriore, e se si vuole
«astratto» rispetto a quello su cui di solito la riflessione «fenomenologica» si mantiene
(un’affermazione, questa, che
sottintende quell’elogio dell’«astratto» che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di un tema
specialistico, il discorso sulla
«tecnocrazia negli anni Trenta» coinvolge qualcosa di profondamente essenziale,
che travalica i confini
geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a presentare, addirittura, un carattere
planetario e a costituire una svolta in
cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la
«dimensione tecnica», di cui abbiamo
incominciato a parlare: in essa la
tecnica appare come destinata al dominio del pianeta. La descrizione e constatazione di cui prima si è
detto è descrizione di una destinazione,
cioè di una necessità. Si tratta di
capire in che senso queste affermazioni non siano un’esagerazione arbitraria e incomprensibile,
e in che senso la tecnocrazia negli anni
Trenta possa coinvolgere una
destinazione di questa portata.
Natalino Irti ha parlato dell’importanza di Ugo Spirito in relazione alla situazione italiana di quel
tempo. Ma prima e alle spalle di Ugo
Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni
Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le riserve che si possono avanzare sul piano
politico) non solo si riferisce a una
forma culturale che spesso vien guardata con
sospetto - cioè la filosofia -, ma anche perché si può dire che la filosofia contemporanea ignori quasi
completamente il pensiero di Gentile (e
in generale la filosofia italiana). Ignora,
però, ciò che essa ha di più decisivo ed essenziale. Non solo: può sembrare anche molto strano
che, a proposito di tecnica e
tecnocrazia, si parli di Giovanni
Gentile, visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche quello di Croce) è stato considerato
radicalmente avverso alla scienza e alla
tecnica e quindi estraneo al nuovo clima
culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa prospettiva è completamente fuori
strada. Si incominci a rilevare che,
sebbene ignorato, il pensiero di Gentile
afferma ciò che nel nostro tempo è affermato, si può 369
dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna
verità definitiva al di là del mondo umano.
Solo che, quasi sempre, questa
affermazione non è altro che un dogma, un presupposto che vien dato per scontato, un’intuizione, un
impulso, una fede, qualcosa che sta
diventando senso comune; laddove il
pensiero gentiliano (insieme a pochissime altre posizioni filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale
affermazione. «Rigorosa», nel senso che
è la più coerente al fondamento che è
comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo alle prospettive della tradizione filosofica,
artistica, religiosa che invece
affermano l’esistenza di una Realtà immutabile e «divina», ma anche alla prospettiva
tecnico-scientifica). Tale fondamento è
la convinzione che il divenire del mondo, il
trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al non essere, sia l’evidenza più indiscutibile
e originaria. Gentile mostra che tale
evidenza implica il divenire del Tutto.
A questo punto, ciò che passa inosservato - per chi non sa scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero
di Gentile - è che la negazione fondata
di ogni Immutabile è la negazione di
ogni Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte all’azione dell’uomo e quindi a quella forma
dell’agire umano, che oggi è la più
potente, nella quale consiste l’agire della
tecnica. Ciò significa che, di
per sé, la tecnica non può sviluppare
tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla condizione che sappia ascoltare e capire la
potenza concettuale di quel sottosuolo.
È questo sottosuolo filosofico a dare
potenza reale alla volontà di potenza della scienza e della tecnica. Appunto per questo vado ripetendo
che solo apparentemente Gentile è stato
fascista e che se c’è una forma di
filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la filosofia di Gentile. Il fascismo infatti,
come ogni regime politico totalitario è uno degli Immutabili di cui il
pensiero gentiliano ha mostrato
l’essenziale impossibilità.
L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a prevalere sulla veglia, ma dal quale è
inevitabile che prima o poi ci si
risvegli. Della fondazione gentiliana
di questa impossibilità si può dare qui
solo qualche cenno, formulandola in modo che possa venire alla luce la configurazione che è
comune a tale fondazione e a quella
operata dai pochi altri abitatori del
sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e Leopardi).
Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che quindi sarebbe una realtà esistente in sé
stessa, al di fuori e al di là della
nostra esperienza, cioè del nostro pensiero,
indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il
divenire delle cose, il loro uscire dal
nulla e ritornarvi, non avrebbe quella «serietà» che invece gli compete per il suo essere
l’evidenza originaria e suprema. Innanzitutto,
se esistesse un Dio in cui ogni cosa è
già contenuta prima ancora di essere prodotta o creata, allora l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte
delle cose del mondo, sarebbe una
semplice apparenza, non avrebbe «serietà». Ma
l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità fondamentale (è, questa, la suprema certezza
dell’Occidente, quindi anche di
Gentile). Dunque non può esistere alcuna
realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina, esistente al di là dell’esperienza umana. Si può riproporre così questo tratto
decisivo della coscienza contemporanea:
sulla base della convinzione originaria che,
evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo delle forme religiose, della scienza moderna
e di tutta la cultura occidentale, ma
anche delle stesse opere e istituzioni dell’Occidente, sulla base dunque della
convinzione che le cose del mondo umano
oscillano tra l’essere e il nulla, è
impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile, divino, perché esso, precontenendo tutte le
cose, avrebbe già riempito tutti gli
«spazi vuoti» che sono richiesti dal divenire,
ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli antichi atomisti avevano compreso) è
necessario che competa alle cose quando
ancora non sono e quando non sono più. Un
Dio immutabile («pieno», «satollo», dice Nietzsche) e quindi una verità assoluta in cui questo Dio sia
eretto sono la Legge alla quale sia il
futuro sia il passato più lontani devono
adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più rimanere un nulla ma diventano degli
ascoltatori della Legge, cioè diventano
qualche cosa di positivo, un essere.
Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della coscienza moderna. Come già si è detto, esso
è anche la distruzione di ogni Limite
(Legge) all’agire dell’uomo e quindi
all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa l’agire
che di fatto è il più potente nel mondo
contemporaneo - a subordinare al proprio
scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche, giuridiche ecc.) che invece
intendono servirsi della tecnica per
realizzarli. Col compiersi di tale
subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano. Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente,
la giustificazione di queste affermazioni
(rinviando ai miei scritti per il suo
senso concreto). Ci si rivolga
innanzitutto a un concetto che pur essendo
ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da
esso offerte in quei campi. Mi riferisco
al concetto di mezzo e di scopo. Lo
scopo di un’azione determina il modo in cui essa si costituisce: ne determina
il senso e l’essenza. Se si decide di
uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa decisione fa sì che si compiano certe azioni
e non altre, diverse cioè da quelle che
si compirebbero se si decidesse di
rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione. Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia,
l’azione cambia, è un’altra azione anche
se in certi casi si può credere che sia
rimasta la stessa. La tecnica
guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui
si servono o si sono servite tutte le forze dominanti (capitalismo, democrazia, cristianesimo,
islam, comuniSmo e altri regimi totalitari
ecc.). Intendono servirsi della tecnica per
realizzare i loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo sugli scopi delle altre, un mondo
capitalistico, democratico, comunista,
islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo: non esiste oggi uno strumento più potente
della tecnica. Il teorema sul quale va
richiamata l’attenzione è che le forme
di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la tecnica moderna è il mezzo insostituibile,
sono costrette ad assumere come scopo lo
scopo che è proprio della tecnica,
mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi del loro nuovo scopo. Le forze che si servono della tecnica sono
infatti tra loro conflittuali. Il
capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia di tipo classico sia procedurale), la
democrazia procedurale con il
cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre
dei limiti alla volontà di profitto
privato; questa volontà non vuol farsi
limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del «bene comune»; il cristianesimo e la Chiesa
cattolica in particolare riconoscono al
capitalismo il suo essere un mezzo di
produzione della ricchezza più efficace dell’economia pianificata, e tuttavia
gli ingiunge di assumere come scopo
ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il «bene comune».
