Luigi Speranza -- Grice
e Siciliani: la ragione conversazionale e la critica della filosofia zoologica
e la psico-genia di Vico – la scuola di Galatina -- filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Galatina). Filosofo pugliese.
Filosofo italiano. Galatina Lecce, Puglia. Studia a Otranto, Lecce e Napoli,
dalla quale fugge dopo essere stato segnalato alla polizia a causa delle sue
simpatie liberali. Si laurea a Pisa sotto STUDIATI, stringendo inoltre un
proficuo rapporto di collaborazione con PUCCINOTTI, che influsce molto sua
filosofia. Sringe rapporti di profonda amicizia con personalità importanti e
influenti della cultura, quali: CENTOFANTI, PACINI, CAPPONI, e BUFFALINI.
Seguendo la sua vocazione, orienta i propri studi verso le discipline
filosofiche e ottenne la cattedra di filosofia nel regio liceo di Firenze.
Iniziato in massoneria nella loggia fiorentina "La Concordia.” Nominato
professore di filosofia a Bologna. Divenne docente ordinario della stessa
disciplina sempre nell'Ateneo felsineo. A Bologna tenne anche un corso di
sociologia. Qui, inoltre, strinse amicizia con CARDUCCIi, anch'egli accademico
a Bologna ed entra in contatto con FIORENTINO e SPAVENTA. Dirige la Rivista
bolognese di scienze, lettere, arti e scuole. Ne abbandona la direzione per
divergenze maturate in seno alla direzine generate, probabilmente,
dall'impostazione eclettica che S. intende dare alla rivista e che contrastava
con l'indirizzo idealistico voluto da FIORENTINO. A Bologna istitue un centro
di studi pedagogici, contribuendo all'elevazione della pedagogia al rango di
scienza. Convinto assertore della valorizzazione della persona e perciò la sua
azione educativa, per giungere alla conquista della libertà e del carattere
morale da parte del soggetto da educare, prevedeva l'intervento della famiglia
e della società. Altro sua filosofia fondamentale e il principio
dell'autodidattica che, pur non escludendo l'azione dell'educatore, mette in
primo piano il protagonismo del soggetto da educare. Ricevette onoranze e
attestati di stima da parte di molti studiosi europei e americani, mentre in
Italia la sua fama fu oscurata da giudizi negativi, espressi anzitutto da
Gentile che vede in lui un'espressione benché autonoma del positivism. Di
recente è stata rivalutata l'influenza vichiana sul suo pensiero. A lui è
dedicata la biblioteca civica di Galatina, nella quale è conservato il
"Fondo S." la raccolta, cioè, dei libri appartenuti al filosofo. A
lui è dedicato anche il Liceo di Lecce. Di formazione giobertiana, si accosta a VICO, tentando di inaugurare una
filosofia mediana -- detta della terza via -- che individua una sintesi tra
opposte e differenti discipline. Dal suo punto di vista, infatti, ogni
filosofia contiene del buono e delle esagerazioni. Metodo della filosofia
mediana e dunque, quello di salvare ciò
che c'è di buono della filosofia per rigettarne le astrattezze e le
esagerazioni. Con il saggio “Zoologia
filosofica” (Napoli) approde nel più ampio dibattito, ricevendo apprezzamenti e
pareri favorevoli dai più illustri scienziati internazionali. Nel frattempo
approfonde e da il suo contributo speculativo alle nuove discipline che muovano
alla ricerca di un'identità epistemologica: la sociologia (“Socialismo,
darwinismo e sociologia” (Bologna); “Teorie sociali e socialismo” (Firenze) e
la psicologia – “Prolegomeni alla psicogenia” (Bologna). SANCTIS confere a S.
la presidenza di congressi a Firenze, Venezia, Genova, Milano, e Roma. Queste
esperienze lo portano a un approfondimento sempre maggiore della filosofia alla
quale contribue a conferire un indirizzo scientifico, positivista e ampiamente
laico (v. le sue opere Rivoluzione e pedagogia moderna, La scienza
nell'educazione). “Filosofia della scienza” (Firenze); “Il metodo numerico e la
statistica” (Firenze); “Della legge storica” (Firenze); “Della libertà ed unità
organica della filosofia” (Firenze); “Della fisiologia sperimentale” (Pisa);”
“Medicina filosofica” (Firenze); “I
principi metafisici di VICO” (Firenze); “Il triumvirato: ALIGHIERI, GALILEI, E
VICO” (Firenze); Ai popoli salentini e al gonfalone di Galatina un saluto e un
augurio (Firenze); “Il criterio filosofico” (Bologna); Critica del positivismo
(Bologna); Le fonti storiche della filosofia positiva in Italia in GALILEI
(Bologna) Gli hegeliani in Italia (Bologna); La condanna del positivismo
(Bologna); Della pedagogia all’educazione in Italia (Bologna); L’educazione
(Bologna); Sul rinnovamento della filosofia in Italia (Firenze); “La scienza
dell'educazione nelle scuole italiane come antitesi alla pedagogia (Bologna);
Dei massimi problemi della pedagogia (Roma); Il sacro secondo i dettami della
filosofia (Firenze); L’nsegnamento della pedagogia (Torino); Della pedagogia scientifica
(Milano); Rivoluzione e pedagogia moderna (Torino); Storia critica delle teorie
sociali (Bologna); Fra vescovi e cardinali (Roma); Rivoluzione e pedagogia
(Torino); “L’educazione secondo i principi della sociologia” (Bologna);
Rinnovamento e filosofia internazionale (Bologna); La nuova biologia (Milano)
Le questioni contemporanee e la libertà morale nell'ordine giuridico (Bologna).
CALOGERO, Enciclopedia Italiana, Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,
Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea
in Italia. Calogero. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Invitto e Paparella, “Ri-leggere S.” (Lecce); Capone Galatinesi
illustri, Guida Biografica, Galatina, Tor Graf Galatina, Carteggio familiar, Luceri, Centro Studi Salentini, Lecce, P. S. e Pozzolini. Filosofia e Letteratura,
Convegno Galatina Treccani L'Enciclopedia italiana, Psicologia filosofica.
SUL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA POSITIVA
IN ITALIA PROFESSORE DI FILOSOFIA NELLA
R. UNIVEBSITÀ DI BOLOGNA, QlX
PB0FES80BE NEL B. LICEO DI
FIBENZE, FIRENZE, G. BARBÈRA, PRINTBD
IN ITALY-;atana.Quest'opera è
stata depositata al
Ministero d'Agricoltura, Industria
e Commercio per godere
i diritti accordati dalla logge sulla proprietà letteraria. G. BarbI'.ra. !', (rcnuitifi
TERENZIO MAMIANI DELLA
ROVERE (vedasi). Mio SiQsoR
Conte. Ella è primo tra i moderni
italiani a tentare un
rinnovamento della filosofia e
a Lei pure spetta
il vanto d' aver
continuMa e compiuta la
nobile tradizione de' Galuppi, de Rosmini e de' Giobertij della
quale per fermo
rimarranno durevoli tracce nella
storia dd pensiero
nazionale. A chi dunque
meglio che dUa,
S. V. potrei intitolare questo
mio saggio j il
quale mira al
fine medesimo cui Ella
indirizza il suo primo
lavoro? Che se talora^
per quella libertà
di giudizio alla quale
Ella stessa educò
le nostre menti con
le sue dotte
scritture troverà contbaittUi
in queste pagine akuni
jprincijpii da Lei
propugnati non
vorfà perciò reputare
scemato qud senso
di schietta riverenza chcy
come ai pochi
sommi onde si onora
U paese nostro,
le professano tutt^
i cid tori degli
studi severi. Anzi
novella prova di
questa larga tolleranza io
m* èbbi testé,
quando, con la squisita
gentilezza che in
Lei è natura,
Le piacque accettare V
offerta di questa
mia fatica. La
quale io spero vorrà
giudicare benignamente: al che mi conforta
pure il ricordo
di certe argute
parole ch^ Ella dicevami
ima volta chiudendo
un lungo conversare circa
le gravi divergenze
delle diverse scuole filosofiche:
«porro unum necessarium ! coscienza e
fervore nel lavoro:
il resto verrà da
sé. » Suo deditissimo P. S. BiTiglìano
presso Monte Senario In
questo salutare innovamento politico
d'Italia cui assistiamo trepidanti,
un saggio di
rinnovamento filosofico
dovrebbe giugnere opportuno
e gradito. Perocché se tutti
oggi andiamo ripetendo l'arguta frase d’AZEGLIO fatta
ormai V Italia, Insogna
far gl’taliani parmi
sia d'uopo cercare
di rifarci innanzi tutto
nell'intimo di nostra
coscienza, nella radice, nella
sorgente stessa d' ogni
umano e civil
progresso, eh' è dire
il pensiero filosofico.
Andare a Roma,
grazie agli eventi fortunati
e al nostro
buon diritto nazionale, non è
stato guari difficile,
né sarà difficile,
speriamo, potervi restare. Ma
vi staremo senza
dubbio materialmente, se Roma,
la vecchia Roma,
il pensiero cattolico non
si verrà anch'esso
riformando e svecchiando. La qual
cosa certo conseguiremo
per gradi e con
le arti che
dovrebbe saperci dare
la sapienza politica, civile
e amministrativa ; ma
gioverà non dimenticar mai come
l' espediente più d' ogn'
altro efficace e sicuro
ad opera siffatta,
sia per appunto
una rinnovata filosofia n
bisogno di restaurar
la filosofia surse
di buon'ora neir animo
degl’italiani ; il
che parrebb' essere
un d^' caratteri speciali della
storia della nostra
speculazione, sino da quando
gli scrittori del
Rinascimento, scosso il giogo
della scolastica, mandavan
fuori i lor libri
col titolo De
PhilosophÙB renovatione. Né
quindi è a meravigliare
se cotal necessità
sia venuta crescendo sempre più
nelP animo e
nella mente nostra
col succedersi degli anni,
tanto che a
siffatta impresa nobilissima abbiam visto
provarsi gV ingegni
più illuminati e fecondi:
primo fra tutti,
in questo secolo,
il Mamiani col
Binnovamento della Filosofia
antica italiana e, poco appresso,
SERBATI col Binnovamento
della Filosofia in Italia;
indi il Gioberti
con la Introduzione aUo studio
dèlia Filosofia, con la quale
mirava anch' egli ad
una restaurazione filosofica
nel nostro paese;
e, per ultimo, il
professore Spaventa ha
procacciato volgere anch' egli
al medesimo intento
le sue dotte
scritture, in ispecie quella
su la Filosofia
dd Gioberti. Se non
che rinnovare, pel
filosofo di Pesaro,
altro non voleva dire
se non restaurare
certi principi! e richiamare
in vigore alcune
industrie metodiche de' filosofi appartenenti, la massima parte,
all'età gloriosa del nostro
Risorgimento. Talché, quando Rosmini gli fece
toccar con mano i pericoli
ne' quali s' era
messo mostrandogli come il
Binnovamento proposto da lui
conducesse diritto ad
una maniera di
sensismo, e' venne modificando siffattamente
le dottrine propugnate
nel suo primo libro,
che dopo trenta
e più anni
s' é studiato nelle Confessioni
d'un Metafisico d'inaugurare un novello
Platonismo, siccome forma
di filosofare acconcia air
indole della mente
italiana. H Roveretano poi non
solo mirò a
restaurar cose vecchie,
ma volle produrre altresì
qualcosa di nuovo.
E pur nullameno, chi guardi
ben addentro ne'
copiosi e disameni
volumi che seppe darci
quella mente potentissima,
tranne il • problema
psicologico eh' ei
giunse ad illustrare
in guisa davvero originale,
ogn' altra cosa
in lui parrebbe invecchiata e
quasi stantia. Della
stessa menda riesce offesa
la Introduzione di Gioberti.
Che V ardente
e generoso autore del
Primo^ intendeva svecchiare
(come diceva, gloriandosene, egli
stesso) le idee
cardinali di quattro o
cinque filosofi cristiani,
il cui sussidio
e autorità invocava quasi
ad ogni voltar
di pagina. Non parlo
qui del rinnovamento
eh' e' veniva
meditando nella protologia: nella
quale senza dubbio
avremmo avuto germi fecondissimi
di vera e
solida ristorazione
filosofica, se a
queir ingegno privilegiato
e supremamente italiano fosse
stato pur conceduto
imprimere valore diffinitivo, forma
netta e coerente,
alle diverse dottrine che
con ansia febbrile
andava saggiando e trasmutandosele in
sangue. Per contrario SPAVENTA, del quale
abbiamo in grandissimo
pregio l'ingegno e l'amicizia,
intese dare anch' egli
nuovo indirizzo al pensiero
italiano, ma battendo
ben altra via;
la via dell'Idealismo assoluto.
E studiossi d'inserirci
nell'animo e nella mente
i principii dell' Hegelianismo, per
due ragioni: sì perchè
egli pensa esser
questo il vero
e compiuto sistema di
speculazione, almeno secondo
che viene interpretato da lui; e
sì perchè gli
è parso d'averne rintracciato
i germi in
certi nostri filosofi a
cominciare dal Telesio,
per esempio, fino a
Gioberti. Fer noi rinnovare
non vuol dir
solamente richiamare,
instaurare, svegliar dalP
antico, né solamente importare dal
di fiiora; che
sì nelF un
caso come nelr
altro il rinnovamento,
anziché naturale, spontaneo, autonomo, storico,
riescirebbe artifiziale, imposto,
incosciente e, dirò quasi,
meccanico. Vuol dire
bensì far da noi:
far da noi con elementi
che ci appartengano, ma tali
che serbino (ciò
che più monta)
^virtù d' originalità e
di verace modernità.
Vuol dire » insomma
esplicare; né si
può esplicare senza
correggere, compiere, inverare. Avremo sbagliato
strada anche noi?
Potrebb' essere! Non saremmo i
primi, e, certo,
neanche gli ultimi. In
qualunque modo . ci
sembra che, pure
sbagliando, noi non resteremo
troppo indietro fra
le mummie, né avremo
corso tropp' oltre
col pericolo di
fiac \ card '1 collo. So
ben io che
i Positivisti fan
presto; ad innovar la
filosofia radiandola addirittura
da' libri ^ e
dandole il ben
servito dalle nostre
scuole grandi e mezzane,
quasi fosse un
trattato di teologia
dommatica. Ma costoro
avrebber fatto i
conti senza Toste. £
r oste in
tal caso é
lo stesso pensiero,
anzi la mente stessa,
dalla quale per
nostra fortuna mai
non riesciranno a sradicare
il profondo e
sempre più acuto bisogno
del filosofare: senza
dir già che,
s' ei riescissero ne'
loro intenti, scambio
di sciogliere V
intricato nodo, altro non
avrebber fatto che
tagliarlo di netto; e
che potessero giugnere
a tagliarlo con
sicurezza ninno il crederà,
pensando come la
spada eh' e' ci
brandiscon sul viso
non par che
somigli quella del gran
discepolo d'Aristotele! Accennato il
carattere generale ed il proposito del
mio saggio, toccherò
della sua forma
e del suo disegno.
Mi si potrà
chiedere: È egli
cotesto vostro saggio un
lavoro di genere
critico, storico, monografico, ovvero dommatico? A
parlar proprio non
è nulla di
tutto questo. Un lavoro
d' indole dommatica, per
solito, dee racchiuder l'esigenza d'un
sistema nuovo, d'una
dottrina originale, se pur
non voglia esser
vana ripetizione ed increscevole imitazione
del passato. Ora
un novello) sistema filosofico
oggi sarebbe impresa
da muovere a riso,
od a pietà.
Sono ormai ventidue
secoli, e noi, tardi
nepoti, ci andiamo
pur sempre aggirando,
ivi sostanza, fra il
Platonismo, e l'Aristotelismo. La
qual cosa non recherà
maraviglia a chi
consideri bene la storia
del pensiero filosofico,
nella quale, volta
e gira, non si
può esser che
con l' uno o con l' altro
sistema, ovvero fra l' uno
e l' altro, e
però con tutt'
e due, se pur
non vogliamo smarrirci
inevitabilmente e miseramente in una
forma di scetticismo,
o di nullismo. Ai
di nostri, dunque,
un nuovo sistema
filosofico p^rmi utopia, sogno
e, stavo per
dire, ciarlatanismo. L’ingegno filosofico oggi
deve assumer valore
di funzione critica rintegrativa,
nella quale si
faccia luogo alla concorde
attività di due
forze, la storia
e'1 pensiero, che vuol
dire il fatto
e'1 da fare. La
monografia poi, o
è d'indole semplicemente storica e
obbiettiva, ovvero d' indole
critica. Se storica obbiettiva, ella
avrebbe a essere,
dirò così, un fedel
ritratto, una perfetta
immagine della mente
d'un filosofo, 0 di
tutta una scuola
di filosofi. Or
cotesto immagini e ritratti,
se da una
parte tornano inutili e
infruttuosi stantechè non
facciano che ripeter
sott' altra forma cose
che potremmo leggere
nella stessa lor fonte,
dalP altra mi
paion quasi impossibili,
perchè è impossibile penetrar
davvero nelle intime
viscere del pensiero altrui,
e farai dentro
alle occulte pieghe della
mente d' un filosofo.
H notissimo detto di
Kant si può
e devesi applicare
anche qui: quidqtUd recipUur, ad
modum recipietUis recipitur.