In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze antagoniste assumano come scopo uno scopo
diverso da quello che le definisce e per
il quale esse sono ciò che sono, e cioè
mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo di non assumere come scopo ultimo
l’incremento indefinito del profitto privato,
che invece deve essere soltanto un mezzo
per realizzare il «bene comune», essa sollecita il capitalismo a non esser più capitalismo. (E questo va detto
anche riconoscendo che la Chiesa,
spingendo oggettivamente il capitalismo
al tramonto, non ha l’intenzione di distruggerlo e intende differenziare il proprio all’agire
marxista-comunista, senza peraltro
riuscirvi.) Nella conflittualità tra le
forze dominanti, il mezzo di cui tutte
si servono per prevalere sulle altre è oggi la tecnica: la tecnica, intesa in senso, per così dire,
«trascendentale», cioè come sistema dei
sottosistemi (giuridico, sanitario, militare,
burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano razionalmente mezzi in vista della produzione
di scopi tra loro non conflittuali. Ma, dato il rapporto conflittuale tra le
forze dominanti, ognuna di esse, per
prevalere sulle altre e non soccombere, è
costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa si serve, ossia la frazione dell’apparato
scientifico-tecnologico da essa gestito.
Questa volontà di rafforzamento del mezzo è
crescente perché è continuamente alimentata dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie spazio, dunque, allo
scopo iniziale di ognuna di tali forze;
lo scopo di ognuna di esse viene cioè
sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a essere
completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo
per la realizzazione del nuovo scopo. Ad
esempio, se lo scopo è un mondo
capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le resistenze opposte dalle altre forze, è
necessario che il capitalismo potenzi le
possibilità tecnologiche di cui esso
dispone; ma incrementando questo potenziamento è necessario che il capitalismo assuma come
scopo non più soltanto l’incremento del
profitto, ma l’incremento del
potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si diceva che quando la Chiesa esorta il
capitalismo ad assumere come scopo il
«bene comune» essa distrugge il capitalismo,
così ora va detto che, quando l’area dello scopo del capitalismo a un certo punto viene
completamente invasa dal potenziamento
(promosso dal capitalismo stesso)
dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo - appunto perché, assumendo uno scopo diverso
da quello da cui è definito, il
capitalismo non è più capitalismo (anche se si
continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è trasformato). E non più capitalismo anche
quando l’area dello scopo capitalistico
è anche solo parzialmente invasa.
Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va ripetuto anche in relazione a ogni altra
forza oggi dominante. Le forze che non
potenziano il proprio mezzo tecno-
scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che prevalgono perché tale potenziamento l’hanno
operato. Tuttavia il rovesciamento del
rapporto tra tecnica e forze che se ne
servono per realizzare i loro scopi dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono da
esse vissuti come imposti da una
«Verità» immutabile e assoluta, esse
eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento 375
da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare piuttosto che piegarsi e la forza vincente
della tecnica sarà giudicata
illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante,
tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E comunque, anche se non giungeranno a farsi
spezzare, quelle forze renderanno il più
possibile difficile il prevalere della
tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve oltrepassare, i valori della «Verità» in cui
esse credono. (Limiti che non sono soltanto
etico-religiosi, ma anche di carattere
diverso, come quello economico. Ad esempio il
capitalismo, oltre a porre come «Verità» assoluta e come Limiti inviolabili la proprietà privata e la
libertà di intrapresa, proibisce alla
tecnica di produrre beni che non possono essere
venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto conveniente, anche se sono indispensabili
alla sopravvivenza degli insolventi - e
tale proibizione è inevitabile se il
capitalismo vuol sopravvivere.)
Ma oggi la fiducia nell’esistenza della «Verità» va tramontando. Questo è il clima che,
procedendo dall’Occidente, sta diventando
planetario - destinato com’è a
travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione
Sovietica i sacrifici richiesti ai
cittadini potevano essere sopportati quando era
più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una «Verità» assoluta e che quindi la produzione
tecnico-economica della ricchezza
dovesse innanzitutto servire alla promozione e
difesa di tale «Verità» e non alla riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno,
è venuta meno, oltre alla disponibilità
dei cittadini al sacrificio richiesto
per realizzare la «società giusta» e senza classi, anche la disponibilità dell’apparato
tecno-scientifico a essere il mezzo per
tale realizzazione.) Ora, il fuoco
sotto la cenere del progressivo allontanamento delle masse dalla «Verità»,
divina o terrena, è il sottosuolo
filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato da pensieri decisivi come quelli di Gentile o
di Nietzsche), dove - si è richiamato -
si mostra Yimpossibilità di ogni
Immutabile, quindi di ogni «Verità» immutabile, di ogni inviolabile Limite all’agire delfuomo e
pertanto all’agire tecnico. E tale
impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle forze ancora convinte di potersi servire
della tecnica siano l’adeguazione
dell’agire alla «Verità» immutabile, che ora (ma ancora, per lo più, sotto la cenere) si
palesa come un sogno. La coscienza che
l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora
di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del sottosuolo, e quindi tende a essere ancora
una fede nell ’inesistenza degli
Immutabili e nella «morte di Dio»; ma,
nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale fede, in questa misura la subordinazione
della tradizione dell’Occidente (e del
pianeta) alla tecnica è inevitabile. Si
può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento per il quale il potenziamento della tecnica
diventa lo scopo delle forze che
intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il capitalismo
essendo ancora, nonostante la sua crisi
profonda, la più potente delle forze che
dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la produzione dei beni di consumo e della
ricchezza. A un aspetto soltanto di tale
rapporto qui si farà cenno. Non può
esistere capitalismo senza perpetuazione della
scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile non è merce, non è vendibile,
nessuno è interessato a produrlo o ad
acquistarlo. E il capitalismo,
essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica, proprio in quanto
mezzo, ha un proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo
scopo non è escludente - a differenza
degli scopi delle forze che si servono
della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo capace di realizzare gli scopi tra loro
conflittuali perseguiti da tali forze.
(Lo scopo del capitalismo è invece un mondo
capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo
ecc.) Ora, se per sopravvivere il capitalismo
deve perpetuare la scarsità delle merci
e si serve della tecnica - la quale ha
peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito della potenza, ossia della capacità di
realizzare scopi -, va ora rilevato che
l’incremento indefinito della potenza implica
Veliminazione progressiva della scarsità. La situazione è cioè quella di un padrone che si serve di un servo
il cui scopo è l’ehminazione del
padrone. Il capitalismo si serve di un servo
(la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone. Nella dialettica di servo e padrone, Hegel
mostra appunto che la storia è fatta dai
servi: per servire il padrone essi devono
acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di quelle del padrone; elaborano tecniche e
conoscenze scientifiche, gestiscono e
quindi si impadroniscono di quella
potenza scientifico-tecnologica che finisce per rovesciare, il rapporto feudale servo-padrone. Ma, anche qui, il servo può rovesciare il
padrone solo se non crede più che egli
sia il portatore della «Verità» - solo se
la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la perpetuazione della scarsità delle merci, sia
la «vera» e insuperabile condizione
umana. La contraddizione in cui consiste
il rapporto fra forze che si servono della tecnica e tecnica si acuisce e diventa estrema quando
cioè viene in luce che gli scopi delle
forze che si servono della tecnica non
hanno una «Verità» assoluta. E a portare alla luce la morte 378
della «Verità» e di Dio non può essere la scienza o la tecnica (che quando tentano di farlo sono soltanto
cattiva filosofia) ma, si è visto, è il
sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così
come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella morte e il principio che tutto ciò che si può
fare sia lecito farlo.) Non ci si può dunque limitare alfawertimento
che la tecnica non ha limiti. Il sapere
che dà questo avvertimento è innegabile
- è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in quanto mostra che è sul fondamento di ciò in
cui da ultimo credono sia gli stessi
difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è
su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la tecnica sia i difensori dei
Limiti all’agire dell’uomo credono,
appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo
si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le cose possono essere smosse, controllate,
prodotte, create e distrutte. Per la
prima volta il pensiero greco intende la
creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la distruzione come annientamento. Pensando per
la prima volta l’«essere» e il «niente»
conferisce un senso «ontologico» al
creare e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la storia dell’Occidente si crede che l’agire
sia creare e distruggere in senso
ontologico. Se non credesse in questo
senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non esisterebbe, in esso,
azione (umana o divina o della natura),
quindi non esisterebbe nemmeno azione
tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel senso ontologico dell’agire anche quando sono
convinte di non aver nulla a che vedere
con l’«essere» e il «niente». Nel suo
senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del
sottosuolo filosofico del nostro tempo -
della voce che, sul fondamento della convinzione che l’agire esiste secondo il
senso ontologico evocato dall’Occidente,
fa sentire l’impossibilità dell’esistenza
di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la forma radicale dell’agire. Nella misura in
cui la tecnica dà ascolto a quella voce
(e tale ascolto è un processo in corso, che
ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia l’incremento indefinito della potenza, è
destinato al dominio del mondo, cioè a
presentarsi come lo scopo delle forze che
ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei
pochi abitatori di quel sottosuolo il
tema della tecnocrazia negli anni Trenta
non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si è già rilevato, il problema centrale del
nostro tempo: dove sta andando il
mondo? Ma, ora, si aggiungeranno
soltanto alcune sottolineature e alcune
precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti si configura l’affermazione che il mondo sta
andando verso la dominazione della
tecnica. (E comunque, si ripeta, non si
tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di osservare dove è destinato ad andare. È
patetico voler dire ai popoli quello che
devono fare: si tratta invece di capire che
cosa sono destinati a valere e a fare.)
Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a che vedere con la concezione
scientifico-tecnicistica della tecnica
(e tanto meno con i «governi tecnici di cui oggi si parla). Mostrando l’inesistenza di ogni
Limite inviolabile, il sottosuolo
filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza della tecnica e il suo
oltrepassamento di ogni limite, ma li
rende possibili. Se non si sa di avere in
mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince. Di qui (anche di qui) il carattere
radicalmente «pratico» del pensiero
filosofico, ossia di ciò che è il più «astratto». L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte
della tecnica, è un processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci
della superficie. La voce autentica dice
che il vero tramonto degli Immutabili è
dovuto alla necessità che la loro esistenza renda impossibile quel nulla del futuro e del
passato, quel senso ontologico del
divenire che ormai ovunque è considerato
come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al carattere «pratico» del sottosuolo
filosofico, non alla «praticità» del
sapere matematico (o fisico-matematico) che
sta al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore per il quale
la tecnica ha più potenza di altre
forze. Tale maggior potenza è però una
situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che pregando si muovano le
montagne e le si muovano più di quanto
la tecno-scienza riesca a muoverle,
allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma quella pregante, destinata dunque essa al
dominio del mondo (e, certamente,
diversa da quella che si rivolge alfimmutabile
«Verità» di un Dio). Se la
dimensione economica - la più potente delle forze che si servono della tecno-scienza - domina ormai
la politica e le strutture statuali (si
pensi al peso che grava su di esse in forza
della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla
tecnica. Non nel senso che non esisterà
più economia, ma nel senso che, mentre per il
capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in cui il capitale
servirà per incrementare la potenza
tecnica. E l’uomo? Molte, le voci che
accusano la tecnica di essere
disumanizzante. Ma che cos’è l’«uomo» nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto
delle molteplici definizioni dell’esser
uomo agisce un tratto a esse comune - e
decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in vista della
produzione di scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo centro. Il mistico è infatti il supertecnico:
apre le braccia alla suprema e infinita
potenza di Dio e crede, lasciandosi
invadere da essa, di poter essere estremamente più potente deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma la
definizione dell’uomo come centro cosciente di
forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della tecnica.
E allora non si dovrà forse dire che la
tecnica è Yinveramento massimo
dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria essenza più profonda, così come, nel tempo
che precede la morte di Dio, è nella
potenza, ossia nella tecnica divina che
l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso? Anche Dio è stato l’inveramento massimo
dell’uomo, perché l’uomo, che da
principio chiede a Dio di salvarlo, poi
si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto salvaguardata la potenza del Salvatore,
perché se Dio diventa un mezzo nelle
deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza,
allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo
si rivolge alla tecnica per essere
salvato, e dopo averla assunta come mezzo
nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa salvato solo se egli non assume come scopo la
propria salvezza ma il potenziamento
dello strumento salvifico, allora egli
trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E lo trova e lo vive solo se la tecnica si è
posta in ascolto del sottosuolo
essenziale del nostro tempo. La
discrasia tra tecnica e uomo - la disumanizzazione dell’esistenza da parte della tecnica -
riguarda quindi le diverse concezioni
«ideologiche» dell’esser uomo, cioè l’uomo
cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il tratto essenziale che è a esse sotteso. Tale
tratto dice che l’uomo è azione, prassi, volontà cosciente e convinta di
avere la capacità di trasformare le cose
fino a farle diventare, da nulla,
essenti e, da essenti, nulla. L’uomo
«ideologico» viene certamente «messo da parte»
dalla tecnica autentica, che ascolta il sottosuolo. La tecnica non ha come scopo il benessere o la felicità
dell’uomo, ma quel potenziamento
indefinito di sé stessa che peraltro dà
all’uomo più benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì
che egli è «messo da parte» non come
tratto comune ai diversi modi «ideologici»
di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo «ideologico» che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento
indefinito della potenza tecnica. Anche
la scienza e la tecnica sono
«ideologie», cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo
filosofico che conferisce loro
l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero
pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica verità incontrovertibile. A questo punto è possibile intrawedere
Yinizio del sentiero che conduce a un
Sottosuolo essenzialmente più profondo di
quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale inizio. In quanto unita al sottosuolo
filosofico del nostro tempo, la
tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto perché in questa unione si nega l’esistenza
non di ogni verità, ma di ogni «Verità»
immutabile che stia al di là di ciò che nel
sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire del divino, dell’uomo, della natura, cioè
l’oscillazione delle cose tra il loro
non essere e il loro essere, per la prima volta
evocata dal pensiero filosofico greco.
Del carattere «pratico» della filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella
evocazione ha un carattere «pratico»
ancora più decisivo, perché solo se si crede nella disponibilità delle cose al
loro oscillare tra il non essere e
l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso «ontologico». L’evocazione
greca di tale senso è il luogo nel quale
soltanto è potuta e potrà crescere
l’intera storia dell’Occidente.
Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale
convinzione è verità
incontrovertibile? Questa domanda suona
assolutamente strana. Non è forse ovvio,
e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le cose vanno dal non essere all’essere e
viceversa? Non si perde tempo a
prenderla in considerazione? È
inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando all’interno del luogo che da tale domanda è
messo in discussione. Ma perché è
necessario rimanere all’interno di quel
luogo? Innocenza del divenire e valore
dell’uguaglianza Se spesso gli storici
del pensiero filosofico vedono gli alberi
- come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa una critica che si possa muovere
all’imponente e poderosa ricerca di
Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle
aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come il
pensiero di Nietzsche sia potentemente
unitario e come in esso le variazioni non
siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima che lo si capisse - e non è che
oggi tutti l’abbiano capito. Sono
d’accordo con Losurdo anche nell’individuazione
del tratto o «elemento» che determina il
carattere unitario del pensiero di Nietzsche. Egli considera Nietzsche «filosofo totus
politicus», ma questa espressione non
riduce il suo pensiero alla dimensione
specialistica della «politica»: all’opposto, intende «“salvare” il filosofo nella sua interezza», cioè nella sua
volontà di «abbracciare e comprendere la
realtà nella sua totalità» e nel suo
«assillo di intervenire attivamente su di essa» (p. 900). «Solo non rimuovendo l’elemento che
l’attraversa in profondità, solo tenendo
ben presenti la critica e la denuncia
militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e
la sua interna coerenza» ( Ibid .).
Losurdo scorge che per Nietzsche la
«modernità» e la «rivoluzione» hanno un inizio lontanissimo nella storia dell’Occidente: incominciano con
Socrate; e, da ultimo, il loro
avversario autentico, al di sotto delle sue
molteplici forme, è l’«innocenza del divenire» - quella in cui forse vive il più antico uomo greco, l’uomo
dionisiaco, e nella quale intende
consapevolmente abitare il superuomo
annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando, liberato da ogni Verità assoluta e da ogni
Dio immutabile che intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni «colpa»
che gli deriverebbe dal suo non
adeguarsi alle Leggi vere e divine. Il
quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un
lottatore, la rappresentazione è
concreta - ossia non è un semplice dipinto
-, quando riesce a mostrare la forza del lottatore, cioè la sua effettiva capacità di vincere gli avversari.
Nietzsche appartiene al ristretto gruppo
dei grandi lottatori che riescono a
distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera tradizione dell’Occidente. La ricerca di
Losurdo è quanto mai pregevole, ma
ancora non dà a Nietzsche quel che è di
Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa, che esige di essere riconosciuta anche aH’interno
della riflessione storica. Per cogliere tale potenza bisogna fare i
conti con coloro che a essa si sono
esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger.
Ma qui sarebbe modestia fuori luogo se non mi riferissi anche a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei
Losurdo a riflettere - anche perché la
scansione meno convincente del suo libro è
proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema deH’eterno ritorno nel «Nietzsche totus
politicus» che lotta per la salvaguardia
dell’innocenza del divenire. Losurdo,
giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche
intende sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le proprie
dottrine quella dell’eterno ritorno.
Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal
problema. Che certo, è gigantesco: il
divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un
ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche
stesso asserisce, è quella «nuova
conoscenza» che è «necessità» suprema,
innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta asserirlo:
bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha
potentemente mostrato, mostrando l’implicazione «necessaria» tra divenire e eterno ritorno.
Anche lo storico ha il compito di non
nascondere tale potenza. Soprattutto la
filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo
verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi sono anche straordinari scrittori e, tra chi
li legge, si crede che accostandosi al
linguaggio letterario si abbia in mano il suo
senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano «tesi», dominati dalla convinzione che ogni
tentativo di discuterle le sbiadisca, le
tolga di scena, le indebolisca. E invece
c’è filosofia solo quando le «tesi» sono radicalmente discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe
continuare a lungo. Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a
riconsiderare («Corsera», 11/1) gli
equivoci che possono nascere intorno
alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri «hanno a che fare» con le loro «conseguenze»;
ad esempio il Vangelo con la storia
della Chiesa; Marx con l’Unione
Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo. Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce
del sole ha a che fare sia con l’azzurro
del cielo sia con la putrefazione dei
cadaveri, Canfora richiama il «fatto» che in Nietzsche i valori dell’uguaglianza (morale del dovere,
democrazia, socialismo) sono rifiutati.
E il «fatto» c’è indubbiamente.
Tuttavia questi valori - che in parte sono anche cristiani - hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze,
tra le quali le crociate, il periodo del
«terrore» durante la rivoluzione
francese, la stessa rivoluzione sovietica e il
comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente,
nemmeno i nemici del «superuomo» di
Nietzsche. È però necessario che si capisca perché Nietzsche abbia questi nemici. Non si può affermare che egli
è un «ribelle aristocratico» (Canfora
riprende l’espressione dal libro di
Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il nostro calzolaio vota per questo o quell’uomo
politico (con tutto il rispetto per i
calzolai). Si deve invece capire quale
fondamento filosofico abbia condotto Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si ribella
all’intera tradizione occidentale,
perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo,
ripeto da tempo, che si facciano o si siano fatti sforzi consistenti in tale direzione. Heidegger ha sostenuto che Nietzsche è
rigoroso come Aristotele. Sono
d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, «c’è tutto e il suo
contrario». Un eminente illogico. (Anche
Leopardi è stato trattato come un
dilettante che andava compitando la filosofìa. Il «fatto» è che quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il
nostro calzolaio si contraddicesse come
spesso si crede che Nietzsche si sia
contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che
giustamente è assunto da Canfora come
affidabile punto di riferimento nel problema-
Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche: «Per quel che concerne la logica, quale
migliore propedeutica si potrebbe
consigliare di questo immaginario antihegeliano
per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema degli opposti?». La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla
base del «superuomo» appartiene al
significato essenziale dello stesso
pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato
appartiene anche quel Gramsci che
incautamente «sardonico» riconduceva il
«superuomo» di Nietzsche al conte di Montecristo e ai «romanzi di appendice».) Nietzsche rifiuta i
valori dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che muore. Ma, soprattutto qui, si tratta di capire perché
egli annuncia la «morte di Dio». Rawls,
Hegel, Kant John Rawls è molto
conosciuto in Italia per iniziativa
meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli
aveva pubblicato Una teoria della
giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e nel 2004 le sue Lezioni di storia della filosofia morale,
apparse negli Stati Uniti nel 2000. Sono una gradita sorpresa soprattutto per
l’ampia e approfondita attenzione che
dedicano a grandi figure della filosofia
moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto
Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia, osserva giustamente Veca nella «Nota
all’edizione italiana», «non abituale
nella tradizione che per mera convenzione
possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e l’insegnamento di Rawls si situano». Lo stesso Rawls riconosce «le radici
kantiane di Una teoria della giustizia»,
ma queste Lezioni si spingono sino ad
affermare che lo stesso Hegel è «un liberale riformista moderatamente progressista», che si muove
lungo quella linea del «liberalismo
della libertà» che da Kant (senza escludere
J.S. Mill) giunge a Una teoria della giustizia. Rawls può sostenerlo, perché è convinto che
«buona parte della filosofìa morale e
politica di Hegel possa reggersi da
sola», cioè indipendentemente dal suo fondamento metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è
molto da discutere, anche perché è poi
lo stesso Rawls a coinvolgere quel
fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di Hegel.
È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia e centrale di queste Lezioni,
dedicata a Kant. Il gesto essenziale di
Kant consiste infatti nel porre la filosofia
morale e politica come, appunto, una dimensione indipendente dalla
metafisica. Primato della ragion pratica.
Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in italiano da Edizioni di Comunità è intitolato
Vindipendenza della teoria morale. Non sembra tuttavia che Rawls risolva il
problema relativo alla genesi del
teorema del primato della ragion pratica. In
Kant questo teorema presuppone la critica del sapere metafisico. Se questa critica cade, cade
anche quel teorema. Ad esempio non si
potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f
immortalità delfanima, la libertà sono «postulati della ragion pratica» e non verità
metafìsiche. Ma Fidealismo classico -
Schelling, e Hegel in particolare -
ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da ultimo contraddittori che stanno alla base
del rifiuto kantiano del pensiero metafìsico.
Questa convinzione delfidealismo non è
cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da parte perché sembra trovarsi in contrasto col
sapere scientifico. Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di
problemi. E questo può essere il limite
(del tutto comprensibile) di questo suo
magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le grandi forme del pensiero filosofico.Possiamo
riassumere la filosofìa di Bergson in una singola idea: il tempo è reale.» Lo afferma Leszek
Kolakowski alfinizio del suo studio del
1985: Bergson (Palomar dialoghi 2005,
che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato soprattutto alla storia critica del
cristianesimo e del marxismo).
Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione «il tempo è reale» «non suona particolarmente
illuminante, originale o stimolante»,
essa è invece il «nucleo» di «una
visione del mondo del tutto nuova», perché «dire che il tempo è reale equivale a dire che il futuro
assolutamente non esiste» - e questa
tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme di pensiero che credono in una qualche forma
di anticipazione del futuro. In questa
pagina Kolakowski si riferisce al
determinismo e alla fisica, ma sa bene che per
Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un modo di affermare
l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del tempo e
assoluta inesistenza del futuro è
indubbiamente decisiva, come appunto ritiene
Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa
sull’esigenza di prendere sul serio il
senso del tempo, non è solo di Bergson,
bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di «serietà della
storia»: la storia è «seria», e va presa
sul serio, precisamente nel senso che essa
non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla
radice di questa volontà di «serietà»?
Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la
straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione platonica dell’«idea», la quale è il
prototipo di ogni volontà di anticipare
il futuro, negando la «serietà» del divenire e del tempo. Nel suo testamento Bergson, ebreo, scrive
che si sarebbe convertito al
cattolicesimo se non avesse visto
«l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo sul mondo». Un gesto di grande nobiltà. Ma
nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le
opere di Bergson all’indice dei libri
proibiti e Kolakowski ricorda che «tutti i principali filosofi tomisti francesi», con Maritain in
testa, «pensavano fosse Loro dovere
combattere la dottrina bergsoniana». E
Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson
e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla
fine della sua vita Bergson si è sentito
cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla
libera creatività di un agire,
soprattutto per il quale il futuro è del tutto
inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche), che solo dopo aver agito può scoprire dove è
arrivato e che cosa ha prodotto: una
negazione radicale, questa, del Dio
della tradizione cristiana.
Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il cristianesimo del futuro dovrà dare sempre
più ascolto al pensiero che tien ferma
la «serietà» del tempo. In questo
processo (dove tramonta la forma tradizionale del cristianesimo), dopo la consonanza tra il
movimento cattolico del «modernismo» e
la filosofia di Bergson, quest’ultima,
insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel futuro
prossimo - ad attrarre nuovamente su di
sé l’attenzione della cultura cristiana.
Non vi sono tesi somme», ossia «principi», «verità eterne» che sovrastino la storia, il tempo, il
divenire. A esprimere questo rifiuto,
ormai, non sono soltanto le forme filosofiche
del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni
pensiero e azione dell’uomo, dunque
anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo,
la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di essere, oltre che potente, assolutamente
vera. La frase riportata all’inizio è
contenuta nei Contributi alla filosofia
(Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel
1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e
suggestive innovazioni rispetto a Essere
e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A
cominciare, appunto, da quel rifiuto di
ogni «tesi somma » e di ogni verità
eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano delle “verità eterne” potrà essere concesso come
dimostrato solo se sarà stata fornita la
prova che l’Esserci era, è e sarà per
tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle
fantasticherie». Heidegger sta dicendo
che, fino a quando non si proverà che
l’uomo (l’«Esserci») è eterno - eterno non semplicemente immortale -, sarà solo una fantasticheria
parlare di «verità eterne». Ma per Heidegger è del tutto ovvio che
l’uomo (come ogni cosa del mondo) non è
eterno e che quindi quella prova non
potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e
agito da quando, all’inizio della storia
dell’Occidente, è apparso il senso del
tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui
l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la 394
convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra
una pura perdita di tempo. Il tempo perduto - che fortunatamente ha
forme diverse - i miei scritti l’hanno
aumentato di molto, mostrando invece che
lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia
disposti ad ammettere. Hanno cioè
indicato, quegli scritti, la necessità che
non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere,
relazioni, attimi, ombre, universi,
pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e
invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la «necessità»
che ogni cosa sia eterna è qualcosa di
essenzialmente più radicale di quella
«prova» dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio alla fine il tema di questo
pensatore è stato «la domanda
dell’Essere» ( Seinsfrage ). La domanda - che
continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria
grandezza. L’«Essere» non è l’«ente»,
non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle,
pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che «è» e che «è» questo e
quest’altro. Qual è il senso di questo
«è» - ecco la «domanda dell’Essere» -, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a
Nietzsche la filosofìa è stata, per
Heidegger, riflessione sul senso dell’«ente», ossia è stata «pensiero metafisico», e ha quindi
velato la «domanda dell’Essere», pur
dando vita alla storia dell’Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare,
ma non per questo è una «tesi somma»,
una «verità assoluta». Essa è «storica».
Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il 395
«superuomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio
discorso nemmeno la capacità di costituirsi
come l’autentica «domanda dell’Essere»,
ma solo il carattere di «pensiero transitorio», che «ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora
lungo il tracciato del pensiero
metafìsico», e i cui «sforzi» «saranno un
giorno superflui e ricadranno nell’accidentale» (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964, e
intitolata La fine della filosofia e il
compito del pensiero, Heidegger aggiungerà
che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione
pubblica dell’epoca industriale,
improntata dalla scienza-tecnica», e che
«il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient’affatto fondante», giacché «gli basta
risvegliare una disponibilità dell’uomo per
una possibilità, i cui tratti restano
oscuri e il cui avvenire incerto».
Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente
dichiara, espressione di una «falsa
modestia», giacché quell’oscurità e incertezza,
quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non
sono per lui semplici caratteri della
scrittura dell’individuo Heidegger, ma
sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’«Essere» stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo
stesso si può dire di quella
«superfluità» e «accidentalità» che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I
Contributi sono pertanto grandi prove di
una filosofìa che vorrebbe allontanarsi
dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo
tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà
non sono dovute alle carenze di un certo
individuo, ma sono le difficoltà in cui
le cose stesse si trovano. Ma queste non sono «tesi somme»? Destano
sorpresa anche molte delle tesi, peraltro
suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo
stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio
le tesi dei «venturi», dell’«ultimo Dio»
(«Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui
l’«Essere» - «vibrando», «oscillando» -
si appropria del mondo. Heidegger
intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia è fortemente
neoplatonico), senza cioè abolire la
fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e
ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le cose non sono eterni. Tra i temi più in vista e operanti, nei
Contributi, quello del «creare», è
essenzialmente «metafìsico». («Quanto è lontano
da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori, perché di costoro ha bisogno la sua
essenza?») Ma - dico - nessuna cosa
creata è eterna. È creata proprio perché non è
eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E dell’«Essere stesso» Heidegger esclude che sia eterno. L’«Essere»
stesso è «storico». Ma questa fede nella non eternità di ciò che
è non esprime forse la follia estrema?
Non pensa forse che ciò che è, non è
(appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente? Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non
è come la domanda di Heidegger. Qui la
Risposta - positiva - è già da sempre
data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende possibile ogni domanda. Fenomenologia e libertà La «distruzione» della tradizione filosofica
occidentale, compiuta da Heidegger, non
ha un significato semplicemente
negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli intende portare
alla luce la dimensione implicita che
rende possibile il loro esplicito dire.
In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro, ahimè così antico da essere stato la mia tesi
di laurea, composta negli ultimi anni
Quaranta, discussa nel 1950 e in quell’anno
pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi nel 1994, insieme ad altri miei scritti di quel tempo,
col titolo Heidegger e la
metafisica). Ricordo queste cose per un
certo e spero scusabile compiacimento da
me provato leggendo l’imponente lavoro
del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo
2007), che si muove sostanzialmente
nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma
che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali. Non intendo ovviamente confrontare
l’esperienza filosofica di un ragazzo
con il lavoro maturo di uno studioso di grande
serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno la preminenza i concetti, in nome dei quali
vorrei dire a Figai, tra l’altro, che il
suo modo di intendere la «distruzione»
dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse
richiamato quegli avvertimenti quanto
mai sintomatici e abbastanza frequenti
di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli dichiara che la propria indagine
«fenomenologica» non pregiudica in alcun
modo la soluzione dei grandi problemi
della metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o
meno di Dio - i problemi, appunto, che
ricevono le prime grandi risposte positive dalla metafisica di Platone e di
Aristotele. E in effetti un’indagine che
si propone come «fenomenologia» non può
dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla
dimensione che, con qualche
approssimazione, si può identificare
nell’«esperienza». È invece più
difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è indicata dal
sottotitolo del suo libro: «Fenomenologia
della libertà». Sono d’accordo
sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’«essere» («ontologia») e sul senso della «libertà» in
Heidegger. Ma Figai si dice convinto che
«la filosofia di Heidegger dia modo di
ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo». Cosa che a me non sembra, perché se il senso
ontologico della libertà significa da
ultimo la finitezza e contingenza delle cose
e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora tale
contingenza dei contenuti mondani è
pienamente affermata già da Platone e
Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger, a qualcosa che, come dice
Figai, «la si sarebbe potuta compiere in
modo diverso» (p. 411). Ma allora, come
Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant -
«non contiene nulla di derivato
dall’esperienza» ossia non è un contenuto
«fenomenologico»), e pertanto rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno
affrontato: quello di mostrare quale sia
il fondamento deU’affermazione che è il
contenuto di tale idea è anche qualcosa di «realmente» esistente.