Che se poi la
monografia è di
genere critico, ella
riesce assai pericolosa; perchè
trattandosi d'interpretare, è pur
facilissimo affibbiare agli
altri quel che
invece frulla nel capo
nostro; nel qual
vizio intoppano, com' è noto,
gli Hegeliani, sì per la
natura stessa del
loro metodo, e sì
per le secreto
esigenze del loro
sistema. Da ultimo, un
lavoro di genere
puramente istorico oggi non
dovrebb' essere impresa
molto ardua fra tanti
libri storici che
ci piovon da
tutte le parti. Basta
sposare un sistema,
una dottrina da
farla servire qual criterio
giudicativo; basterà un
po' d' acume critico, un
po' di tedesco
per le citazioni
obbligate a pie di
pagina, e poi
molta e molta
dose di pazienza e
di sgobbo per
raccogliere e adunar
notizie e teoriche da
farle servire al
criterio giudicativo che ci
torna comodo. Per me
l'ideale d'un buon
libro, l'ideale d'un
libro serio, coscenzioso e
positivo di genere
filosofico, oggi dovrebb' essere,
diciamo così, una
sintesi di tutt'
e quattro cotesti aspetti
o condizioni le
quali, guardate disgiuntamente e
solitariamente, si palesan
manchevoli tutte e
difettose. Ha da
essere perciò, nel medesimo
tempo, monografico, isterico,
critico, e anche dommatico sino a certo
segno. Cotesto ideale
(negozio non molto agevole,
come sanno coloro
che se ne
intendono e che possiedono
quel che dicesi
gusto de^ lavori filosofici), non
può essere un ricamo sovra
una stoffa altrui, e
neanche un parto
assoluto del nostro
cervello; sibbene ha da
essere il risultamento
di due forze
combinate, come dicevo poco
fa; ciò è
dire della mente di
chi scrive, e
di chi per
avventura possa più
spiccatamente rappresentare il corso
tradizionale della scienza. A
questo sol patto
sarà dato pervenire
al connubio fra la
teorica e '1
fatto, tra la
scienza e la storia
della scienza, portandole
entrambe ad un
fiato^ come direbbe il
filosofo nel quale
io amo attingere ispirazioni. Laonde
chi volesse oggi
filosofare con coscienza,
dovrebbe saper costruire,
come dicon gli Hegeliani
(e qui dicon
benissimo); ma dovrebbe
co ^ struire senza tradire,
che è per
V appunto il
gran guaio della critica
hegeliana. Questa grave difficoltà
parmi d' averla superata, s' io molto
non m' illudo, E
mi pare d' averla
superata, perchè il mio
libro è come
la sintesi e
vorre' dir la fusione
razionale e organica
de' quattro aspetti quassù rammentati;
e tal sarebbe
la novità Cquant'
al disegno e alla
forma del lavoro)
alla quale vorrei pretendere, se
avessi coscienza d' aver
raggiunto lo scopo. Cotesto
scopo, lo veggo
da me, io
non ho potuto raggiugnerlo,
perchè ho dovuto
costringere e rannicchiare il
mio pensiero entro
un dato numero di
pagine, affogando in
nota molte e
molte cose alle quali
avre' voluto pur
dare ben altro
svolgimento e fisonomia. Però
chiedo un po'
di compatimento quant'al modo
col quale ho
incarnato il disegno,
ma domando severità di
giudizio quant' alle
idee. Le quali,
meditate da me per
tempo non breve,
sento di poter difendere contro
chi vorrà farmi l’onore
d' una critica non leggiera,
non velenosa, non
da scuola, né da
sacristia (alla quale
non saprei rispondere,
né risponderò), ma d'una
critica seria, onesta,
profittevole. Il Gioberti scrisse
che il critico
onesto e coI
scienzioso deve durar
la metà della
fatica spesa dall' autore
nel meditare e
scrivere un' opera
di scienza. |Leibnitz andava
molto più in
là, e richiedeva
da'lettori quasi '1 medesimo
lavoro sostenuto dallo
scrittore. Io non pretendo,
né davvero posso
pretender l' una cosa, né
r altra: ma
certo potrò desiderare
che, chi voglia giudicarmi con
qualche serietà, debba
leggere e (se oggi
non fosse troppo)
meditare un po' le
cose ch'io dico. 11
che ho voluto
qui avvertire, perché,
se può dubitarsi che
in politica esistano
le cosi dette
consorterie, certo é che
tra' filosofi cominciano
a far capolino certe
fratellanze le quali
giudicano d' un lavoro a
priori, guardando solo
al titolo e
al nome dell'autore.
Dio ci liberi
dalle fratellanze filosofiche! Esse per
me, a dirla
schietta, sono altrettante
Compagnie di Gesù negli
ordini del pensiero
e della libera speculazione metafisica. Questo mio saggio, e l'
altro che terrà
dietro su' principi della
Sociologia^ non é l'
espressione di nessun partito,
di nessuna setta,
di nessuna scuola. Non
é frutto di
speculazioni e ricerche
passionate, perche io
non mi sento
schiavo di nessuna
scuola, servo di nessun
nome, né milito
sotto nessuna bandiera più
0 meno germanica,
italica o francese
che sia. \Baiùmem, quo ea me
cumgue ducete sequar:
ecco tutto. Neanche sarebbe
una di quelle
novità sbalorditole alle quali
siamo avvezzi da
dieci anni a questa
parte. Esso anzi
è la più
modesta cosa del mondo:
che per quanto
il titolo paia
ardito, non sarà tale
per chi ripensi,
come la sostanza
delle dottrine eh' io
propugno non mi
appartenga in modo
assoluto. S'altri mi darà
dell' ecclettico, risponderò d'esser tale
precisamente, ma nel
profondo significato che costumava
dare il Leibnitz
a questa usata
e abusata parola. E
se qualcuno poi
trovasse, che questa
o cotesta dottrina alla
quale verrò accennando
non sia propriamente dell' autore
eh' io dico
d' ormeggiare nel metodo e
Dell'indirizzo filosofico, tanto
meglio per me.
Rispondo come in un
caso simile rispose
egli medesimo a certi
suoi avversari: Che
se finalmente non
volete » ricevere questa
sentenza come di
Zcìione^ mi dispiace »
di darlavi come
mia; ma pur
la vi darò
sola, e B non
assistita da nomi
grandi. » € Le
cose fuori del
loro stato naturale non
dnrano né s' adagiano.
» Vico. Non
intendo scrivere la
storia, e tanto
meno far la crìtica
minuta del Positivismo;
indirizzo che, come
ognun sa, non senza
buon§ e diverse
ragioni invade oggi
e pervadeTa mente
di molti filosofi,
di scienziati, di
storici e scrittori d'ogni
maniera. Altra volta
m'avvenne d'accennare alla parte
debole di cotesto,
diciamolo pure, sistema filosofico. E
allora parvemi, fra
1' altro, di
provar questo: che il
Positivismo, secondo il
concetto che se ne
sono formati segnatamente
i Francesi, non
pur mancava di storia,
ma non può
averne avuta di
nessuna sorta.* Oggi poi
dovrò intrattenermi a
ragionare su le
dir. verse forme che
il Positivismo ha
preso e può
prendere in avvenire, giacché
ormai comincia ad
avere anch'egli una storia,
per brevissima che
sia, da raccontare;
e [quindi rilevare certa
parentela ch'egli ha con l'Hege'lianismo. Nel
quale riscontro probabilmente
meriterò anch' io, dall'
alto giudicatorio su
cui siedon gli
Hegeliani, la solita commiserevole
sentenza che, com'è
pur [Vedi Critica
del Positivismo, Bologna,
Monti]. 5ICILUM. 1 troppo noto,
suona così: Pover'uomo,
non ne capisce niente di
niente; non Im
dramma di potenza
speculativa, ^ ne briciolo
di nerbo dialettico!
Mostrerò, da ultimo,
se . una vera
forma di Positivismo,
ch'io chiamerò Filosofia
Positiva italiana, sia
per avventura i)ossibile;
e] in qual maniera
si possa, mercè
sua, pervenire a
corregger r uno e
compiere l’altro de'
due sistemi suddetti, accogliendo quelle
parti veramente pregevoli
che in essi certamente
non mancano. Comecché il
Positivismo non sia
ne voglia essere
un sistema, pure quant' all' origine psicologica,
per così dirla, non
mi sembra eh' e' s'abbia a
distinguere gran fatto dagli
altri sistemi filosofici.
La ragione immediata
del suo apparire parmi
risegga nell' esigenza
di contrapporsi ad una
forma contraria di
filosofare creduta affatto
erronea; e questo filosofare
in tal caso
è il dommatismo
metafisico. (IJom' è chiaro,
cotesta in sostanza
è l'origine stessa dello
scetticismo, secondo che
c'insegna tutta una
storia di ventidue secoli,
ne' quali affermazioni
risolute souosi contrapposte a
risolute e persistenti
negazioni. Il Positivista,
infatti, reputa inconcludente
ogni speculazione!
trascendentale. Positivismo quindi
vuol dire esigenza! della prova,
esigenza, bisogno della
dimostrazione; maC della prova
di fatto, della
dimostrazione sperimentale. Se non
che, a guardarci
bene, lo stesso
Positivismo manifesta già senz'addarsene un
bisogno filosofico, una
tendenza speculativa,
un'attività trascendente là
dove, per dirne una,
procaccia di raggiungere
la così detta
complessità crescente nel coordinamento
de' fatti, e nel
volere imprimere forma gerarchica
all'insieme delle particolari discipline. Col
che non intendo
dire che il
Positivismo sìa già una
metafisica; ma è
per lo meno
una metafisica incosciente, come
un illustre scrittore
francese, non senza cert'
aria di meritato
rimprovero, ha detto
al Littré. Per la
qual cosa paimi,
che il Positivista
contraddica*^ apertamente a sé
stesso quando vien
su gonfio e
pettoruto a dichiarar guerra
sino all' ultimo
sangue contro a ogni
maniera d'indagini metafisiche;
tanto che la tendenza
de' Positivisti a filosofare,
tendenza del resto naturalissima e
necessaria, diventerebbe atto,
facoltà, vo'dire
diventerebbe metafisica vera,
quando potesse avverarsi una
condizione. Mi spiego
subito. Io non
credo offendere anima viva
osservando che fra'
Positivisti irancesi sia un
bel po' difficile
trovare un solo
che abbia studiato con
amore, per esempio,
la Ragion Pura di Kant,
segnatamente la Critica
dd giudizio: difficilissimo poi ritrovare
uno solo, fra'Positivisti italiani
militanti ^ sotto le
bandiere del Comte o
meglio del Littré,
che con pari amore
e spassionatezza d' animo
abbia letto, per esempio,
il Nuovo Saggio
di SERBATI. Prescindendo dalle mende
svariate di che
non va esente
il Criticismo e nemmanco
il metodo psicologico
rosminiano, io non so
persuadermi come, dopo
aver letto e
inteso a dovere
lei due scritture mentovate,
si possa essere
o dirsi Positivi vista, secondo
il concetto volgare
che di questa
parola ci ha dato
e ci dà
oggi chi piti
ne parla. Se non
che nessuno immagini
eh' io qui
intenda far \ un
fascio del Positivismo
Francese, del Positivismo
In \ glese e, se
vogliamo, anche del
Positivismo Germanico; 1 benché
quest'ultimo, assumendo sempre
più forma di schietto
e nuovo e
ardito materialismo, mostri
esser già un sistema
beli' e buono,
checché se ne
sia detto o voglia
dirsene in contrario.
Ma di questo,
fra poco. Quant' all'
altre due forme
di Positivismo, ninno
sarà che ' ignori
le polemiche tanto
gravi, pacate, esemplarmente
' serene fra Mill
e Littré avvenute
or fa un
anno. \ E molti
conosceranno le obbiezioni
che quel robusto ingegno di
Herbert Spencer ha
saputo muover contro certe
dottrine del Comte.
Chi abbia vaghezza
poi di sapere qual
sia il carattere
e il resultato
di queste due maniere
di Positivismo, potrà
innanzi tutto guardare
alla forma, al fine,
persino al titolo
delle opere nelle
quali tale dottrina è
insegnata e propugnata.
Così, mentre Stuart Min
ha fatto una
logica, o, a
dir meglio, un ft
Sistema di Logica,
che potrebbe riguardarsi
addirittura \ come un
contr' altare al sistema
della logica hegeliana;; il Comte,
almeno nei primi
volumi delle sue
opere, ci ha lasciato
(chiedo perdono a
tutti gV iddii
della Senna) una specie
di rassegna, ma
di rassegna ragionata,
giudiziosa e, dicasi pure,
ingegnosa, delle particolari
discipliiie, massime di
quelle che a
lui tormivan più
familiari. Ho detto nei
primi volumi, perchè
nelle opere posteriori, com' è
noto, desiderando compier
V edifizio, egli ammannì
un sistema di
politica, un sistema
di religione e d' educazione, un
sistema di morale
positiva, e financo d'igiene: morale
senza principio, se
pur non vogliamo appellare così
certa regola di
condotta eh' egli
espresse con quella brutta
parola d' Altruismo: religione
senza Dio, se pur
non vogliamo piegare
il ginocchio e
dar incenso a quella
divinità chiamata il
Grand*Essere; intomo alla quale,
com'è noto, il
fondatore del Positivismo
francese finì per fantasticare
alla maniera de'
neoplatonici Alessandrini e del FICINO. Checche
ne sia, può
dirsi ch'egli predicasse bene
quant'a metodo, ma
razzolasse male quant'a sistema,
perchè affermava, anzi
esagerava nella pratica ciò
che sdegnava e
risolutamente negava nella teoria
e nell'ordine speculativo;
intendo il concetto dell' unità
o Sistematismo nd
sapere, secondo il suo
linguaggio. Da questo primo
riscontro, che diremo
esteriore perchè riflette la
forma generale delle
opere e un po'
anche il valore
del metodo ne' due
filosofi, si può ai^omentare che
Mill guardi la
scienza sotto l'aspetto subbiettivo, cioè
come una serie
di concetti, mostrando così d'aver
piena fiducia in
una logipit che
sia atta a risolvere
un problema distinto
sì cJaT problemi
e sì dal soggetto
in che versano
le speciali discipline/
Esiste infatti, egli dice,
una conoscerla scientifica
déWuomo in quanfè un
essere intéUettude, morale
e sodale, e
quindi una dottrina delie
cognidom détta coscienza
umana.* Agli occhi del
Comte, per contrario,
non esiste logica tranne
che intrinsecata con la natura
stessa di ciascuna scienza. Se
volete conoscere, per
esempio, la logica
della chimica (egli dice),
studiate la chimica.
Ecco la scienza sotto
r aspetto puramente
ed empiricamente obbiettivo; in quanto
che considera le
cose in sé,
e solamente come oggetti.
Tal difiFerenza, com' è evidente,
non è lieve, massime
quando tengasi conto
de' risultati. Il risultato cui
giugno il Positivismo
inglese è questo:
la} metafisica esser possibile,
ma solo come
ricerca logica,! come investigazione e
analisi di concetti.
Il che, s' è|
pregio nella logica
del Mill per
la fede eh'
e' ripone nelle forze
del pensiero, è
auche il suo
difetto massimo, stante che
siffattamente ei chiudesi
tutto nel formalismo
** logico, secondo che
altrove mostrai.' So che
il Mill se
ne vuol difendere,
facendo vedere qual divario
corra fra la
logica formale e
quella eh' e'
dice logica della verità.
Ma la pecca
di nominalista in lui
è chiara. Ed
è chiara per
chi abbia convenevolmente considerato quelle
quattro teoriche, nelle
quali il filosofo inglese vuol
darsi addirittura per
innovatore: intendo ' le
dottrine della dimostrazione, della
definizione, degli assiomi e
della induzione. In
tutto questo egli
è per* Vedi
Stuart Mill, A.
Comte et U
Pontivitme, Paris. Vedi la
Ont, del Po9ÌHv.
innanzi citata, VI,
pag. 19. fetto Baconiano,
checché ne dica
egli stesso. Perocché, se
la inente ne'suoi
concetti, secondo questo
filosofo, è superiore ai
fatti; non però
cessa d'essere un
artifizio, logico, un artifizio
psicologico, un intreccio
a cui nulla; d' obbiettivo potrà
mai rispondere. E di qua
proviene i poi un'
altra conseguenza, eh'
è questa. Se
nella logica la posizione
di Mill riesce
evidentemente unilaterale e subbiettiva, è
pur d' uopo eh'
ella si manifesti
impotente anche nella scienza
storica, eh' è
dire nell'organamento ^ razionale
de'fatti storici. Ora
se il metodo
positivo giunge a legittimar
1' analisi de'
concetti e la
critica delle idee, non
bisognerà dire che,
come esigenza critica, ei
contraddica a sé
medesimo quando dichiara
di non potere in
alcun modo studiare
idee e concetti
nell'obbiettivo lor
significato? E donde
questa impotenza? Dalla natura
stessa della mente,
si può rispondere.
Ma, s'egli è così,
la possibilità della
scienza si traduce
in impossibilità vera. Che
poi questo non
sia e non
possa essere, ne porge
guarentigia sicura il
processo istorioo delle scienze
tutte, e l' incessante
progresso ond' elle
ci dan prove luminose.
La ricerca in
senso obbiettivo, adun-? que,
è possibile; dove
che per Mill
è addirittura im-* possibile. Questa
è la parte
debole del Positivismo
inglese.; L' errore opposto è
il Jifetto del
Positivismo francese. Se per
Mill psicologia e
logica sono scienze
che s' alimentano di sé
medesime; per il
positivista francese, al contrario,
elle non sono
che appendici della
biologia, al modo stesso
che la sociologia
é come un
allargamento della storia, ciò
é dire una
generalizzazione del fatto istorico, ma
del fatto verificato
mercè la deduzione
delle leggi della natura
umana. Qui, ripetiamo,
la differenza è profonda.
La scienza della
civil società, secondo
il' Positivismo inglese, pone
radice nella così
detta Etologia, li' Etologia è la vera
scienza dell'uomo, egli
dice. . Essa è
una generalizzazione non
già verificata, ma sì
primiti/vamente suggerita dalla
deduzione détte leggi della
natura umana.^ Ora
la funzione deduttiva,
nel Positivismo inglese, non
è operazione immediata,
non è operazione secondaria
alla induzione, com'
è nel Positivismo francese, ma
è funzione a
priori, è funzione
i cui risultati vonn'
esser giustificati con
T osservazione, e con
la scrupolosa ricerca
delle leggi empiriche. Brevemente, dunque:
pregio singolare del
Positivismo inglase è il
metodo deduttivo-concreto (per
usar la frase di
Mill) applicato alle
scienze morali in
generale. Questo metodo è
costituito di due
processi che si
svolgono, per così dire,
di fronte; non
già di due
parti d' un medesimo processo, l’ una delle
quali sia conseguente
all' altra, com' è
per i Francesi
positivisti. Per tal
prerogativa massimamente
parmi che il
Positivismo di Mill mostri
accostarsi all' indole
della filosofia nostrana,
e molto allontanarsi dal baconianismo alla
maniera che questo metodo
s'intende da'più.* Carattere
e pregio poi del
Positivismo francese, parmi
stia nel credere
alla j)ossibilità d'una filosofia
come risultato di
tutto quanto il sapere
umano, e quindi
nel porre come
inevitabile o sua condizione
la necessità della
storia. L'indagine storica, il metodo di
filiazione: ecco il
distintivo del Comtismo, eh' è
anco il massimo
suo pregio.' Contro Comtismo
è facile muovere
la medesima difficoltà, quantunque
in senso contrario,
mossa testé contro Mill.
Se infatti è
possibile una ricerca
e una critica storica;
perchè non sarà
possibile una ricerca logica, una
critica dei concetti,
come tali? Perchè dunque
negare una logica
e una psicologia
supef * Vedi Mill,
Sy^time de Logique. Vedi
CoMTB, Pha. Pontive.
Voi. V, Lez.
48". . riore alla storia?
Se non che
delle due maniere
di Positivismo, quella de' Francesi
va piii facilmente
soggetta a contradizione; la
qual cosa tiene
alla doppia origine storica
per cui si
distingue cotesto sistema.
Parecchi scrittori francesi
infatti hanno avvertito,
che ove il Comte
parla di natura
e di scienze
fisiche, è decisamente sensista,
materialista e nominalista;
mentre che ove parla
di filosofia politica
e storica si mostra
panteista, ma senza
dar prova di
quella speculazione
ingegnosa, di quella
mirabile unità razionale,
cui sanno poggiare, bene
o male che
sia, i Panteisti
moderni.' Donde tal
contraddizione? Dall'essere il
Comte, } per una
parte, figlio del
Sensismo francese; dall'
altra ì poi figlio
del Sansimonismo, che,
com' è noto,
è forma j grossolana
di panteismo. Per
questa doppia tendenza
| i Positivisti di
Francia non possono
salvarsi dal cadere
j nelle conseguenze d' uno
de' due sistemi:
materialismo, 0 panteismo. So eh'
e' fan
presto a difendersi
dall'una taccia come dall'
altra. Ma la
logica vale qualcosa
più delle parole e
delle calde proteste.
E veramente checché se
ne possa dire,
uno degli scrittori
poco fa citati ha
fatto toccar con
mano al Littré,
che inevitabile resultato del
Positivismo è il
materialismo.* E d'altra parte
sappiamo, come tutti
i Positivisti oggi,
e propria ' mente i Comtisti, faccian
causa comune con
que' della \ sinistra
hegeliana, co' quali
hanno intimo legame,
se-l condo che mostreremo.
Ho detto come
per ragion d'origine
al Positivismo francese tomi
più facile inciampar
nelle contraddizioni. Ne poi^o
qualche esempio. Non si vuol
sapere nulla di cause
finali! Ma non
è forse il medesimo Lit[Vedi
Rbkocttibb, Annuairephìl Q
nell^altro . VaohbBOT, Metaphi9iq\w
potive. ; Trattenim. Jakbt, Onte
phiL * Vedi Janbt] tré
quegli che, mentre
grida contro il
principio della finalità, lo
afferma là ove
dice, per esempio,
l'essenza stessa della materia
oi^anizzata esser la
causa prima della finalità?
Eccoci in pieno
materialismo, e in
pieno sistema; tutto che
i Positivisti non
vogliano esser detti né
materialisti, né sistematici.
Ancora, io domando:
se per domma del
metodo positivo nulla
è da accettare
che non sia guarentito
immediatamente o mediatamente
da' fatti; perchè, al di là de^
fenomeni e dell'
esperienza e delle leggi
che se ne
traggono, voler credere
in un obbietto il
quale, per inconoscibile
che sia, é
sempre un' affermazione della ragione?
Domando: è egli
atto di metodo positivo, di
critica, di ricerca,
il parlare di
certo grande oceano qui
vieni battre notre
rive, et pour
lequd nous n'avons ni
barque, ni voiles,
mais doni la
dcdre vision est aussi
sahUaire que formUàble?
È egli atto
di Posh tivismo e
di ricerca che
sdegni qualunque spiraglio
di soprassensibile e di
soprannaturale, parlarci così
d'un Infinito, comecché non
se ne riconoscano
tutti quelli air tributi
che il fanno
tale? E se
ponete la possibilità
di conoscere cotesto vostro
inconoscibile per il
quale dite di non
aver barca né
vele che bastino,
ma la cui
cMaroi visione é pur
tanto sàkiiare al
pensiero; in che
maniera non accorgervi come
tutta la storia
della filosofia non altro
sia stata per
tutt'i secoli scorsi
fuorché una serie di
risposte, per così
dire, a cotesta
medesima domanda che neanche
voi dite illegittima,
né strana? Sarann'elle erronee tali
risposte: ne potrò
convenire. Ma saran
tutte errori da farne
proprio tavola rasa? Da
siffatte considerazioni ci
é dato trarre
una conseguenza. Nel Positivismo
oggi avverasi una legge;
quella legge che
accompagna sempre ogni
novello indirizzo nella filosofia,
eh' é dire
l' opposizione nel seno %
stesso del sistema.
Ecco una ragione
di più per
dichiarare, che dunque
il Positivismo è
un sistema come
tutti, gli altri !
La cagione profonda,
dice il Littré,
che divide / Comte
da Mill, è
il punto di
vista psicologico e
logico nel quale s'è
messo il filosofo
inglese, e la
definizione reale, obbiettiva, non
già formale né
psicologica, con che si
presenta la scienza
nel filosofo francese.^
Ora se il Positivismo
inglese è principalmente un
formalismo logico, e il
Positivismo francese è
essenzialmente un empirismo
! storico; ne viene
di conseguenza che,
in virtiì della stessa
critica positiva, noi
dobbiamo riconoscer legit-^ tima
una terza forma
di Positivismo, la
quale sappia sebi
Vedi Op. di
Vico, ediz. Predar!,
pag. 762. Vedi Risposta
a FINETTI] cosmologici
sparsi nel LS}ro
Metafisico, e in
questi attingere forza a
meglio interpretare e
propugnare le applicazioni fatte dal
Vico nella Sdenisa
Nuova. La contraddizione, dunque, passata
dal maestro al
discepolo * e il
non aver saputo
cogliere il principio
cosmologico del Vico, fece
sì che tale
polemica, nel modo
ch'era sostenuta da DUNI, apparisse
inefficace e manchevole. Debole e
manchevole infatti ci
sembra questa maniera di
ragionare: « Voi
vorreste che i
primi fondatori delle nazioni
fossero stati dotati
d' innocenza di costumi. Ma,
caro signor censore,
come potete voi
spiegare le origini dell’idolatria, la
barbarie, l’immanità negli
usi delle orride loro
religioni piene di
duro materialismo? Come l'immanità
delie loro leggi
e costumi, le
cui religioni si sono
per lungo tempo
conservate finanche nei tempi
della maggior loro
cultura, per qui
tacere le origini delle
lingue, delle poesie,
della frode e
cose simili? Come finalmente
i progressi di
tali nazioni di
cui ne abbiamo le
memorie troppo sicure,
e non soggette
alla minime dubbiezze? Ma,
giacché i monumenti
e la storia degli
antichissimi e de'
presenti barbari popoli
sono per voi sogni,
favole e delirii,
perchè non ci
dite con quali altri
principii, origini e
progressi di cose
umane debbasi ragionare di
questo mondo, degli
uomini, deUe nazioni, delle
tante umane istituzioni,
delle origini e progressi
delle umane industrie
nelle colture delle
cognizioni,alle tante maravigliose
invenzioni, nei governi e
polizia de' popoli
ed in tante
altre maraviglie che osserviamo
nel gran
teatro di questo
mondo degli uomini? Come
non sapete che
i costumi e
le leggi umane
debbano necessariamente
trarre loro origine
e progressi daUe idee
degli stessi uomini? Come
potete negare il vario
corso di tali
costumi, che di
grado in grado
spogliandosi del
materialismo, li troviamo
di fatto più
puri nell' età avanzata
che nella fanciullezza
di tutte le nazioni.*
Io non
dico che tutto
ciò non sia
vero: dico * Vedi
Risp. a FINETTI che DUNI,
a difendere invittamente
la sentenza del suo
maestro, avrebbe dovuto
movere dai principii
cosmologici e psicologici, i
cui germi non
mancano certamente nelle opere
di Vico. Gasuista
acutissimo, quanto insolente,
il Finetti sorrideva a
sentir elogiare e
difendere questa dottrina della Scienza
Nuova; e tutto
pieno d'entusiasmo religioso rispondeva con
XXIII obbiezioni cavate
dai libri santi.' Quindi
esclamava: Dottrine
veramente altissime ! religiosissimi e
ammirevoli pensamenti !
Tra le varie
cose onde pretende il
Vico di far
grandemente spiccare la divina
Provvidenza, una è quel capriccioso
di lui corso delle
nazioni sulle regole,
diciam così, del
trel II Duni andrà
in estasi a
tal pensamento; e
pure a me
è soggetto da ridere,
spezialmente quando si
pretende con à costante
ternario di far
spiccare la divina
Provvidenza ; essendo chiaro
eh' ella rìsplende
nella grandezza ed importanza
de' fini e
nella idoneità e
giusta proporzione dei mezzi,
e non già
nel far correre
le nazioni pe' numeri
di tre o
quattro. Un tale
giuoco non sembra certamente degno
dell' infinita sapienza
di Dio. »
E altrove, allargando la
sua critica, aggiunge:
« La maniera di
filosofare inventata dal
Vico è tale,
che può porgere delle
armi per oppugnare
la Religione. e
non poco corredo a
chi voglia farne
uso per impugnare
e mettere in dubbio
la Sacra Scrittura
e la divina
rivelazione....; » tanto che
paragonandolo al Boulanger,
uno. degl'increduli de suoi
tempi (com' egli
stesso nota), non dubita
porre a riscontro
le dottrine dell'uno
con quelle dell'altro per
otto diflferenti capi. Com'
è chiaro, FINETTI non
ebbe tutt' i
torti se gli venne
in grave sospetto
la Scienza Nuova.
Avea torto bensì nel
confondere, come ROMANO,
tale dottrina del Vico
difesa da DUNI,
con quella de' filosofi
francesi Vedi Sommario
delle oppoeizioni del
Sietema Ferino di
Vico alla Sacra SeriUura,
de' suoi tempi. Ed
è a confessare
che questo medesimo torto hann'
avuto di poi
parecchi altri critici,
anche viventi, laddove parlano
della dottrina su
lo stato ferino propugnata
nella Sdeiiza Nuova»
Avvertiamo una volta per
sempre che lo
stato di natura
di Vico noa ci ha
che vedere con
quello de' giusnaturalisti. E
tornando a FINETTI, a
meglio capire la maniera
della sua critica,
nonché il carattere
delle sue opposizioni, giova
qui rammentare certe
parole, da lui stesso
riferite con aria
di trionfo, d'un
personaggio"^ napoletano.
Il quale, stato
già scolare per
più anni di Vico,
raccontava come il
suo maestro in
Napoli fosse ritenuto per
uomo veramente dotto,
ma che poi
fosse stimato pwsfjso a
cagione delle sue
stravaganti opinionL Finetti si
degna dirci d' aver
chiesto a quel
gentiluomo partenopeo se quando
Vico scrisse la
Scienjsa Nuova fosse dotto,
0 non più
veramente pazzo. ediz.
Siena] ligente fu, al
pari di DUNI, PAGANO,
di cui il
solo nome è ricordo
pietoso ad ogni
anima gentile e
aperta ai sensi di
libertà. Come in DUNI,
così pure in PAGANO le
idee vichiane leggiamo
esposte con chiarezza
e facilità, ma anche
con troppa imitazione;
che anzi è da
confessare come in
lui faccian difetto
alcuni pregi di DUNI, per
esempio là dove
pone questi principii: che lo
stato della primitiva
barbarie non fosse
generale ; che la
gelosia, piuttosto che
un certo vago
senso religioso, spingesse l’uomo al
matrimonio; e che
tra la barbarie originaria
e la barbarie
medievale Vico non iscorgesse
divario di sorta: il
che a noi non
sembra punto vero.
Ma grave errore di PAGANO è quello
di volere interpretare
la storia in un
senso troppo fisiologico;
e questo tiene
alla efficacia che nella
sua, mente esercitò
la filosofia francese
di quell'età. E alla
stessa cagione forse
è da riferire s' ei non
seppe vedere come
il processo storico
non sia . né possa
essere unilaterale, ma
complesso, organico, dovendo abbracciar
tutte le manifestazioni e
tutti gli elementi d' una
data storia e
civiltà. Per le
quali cose non possiamo
accettare la sentenza
ond' altri ha pronunziato, che i
Saggi del PAGANO siano
la interpretp,zione più
fedele della Sciema
Nuova: tanto piii
che il Pagano, intendendo
in maniera grossolana
al pari dello Stellini
la dottrina del
corso e ricorso,
non dubita sostenere che
le nazioni tutte
a per lo
stesso movimento onde son
rimenate alla luce
della cultura, ricadono nelle tenebre
della natia barbarie.
» Nel che
non s'accorge quel nobile
e sventurato ingegno
come il ricorso di Vico sia
anche progresso, e come il
suo svolgimento abbia luogo
in età diflFerente
da quella in
che accade t il
corso della civiltà;
mentre al contrario
in un medesimo popolo, per
esempio nel greco,
egli vede insieme
un | eorso e
un ricorso storico.*
Il Pagano dunque
non iscorge * Vedi PAGANO, Op.
edlz. Capolagro, il modo
con che il
suo maestro intese
coordinare i diversi momenti de'
grandi periodi della
storia eh' ei
disse corsi e ricorsi
storici. Non riesce
a salvam dall'errore,
nel quale intoppò lo
Stellini, d'ammettere una
prima età storica non
ferina, ma innocente.
Non sa vedere
l' errore di VICO, oggi
assai grave, delle
catastrofi e dei
cataclismi fisici onde gli
uomini furon da
prima scossi e menati
a civiltà. Finalmente,
come origine assoluta
delle famighe ponendo il
ratto delle donne
per opera degli uomini
forti, non s' avvede
che nelle dottrine
del maestro, più che cagione,
cotesta era semplice
occasione, non altrimenti che
le suddette catastrofi
e cataclismi di natura.