399 24. La «mente» come
parte Nella «biolinguistica» di Noam
Chomsky il linguaggio è considerato come
un aspetto particolarmente significativo
della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto «si inquadra ragionevolmente nella psicologia
e, più in generale, nella biologia
umana». Esplorazioni in questo campo, da
lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi
orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il Saggiatore).
Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole «mente» e «linguaggio» «senza una valenza
metafisica». Così attento al significato
delle parole, egli non dice nulla sul
significato della parola «metafisica»; ma è chiaro che il suo intento è di considerare la «mente» e il
«linguaggio» «come oggetti naturali» -
senza però addossarsi l’onere di escludere
ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il linguaggio.
E, a prima vista, il proposito sembra del tutto legittimo. Analogamente, come può essere illegittimo
l’intento di considerare la nona
sinfonia di Beethoven semplicemente dal
punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non intenda escludere la comprensione
estetico-musicologica e nemmeno quella
filosofico-metafisica di quest’opera? È lo
stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può ammaestrarci, intorno alla mente, molto di più di tutte le
informazioni che intorno a essa possono
esserci fornite dalla biolinguistica.
Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la filosofia e la metafisica si insinuano nella
dimensione scientifica che vorrebbe
tenerle fuori dalla porta. Come il
corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky, «uno dei domini empirici» analizzati dalla
scienza. Anche la mente è una parte
della totalità dei «domini empirici», ossia della totalità dell’esperienza. Ma,
come la parola «metafisica», così
l’espressione «totalità dell’esperienza» - o dei «domini empirici» - non riceve alcun chiarimento
esplicito da parte di Chomsky. O,
meglio, riceve un chiarimento implicito che
rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli vorrebbe tenersi lontano. Intendo dire che una certa metafisica (ben
lontana dal mostrarsi come
inoppugnabile) è presente proprio nel
concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza. Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha
«basi assolutamente certe» (pur essendo
affidabile e applicabile alla «realtà»),
perché «i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati». Il che significa
che l’indagine scientifica si chiude
prudentemente in sé - lasciando fuori di
sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé: quella «cosa in
sé» kantiana, rispetto alla quale non
solo la dimensione della mente non può
essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza (che potrebbe essere la
definizione più ampia del «mentale» in
campo scientifico) si riduce a essere una
parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove
la res cogitans ha altro al di fuori di
sé, è il motivo più profondo. Come tanti
altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico
dell’affermazione dell’esistenza della
«cosa in sé». L’«anima» come totalità e come parte di ciò che appare «L’anima è in certo modo gli enti»: He
psyché ta ónta pós estin. Questo,
afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b,
21. «Gli enti» (ta ónta ) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». Significa:
«tutti gli enti»: pànta ta ónta. L’anima
è «in certo modo» (pós) la totalità degli enti.
«In certo modo» dalla tradizione aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia questa
espressione è intesa come già Aristotele
sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli
enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente» dicono gli scolastici) gli animali, le
piante, le case, la terra, il cielo e la
totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi,
manifestarsi, apparire. Si interpreta:
l’anima è «intenzionalmente» tutti gli
enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi
degli enti. E il pensiero greco chiama
phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la
totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele non intende affermare che
l’anima sia onnisciente, ma che essa è
tutti gli enti che vanno via via
manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della
totalità degli enti, ma la totalità si
manifesta come processo, sviluppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della
totalità degli enti (via via
manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non
significa che l’anima non possa
apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa
affermazione che l’anima è in certo modo
gli enti è proprio l’apparire di questa
forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui
l’anima ha come 402 contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo,
ha come contenuto sé stessa non come uno
tra gli enti particolari che appaiono, ma
come l’apparire della loro totalità.
L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione,
fede, e di ogni progetto, deliberazione,
decisione, azione: è il fondamento di
ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono aU’«anima»
(«coscienza», «mente», «spirito»),
intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico),
religione, scienza, arte hanno imboccato
questa strada, dove l’anima è uno degli
enti particolari che appaiono. Per esempio, per
millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere
filosofico, che a sua volta si fa
guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in sé
stessi, cioè indipendentemente dal loro
apparire e dunque dall’anima in quanto sia
intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi
teorie come quella evoluzionistica, che
concepisce i fatti mentali come risultato
di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la «psichiatria», dove la
psiche, intesa come oggetto di una
iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni
altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al
mondo intero. In questo modo, si perde
però di vista che queste e ogni altra
teoria che considerano l’anima come parte - e
innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano -
debbono peraltro da ultimo fondare ogni
loro pretesa di verità proprio
sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la storia del pensiero occidentale è
sopravvissuta ed è stata pensata come
phàinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come
403 atto puro», «esperienza»
(in quanto esperienza della totalità
degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di
esperienza, si osservi che il «metodo
sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza;
sennonché dell’esperienza in quanto tale
la scienza non si interessa: volta le
spalle al senso fondamentale dell’«anima» per dedicare ogni sua attenzione all’«anima» come ente
particolare. E se oggi si rivendica il
carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il
fondamento di ogni attività teorica e
pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele,
oltre a intendere l’anima come apparire
della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per
Aristotele l’identità del conoscente in
atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo
che conduce a questo risultato è, da un
lato, la «capacità» dell’anima di
conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dall’altro lato è la «capacità» degli enti di
essere conosciuti (ossia il loro esser
conosciuti «in potenza»). Queste due
capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i
due sono in atto ed essa è appunto il
risultato del processo che conduce dalla
potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto
passivo») e differisce dal conosciuto in
potenza - ossia dagli enti che hanno la
capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando
l’apparire della totalità degli enti è
inteso come atto di un «io» («persona»,
«soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il «pensare» è innanzitutto quell’apparire.
Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso
Aristotele, ad aprire questa
prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una
«persona», un «soggetto». (Variante di
questa convinzione è la tesi, oggi centrale
soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) «È manifesto che è quest’uomo singolo a
pensare» - manifestum est quod hic homo
singularis intelligit, si afferma nel De
unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo
singolo sia il pensante (Tommaso) e che
il cogitare sia il cogitare di un ego
(Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo
filosofica - peraltro con notevoli
eccezioni (ad esempio Nietzsche,
Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto
(ma anche il corpo, la materia, il cervello)
sono parti della totalità che appare.
Vintelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte
di questo campo - ossia dell’apparire
della totalità degli enti. A questo
punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a
un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva «io penso»
significa «io sono produttore del
pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha
notizia del pensiero da lui prodotto. Ma
l’aver notizia è l’apparire. E a sua
volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in
modo più o meno esplicito) a «gli enti
appaiono a me»: io, che penso, sono
appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che l’io ha di essi. 405
Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me - appunto
perché «a me» non può non significare,
in questa prospettiva, «apparire a me»;
sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare
all’apparire a me... et sic in
indefinitum. In altri termini, che gli
enti appaiano «a me» non significa, in
quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè
a un apparire; e se si intende tener
fermo che l’apparire è sempre un apparire
«a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me»
determina un progressus in
indefinitum. Con la conseguenza che, se
ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente
spostato e allontanato, gli enti non appaiono
più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere
che non appare alcun ente. E questa è la
contraddizione della prospettiva per la
quale «io penso» e «gli enti appaiono a me».
Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa
variante non si intende sostenere che il
pensiero - cioè gli enti che appaiono -
è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece
compete alla prospettiva di cui il
riduzionismo è, appunto, una variante.
Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho considerato in altre occasioni e che è cioè
Yanàlogon del riduzionismo teologico. La
riduzione della mente al cervello è cioè
Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente
riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la
mente è totalmente riducibile al cervello,
non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale 406
c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa stessa afferma: nega quella
mente e quel mondo che essa riconosce
esistenti proprio per la sua volontà di
ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. Testo, con alcune modifiche,
dell’intervento alla tavola rotonda sul tema «Tecnica e processo»; tenutosi a Venezia il 27 febbraio 2004,
all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004.
* ” Articolo pubblicato sul
«Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto. Rielaborazione
dell’intervento alla tavola rotonda «La tecnocrazia negli anni Trenta» con
Giuseppe Morbidelli, Natalino Irti,
Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi. Al capitolo VI 26. Essere e nulla Già nel capitolo IV de La struttura
originaria - dunque più di cinquantanni
fa - avevo indicato quanto occorre per
rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel
capitolo, viene risolta «l’aporetica del
nulla». Questa aporetica, sin da Platone,
consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio
parla continuamente, sì che il nulla non
è il nulla. La radice di quelle
obbiezioni è il pensiero che, sin
dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino e su questa base isola le cose della terra
(le molteplici determinazioni del mondo)
dal loro essere, ossia isola (in ciò che
è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento isolante si riflette, appunto, nel modo in
cui l’Occidente pensa il nulla.
L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide - col Parmenide quale è
interpretato nella tradizione platonico-aristotelico-hegeliana. E alcuni miei critici - Gennaro Sasso
innanzitutto, e Mauro Visentin - sono
giunti, attraverso l’esperienza del mio
discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide - del Parmenide,
appunto, che è presente in quella
tradizione e per il quale, al di fuori della
«verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono
soltanto dóxa, opinione, illusione,
«nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬
essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, «essere» significa, come per Parmenide,
soltanto «essere», senza alcuna
proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In questa prospettiva, la totalità delle
determinazioni, ossia delle differenze
che costituiscono il mondo naturale e umano, sono appunto il contenuto
dell’opinione. Ne viene, allora, che
anche tutte le considerazioni sviluppate
da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per criticare il contenuto dei miei scritti -
considerazioni che formano a loro volta
un sottoinsieme della totalità delle
differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità (assolute e incontrovertibili). E vedo che
essi stessi, sia pure in modi diversi,
riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o
addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr.
G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola
2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il
neoparmenidismo italiano, Bibliopolis 2011, p. 402, nota). La struttura originaria della verità è
l’apparire dell’impossibilità che ciò
che è non sia ciò che esso è.
L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica infatti che qualcosa non sia ciò che
esso è: implica (con Parmenide) che le
differenze siano esplicitamente poste
come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò
che esce dal nulla e vi ritorna, siano
implicitamente poste - esse, che non
sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del
nichilismo. Tale essenza non può
riuscire a scorgere che le differenze si
distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La distinzione, infatti, non è
separazione, isolamento. Anche quando
intende essere la negazione più radicale della
separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera
di ciò che essa nega, perché intende
unire ciò che peraltro essa intende come
originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni differenza del
mondo - cioè ogni essente, o significato
- è cioè destinata a esser pensata e vissuta
409 come un nulla - anche
quando si ritiene che un Dio eterno
possa salvare il mondo dal nulla.
Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli essenti determina il modo in cui esso pensa e
vive la presenza del nulla. Nella
Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la
distinzione, indicata in quelle pagine,
tra il «contraddittorio», o
r«autocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la «contraddizione», che invece non è un nulla,
in queste pagine si precisa - IV, 6 -
che «il significato “nulla” è un significato
autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un «significato contraddicentesi», appunto.
Affermando l’esistenza di quel
«significato autocontraddittorio» (cioè
contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé
stesso, sia, ma che la contraddizione è
(e che la contraddizione sia non è
impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un «fondamento», cfr. ad esempio Fondamento
della contraddizione, Adelphi 2005, sul
quale nei miei scritti si è sempre
richiamata l’attenzione). I due momenti
contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il «positivo significare» del nulla, ossia il
suo essere nulla e l’ apparire di questo
essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e
assenza di significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo
significare di ciò che, dall’altro lato,
è l’assoluta negazione di ogni positività e
significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste tematiche nello scritto Intorno al senso del
nulla, Adelphi). Questi due lati o
momenti sono originariamente e
necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè Yisolamento dell’uno rispetto all’altro,
implica l’essere dell’impossibile, ossia
che il nulla sia un essente. Infatti, se i due momenti sono (più o meno
esplicitamente) intesi come separati,
l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare
inevitabilmente come un essente. Se i
due momenti vengono separati, è inevitabile che
il positivo significare del nulla (il primo momento) si ripresenti nel nulla - ossia nel secondo
momento, cioè nel significato che è il
contenuto di quel positivo significare -, sì
che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal
significato autentico del nulla, ossia
dal nulla come significato
contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché, in esso, nulla (il significato nulla) non
significa essente, ossia non è un
essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente che è la positività
del proprio significare). Nell’esito
della separazione dei due momenti del
significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare che il nulla, essendo significante, è, è un
essente, sì che l’impossibile, il
contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla
separazione, l’aporia del nulla si
presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. L’isolamento-separazione conduce all’essenza
del nichilismo, costringendola ad
affermare che gli essenti sono nulla (in
quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere
l’essenza del nichilismo ad affermare,
in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza (rilevata da Nicoletta
Cusano in Capire Severino. La
risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel primo caso il nichilismo non può vedere il
proprio essere identificazione
dell’essente e del niente, mentre nel secondo
caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura originaria della
verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo,
e propriamente quella sua forma che si è
posta in relazione a quel mio discorso
(la forma presente ad esempio negli scritti
di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un
essente e intende questa identificazione
come inevitabile (ossia come
inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità).
D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione - ossia dell’assurdo e
dell’impossibile, in cui appunto
consiste Tessere del nulla - solo in quanto,
dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto
differire non apparisse non si potrebbe
nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione che secondo
alcuni miei critici inficerebbe la
struttura originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica
del nulla sorge non perché il nulla sia
inevitabilmente un essente, ma per la
logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità è, ancora una
volta, la conseguenza della separazione
che, in questo caso, crede di poter
prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del suo positivo significare - sì che,
presentandosi isolato, tale significato,
proprio perché si presenta, non può che apparire come Tesser un essente da parte del
nulla. Pertanto, che il nulla sia
«significante» non significa che il
nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del
nulla non appartiene al nulla, perché il
nulla non è un essente a cui questo significare
o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In quanto il significare è positività (e anzi è
la positività stessa, lo stesso esser
essente), il significare del nulla appartiene cioè all’essente, e propriamente
alla totalità dell’essente in quanto
essa appare nella struttura originaria della verità. E che il nulla sia un «significato» non significa che
il nulla sia qualcosa di «passivo»
rispetto all’attività significante
dell’essere, giacché anche questo essere un che di «significato» appartiene a quella totalità. Si aggiunga la seguente annotazione in
rapporto al modo in cui Heidegger
intende il problema del «Niente» (soprattutto
in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di
Heidegger è di mostrare che il Niente
non è un ente, ma non è «nemmeno mai ciò
che è soltanto nullo»: il «soltanto nullo» relativamente al quale il pensiero metafisico dà per
scontati sia il suo esser contrapposto
all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di
contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza Heidegger vuol portarsi in una dimensione più
profonda di quella in cui si dà per
scontata la contrapposizione tra «ciò
che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il «Niente» (che poi è per lui l’«Essere»
stesso) non è «nemmeno mai ciò che è
soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva al «soltanto nullo»: la funzione di
determinare la dimensione che include
sia l’ente, sia il «Niente» (l’«Essere»).