Ma è da
notare che fra
tanti errori egli talora
sorpassa il maestro,
non che i
mitologi suoi contemporanei, quando sostiene,
per esempio, che i Greci, \
quant' a mitologia,
non facevano che
vestir poeticamente racconti d' origine
primitivamente orientale. Né a
quel tempo erasi
ancor difi'usa quella
febbre, che tutti oggi
invade, dell' orientalismo
indiano. E CUOCO,
benché seguisse Vico
nelle esagerate, interpretazioni del
suo Platone in
Italia, romanzo fatto sul
gusto délVAnacarsi del
Barthélemy; ne divina
talora qualche idea originale
come quando pone,
a dirne solo quest'esempio, un'origine
spontanea anzi che comunicata
e artificiale alle
manifestazioni storiche, religiose, mitologiche, poetiche
e poUtiche. Così
mercé PAGANO e CUOCO, entrambi
ingegnosi discepoli di Vico,
temperavasi quella dottrina
del maestro che,
come vedremo in altro
luogo, potrebb'essere interpretata
con opposti e contrari
significati. E vuoisi
che CUOCO meditasse e
anche scrivesse un
lavoro sulla Sdenta Nuova,
ma che da
sé medesimo avesse
poi distrutto, forse per
que' motivi politici
che sì crudelmente
gli funestaron l'animo,
il quale, non
meno di PAGANO, egli ebbe
pieno di carità
patria. Di CUOCO in sostanza non
abbiamo ne interpretazioni, né
esplicazioni del pensiero che
informava la Scienza
Nuova, degne d'esser rammentiite. È bene anzi
avvertire com' egli
ne accogliesse alcune idee
al tutto erronee:
quella, per esempio, d'
un' antichissima sapienza
italica, anteriore alla romana
e alla greca
per cui riteneva
che gli Etruschi, sparsi un
tempo per tutte
le terre italiane,
avessero costituito un popolo
solo. Non pertanto CUOCO dà s^ni
evidenti d'avere studiato
la Scienza Nuova
ed essersene giovato, chi
consideri quanto egli
imitasse e ripetesse le
idee del Vico,
ma sempre in
modo ingegnoso, acuto, geniale,
sul corso della
civiltà, su la
co-l stituzione di Roma
e su la
legislazione in universale. Chi dovea
più d' ogn' altro
valersi di Vico in
fatto I di principii
legislativi fa il
Filangieri. Il quale,
se stu• diasse
le opere del
nostro filosofo, e
se in grande
venerazione avesse alcuni principii
di lui, ce
lo attesta, da
una parte, una
lettera del Goethe
scritta da Napoli, e
dall'altra le citazioni
ch'egli stesso £a e
le dottrine eh'
e' non di
rado toglie dalla Sdenta
Nuova. Dalle opere
del Vico infatti
esce luminosa la prova
dell' esistenza d' un
elemento universale e assoluto
nelle leggi guardate
lungo il processo
istorico, e per
cui la legislazione
nella storia non
è altro che la
incarnazione dell'idea del
Diritto; della quafe egli
aveva additato, come
vedremo, il principio
-nelr opera sul
Diritto Universale. Perciò
nella Scienza Nuova avverte
che la filosofia
del Diritto considera Vuomo guai
ddb' essere mentre la
legislazione censi ' dera V
uomo quale è
per farne buoni
usi neW umana società} Ora
appunto la seconda
parte di questa
sentenza tolse a studiare
il Filangieri, e
però diciamo che la
. scienza della legislazione
altro non sia,
chi ben guardi,
' che un' applicazione
di questo concetto
vichiano. E veramente, se
ad applicare ottime
leggi al civile
consorzio * Vedi nel
Cintohi, Studi oritiei,
ec. Vedi Degnità
VU. è necessaria l'esperienza;
e se l'arte
dello sperimento non è
possibile in siflFatt'
ordin di cose
tranne che mediante la
storia; perocché se
la storia elevata
a filosofia è atta
a mostrare che i fatti
legislativi, guardati nella loro
idea e nelle
attinenze con altri
fatti pos8on essere
considerati come altrettanti
esperimenti che la civiltà
va seco medesima
operando: se tutto
ciò è vero, .è
da concludere che l'
antecedente logico della Scienea
deUa LegislcusAone sia
per l' appunto la
Scienea Nuova. Laonde non
parmi che il
Lerminier s' apponga,
dicendo FILANGIERI seguace del
Montesquieu,* per la semplice
ragione che il
medesimo Filangieri ebbe
coscienza di non dover
battere le vie
già con tanta
gloria calcate dal filosofo
francese, com'egli stesso
ci assicura. FILANGIERI non intese
a ricercar leggi,
né a descriver
| costumi: volle anzi
levarsi alla teorica
dei costumi e •
delle leggi. Ora
cotesta teorica, come
vedremo, è inutile cercarla nel
Montesquieu; ed è
inutile cercarvela anche per
confessione degli stessi
Francesi. Ripeto quindi
che la Scienza della
Legislazione, chi la
guardi nella originalità
del suo disegno,
è di fattura
tutta italiana, e possiamo
designarla perciò come
una pagina (splendida pagina in
vero!) della Scienza
Nuova. Ciò non
pertanto è da confessare come FILANGIERI talvolta s'accosti,
forse anche troppo,
al fare di ROMAGNOSI,
il cui pensiero
mostra d' avere
tanta affinità con la
filosofia francese. In
gran parte meccanica
e artificiale riesce infatti
la sua dottrina
storica, alla quale si
riferisce la legge
ch'egli espone su
le Religieni e eh'
è pure una
debole imitazione attinta
in Vico; 1 ma è
tal legge, ch'io
starei per dirla
disorganata. Filangieri è da
lodare per piil
conti, massime per
aver I saputo cogliere
il vero di
quel principio vichiano
sulla incomunicabiUtà
originaria dei miti
presso popoli differenti: *
col che mostra
d' aver attinenze
sempre piiì '
ItUroduction generai eo. Vedi
Scienxa ddla Legialanone,
apffini con gli
altri seguaci e
imitatori d' un
comune maestro e d'
un ispiratore comune,
quali abbiam visto essere
stati per differenti
guise DUNI, CUOCO, PAGANO. Se non
che, come la
tendenza alla pura
imitazione eccita spesso la
critica, parimenti la
critica efficace! e produttiva
viene più spesso
eccitata dalla critica infeconda e
negativa. Così DELFICO CIVITELLA quantunque più volte
citi Vico e ne
accetti perfino al ) cune
dottrine su la
Giurisprudenza romana, si presenta
come negazione dì
lui quando si
pensi che Vico e
primo interprete critico
del Diritto Romano,
e dicasi pure della
Storia romana. Il
dubbio critico e fecondo
dell'uno su le
origini di Roma
e delle XII
Tavole, diventò dubbio scettico
nell' altro. Egli
infatti giunse a dire
che la comune
opinione sulla grandezza romana devesi
ridurre al solo
ingrandimento de' confini,
ottenuto spesso con
mezzi rei ed
infami.* E se GRAVINA
appoggiandosi all' autorità
di CICERONE appella Diritto
per eccellenza il Diritto
Romano; il Delfico,
in su lo
scorcio 1 dello stesso
secolo, non teme
affermare che Roma, tuttora
barbara e ignorante,
avea già veduto
a' suoi fianchi gli
Etruschi, i Sabini,
gli Umbri, celebri
già per leggi e
per giustizia, gli
Equi e gli
Equicoli, così appellati perchè
giusti. Che cosa
ne fecero i Romani
se non
distruggerli, piuttosto che
imitarli?' Le grandi lodi
poi fatte in
ogni tempo ai
frammenti delle XII Tavole,
egli chiamava letterario
fanatismo. Il tanto encomiato
Diritto Civile riguardava
come risaltato delle interpretazioni dei
Giurisprudenti e delle dispute
forensi. Incertezza, arbitrio,
volontà di conservare r
aristocratico dispotismo diceva
essere il carattere proprio del
Diritto Romano. Che
se Roma cadde, Vedi
Riocrehe nU vero
earattere della Oiurttprudenxa Romana
e dei \ 9uoi
cultori. Firenze, Introd. non
cadde perchè oppressa
dal pondo dell'
estrema sua grandezza, ma
per mancanza di
base e difetto
di solida architettura nell'edifizio. E
conchiudendo poi la
prima parte del suo
libro, afferma che:
(c la giustizia
di Roma fu in
principio quale può
essere neUa barbarie;
d'indi| quale dev' essere
nell' anarchia, nella
confusione delle leggi, e
nella generale corruzione. Talché in
ogni età al pensiero
del Delfico CIVITELLA Roma si
presenta in antitesi
con la ragione e
con la umanità:
la giurisprudenza per
lui è il fatale
retaggio eh' ella
ci lasciò, e
i secoli ne
hanno moltiplicato le specie.*
Vedremo altrove, che
se Vico fu
primo a studiare con
riservatezza guardinga e
saviamente scettica la
storia del popolo e
del Diritto Romano
assai cose distruggendo accolte già
e sanzionate dall'
autorità di molti secoli;
non però cadde
in quell' aperto
e desolante scetticismo che, uccidendo
i fatti nella
storia, spegne ad un
tempo la
fede nell' animo
di chi ne
interpreta il significato, com'è appunto
il caso del
Delfico CIVITELLA. Vico anzi pervenne
a dimostrare, come
vedremo, una legge
d' intimo progresso nelle successive
manifestazioni storiche ' del diritto romano.
E questo evidentemente
contraddice al dubbio scettico
del Delfico. Così può
dirsi chiuso il
primo periodo degli
scrittori che han discorso
di questa o
quella dottrina del nostro
filosofo. Nel qual
periodo, ciò che
ha molto valore
| per noi, è la polemica
fra Duni e FINETTI: il
resto è lavoro d'imitazione
piii o meno
fedele che solamente
nel Filangieri comincia ad
assumere forma d' esplicazione ' originale.
E questa tendenza
imitativa, che finisce
con lo scetticismo giuridico
e storico del
Delfico, ci mostra
poi quanto sia vera
quell'osservazione fatta da
parecchi storici nostrani, che
la snervata filosofia
firancese principalmente
scemasse originalità agli
scrittori italiani d' allora, togliendo loro
il poter discemere
qual novità di
principi! avesse introdotto il
Vico nel regno
della scienza e
della storia umana. Possiamo dire che
corra un abisso. Nell'ordine puramente
speculativo ci è di
mezzo il Criticismo;
e nell'ordine delle
idee stori 1 che e
giuridiche, come in
quello de' fatti
politici, abbiamo i filosofi
giusnaturalisti francesi, e
la grande Rivoluzione. Con la
Scienza Nuova noi
avevamo già prevenuto l'esigenza critica,
dal puro mondo
dell'attività psicologica
trasferendola e compiendola
nel regno dell'
attività storica; e nell'ordine
delle idee avevamo
sorpassato al-tresì la Rivoluzione,
perchè, ammesso il
processo istorico al quale,
secondo la Scienza
Nuova, deon soggiacere
tutti i fatti e
tutte le idee,
non v'è pagina
in questo libro
dove non si senta
la necessità, e
non si tocchi
con mano, per così
dire, lo scoppio
d'un radicale innovamento
negli ordini del consorzio
civile, politico e
sociale.* Brevemente: nei tempi
moderni veggiamo accadere
nel nostro pensiero quello stesso
che venne verificandosi
nell' età del Risorgimento. Co' nostri
vecchi filosofi noi
avevamo arditamente
sorpassato la Riforma,
nel modo stesso
che con le nostre
scuole politiche (sempre
nell' ordine dell'idee) *
Nella Sociologia mostreremo
che co*principii del
suo Diritto C7ni-1 vende
il nostro filosofo
Compie la dottrina
della Socialità di
Orozio, corregge i prìncipii
e quindi le
consegoonze der Naturalimno
speculativo e wteta/meo di
Spinoza, inrera il
Natwali«mo empirico di
Hobbes, contraddice al TeoeraiÌ9wu> della
scuola di Bossuet,
alio Scetticismo giuridico
di Bayle, di Pascal
e di Montaigne,
e previene le
idee principali di
Montesquieaj e di Rousseau
legittimandole nel suo
concetto istorico. avevamo già
sorpassato le tendenze
nonché i bisogni politici di
quell'età.* Col primo schiudersi
del nuovo secolo,
adunque, non può non
ischiudersi un periodo
novello di studi
assai più severi circa
le dottrine del
Vico; talché V
abisso fra' due secoli poco
fa accennato per
noi non esiste,
e in ogni modo
la Scienza Nuova
avrebbe trionfato nelr
animo nostro come
nelle nostre menti:
avrebbe trionfato nella nostra
storia civile come
nel nostro pensiero filosofico, quand'
anche il gran
fatto della Eivoluzione non ci
avesse scosso. Ci
saremmo arrivati da
per noi J forse
più lenti, ma
certo più securi.
D segnale dunque de' nuovi studi
s'inaugura cqu coscienza
più chiara sul valore
delle dottrine vicinane,
e tal segnale
ci è dato
innanzi tutto da im
poeta assai splendido
nella forma quale e MONTI, e
da un poeta
assai potente e
insieme potentissimo
prosatore quale si e
FOSCOLO. In una
delle nostre più
illustri Università, MONTI pronunzia quella
beUissima sentenza che
poi tutti hsìn ripetuto
e ripetono parlando
di Vico: La
Scienza Nuova è come
la montagna di
Golfonday irta di
scogli e gravida di
diamanti. E quindi
soggiungeva: Chi amasse di
chiamare a rivista
le idee generatrici
e profonde delle quali
si è fatto
saccheggio nel Fico,
tesserebbe lungo catalogo, e
nuderebbe a moUe
riputa^zioni.* Ma MONTI sente
la verità e
grandezza delle idee vichiane
com' un poeta. FOSCOLO dà
un nuovo passo e
va molto più
innanzi allora che
nel celebrato discorso d'apertura
all'insegnamento letterario nella stessa
Università Pavese, piglia
a trattare con l'
usata maschiezza d'ingegno
il vasto soggetto
dell' origine e dell' ufficio
della letteratura; nel
quale prova insieme quant' avesse
studiato le opere
del nostro filosofo,
e come sotto novelle
forme si possa
applicarne le dot*
Ferbari, Cforto augii
aeriUori Politiei italiani^
V. Monti, Proluaùme
agli atudi delV
Univeraità di Pavia,
MUano, trine anche
nei temi letterari. FOSCOLO ha colto il
valore d'alcune sentenze
psicologiche sparse nei
lihri del filosofo napoletano;
e da queste
appunto ei seppe trarre
il concetto posto
come principio fondamentale del suo
ragionamento. Egli, infatti,
ricorre ai bisogni dell'uomo nel
rintracciar l’origine delle lettere;
e quindi reputa necessario
investigarne la natura
psicologica studiando le facoltà
stesse dell' uomo.'
Che poi avesse meditato e
inteso le altre
dottrine del filosofo,
lo mostra il modo,
per dire un
esempio, con che
egli discorre \ ea
l'origine e su
la natura della
parola; la quale,
traducendo quasi lo stesso
linguaggio dinVico, dice
essere ingenita in noi e contemporanea
dia formazione dei sensi
estemi e delle
potente mentali. Seguace
del nostro filosofo anche
si palesa quand'
accenna fuggevolmente a certe
idee (per esempio
a quelle del
diritto e del dovere)
le quali, manifestandosi dapprima
idoleggiate con simboli ed
immagini, si snodano
poscia e parlan quasi
da sé stesse
nella nuda verità
di ragione. Seguace altresì quando
tocca delle origini
del consorzio sociale e
dell'imperio civile: del
che poi egli
stesso ci assicura dove, accennando
a' poeti filosofi, dice
che delie verità sui
principii di tutte
le nazioni vedute
dal VicOy egli s' è
studiato dimostrare e
applicare le conseguenze alla storia
dei nostri tempi}
Dottrine del Vico,
finalmente, applica nel discorso
su le De^cazioni
nella Chioma ' di
Berenice, secondo che
confessa da sé
medesimo. Ma alla Scienza
Nuova volge tosto
gli occhi con
ben altro acume di
critica il napoletano
Cataldo lannelli; la qual
critica, come vedremo,
esagerandosi nel Romagnosi,
finisce per esser
perdutamente scettica nel
Ferrari. Di tutte le
opere o studi
fatti su la
Scienza Nuova quella che più
d'ogn' altra merita d'esser
letta e me ! ditata
è appunto l' opera
del modesto impiegato
della • Vedi Ditearto
dell’origine e deW
ufficio detta LettercUura^
nel volume deUe Lesioni
Queste osservazioni hann'
anch' elle un
aspetto di verità; ma
se ROMAGNOSI avesse meditato
la Sdevusa Nuova con
più amore e
men disprezzo e
meno boria a lui,
del resto, tanto
naturale, avrebbe visto
che Vico altro non
intese dire, come
vedremo, se non
quello precisamente eh' egli
stesso ha detto
qui assai male
e senz' alcun
metodo filosofico. E
perchè poi reputa
impossibile la similarità de' circoli
storici? Perchè intese
anch' egli, in modo volgare,
come parecchi altri,
il valore di
cosi fatta legge. Ei non poteva
persuadersi come nella
storia ci sia ritorni
e ripetizione di
forma (meccanismo); ma non
s'avvide che se
pel Vico nella
storia ci è ripetizioni,
cotesto ripetizioni non
sono possibili senza veraci
innovazioni (dinamismo). Io non
so capacitarmi come
l' ingegno potentissimo di
ROMAGNOSI non penetrasse nell'
intimo della Scienza Nuova. Non
so capacitarmi com'ei
facesse una critica Certo
U Romafirnosi non
TÌde che se
Vico prevenne Roasseau
e tutti qnei giasnataralisti dell’epoca, i
quali sì volentieri
ciarlavano sa lo ttato
di natura, li
prevenne correggendoli, cioè
legittimando razionalmente
cotesto stato natarale,
col porre in
opera ben altri
prineipii di psicologia
e di storia
cho non eran
quelli de' saddetti filosofi. debole e
scucita cosi che
gira sempre attorno
senza mai coglier la
sostanza delle dottrine
di Vico. U che senza
dubbio terrà alla
forma della sua
filosofia, della quale il
Rosmini pose in
evidenza i molti
e sostanziali i difetti,
e, nonostante le
calde e lunghe
difese del Nova, i
giudizi del Roveretano
restano pur oggi
intatti e verL Romagnosi, in
ima parola, non
poteva pregiar la Scienza
Nuovii, perchè le
sue dottrine putiscon
di meccanismo. Artificiale e
meccanica è in
lui la dottrina
sul governo dello stato,
ch'ei paragona al
cervello dell'animale.
Artificiale e meccanica
la dottrina dei
Tesmofori in politica
e in religione;
le quali per
lui sono bensì strumenti
benefici al popolo,
ma nelle mani
dello stato. E dottrina
presso che meccanica
quella de' suoi Fattori
dell' incivilimento. Perfino
la terminologia eh' egli
adopera ne palesa
l' indole della mente
e delle idee: storia
naturale dei popoli,
fisiologia degli stati, funzioni meccaniche
e dinamiche della
società, dinamica e meccanica
morale, e simiU.
Come passaggio della
critica empirica e
negativa del Romagnosi alla
critica scettica di FERRARI,
si presenta la traduzione
e l' anaUsi che
della Sdenjsa Nuova die
alla Francia 6
alla eulta Europa
l' illustre Michelet. Agli occhi
degl'Italiani questo scrittore
ha due grandi meriti:
d' aver fatto conoscere
il nostro filosofo isin
dal 1827 fuori
d'Italia, e, che
più monta, d'averlo fatto capire
nella sua verità
mercè quell' arte
facile, disinvolta e con
quel fare schietto
e rapido con
cui, traducendola, seppe imprimere
alla Scienga Nuova
forma netta e fedele.
Se non che,
per quanto Michelet
non sia crìtico interprete
(né egli vi
pretende) ma critico espositore, non
pertanto i suoi
giudizi son tutti
co* Si yegga
la definizione che
ne dà nello
Leggi dtlV ineivUimento, FERRARI
ha rilevato con
molta esattezza la
differenza tra Vico e ROMAGNOSI nel
lihro La menu
di Romagnoti. E
noE a torto
poi il chiarissimo FERRI pone
Romagnosi come primo
ponHvi^ta In Italia. Ved.
RÌ9t. de la
PhU. lud., scienziosi
e pressoché tutti
pieni di verità.
Eccone un saggio. Ci
ha due Scienze
Nuove, egli dice;
ma se le Scienze
Nuove son due,
la prima d' esse
è insieme I r
ultima parola dell' autore;
ultima quant' alla sostanza delle idee.
Un'altra osservazione è
questa: carattere e intento
supremo di codesta
Scienza Nuova è
quello d'essere una filosofia,
e nel medesimo
tempo una storia dell'umanità. E
un'altra riflessione che
merita sia ricordata, è
la seguente: il
concetto d'una perfezione stazionaria accennata
dal Vico nella
Scienza Nuova e riprodottasi poscia
in tanti libri,
non riappare altrimenti nella seconda
Scienza Nuova. Mi
giova notare con
ispedalità quest' ultimo
pensiero del Michelet,
per corregger la sentenza
di tutti quegl'
interpreti i quali
per d lungo tempo
ci han detto
e ridetto che
dei corsi e ricorsi
entro cui Vico
chiuse V umanità
(per dir la parola
consacrata), ei non
abbia parlato fuorché
nella seconda Scienza Nuova.
Non ne ha
parlato mai, in
nessun libro, in veruna
pagina de' suoi
libri I La
stazionarietà (sia detto unU
buona volta per
tutte) non è concetto
vichiano. Io noi
trovo esplicito, né
implicito in lui; e
non iscaturisce in
verun modo dall'
insieme delle sue dottrine.
Il concetto del
corso e ricorso
storico, adunque, alla maniera
volgare ch'é inteso
da' più, è concetto che
assolutamente ripugna al
pensiero e alle scritture del
nostro filosofo. Ma non
tutti i giudizi
del Michelet ci
paiono ugualmente giusti. Ei
non giugno a
spiegar convenevolmente, per esempio,
il concetto storico
del nostro filo1 sofo
su la forma
del governo monarchico;
tanto meno que'due principii
accennati piii d'una
volta nella iScien^^a Nuova e
nel DvrìUo Universale
su la necessità
in che può ritrovarsi
un popolo di
consentire a lasciarsi
governare ov' ei non
sappia governarsi, e
su l' affidar l' impero del
mondo alla solerte
prudenza dei migUorì.
Il Michelet seppe delle
opere del Duni,
ma forse non
potè leggerle: così parrebbe
almeno dal modo
con che lo SrnuAiii.
ff cita fiiggevolmente solo
una volta. Se
quindi avesse conol
scinto DUNI, avrebbe
dato al Jus
Gentium del Vico
il suo proprio valore.
E s'inganna poi
quand' aflFerma, che il Libro
Metafisico sia la
sola scrittura, le
cui dottrine non fossero
state trasportate nella Scienza Nuova,
del che lo riprende
giustamente il Predari.
Ma il Michelet ci
compensa di cotesti
erronei giudizi laddove
con acume non ordinario
confessa di riconoscere
nel Vico U metafisico
sottile,e profondo. E
poi ci dà
prova sicura d'animo spassionato
e libero da
ogni boria nazionale, quando, egli
francese, francamente dichiara
essere Vico r
antagonista per eccdlenaa
del CartesianismOy l'avversario più
illuminato e più
eloquente dello spirito del
secolo XVIII.' Anche
quest'osservazione è d'ogni parte
vera e luminosa;
perocché se carattere
di quel secolo, come
giustamente si crede,
fu la negazione assoluta, la
negazione in tutto
e di tutti,
distintivo, al contrario, delle
dottrine del Vico
si fu quello
di tutto restaurare, e
tutto affermare mercè
l'opera del metodo isterico.* E
poiché siamo a
parlare de' Francesi,
occorre far menzione degli
altri che in
quel paese, nell'epoca
di che trattiamo, non
reputarono tempo perso
volger la mente al
nostro filosofo. E
primo fira tutti
il Lerminier, * Vedi
Prtncipet de la
PhU. de VHiat, traduite
de la Scietua
Nuova de J. B. Vieoy BruxeUes La
ridazione fatta dal
Michelet détte occasioce
iu Italia ad una
critica del Kicci
pubblicata nell’Antologia del
Vieusseax RICCI mostra come
lo storico francese
altro non desse alla
Francia che ì
frantumi della Scienza
Nuova, e per
cinque diversi capi ne
rileva la incompiutezza. Oltre
a questo pregio,
negli articoli del Btcci
re n' è
un altro; l’aver
posto in chiaro,
meglio forse che
non facess^i il Dani,
il significato della
parola Autorità^ che
ne* libri del
nostro filosofo non è
di lieve momento,
e mostra che
talora egli assume
questa parola nel senso
del Gius Komano
come sorgiva de*
diritti pubblici e privati;
talora com*effotto del
consenso d’una nazione in
un dato principio; tal* altra
come potestà, come
potere ch*ò negazione
di ragione e di
coscienza speculativa. Notiamo
altresì come il
Ricci è quegli,
fra* critici, che più
insiste su l*
ufficio del Seneualiemo
nelle idee storiche
delj Vico. Ved. Art.
I, pag. 85. come
quegli che nelle
due principali sue
scritture ne discorre sempre
con entusiasmo, con
amore e grande
venerazione. Ben s' appone a
designar la Sciema
Nuova come il monumento
sublime e hieearro^
in cui è
viva la impronta delle
fofrme e dei
colori dd medio
evo, e che fa
del Vico centro dette
antiche tradizioni, e
insieme precursore déUa
Scienza Nuova: talché non
a torto fino
dal 1829 lo
considerò come il vero
predecessore de' Wolf,
de' Niebuhr, e
degli Hegeliani. Se non
che non sempre
questo dotto e
simpatico scrittore dà nel
vero, come quando
lo dichiara padre dell' JEfcfewswto moderno,^
o come laddove
osserva che nella storia
del mondo egli
trasportasse quella di
Roma. Lerminier non vide
che di questa
seconda istoria ei gioV06SÌ a
meglio intender la
natura della prima,
alle storie tutte e
perfino alla storia
universale trasferendo gli
elementi essenziali,
originari, universali costituenti
la natura umana. Assai
meglio avrebbe detto
d'aver egli trasferito la
psicologia nella storia,
anzi che la
storia di questo 0
quel popolo alla
storia di altri,
ovvero a quella di
tutt'i popoli in
universale. Né, d'altra
parte, il Vico intese
applicare una legge
alla storia in
generale; errore, come vedremo,
dei Teologisti e
degli Hegeliani: intese bensì
applicarla ai popoli
considerati nelle individuali lor tradizioni
e civiltà. Tanto
meno poi é
lecito creder eh' egli
ponesse identità fra'
tempi eroici primitivi e'
'1 medio evo:
bensì è vero
eh' e' vi discemesse
un moto perenne di
ripetizione essenzialmente progressiva. Altrove il
Lerminier, parlando del
Machiavelli, osserva come r
autore* della Scienza
Nuova correggesse lo spirito
storico del Segretario
fiorentino, mercé una pciitica
ideale e platonica.
' Questa sentenza
in parte è vera;
e dico in
parte, poiché si
può chiedere se co'
suoi principii applicabili
alla politica, il
Vico abbia • Vedi
Introd. gin. à VHitioire
du Droit, cap.
Xm. *0p. cit. pag.
167. • Vedi JKrt.
de la Phtl,
du Droit, Tom.
U, pag. 102. corretto, o
non piuttosto compiuto
ciò che nel
Machiavelli è solamente arte
politica. Tutt' insieme
dunque può dirsi, che
se la critica
del Lerminier non è molto
acuta né molto sicura
in alcuni giudizi,
ella riesce nondimeno a
cogliere con lucidezza
tutta francese la
natura e '1 fine
della mente e
deUe opere del
nostro filosofo.' Su'
giudizi del Lerminier
riguardanti le idee
giurìdiche e politiche di
Vico torneremo in
altra occasione. Qui giova
notare come in
Francia, quasi nel
medesimo tempo in che
gli scrittori di
cui abbiamo accennato facevan conoscere
il nostro filosofo,
altri presero a parlame come
il Gousin, Teodoro
Jouffroy, il Ballanche. Tutti ripeton
le usate lodi,
e qualche giudizio
del Gousin, al solito,
a volerlo sottilmente
esaminare, non riesce molto
esatto. Quando vuol fard
credere, per esempio, che Vico, benché
combattesse Gartesio ne
seguiva nuUameno la filosofia
generale^* ognuno capisce
com'ei si studi attaccare
al gran carro
del cartesianismo perfino il
Vico; quasi che,
anco a detta
del francese Michelet, non
ne fosse stato
anzi V avversario
piii terribile. E va
lungi dal vero
quand' osserva, che
tutto ciò che è
nel Bossuet e in Vico trovasi
in Herder; quasi
che si possa ignorare
che Fautore della
Metacritìca contro il Kant
non fosse altro
che un buon
sensista, il quale '
perciò non dubitava
credere che dall'
organismo pullulasse ogni nostro
pensiero e facoltà:^
nella quale sentenza ci
conferma il suo
traduttore francese il Quinet. U
Gousin poi dice
il vero laddove
pone l'Herder ' come
compimento del Vico
quant' al concetto
della natura e della
efficacia che la
natura dispiega sulla
storia. Ma avrebbe dovuto
avvertire che s'egli
è compimento *
Eccone, per esempio,
una prora nella
seguente arguta osserraxione: w/tico
più che scettico,
con la sua
critica egli comincia a
riprender V andamento
pacato e sereno
dello . lannelli. Il
Cattaneo è come
Y anello fra FERRARI
e TOMMASEO. Noi non possiamo,
egli dice, studiare con
profitto lo spirito
umano in sé,
nella sua essenza, bensì nelle
sue elaborazioni storiche,
e nelle situazioni più numerose
e diverse che si possa.
Però bisogna studiare il
poliedro ideologico nel
fluissimo numero di sue
faccey e da
questo terreno tutto
storico e sperimetitàle
dovrà sorgere la
vera cognizione dell'uomo;
la quale indarno si
cerca nei nascondigli
della coscienza. Lo studio
dell' individuo nella
società, l’ideologia sodale:
ecco una
sentenza piena di
verità per cui CATTANEO
si chiarisce assennato
seguace di Vico. E che
egli abbia inteso
il pensiero del
filosofo napoletano lo pruova
l'altra osservazione su
le successive trasformazioni storiche del
diritto, per cui
nella Scienza Nuova a
troviamo fusa la
dottrina d^l' interessi
come campeggia nel Machiavello
con la dottrina
della ragione i esposta
da Grozio, togliendo
eoa la contraddizione che divideva
la storia dalla
filosofia.' » Che
se anche il Cattaneo
s' addolora al
pensiero dei Circoli
fatali che Vico ebbe
in comune, secondo
lui, col Machiamipremi
principii d'umanità, PuDOR
e Libbrtas, che
sono il cardine
della ' Scienza Nuova,
e per cui
anch* il servo,
anch’il bimane un
bel giorno diventa uomo,
personalità ? é'*
Cade col Machiavelli
nd »iHema delU
dué fati, V ima
harharay V altra
eivtU, No, introduce
nn nuovo sistems
nelle due differenti fasi,
Tuna tpantanea e
raltrart^faMo; e questo
non è circolo fatale, identico,
ma progressivo. Dice
poi che il
Vico eroit que la
vdonU peut eorrompre
Vceuvre de la
roMon. Qui evidentemente FERRARI non ha
saputo, né poteva
col suo scetticismo,
intender* e comporre in
organismo i principii
psicologici del suo
maestro. * Firbàri, Vieo
et VltaUe. Paris
CiTTRinBO, nel Politeonieo. Vedi Periodico
oit velli e
col Campanella, una
consonanza mirabile però
sa trovare fra i
più recenti sistemi
umanitari e quello
del Vico, agli occhi
del quale la
Provvidenza, con V occasione
degV interessi delle
inique passioni, trae
la giustizia effettuandola gradatamente
nel mondo delle
nazioni. Laonde osserva come
prima di Fichte,
segnatamente prima di Schelling,
a lui fosse
dato riguardar la
ragione ' qual facoltà
che occasionalmente si
sveglia nell'uman genere.'
•CONTINUA IL PERIODO
DE' CRITICI E DEGLI
ERUDITI. Co' suoi Studi
Critici V illustre TOMMASEO segna il passaggio
al terzo periodo,
e quindi ad
una terza classe di
scrittori che si
sono occupati di
Vico. Critico e
filosofo, infatti, egli stabilisce
V anello fra
i puri critici
e gì' interpreti filosofi negli
studi riguardanti il
nostro autore: Imitazione e
riproduzione, come negli
scrittori del primo periodo, non
era possibile nell'ingegno
versatile, duttile, acuto ed
elegante del Tommaseo;
e tanto meno possibile in
lui una critica
scettica alla maniera
del Ferrari. Piena la
mente e l'anima
di fede e
di profondo sentire, questo
scrittore è anche
filosofo, e vi pretende.
Egli ha scritto
libri di filosofia;
ha interpretato, e non
di rado con
sottigliezza scolastica ha difeso
il princìpio speculativo
del Rosmini, e
propugnatolo con ardore giovanile.
Nessuno dunque può negare
a quest'ingegno artistico
e severo buona
dose di virtù speculativa. Sarà filosofo
scologizzante, sarà filosofo più
che rosminiano, ma
è filosofo, oltre
che critico de' più
sottili: è filosofo
e critico, e,
senza conNel PoUteenico
trasto, quant' a
proprietà di linguaggio
occupa oggi 1 primo
seggio fra i
viventi scrittori del
nostro paese. Nessuno meglio
di lui poteva
farsi a rilevar
le bellezze nella parte
letteraria ed estetica
delle idee del nostro
filosofo. E, facile
a spigolare ne'
campi altrui, anche in
questo egli è
andato scegliendo fior
da fiore, e ne
presenta cotal mazzo
che lascia scorgere
l'arte di chi n'
ha fatto la
scelta. Chi, prima
di lui, avea
saputo ritrar r indole,
per esempio, di
certe composizioni poetiche
del Vico, additar la
possente originalità nello
stile, la selvaggia lobustezza della
parola, la forma
singolare dell' ingegno, e
segnatamente l' animo e
tutto il carattere morale dell'uomo?
Una delle più
notevoli pagine della prosa
italiana, egli osserva,
è la nobile
immagine di donna egregia
lodata dal Vico:
ed è verissimo;
e vere ed argute
non meno ci
paion quelle considerazioni su la
storia del Caraffa,
nella quale spesso
questi è dipinto non
qncd era ma
guai doveva essere,
per meritare le
lodi di VICO. La dignità
del lodatore si
vendica per tal
modo della indegnità del
lodato j e la
lode diventa condaivna.^ Ma il
Tommaseo, ho detto,
è anche ingegno
speculativo, e spesso è
felice nell'intravedere il
vero di certe
idee filosofiche del Vico. Ecco un'acuta
riflessione: Fólibio e gli
antichi deducono osscì-va^ioni
generali da* fottio
U MACHIAVELLI trae consiglif
Vico determina leggi.
Ma le SUE LEGGI
NON PANNO FORZA
ALLA PRATICA, anzi
egli dice cìie l'uomo
dee nelle teorie
r attenersi come cavallo aìiimosoy per
poi nelle pratiche
cose correr di
maggior lena} Altra bella
osservazione è quando
nota come da Platone
egli traesse non
l'idea, sì la
ispirazione della sua storia
ideale. Il che mi
piace avvertire col
Tommaseo contro chi pretende
rimontare sino al
filosofo ateniese a ripescarvi
un antecedente alla
Scienza Nuova! Verissimo altresì che
le due Scienze
Nuove paiono entrambe due
grandi edifici secondo
la medesima idea
architettati: Tommaseo, Studi Critici.
Venezia, questo avverta chi ha creduto
vedere nella seconda di
esse non so
che stravaganze, follie
o puerilità. Con salde
ragioni poi contro
parecchi critici del
Vico egli dimostra come
nelle opere di
lui si manifesti
potente, vera, chiara l'idea
del progresso; perchè
se aUe cose umane
vide un corso
e ricorso in
orbita fissa, non
disse che V orbita
non si potesse
più e più
sempre cól volger de' tempi allargare^
E non meno
della critica che riguarda
per diretto il
Vico, preziose paionmi
anche quelle undici appendici
indirizzate ad illuminare
il testo dove il
filosofo napoletano sorge
principal figura: dico le
appendici sopra STELLINI, Grozio, ROMAGNOSI, FOSCOLO, sul
gius sacro e
sul gius romano,
su le origini sociali, su gli Sciti,
Illirici, Slavi, sul
Niebuhr ed altri. Il
Tommaseo vuol esser
rammentato ed encomiato eziandio per
un altro lavoro
speciale sul Diritto
Univer1 sale,^ È un
esame critico, al
solito, assai condensato e
sparso di riflessioni
ingegnose, d'opportuni e
fedeli riscontri e di
felici divinazioni nel
penetrare le idee
del filosofo. Ma è
pur d'uopo confessare
che se come
critico nessuno può entrargli
innanzi per sobrietà
e giustezza di giudizi,
come filosofo non
tutti sapranno accettarne ogni sentenza.
Molte interpretazioni e
parecchie confutazioni eh' ei
move al Vico
noi non potremmo
accogUere: quella per
esempio dove, accennando
alla luce metafisica del
nostro filosofo, si
studia vederci non
pili che Tessere ideale
di SERBATI,' e T
altra onde presume che
dal concetto della
Trinità egli traesse
l' ordinamento delle facoltà umane,
e nel medesimo
concetto scorgesse radicarsi la
metafisica, la morale
e fin la
giurispruden• fe anche di TOMMASEO quesV altra
bellissima osseryazionc:
Dalle proprie averUure
Vico dedusse H
mondo invecchiato: ma ^gìi
medesimo ci vieta
di crederlOf egli
che pronunziò: mundus
enim jaTenescit adhuc; interpretazione luminosa
deUa sua /rantesa dottrina
delh* legje de ricorsi,
e risposta sufficiente
a dà lo
accusa di negare
al genere umano ogni
forza (T avatuamenfo.
Dizionario Estetico» ^kudi
Filosofici, Venezia mdoooxl, . l«
Stwli OrUici, ] za. Sbaglio
grave, dice, Taver
negato la trasmigrazione I delle
civiltà da popolo
in popolo innalzandovi
mura di bronzo. Errore
gravissimo poi da
restame scandalizzati, più che
uno, mille Tommasèi,
gli par la sentenza,
che dopo
il diluvio gli
uomini si disumanassero 1 *
E qui r
illustre critico si
fa forte delle
censure di LAMI, di ROMANO e
di FINETTI e di
tutti gli oppositori del primo
periodo, co' quali dopo
un secolo e
mezzo par ch'ei si
trovi in pieno
accordo. TOMMASEO non poteva penetrare nelle
dottrine speculative di VICO,
e da quéste trarre,
più che dai
due o tre
passi d'autori lettini o
dagli urli dell'uomo
bestiale assordante l'aria
e le selve, nuove
dottrine e vere
su le origini
dell' umanità, non discordanti
oggi co' risultati delle
scienze naturali. Come si
vede, con una
critica sempre acuta
nelle sue osservazioni tuttoché
non sempre vera
ne' suoi giudizi, il Tommaseo
è stato il
primo fra noi
ad esprimerci '1 bisogno
d' interpretare in maniera
filosofica le dottrine del
nostro filosofo; ma
non vi giugne,
né il poteva, perchè
non gliel permettevan
né le esigenze della fede
tanto salda e
vigorosa nell' animo
suo, né la filosofia
schiettamente Kosminiana nella
quale è uso attingere
i principii filosofici
e i criteri
metodici. Usciamo ora un'altra
volta dal nostro
paese, e vediamo
se nel giro degli
anni di che
parUamo gli studi,
i giudizi e la
stima circa il
nostro filosofo sian
venuti sempreppiù
progredendo anche presso
altra letteratura come
presso di noi. L'illustre Renouvier
avrebbe stimato manchevole la
sua storia della
filosofia moderna ove
anch' egli non avesse
accennato all'autore della
Scienza Nuova. Vico, egli
dice ripetendo un'aflFermazionedel Michelet, ToMMAsio, Studi
Filotojiciy Studi Gritici,
Due o tre
pa$9Ì d* autori
latini e H
troppo reU^oto rispetto
di tutu torta tradizioni
in tali togni
tmarrirono tale ingegno. del
CDUsin, del Lerminier,
dello JoufiFroy e
d'altri francesi, ha fatto
alla scienza una
rivelazione nuova creando la
filosofia della storia;
talché dopo la
morte de' due martki suoi
compatrioti Bruno e
Campanella, ei ci si
presenta davvero qual
rivelatore d'un mondo
nuovo.* Un' altra osservazione,
di cui è bene prender
nota, è quella dov'
egli afferma che,
quant' a Cartesio,
il Vico ebbe pieno
diritto a biasimarne
l'incompiutezza del metodo, egli
che, considerando come
scienze la poesia, la
storia e la
filologia, potè gettar -le
basi d'un metodo novello
supremamente sperimentale, storico
e comprensivo. Ma quali
sono propriamente i
principii filosofici del Vico?