In tal modo, tutte le connotazioni del «soltanto nullo» da cui Heidegger in quelle pagine intende
prendere le distanze, e tutte le aporie
che il «soltanto nullo» solleva, ma che
Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del Niente,
ritornano in circolazione, e vi
ritornano nel loro non esser state chiarite e
risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni
considerazione intorno al nulla fa del
nulla un «qualcosa», ossia un ente;
l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni «apparentemente acute. È probabile, stando
all’andamento del testo, che per
Heidegger sia solo «apparentemente acuta» anche l’osservazione, da lui richiamata che «se il
Niente è niente [e qui il Niente è il
«soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora
non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora
non ci può essere nemmeno il processo
del diventare-niente». Ma anche questa
osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e lasciare infine da parte, ritorna in
circolazione nello stesso discorso di
Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il «soltanto
nullo», come essenziale per poter
affermare che il Niente, autenticamente
inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso) non è il nihil «soltanto nullo», come d’altronde Heidegger
ha sempre affermato nei suoi scritti. Un
libro Nella «successione» dei miei
scritti, Destino della Necessità (cit.)
sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i
problemi che il filone primario degli
scritti successivi intende risolvere.
Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di
«necessità» gli uomini parlano da
millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino della Necessità «si fa innanzi» il senso
innegabile della Necessità. Esso sta :
nessuna forza può scuoterlo. La parola
«de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel linguaggio che quel senso «si fa innanzi»,
venendo a mostrarsi nel destino, cioè in
sé stesso in quanto luogo che accoglie
anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità dell’esser sé di ogni essente. L’esser sé: il non esser altro e tanto meno
quelfaltro che è il nulla:
l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a esser altro e quell’assolutamente altro che è
il nulla: la necessità-eternità
dell’essente in quanto essente. Tempo,
storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il venire dal nulla e il ritornarvi, ma
l’incominciare ad apparire e il non
apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino, da parte degli eterni (quindi anche di
quell’eterno che è il linguaggio - e
anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per sempre il destino è
l’essenza dell’uomo. Ma non
testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato
attuale, ossia nella forma finita del
destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il
destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è l’isolamento della terra dal
destino. Destino della Necessità rende
radicale tutto questo, perché Essenza
del nichilismo (Adelphi) lascia ancora aperto il problema relativo alla
Necessità o non- Necessità del
sopraggiungere e del modo in cui
sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino consiste, nelVapparire degli essenti: ogni
essente è eterno; ma gli eterni
sarebbero potuti non sopraggiungere in quel
cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che appare? Destino della Necessità mostra che la
Necessità autentica implica anche la
Necessità del sopraggiungere e del modo
in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del destino.
La contingenza degli eventi e la libertà della volontà appartengono cioè all’essenza del nichilismo
ossia alla persuasione che Tessente in
quanto essente sia un esser stato e un
tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato essenzialmente diverso da quello che le è
stato via via assegnato. Non è una
potenza che determini liberamente
l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la fede di avere tale potenza, la fede che
quindi vuole l’impossibile, non
sapendolo, ma essendo anche fede di
ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole. La volontà di potenza, che culmina nella
tecnica moderna, si manifesta anche nel
modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il
terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della Necessità). Al di fuori dell’alienazione della terra isolata,
la «volontà» autentica e il destino, in
quanto apparire della Necessità e libertà
dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno). Nella sua forma infinita il destino è
l’eterno oltrepassamento di ogni
contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo «inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è
l’infinito. Ma Destino della Necessità
apre, insieme, i problemi fondamentali
degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del libro ci si chiede innanzitutto: «Ma quale
sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è
destinata a percorrere? È destinata alla
solitudine [all’isolamento dal destino]
o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria,
Oltrepassare, La morte e la terra,
citt.) mostrano la destinazione della terra a questo oltrepassamento e le sue decisive
implicazioni. Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano terribili gli impulsi più profondi dell’uomo.
Ma già Sofocle, millenni prima, dice che
l’uomo è deinótaton, cioè «il più
temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere. Hemingway concepiva la sincerità come il
supremo comandamento morale. Anche e
innanzitutto nella scrittura, che non
deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era soltanto cinismo,
esibizione della propria malvagità. Spesso
si confonde la bontà con la conformità degli istinti alle consuetudini sociali. Li si nasconde
perché è difficile che siano
confessabili. La bontà non è la cosiddetta «innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore -
anche della quale si può peraltro
dubitare come si dubita di
quell’innocenza. Hemingway impara che il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è guerra,
dice l’antichissimo Eraclito. Ora,
intendo dire che non c’è bontà che non
sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi. E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia,
la morte che l’impulso distruttivo
dell’uomo produce negli altri e in lui
stesso. L’uomo buono - soprattutto
il santo - non è chi sia privo di
inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo, sarebbe appunto l’innocente o il
mansueto quadrupede. Forse per questo i
veramente buoni e i santi sono spesso
insopportabili. La loro indole è terribile. Sono buoni e santi perché, lottando contro di
essa, la vincono. Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la
loro natura. Se i cristiani sono
convinti che Gesù sia il più santo,
devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più malvagi e
che egli sia il più santo proprio perché, solo lui, riesce a vincerli. La crudezza di certe
espressioni di Gesù può essere un
sintomo. Il primo passo per vincere
quanto di «terribile-temibile» è
presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i
«valori supremi» della tradizione
occidentale siano morti - e che uccidere
gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile -, gli restava come unico valore
l’aspirazione alla sincerità, il
desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto di malvagio c’era anche in lui e di cui egli
godeva. Ci si può spiegare come alla
fine non sia più riuscito a sopportare la
vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche scrive:
«Che cosa significa nichilismo? Significa
che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino significa che essi restano distrutti,
annientati. Lo stesso Nietzsche alimenta
la convinzione che il vero senso del
nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano che l’annientamento più nefando sia quello di
cui son vittime essi stessi. Eppure, per quanto potente sia la
riflessione di Nietzsche - e poi di Heidegger
- sul nichilismo, essa non ne raggiunge il
fondo. Le «guerre di annientamento» del XX secolo sono la conseguenza più vistosa di una persuasione
che risale alle origini della nostra
civiltà, cioè al pensiero filosofico dei
Greci. Si tratta della persuasione che gli esseri possano esser stati e possano ridiventare niente; ossia che
gli esseri possano esser non essere,
cioè nulla. Il culmine dell’errore, qui, si
unisce al culmine dell’orrore - anche se questa persuasione domina ormai l’intero pianeta. Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in
cui il cerchio era quadrato e ci sarà un
tempo in cui il cerchio tornerà a essere un quadrato, tutti, o i più,
protesterebbero e direbbero che un tempo
siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere
(che ora è) era ancora nulla e un tempo
in cui tornerà a esserlo. Qui la sordità
è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla semplice debolezza della mente umana. Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un
Dio, proporsi di annientare un qualsiasi
essere, se non fossero convinti che
l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta diventatolo, sia vero affermare che tale
essere è il nulla? Il culmine della
follia non è forse pensare che l’essere è il nulla? E «nichilismo» non è forse, innanzitutto,
pensare che l’essere è nulla? E non è
forse per questo antico pensiero che possono
esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la storia dell’Occidente? Nietzsche afferma che «Fannichilimento
mediante la mano asseconda
Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è Fannichilimento dell’essere mediante il
pensiero dei Greci che non solo
asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le distruzioni estreme compiute dalla mano
dell’Occidente - la più civile delle
civiltà -, che ormai è la mano del pianeta. Emanuele Severino. Severino.
Keywords: velino, velia, parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino,
Parmenide il velino, divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Severino” – The Swimming-Pool Library. Severino.
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