Ha egli una
serie di principii
metafisici? Renouvier non risponde
a questa domanda,
e si tiene contento
nell' affermare solamente
eh' egli ama/va la
metafisica di Descartes. Sarebbe questo
il luogo di
rammentare il Bouchez;
* ma, fra tutt'
i francesi, questi
è l' unico scrittore
che del Nostro abbia
parlato in guisa
assai meschina, tanto che
a veder come
lo cita e
come n' espone
le idee, farebbe sospettare di non averlo
letto, o che
ne abbia solamente discorso
per sentita dire.«£
noi non avremmo tirato fuori
il nome di
questo debolissimo filosofo
della storia e tenutone
conto, se nel
suo libro non
si vedesse confermata certa
notizia della quale
giova prender nota. Citando
un vecchio periodico
di Francia, Bouchez
dice come le opere
di Vico fossero
quivi note già
sino dai primi lustri
del secolo passato.
I francesi dunque
molto probabilmente non ignoravano
il primo libro
del Diritto \ Universale
e, che più
monta, neanche il
secondo nel ' quale
è racchiusa, com'
è noto, la
sostanza della Scienza Ifuova. La
qual cosa abbiam
voluto qui avvertire
col fine di rinfiancare
vie piii la
sentenza d'alcuni critici su
l'origine delle molte
affinità fra alcune
idee del Vico, *
RBiroinriBB,Jfaraii««Z de
PhUot. moderne;
Paris et Uipsig
BouoHBZ, Inltrod. è
la Scietkce de
VHiet, ec. Paris, e quelle
di certi filosofi
e storici francesi
anteriori alla rivoluzione, massime
del Tm^ot e di Condorcet. Nel tempo
di cui parliamo
novella traduzione comparve in
Francia per opera
dell' autrice anonima
del Saggio sulla formaeUme
dd damma eaftólico.
E anche qui e'
è progresso; perchè
se la traduzione
det Michelet, come si disse,
è una riduzione
non molto fedele
e mancante di critica,
la traduzione di che discorriamo,
oltre d'esser propriamente traduzione,
è poi fornita
d'un lungo lavoro su
le opere e
su le dottrine
del Vico, pregevole soprattutto per
V analisi cui è sottoposto
il pensiero del nostro
filosofo.* L' autore di questa
prefazione s' accorge subito ov'è
il nodo delle
dottrine e del
metodo vichiano. Cotesto nodo,
evidentemente, è nella
distinzione e insieme nella
relazione tra il
vero e il
certo, tra la ragioìie
e Vautoritcu^ E
innanzi tutto osserva
come la parola autorità
pel Vico voglia
dir volontà, coscienza, 1
voce interiore, sorgente
di quel conoscere
ond' all'uomo non riesce additar
le ragioni scientifiche
e universali. Brevemente; la
coscienza è autorità
anzi la piìi
grave delle autorità. La
ragione poi è
facoltà che giugno
a dimostrar la cosa
scientificamente, e quindi
produce il vero. E
poiché tutto ciò
che 1' uomo
dimostra è fatto da
lui e però
ha natura finita,
ne segue che
il vero debb' essere
inferiore al certo.
V è pertanto
differenza tra il vero
metafisico e '1
vero matematico: questo
è nostra fattura, e
quindi è vero;
quello, in vece,
non ci appartiene come nostro
effetto, e in
conseguenza riguardo a noi
è solamente un
certo. Ora siccome
conoscere vuol dire scomporre
ed astrarre per
cavarne gli elementi; così di
Dio non potremo
aver nozione vera,
ma certa, stantechè non
ne sia dato
scomporre ciò eh'
è essenzialmente uno, né
ritrovar cause di
ciò che è
causa per sé. È
necessario adunque un
modo nuovo di
conoscere Dio; La
lunga ed elaborata
prefazione a coi
alludiamo si vaole
scrìtta da un celebre
storico firancese, A. M., amico
della traduttrice. La Seience
NouveUe, trad. etc.,
Paris, e però
necessaria una nuova
facoltà. Questa facoltà
è appunto il volere,
che si rivela
col mezzo della
coscienza. La nozione di
Dio quindi è
un fatto di
coscienza e di autorità,
perchè autorità e
coscienza tornano il
medesimo. Ho voluto accennar
brevemente queste osservazioni non solo
a mostrare che
la prefazione di
cui parliamo non è
da annoverarsi fra
le solite ampolle
messe in fronte alle
traduzioni delle opere
di grandi autori,
ma a far Tederò
altresì come in
essa racchiudansi interpretazioni davvero ingegnose.
Il traduttore poi
avverte la confusione fatta da VICO tra
Zenone lo stoico
al quale è attribuita
la dottrina del
punto metafisico, e
quel Zenone a VELIA che
riguarda i corpi
siccome aggregati d'infinito numero
d^ atomi o di
punti. Nota essere
esclurivo di VICO quel
concetto per cui
si considera il
corpo siccome |?wn^o metaifisico
esteso. Osserva (e
qui prego gli altri
critici H tener
conto di tale
osservazione) che il Vico
non volle né
poteva respinger l' idea
del progresso, attesoché avrebbe
contraddetto alla propria
metafisica: le$ cercle4 doni
il entoure l’hutnanité doit
nécessairement marcher en avant.^
La qual sentenza,
che cioè nel
padre della scienza storica
rifulga chiarissima, chi
sappia discemerla, l'idea
del progresso, è
sostenuta in modo splendido da
un altro francese
vivente, dal De
Ferron come appresso vedremo. Fra
le idee originali
di Vico il traduttore
pone anche questa: V
uniformità originaria di
civiltà appo differenti popoli
più come eftetto
della comune natura
e dell' unità di
fine che ne
presiede allo svolgimento,
anzi che come resultato
di comunicazioni dirette
avvenute fira popoli diversi.'
Riferisce al Vico
la scoperta de'
tipi fantastici di differenti
classi d'uomini contro
chi non vi sapeva
scorgere altro fiiorchè
personificazione di forze naturali. À
lui medesimo riferisce
l' aver dimostrato storicamente il processo
delle tre forme
politiche generali, [
La Science Nouvdle
OVli. aristocrazia,
democrazia, monarchia; V
aver avuto coscienza come né l’eloquio né
la civiltà latina
fossero provenute di Grecia;
e, anziché divinato
(come vorrebbero alcuni tedeschi),
aver egli dimostrato
in gran parte i
suoi principii storici,
né solamente dato
impulso alla presente filosofia
della storia, ma
avere concorso propriamente a svolgerla,
a costituirla: al
qual proposito notiamo come
il traduttore giustamente
rivendichi a Vico il
merito attribuito a
Champollion, d' aver interI
pretato e svolto
le conseguenze del
celebre passo di San
Clemente Alessandrino. Fa
vedere poi come
in pili cose ei
mirasse più giusto
e più sicuro
dei suoi successori quant' alla
storia del Diritto;
per esempio, su
la tanto vitale distinzione
fra popolo e
plebe, non veduta
da ! Livio, e
comprovata dopo il
Vico dal Beaufort
e da Niebuhr. Mostra
quindi essere assolutamente
nuovo il modo con
che V autore
della Scienza Nuova
considera e risolve la
questione circa l'origine
delle XII Tavole; nel
che lodiamo la
forza e la
maniera ingegnosa ond' anch'
egli sa difenderne
la verità. Verissimo,
finalmente, quel giudizio su
la dottrina risguardante
Omero e i poemi
omerici, accorgendosi come
il Vico non intendesse
con tal
dottrina negare un
Omero personale che 'impresse
forma esteriore ai
suddetti poemi, ma
negare bensì, nel che
egli ebbe ed
ha ragione, un
Omero che fosse creatore
de' medesimi, come
vedremo a suo
luogo. Tali sono i
pregi di quest'assennato lavoro
critico che va innanzi
alla seconda traduzione
della Scienza Nuova. Ma
non vi mancano
difetti; e ne
cito qualche esempio. Come
non iscorger l' attinenza
fra il vero e
il certo
di VICO? Come non
veder che 1'
autorità altro non è
che la stessa
ragione considerata quale
obbietto che propone sé
a sé medesima,
essendo due termini
cotesti che, come altrove
diremo, van soggetti
anch'essi alla legge di
conversione? Se questo
avesse inteso il traduttore, non
avrebbe affermato che
dell' assoluto non si
possa aver nozione,
ma sentimento. Nella
Ragione e jìeW Autorità del
Vico egli forse
ha voluto scorgere
qualcosa della Ragion pura
e della Ragion
pratica del Kant,
' G certo non s'
è intieramente ingannato.
Ma non s' incanna egli quando
si piace di
scendere a conclusioni
cosi immediate col Criticismo?
Che poi tanto
in metafisica quanto in
geometria il punto
sìsl principio d^ estensione;
che però
la matematica, sia
come dire, copia
materiale atta a farci
conoscere il tipo
immateriale eh' è appunto
la r»i avverato
dopo la pubUicaiione
di tale storia,
aTcndo questo scrittore poeto
il gran princìpio
per cui la
storia è aommesea
{dVimpero di leggi
univeraali. Ma non
è questa per l’ appunto la
grande scoperta della Scienza
Nuova almeno quant*al
suo principio? E
tutte le leggi su
la costanza de*
fatti sociali trovate
da Buckle e
più dal Quetulut,
non sono forse
altrettante applicazioni sociali
di quel princìpio? Ma
prima di procedere
innanzi giova rispondere
ad mia difficoltà non
diffìcile, a nascer
nella mente di
qualche pedante. Si domanderà:
perchè insieme co' puri
critici ed eruditi in
questo secondo periodo
avete messo filosofi di
gran nome? La
risposta è facile
e chiara: primo, perchè
tale è l'ordine
cronologico di cotesti
filosofi; secondo, perchè costoro
han parlato o
accennato alle dottrine del
Vico, adoperando una
critica più presto erudita e
storica che filosofica.
Qui non potevamo disporre e
coordinare gli autori
in ragione delle
opere scritte e per
gli studi eh'
essi han coltivato
e per la forma
del loro ingegno,
bensì pel valore
della critica ch'essi hanno
esercitato su le
dottrine del nostro
filosofo. Nessuno ha dato
segno d'elevarsi ai
veri prindpii di
queste dottrine, non
perchè non sapessero,
ma sia perchè alcuni
di essi non
ebbero tal fine
parlando dinVico, sia perchè
non han creduto
ad una filosofia
' di quest'autore. Nondimeno
a contar dai
primi fino agli ultimi
scrittori appartenenti a
questo secondo periodo, dallo Jannelli,
per esempio, al
secondo traduttore francese della
Sdenta Nuova, è
evidente un progresso mercè cui la critica
sul nostro filosofo,
da erudita e sto
\ rica e
filologica, viene assumendo
gradatamente valore sempre più
filosofico; di modo
che T ordine logico,
in questo nostro saggio
di storia sulla
Scienza Nuova, risponde perfettamente
all' ordine cronologico. La critica
nel senso d' interpretazione filosofica
sarà quind' innanzi il
carattere per cui
si distingueranno gli autori
a' quali verremo accennando
nel seguente capitolo. periodo degl'
interpreti filosofi. Il terzo
periodo degli studi
sul filosofo napoletano, se è
vero che ha
da risolversi logicamente,
come s'è detto, in
una critica filosofica,
doveva esser dischiuso propriamente da'
filosofi come quelli
i quali, più
che fermarsi alle applicazioni,
costumano anzi risalire
ai principii e
alle ragioni di
esse. Or le
ragioni e i principi!
( della
Scienza Nuova giacciono
sparsi, quasi germi
fecondi, nelle opere latine
del nostro filosofo;
e a queste vediamo accennare
più spesso, e
ad esse volgersi
più che ad altro
la mente degli
scrittori che noi
verremo adunando ed esaminando
in questo terzo
periodo. Primo di tutti,
infatti, al Libro
Metafisico ricorre r illustre ROVERE; e,
trovatovi il criterio
del vero e del
fatto che è come il
nodo vitale di
tutte le teoriche vichiane,
nel Binnovamento dell'
antica filosofia I italiana
viene applicandolo a
quella dottrina ch'ei
disse della hvtuijsione. Sennonché,
un criterio qual
è questo di valore
essenzialmente universale, come
vedremo, un criterio che
nelle più elevate
questioni di metafisica assume qualità
e forma di
principio; nelle mani
del filosofo pesarese invece
piglia natura e
proporzioni, per cosi dire,
di norma psicologica,
o ideologica che
sia: né quindi ebbe
torto il Rosmini
se in cosiffatto
innesto operato dal Mamiani
vide annidarsi difetti
non pochi, né lievi
magagne, confessate oggi
tacitamente e nobilmente dall' autore
delle Confessioni d’un
metafisico. Vedremo a suo
luogo se quando
Vico propose quel criterio, non
intendesse né punto
né poco uscir
da' termini della Intuizione,
come allora pensavasi
'1 Mamiani.* Il quale,
ove oggi tornasse
a parlarne, certo ne
discorrerebbe in ben
altri sensi e co'
riguardi di buon platonico, più
che di filosofo
naturale seguace della filosofia del
comun senso, al
modo che con
sì acceso entusiasmo prese
a fare trentacinque
anni addietro.* Del •
Vedi Del Rinnovamento
della FU. antica
Itah, Parijri. 1 Difatto
nelle Con/esnoni ROVERE designa il filosofo napoletano come il
vero e ardito
rinnovatore della teorica
delle idee, ma non
dice come, non
dice perchè, e
non giustifica in
alcun luogo ed in
vernn modo tale
affermazione. Nò Teramente
il poterà, stantechè rimanente il
merito a cui
egli può e
dee pretendere panni questo.
Primo d' ogni
altro ei richiamò
alla mente degl'italiani non
pur la dottrina
su l'anzidetto criterio, ma
eziandio alcune teorie
cosmologiche sparse nel libro
De Antiquissima Itàlorum
sapientia. Tale si è
quella de' punti
metafisici come generatori
di solidi, in quanto
ci significano una
forza unica che
in ciascun corpo meditiamo
sotto la concezione
d' un punto:
tale queir altra su
la continuità che
questa forza infonde
a tutte cose: * tale anco
la idea del
conato motore identico per
tutto: tale il
concetto della incomunicabilità del moto
onde ogni particola
materiale si può
dir che possieda in
proprio il principio
motivo già ricevuto
da tutto il subbietto,
talché il moto
sia da ritenere
per al tutto spontaneo:'
tale, finalmente, l'idea
della impossibilità del vuoto
assoluto, e 1'
altra che il
divisibile accusi r indivisibile,
l' indefinito e l' immutabile
in seno alle fenomeniche
e divise realtà.' Ognun vede
quanto ROVERE del Rinnovamento
cogliesse giusto in
queste idee cosmologiche
di VICO. Dopo trenta e
piii anni però
egli è ritornato
a parlarne, ma troppe
cose nella nuova
cosmologia scordandosi della vecchia. Ristringendoci infatti,
per ora, al
concetto istorico, se
dell' antico maestro
invocato sei lustri
innanzi ei pur si
rammenta, se ne
rammenta sol per
addolorarsi anch' egli che il Vico
fosse stato l' autore
della dottrina Corsi
e ricorsi storici
(malaugurata dottrina!) né sa
darsi pace pensando
come mai nella
mente di quel sommo
tal gravissimo errore
fosse potuto capire.
Al contrario oggi egli
stima d'aver gettato
le basi alla
filosofia storica, mercè l' idea
dell' finità organica
del mondo isterico. Ma,
diciamolo con buona
pace dell'illustre U sua
teorica neopIatoDìca delle
idee sia diametralmente opposta
a quella che, come
redremo, scaturisce dall*
insieme delle dottrine
richiane. Dd Rinnovamento^
ec pai|^. 297. nomo,
cotesto a noi
sembra ed è un concetto
assolutamente vìchiano. Per
tre fattori, infatti,
dice il Mamiani, il
mondo de' popoli forma
unità organica; e
sono questi: 1* natura
comune e perpetua
negli uomini; 2
È una relazione *
Vedi negli Atti dell’Accademia di
Torino, celesta, tra Kant e Vico,
della quale giova
tejier conto; e abbiam
voluto farlo citando
le parole del
valoroso BERTINI. CONTI, pensatore
profondamente cattolico e altrettanto
onesto e sincero
nelle sue convinzioni,
ha voluto consacrare intera
una lezione alle
dottrine del I nostro
filosofo nel suo
Specchio della storia
generale della filosofia. Chi
conosce i principi!
filosofici dell' illustre
ed elegante scrittore toscano
saprà indovinar subito
quale esposizione egli faccia
di VICO, e sospettare
in che senso ne
interpreti le dottrine.
Può dirsi eh'
e' sia il
rovescio degli hegeliani; perchè
si studia di
tirar tutto dalla sua
parte l' A. della
Scienza Nuova, segnalandolo
naturalmente com' uno de'
tanti anelli della
sua filosofia perenne. Io
non istarò qui
a negare ne
che il Vico
sia cattolico, né che
la critica del
prof, pisano sia
fatta male. Sarà anzi
critica savia e
coerente: ma è
tutto Vico della prima
maniera quello eh'
ei ci dà,
perocché niente vi sappia
discemere che non si ritrovi
più o men palesemente
in Agostino, in AQUINO,
in AOSTA, e simili.
Però in VICO nulla ci
é di nuovo,
nel senso del filosofo
samminiatese, salvo che il concetto
d'una filosofia civile. Né
potrebb' esser diversamente,
ammessa la maniera con
che suol procedere
in tale esposizione
critica appoggiandosi per lo
pili in certe
aflFermazioni generali e duttilissime
del nostro filosofo,
qual è, per
esempio, questa: Dio, com'è
U principio ddV essere,
così è anche del
conoscere. Quante mai
conseguenze non si
potrebbero far rampollare da
cosifiatto principio !
Un giobertiano, per
esempio, vi mostrerebbe
com' ei si
sgomitoli tutto nelle note
formolo e cicli
creativi e concreativi assoluti e
relativi di cui al solito
egli ha piena
la bocca; dovechè un
hegeliano non mancherebbe
darvi pruova di tal
destrezza, da sciorinarvi
sotto gli occhi a
fil di logica
tutta la rete
delle sue leggi
dialettiche. In VICO c'è parecchie
di cpsi fatte
sentenze; né a CONTI poteva riuscir
difficile tirarle alla
sua filosofia comprensiva. Ma
egli dice benissimo
dove osserva che i
prìncipii del Vico,
anzi che condurre
al panteismo, lo combattono; e
in ciò noi
conyeniamo pienamente. Or non
sarebbe stato mestieri
dimostrar come non
vi condncano e
conte lo possan
combattere? Consentiamo
altresì col dotto
scrittore in tutte
quelle saggio riflessioni eh' e' sa fare
su l'indole comprensiva
e storica del metodo
vichiano. Ma non
sapremmo concedergli che la
dottrina dei corsi
e ricorsi apparisca
solo nella seconda Scienza Nuova. È
quistione di fatto
eh' ei potrà risolvere col
ridar un' occhiata
al sommario della 1*
Scienza Nuova. Farà
male anche a
lui cotesta dibattuta e
combattuta dottrina; ed
è forse per
questo ch'egli procaccia di
trovar modo a
scusarne l'autore: ma,
più che scusarlo, avrebbe
dovuto e potuto
difenderlo. Crede anch' egli poi,
erroneamente, come FERRARI, che VICO
s'ispirasse alla teorica
delle monadi di
Leibnitz; ma contro il
Ferrari mostra, e
fa benissimo, quanto
il Vico fosse lungi
dal confonder la
causalità con l' identità
ideale. Finalmente osserviamo
che i principii
ond' il Vico resiste
al Cartesianismo e
che il Conti
riduce a tre, sono
da lui debitamente
interpretati, meno T
ultimo poco fa menzionato;
che Dio, cioè,
essendo principio dell' essere,
è anche principio
del conoscere. Accettando questa sentenza
accetta anco l' altra
tanto familiare al Vico,
per cui la
metafisica, la matematica
e l'etica siano da
Dio. Anche cotesta è
afi'ermazione generale, onde nnlla
può concluderai finché
non si giùnga
a mostrare come precisamente
accada che quelle
scienze rampollino da Dio.
Per ciò medesimo
accoglie e ripete
quelr altro pensiero
che il sommo
della certezza risegga nella
metafisica; contraddicendo cosi
a ciò eh'
egli stesso ana pagina
innanzi aveva accettato
da Vico: la certezza somma potersi
l'aggiugnere unicamente con le
matematiche. Bisogna pur
confessare che con
la sua critica il
Conti ha lasciato
il Vico dove
appunto l' avean A. CoNTf,
Storia della Filotofich
Firenze condotto, per
esempio, il Duni,
Tlannelli, il Tommaseo, r Amari, il
Rosmini e tutti
gl'interpreti filosofi cattolici. E
noi non sapremmo
fargliene carico: con la sua maniera
di filosofare non
poteva far diversamente. Anche l'illustre
Franchi, scettico ingegnoso,
onestissimo, sincero, e critico
furibondo, pare talora
siasi data la pena
di leggere qualche
libro del Vico;
e ne parla I
in due luoghi
neUe sue Letture
sulla storia della
filosofia moderna. È noto
come il Vico
più volte accenni
a Bacone, nella Scienza
Nuova, nel Libro
Metafisico, nel^ r
Orojsiotie sugli studi,
e fin nelle
sue Vindicue contro gli
Atti degli eruditi
di Lipsia. Lo
rammenta sempre con parole
amorose e riverenti,
annoverandolo, com'è noto, fra'
suoi maestri. Il
valoroso Ausonio reputa
esagerati cotesti elogi, massime,
die' egli, quando
si pensi a GALILEI.
Non possiamo qui
intrattenerci sul valore speculativo di
Bacone: il divario
e le somiglianze
fra lui e il
nostro GALILEI accennammo altrove.*
Ma gli elogi
del Vico al filosofo
che primo ebbe
coscienza della teoria sperimentale (dico
della teoria) non
dovrebbero parere esagerati a
nessuno: Franchi anzi
avrebbe dovuto chiamarsene contento,
se avesse badato
all'indirizzo storico e però
sperimentale cui è
tutta volta la
Scienza Nuova. Né qui
giova gran fatto
invocar l'autorità di Cartesio,
dicendo ch'ei fece
appena menzione di
Bacone; del Newton che
noi nominò mai;
del Locke che lo
citò solo una
volta, non come
filosofo, bensì come storico. Questa anzi
è una ragione
di più per
apprezzare gli elogi che
ne fa VICO.
Qual è il
motivo principale onde r
autore della Scienza
Nuova encomia tanto spesso
r autore del
Nuovo Organo? Questo,
parmi; l'esigenza in Bacone
a dimostrar con
esperimenti la verità già
concepita, e quasi
preveduta col pensiero.*
La ragione dunque ond'
al Vico piaceva
Bacone, ci mostra com'
egli sapesse intendere
e pregiare la
mente del filo[Vedi
la nostra memorìa
su GALILEI. Bologna.
Vico, Vindìeke^ nve
NoUb in Ada
erudiUìrvm lAptitnna] sofo inglese.
E dico intendere
e pregiare, perciocché -egli non
iscorgeva nel Nìmvo
Organo quel rachitico sperimentalismo che
ci san vedere
i positivisti, e
per cui solamente e
con tanto calore
costoro invocano a
maestro il conte di
Sant'Alban. Di che
proviene poi un'altra
riflessione ; ed è
che dalla citazione
di VICO testé
riferita è manifesto, come
gli sperimenti non
sieno la sorgiva, bensì la
riproduzione, la conferma
di ciò che
in qualche ' maniera
si è innanzi
concepito; e per
cui i diritti
dello spiritò restano salvi
di fronte a
qualsiasi forma d'empirismo. D'altra parte,
poiché senza sperimenti
ciò che s'è speculato
riesce al tutto
sterile e vuoto,
ne segue che
non senza buone ragioni
nella Scienza Nuova
il metodo di iilosofare
del Nuovo Organo
è detto essere
il metodo più accertato.
Avea dunque torto
il Vico nel
profondere •encomii al Gran
Cancelliere? Esagerazione é
il dire, nell' Autobiografia, essere
stata grande fortuna
per lui aver avuto
notizia del libro
del Signor di
Verolamio? Ma e' é
di pili. Il
Franchi reputa Bacone
padre di quella storia
che l' autore del
nuovo Organo disse
letteraria, e senza cui
la storia del
mondo pare vagli
come la statua* di
PoUfemo priva dell'
occhio. Or come
va che l' acutissimo critico non s'
è accorto esser
la Scienza Nuova
precisamente cotest' occhio dato
dal Vico al
Polifemo di Bacone? E
non é ella
cotesta un'altra relazione
fra' due filosofi? E non
è in questa
relazione appunto il
motivo degli encomii esagerati?
FRANCHI parla di VICO anche a
proposito del Cogito
di Cartesio. È
noto come l' autore della
Scieìiea Nuova, ragionando
di questo criterio, facesse menzione
altresì del detto
di Sosia: quum cogito,
equidem certe idem
sum qui semper
fui. Ne parla €ome
fatto inconcusso inverso
a cui le
lance dello Scetticismo, per acutissime
che paiano, rimangono
spuntate appunto perchè il
dubbio, essendo anche
pensiero e quindi importando
identità personale, racchiude
certezza. Il Franchi domanda
(e nel domandare,
dà segno di stupire
in che maniei'a
la penna d'un
Vico abbia potuto scrivere
tali enormezzel): che
cosa mai ci ha
che vedere il
motto volgare di
Plauto col principio filosofico di
Cartesio? Ma, buonissimo
e valoroso Ausonio, trattasi per
T appunto di
questo I La
posizione Cartesiana è ella
davvero un principio,
o no? È egli
un vero,
o non piuttosto
un certo? Tra i
filosofi vi è
anche MAZZARELLA, che in
quest' nltim' anni
ha parlato di Vico
nella sua Storia della
Critica, e ne
ha considerato l'ingegno
critico in relazione alla
critica anteriore e
posteriore all'autore della Scienza
Nuova. Con la
solita chiarezza e
semplicità e dirittura di
pensiero egli ha
saputo mostrar che cosa
rappresenti il filosofo
di Napoli nella
Storia della Critica: !•
il disprezzo della
critica meramente erudita: 2 zioni poco
fa rammentato, niun
altro fra noi
ha parlato del
Diritto Univermle tranne roi:rregio
prof. Luchini nella
sua Critica della
penalità^ condotta secondo i
principii del filosofo
napoletano. Egli ha
messo a riscontro ia
dottrina del Nostro
con le teoriche
di Kant, del
Bentham, di ROMAGNOSI, di ROSSI e
della Scuola toscana,
e se ne
dichiara seguace. Vedremo nella
«Socto^ofTtd s'egli siasi
apposto nello mterpretar
la teorica della penalità
dell* autore del
Diritto Univtrtale,
anteriori. Di fatto,
porre a fondamento
della società un doppio
bisogno materiale e
morale, eh' è dire
l'istinto al bene essenzialmente morale
e all'utile tolto
nel significato di equo-buono;
dimostrar Funo anteriore
logicamente all’altro e questo
mostrar co' fatti
anteriore a quello per
sola ragion cronologica;
trame quindi il
principio giuridico ed etico
d' una doppia società
(soci^as veri e sodetas
(squi-boni); far consistere
la natura d'entrambe in
uno scambio di
beni materiali e
morali fra gì'
individui; porre il concetto
di giustizia come
proporzione onde questi beni
vonn' esser distribuiti, ri
che quand' anco non
esistesse un bene
di genere morale
ma solo beni
materiali ci avrebbe
a essere ciò
nullamanco una misura secondo
la quale siffatti
beni devano andar
ripartiti, e quindi la
necessità del medesimo
concetto di giustizia anche
nelle attinenze puramente
materiali fra gli uomini:
presentare siffattamente la
scienza del diritto, dice
il Franck, vuol
dire creare addirittiu*a
la filo ' sofia delie
relimoni civili e
sociali, la benintesa
Sociologia. Due sono perciò
le regole fondamentali
dell'umana condotta che scaturiscono
da'principii di VICO: operare di
buona fede rispettando
la verità in
tutto, ed esser utile
ai propri simili. ("onvien confessare,
diciamolo di passata, che
ove il Franck
avesse tenuto conto principalmente di
questi criterii, non
avrebbe speso molte parole
a biasimare il
Vico a proposito
dell'esagerato concetto che
questi ebbe intorno
alla carità, la quale
talora, com'è noto,
egli confonde con
la giustizia. Altro pregio
insigne di questo
scrittore è l'aver
saputo cogliere i veri
principii del Diritto
punitivo del ' nostro
filosofo, mostrando com'
egli, col tener
d' occhio nella sua dottrina
non pure il
colpevole ma anche
i diritti e gì'
interessi della società,
compia nel medesimo tempo le
due opposte teoriche
penali; quella, cioè,
dei sistematici platoneggianti che
nel comminar la
pena mirano soltanto all'
ammenda del colpevole,
e l' altra degli ntilitarii
e positivisti che
della parte morale
non ^ sanno tener
conto, ne punto,
ne poco. Ma
sopra tale argomento ci
rifaremo altrove di
proposito. Seguitando intanto, parmi
che il pregio
massimo della crìtica
di questo scrittore stia
nel modo col
quale considera i principiì delia
politica; prìncipii che,
quantunque nello stato di
germe, possiamo rintracciare
nel Diritto Umversale.
La politica del
Vico, egli osserva
giustamente, è tutta fondata
sul Diritto, ma
in armonia con
la storia. Sentenza verissima
e feconda, che
Franck avrebbe dovuto rifletter
meglio dove censura
il Nostro per
alcune applicazioni eh' ei
venne facendo alla
storia. Laddove il Vico,
egli dice, s' accinge
ad applicare il
metodo allo studio del
Diritto, urta evidentemente
ad un doppio scoglio;
da una parte,
quand' egli chiede
soccorso alla sola ragione,
risica di confondere
e spesso confonde il
dominio della giurisprudenza con
quello della metafisica; dall'altra
poi, quando chiede
aiuto alla storia, altro
non fa che
aggirarsi in mezzo
alle istituzioni e ai
destini del popolo
romano, quasiché la storia
di questo popolo
fosse la storia
universale. In altre parole
il Franck dice
così: VICO da una
parte, svapora nell'a priorismo
e dà nelle
astrazioni; mentre poi dall'
altra intoppa nell'
empirismo. Il Franck dice
benissimo. Nel filosofo
napoletano questa doppia tendenza
è manifesta. Ma
anziché difetto cotesto, perché
non dirlo pregio?
Non é egli
stesso, infatti, che non
rifinisce d'incelare il
metodo vichiano appunto perché
consiste nel connubio
della filosofia con la
filologia, della metafisica
con la giurisprudenza, della ragione
con l'autorità? Or
l'esigenza d'un doppio
organo, d' un doppio strumento
nel metodo, non
é la condizione legittima, e
propriamente la parte
vitale d' una dottrina, doveché
gli errori d' appUcazione hanno
valore Affatto secondario? Il non aver
poi riflettuto a
questo ha fatto sì
che il Franck
giugnesse ad una
conseguenza non vera, dicendo
che il Montesquieu,
quant'al metodo, vinca e
superi il filosofo
italiano. Paragoni, somiglianze, analogie, riscontri
fra questi due
scrittori non sono possibili. Montesquieu
non ebbe neanche
sentore àeV n metodo
vichiano; ed ecco
perchè l'opera su
lo Spirito ddle leggi
non è una
filosofia della storia,
non è la
Scienza Nuova, né quindi
credo che lo
scrittore francese siasi ispirato né
punto né poco
neir italiano, come
inchinerebbero a supporre Lerminier, Carraignani,
Amari ed altri. Il
senso delle storicità,
come primo fra
tutti osserva FERRARI, manca affatto
nel Montesquieu; e manca
in lui, come
tutti oggimai ritengono,
il compimento razionale filosofico;
vi mancano insomma
i principii, 0,
per dir la
parola che usano
gli stessi Francesi a
tal proposito, vi
manca il carattere
détta raziofialità. ^j L'
ultimo libro nel
quale si parli
cou serietà scientifica del nostro
filosofo, è quello
di Ferron, ingegnoso e abilissimo
filosofo. Nessun francese
meglio dì 1 lui
ha saputo cogliere
il significato razionale
della Scienza I Nuova,
comprenderne il metodo
isterico, e pome
l'autora in quel seggio
che gli spetta
fra i pensatori
dell' evo moderno. Tracciata
la storia dell'idea
del progresso,^' egli entra
a discorrer su
la scienza de'
fatti storici qual' era
concepita prima di VICO, sul DIRITTO
ROMANO rispetto alle dottrine
di lui, su
la Scienza Nuova
di fronte alla critica
moderna, e con
erudizione eletta, acconcia, sobria
e non affollata,
prende a trattare
la ' Il Canuignani
dice benissimo dove
affernia che il
metodo del Mon ) tesqaien rassomiglia
al microscopio, in
mentre che quello
del Vico rende imagine
del telescopio. (Storia
della FU, del
Diritto) Che poi il
difetto di razionalità
costituisca la parte
debole deiropora del
filosofa francese, è cosa
ormai detta e
ridetta e provata
fino dal secolo
passato, e confermata sempreppifi
dai moderni. Non
potendo trattenerci in
questi particolari, rimandiamo i
lettori al giudizio
che in proposito
danno i seguenti scrittori,
e che torna
conforme al nostro
espresso poco fa:
Duxi, Saggio mila Giuritpr.
univ., FlLAKOlRRI,
Se. della Legialaz.^ lotrod. MaCKINTOSH,
Vige, nur Vétude
du Droit de la nature,
ec. RoTTBSKAg, Emil, Fra
i moderni poi
cons. Lebminirr, Biat,^ ginér, Barkt,
Hiwf. dea idéen morale»
et politiquea en France Jakrt,
Hiat. ec. yol.
II, pag. 516. DaFAO,^; De
la méth. d*olaervation
aux aciencea mor. et poi.,. Qneit* ultimo
anzi dice mancare
affatto nel Montesquìon
una teorica. quistione su
Tetà dell'oro, e
l'altra su T orìgine
e sul valore de'
poemi omerici. Il buon
senso di Ferron nel saper
rilevare in siffatte
quistioni il merito
del nostro filosofo a
me sembra davvero
mirabile. Con dirittura di
giudicio intende la
relazione fra il
diritto civile e '1
diritto filosofico; e
con tal chiave
nelle mani riesce ad
interpretar debitamente la
storia ideale che l'
autore della Scienza Nuova
seppe cogliere nello
svolgimento del gius romano.
Uno per lui
è il sistema
del Vico; onde
le due Scienze Nuove
non sono da
riguardarsi altrimenti che come
detix rédadions éCun
ménte sujet: al
che dovrebbe por mente
il nostro Cantoni.
Ritiene egli pure che
lo Champollion non
discoprisse, bensì confermasse pienamente la
dottrina del Vico
su la storia
della scrittura, tale essendo
infatti la triplice
scrittura egiziana
geroglifica, jeratica e
demotica. Dimostra ch'egli
prima d'ogn' altri ritrovò e
compose in armonia
parecchie dottrine accettate oggi
e rassodate difinitivamente dalla scienza, quali
sono, per citarne
qualcuna, la formazione del dramma
satirico riguardato come
sorgente d'ogni poesia drammatica,
l'anteriorità del linguaggio
poetico al linguaggio prosaico,
e simili. Da
ultimo fa rilevare come, non
contento d' avere scoperto
la legge secondo cui
si vanno svolgendo
nel corso isterico
le grandi civiltà nonché le
forme semplici del
reggimento politico,
profondasse la mente
nel ricercare e
determinare il carattere d' un'
epoca anteriore alla
città ed alle
aristocrazie feudali, epoca che
costituisce appunto l'età divina.
La quale osservazione,
fatta da un
francese, dovrebbero oggimai spassionatamente meditare
i positivisti francesi che
non rifiniscon di
celebrare la scopei'ta
della legge sociologica
del loro maestro! Ma
nel De Ferron
incontriamo riflessioni che
non ci è venuto
fatto ritrovare in
verun critico. Base
della città, die' egli,
fondamento del formarsi
delle nazioni per r
A. della Scienza
Nuova non è
Y istinto della
sociabilità, come credevano i
giusnatnralisti suoi contemporanei. Se
tale istinto può
aver creato la
iaiiiiglia e le tribiì,
non però basta
a fondar la
città, non riesce a
condurre un popolo
ad una data
costituzione politica. È necessaria
dunque una l'orza
estrinseca, senza cui r
uomo rimarrebbesi nello
stato pastorale. Ora cotal forza
estrinseca e tutta
naturale consiste nel
fatto del successivo migrare
delle tribù da
alcuni centri; nel loro
successivo aggrupparsi in
dati luoghi; nel
fissare lor sedi, ond'
è resa possibile
l'agricùltura; e finalmente) nel fatto
delle conquiste, le
quali hanno virtù
di creare e rendere
sempre più stabili
e quasi organiche
le nazioni sedentarie. Tutto
questo, dice benissimo
il De Ferron,
scaturisce a fil
di logica dalle
dottrine del Vico. Diciamolo ora
con parole nostre:
l’organismo sociale, la società, è
da natura; è
nella natura: l'organisiifo
dello Stato, in vece,
è sottoposto a
processo; questo processo tiene ad
arte; ma quest'
arte è fondata
aqch'ella in natura. La
relazione storica, dunque,
ecco il concetto
del Vico che il
De Ferron ha
interpretato a meraviglia., Altra osservazione
assai notevole parmi
questa. Non v'è stato
né v' è,
die' egli, chi i;on
abbia celebrato il filosofo
di Napoli qual
padre della filosofia
della storia; mais on
se garde d'exposer
sa méthode historique, aristoteliemie, i
cui principii son
oggi venuti applicando, in diverse
ricerche storiche Macaulay,
Michelet, Guizot.' Con
queste parole il
De Ferron mostra
d' aver pienamente compreso il
metodo della Scienza
Nuova; metodo essenzialmente aristotelico,
checché ne abbian' detto
e si piaccian
dire certi hegeliani.
Ed ecco perché egli
s' allontana da
parecchi altri critici
nell* apprezzare il concetto
vichiano sul progresso;
rispetto al quale consente
con Y anonimo
traduttore francese, col Tommaseo,
con lo Spaventa
e con altri,
per citare qui '
È uno de'
principii su' quali
è fondata la
Sociologia del Comte
e ch'eglif spesso appella
contenBo, cospirazione {Coum
de PhiU posity
voi. V). Sarà anche
questa una scoperta
del Positivista francese?
Db Ferron, tre
nomi che, quantunque
discordanti nel resto,
convengono ciò nondimanco nel
credere che in Vico
esista r idea del
progresso. E a
chi neghi o
dubiti che cotesto concetto ritrovasi
nella Scienza Nuova,
il De Ferron
è pronto a
rispondere: cela parati
impassible a PRIORI, car le progrès
décovUe de son sy
stèrne; mais en otUre
U le prodame
formellemeYU} Si dirà
che il Vico non
vide 1' elemento,
la molla principalissima delprogresso,
cioè la trasformazione dei
rapporti econo spirito. Uno
de' suoi pregi,
come s' è detto,
è la posizione del
pensiero qual inizio
di scienza indipendente da ogni
qualunque autorità: ma
di ciò, com'
è noto, Cartesio non
può vantarsi d' essere
stato primo divulgatore e
sostenitore nel regno
della scienza.' Vero pregio,
pregio massimo dell'autore
delle Meditazioni sta neir
aver considerato come
originaria virtù dell'anima l'attività
stessa del pensiero;
aver posto r anima
come il pensiero
stesso, e però
come soggetto e obbietto.'
Senonchè il pensiero
per lui non
era altro che rappresentazione, e,
come tale, unione
a dir cosi meccanica,
incosciente, immediata di due oppositi elementi, dell'universale e
del particolare, dell'infinito
e del finito. Come
dunque potev' egli
riuscire al vei'o
organamento del sapere filosofico,
posto un fatto
empirico, Dt$c et le
Cartinanimne, Introd. Franchi,
St. detta FiL
mod., Tol. 1, letlnrs
Jaitbt, (Euw, phiL
de LeibnitZj ToL
I., Introd. TrnmtiiAinf,
Su ddla FU. La
riforma cartesiana, cosa
arvertita presso che
da tutti gli
storiografi, non giunse nuova
fra noi, tanto
clie la si
riguardi come rinnoramento
filosofico, quanto che
come reazione scolastica.
ATevamo avnto già PETRARCA,
poi VINCI, la
scuola Telesiana – TELESIO (si
veda), poi la
scuola Galileiana – GALILEI (si
veda). (Vedi Libri, HUt.
de» •eienc, math.,
~ PncoiiroTTi, Sl
della Med,^ voi. ult.)
Potremmo dire altresì
che TAconzio, come
osserva giustamente il
Franck [Diet, de»
»eiene. phiL) fosse
stato in ITALIA
il devander \ del
metodo cartesiano. Avevamo
avuto anche BRUNO; e
segnatamente CAMPANELLA, le cui
opere non dovettero
esser del tutto
ignote a Cartesio, come nota
il Bitter {Hi»t.
de la phU.
mod.). Ma anche qui,
al solito, s*
inciampica neir esagerazione quando
si vuol risalire
fino a sant'Agostino a
ripescar 1* antecedente
del pronunziato Cartesiano
! Nò io mi
ci vo' opporre,
sapendo che in
quel Santo Padre
e' è pur
troppo r esigenza cartesiana
(Vedi per es.:
De Lib. Arò.,
e specialmente De Civii.
Dei). Ma il
valore della posizione
è tanto diversa ne*
due filosofi, quanto
diversi i tempi
in ch*ei vissero, trattandosi ben
più che di
certezza d'esistenza. Il
Cousin poi, com'è noto,
va fino al
No»ee te ipeum
di Socrate !
Contentiamoci di questo,
che non è poeo:
un eclettico ne
potrebbe far di
peggio. • DiBOARTBS, Médit., Lettre», U
II, U». Obi.
répotue», I, 4. posta
una dualità empìrica?
E in che
maniera spiegare nel pensiero
l'unione del finito
con l'infinito? Ma che
davvero l' idea di
Dio sia innata
e a priori
nella nostra mente com'
egli stesso afferma,
* al modo
eh' è innata, non
nata, cmmcUa l' idea
di noi medesimi
(ciò eh' è proprio la
novità di Cartesio)
è ancor cosa
da dimostrare. È ella
possibile nel nostro
pensiero l'idea dell'infinito veramente detto?
L'essere adegua il
conoscere, dicono certi interpreti
hegeliani; e poiché
nel conoscere v'è r infinito,
il pensiero è
dunque infinito: ecco
la novità vera di
Cartesio, su la
quale s' imbasa propriamente
la filosofia moderna. Ma
il pensiero è
egli propriamente l'essere, come
si vorrebbe darci
ad intendere? Non potrebbe
stare che cotesta
fosse un'affermazione arbitraria di
Cartesio, fatta legittima,
più che altro,
dal desiderio, nonché dall' artifiziosa interpretazione che
gli hegeliani porgono all'entimema
cartesiano? Diranno non ci essere
artifizio di sorta
in questa loro
interpretazione. Ma non è
forse egli stesso,
Cartesio, il quale a
chiare note ci
dice in che
senso parli d'innatismo, afiermando, la
natura stessa averci
fornito d'una facoltà mercé
cui produceìido queUPidea
possiamo conoscere Dio?* Checché
ne sia, era
d'uopo rivedere, chiarire
e correggere in gran
parte la posizione
cartesiana del pensiero. Questo
quant' al Descartes,
come iniziatore del novello
indirizzo. Quanto poi
agli esplicatori del
Cartesianismo, in generale, era d'
uopo restituire alla
scienza'' il concetto delle
cause finali invocando
segnatamente lo studio della
storia; porre l'assoluto
come obbietto • Descartes,
Médit. 8«. Vedi
nella Troinhn. oljection9f
Z" Rép,: e
nella Rép. à
M. Begiut. Non ignoro
che nella Meditaz.
3^ e 5"
egli dice apei-tamente,
Tidea di Dio essere
innata in quanto
ci ^ imprenta
da lui medesimo.
E qoi è chiara
la contraddizione tra
ciò eh* egli
afferma in queste
Meditazioni, e le illustrazioni
ch’egli stesso ne
dà nelle Risp.
alle obbiezioni poco
fa indicate. Bisogna dunque
levarla di mezzo
tale contraddizione; è
fuori dubbio. Ma perchè
pretendere di leTarla
con T identificare
Dio e pensiero, facendo contro
cosi a tutte
lo esigenze della
metafisica cartesiana ? anziché
come principio di
ricerca; accomunare in un
subbietto dinamico universale
tanto la costituzione
del mondo fisico, quanto
quella del mondo
morale; e quindi statuir le
norme d'un metodo
non geometrico, non puramente
psicologico, né assolutamente
a priori nella, costruttura della
Scienza Prima. Questo per V appunto
presero a fare
il Leibnitz in Germania
e, poco appresso,
VICO IN ITALIA. Non vorrei che
i lettori stimassero
inconcludente il ravvicinamento di questi
due nomi, e
inutile e vuoto
un riscontro delle loro
dottrine. Non è
cotesto, intendiamoci, uno
de' soliti riscontri onde
rigurgitano certi libri
odierni appo cui non
di rado si
dà per concreta,
storica, reale un'attinenza meramente logica,
o ideale che
sia. Il riscontro
tra il filosofo di
Napoli e il
filosofo di Lipsia
è tutto ideale; ma
la ragione di
esso pone radice,
meglio che in
qualche riposta e fatai
legge dialettica, in
queste due ragioni principalmente: !•
nella forma e
natura stessa di lor
mente: 2* nelle
condizioni della filosofia
del secolo XVII. E
innanzi tratto ricordo
anche qui, non
esser possibile dimostrare che
il filosofo italiano
siasi ispirato nel
filosofo ) di Lipsia ormeggiandone
metodi e dottrine,
com' altri hann' affermato.' Nullamanco
l'affinità fra alcune
dot[Vico ha coscienza della
propria posizione specalativa,
e scientemente opponevasi alP
esagerazioni ed errori
cui ruppero le
diverse direzioni e scuole
nate dair indirizzo
cartesiano. £gli conobbe
lo opere di Spino}^,
di Locke, di
Malebranche, e Tisi
oppose. Quant'a Spinoza,
cfr. Op. voi. QnanV a
Locke, Quant'al Malebranche,
INon è dunque
niente vero ciò
che è stato
affermato da un hegeliano
che il Vico,
posto eh* abbia
speculato, speculasse incosciamente
e senz" alcuna
relazione alla storia
della scienza. * In
tutte le suo
scritture ne rammenta
il nome appena
appena due volte a
proposito, non già
di qualche dottrina
filosofica, ma delle
controversie fra Newton e
Ldbuìtz. Una di
queste citazioni è
nella seconda Sa meth,,
ec, Leibnitz, Meth,
nova ditte, dpcend.
juritpr,, P. II,
§ 29. Amendne si
presentano al pubblico
con questioni di
metodo; ricerca degl* ingegni veramente grandi,
anziché da filosofi
pedanti e scolastici,
come si crede. '
Nella Ragion degli
Hudi v' ha
i criteri per
lo studio della
ginrisprndenza. * Vedi
quant' al Leibnitz Mimoire»
de VAeadfmie de
Berlin^ voi. I,art. 1. '
Leibnitz, Xouv. Et», . il
sustrato della Scienza
Nuova, si che
vede svolgersi cotale idea
anche attraverso gli
antichi poemi. Quant' alla
fisica poi, alla
res extensa di
Cartesio, agli atomi fisici
del Gassendi, contrappongon
gli (domi di sostanza,
gli atomi metafisici,^
i punti, i
momenti metafisici e lo
sforzo impedito nell'essenza
stessa dell'universo.' Per questa
medesima ragione entrambi
parlano linguaggio
somigliante circa la
natura delle matemati-i che. Di
fatti contro Cartesiani
e Hobbesiani Leibnitz mostra la
inefficacia di siffatte
scienze nelle indagini propriamente filosofiche,
e al di
là del calcolo
aritmetico e geometrico crede
esserci luogo ad
un altro e più
rilevante calcolo che
tiene all' analisi
delle idee; stantechè
nella sostanza, die' egli,
ci abbia sempre
qualcosa d' infinito.' La medesima
insufficienza del metodo
geometrico scorge anche il
Vico in più
luoghi delle sue
scritture; e lo reputa
difficile, anzi impossibile
alla mente del metafisico.^
Col che essi
anticipano alcune idee
di Kant in proposito. *
Lbibnits!, %ff. noìit;.
etc, Vico, Risp.
1« al GiomaU
de' Letterati, L*
affinità de*dne filosofi, come si
vede, è mirabile
anche nel linguaggio:
punti metaJUici, conato («VTf^i'X^'av) tramezzante
la potenza e
Tatto (Lbibkitz, Op.),
0, come direbbe
il Vico, la
Quiete e il
Moto; per cai la matteria, anziché passiva,
ò per entrambi
una forza viva. Anche
i punti matematici
per entrambi non
sono che simboli
de* metajitici; e
i punti jieiei
per tutt'e due
riescono indivisibili, ma
solo in apparenza. La
ragione poi ond*essì
adoperano la parola
punto è la
idedesima; ed è,
che il punto
racchiude infinito numero
di relazioni. Finalmente si
potrebbe dir propria
anche del Vico
la nota sentenza
del Leibnitz: eonatue e*t
ad motum, ut
punctum ad epatium;
e pel Vico vedi
nelle Risposte al
Oior. de* Lett.). In
omnibu» èubetantiis aliquid
eet infiniti; unde
fit ut a
nobie per/ecte intelligi
potint sciite notionee
incompUtfr, qualee eunt
numeromm, figurarumj
aliorumque hujuemodi modorum
a rebus animo
abstractorum. Lkibxitz, Op., Vedi
neW Autobiografia, AìtroY e dice
che la matematica
è la più
certa di tutte le
scienze, perchè prova
per cause [De
Antiq, Ital.), ma il
metodo di essa
riesce esiziale, sterile
e pericoloso quando
si voglia adoperare nelle
altre discipline (Risp,
a Gaeta), disastroso
poi nella fisica, neir
educazione degT ingegni
(/&»', passim), utile
solamente neir ordinare anziché
nello scoprire (De
Antiq., Ital. Entrambi
poi riconoscono in
Dio le stesse
primalità: potenza, volontà, intelligenza;* e
se nell'uno troviamo il
principio che Dio
creando non possa
produrre altro che il
migliore e il
più perfetto de' mondi,
in Vico tale dottrina
si lascia argomentare,
come vedremo, dall' insieme
delle sue dottrine.
Quant' alla storia,
V un d' essi riconosce
un progredire continuo
nel tutto, e la
possibilità del regresso
nelle parti;' dovechè
l'altro, meglio determinando e
dimostrando cotal concetto,
pone la dottrina dé*c(/rsi
e ricorsi storici,
in cui sono
racchiuse le idee di
progresso e regresso,
governati da una medesima
legge. Che se
è stato detto
esser d'uopo risalire, meglio
che al celebre
Discorso del Bossuet,
alla metafisica del Leibnitz
per ritrovare un
concetto spe! culativo
che fosse come
il vero antecedente
della filosofia della storia,
s'è detto giusto;
atteso che veramente
il filosofo di Lipsia,
col sommettere al
principio della ragion sufficiente l' ordine
delle cose fisiche
e morali, dischiuse la
via alla dottrina
del Determinismo universale,
perocché tutto per lui
si annodi nel
mondo, tutto si
corrisponda, tutto armonizzi. In Vico
veggiamo questa medesima esigenza;
ma nello stesso
tempo ne troviamo la
correzione. Perciocché se anche
per lui il
passato è gravido del
presente, al modo
stesso che il
presente partorisce il futuro;
non tutto però
nel mondo delle nazioni
é avvinto a
leggi fatali e
cieche, perché nel regno
dello spirito vi è agli
occhi suoi la
ragione, v' è pur
la libertà, sicché
tutto il processo
isterico per l'Autore della
Scienza Nuova non
é altro, in
sostanza, j che la
soluzione del problema
della libertà, sia
che tu la consideri
negl' individui, sia
che negli Stati.
Dinanzi alla mente d'entrambi,
dunque, risplende chiara
la legge della continuità
nel giro de' fatti
umani e storici. Né
si creda che l'
affinità fra ^
i due filosofi
non si Lribnitz,
MonaU., Op., ediz.
Erd., Vico» De Univ.
Jur, Idem, Theod.,
8. * Idoin, eod.,
8. lasci scorgere altresì
nelle contraddizioni e
non di rado anche
nelle strettoie fra
cui gi resta
impigliata la coscienza religiosa. Ei
cominciano a scrivere
innanzi d'aver fissato, determinato
e organato le
proprie idee; di
modo che, se l' uno
fin quasi ai
quarant' anni, fino
alla comparsa delle Meditazioni,*
va fluttuando non
libero da incongruenze, l’altro
va tentennando fino
alla terza edizione
della Scienza Nuova.
Onde non è
a meravigliare se tutt'
e due si
contraddicano quant' al
concetto di creazione; perchè,
se V uno
ponendo la moltiplicità delle monadi
come primitiva ed
esistente per necessità metafisica, dice
nullamanco esser Dio
quegli che sceglie r
ottimo fra i
mondi, e immagina
delle monadi create par
des fidgurcUiotis continudles
dalla divinità; l'altro poi,
stabihto il criterio
della conversione in
senso metafisico, non dubita
parlarci del miracolo
della creazione, e dell'annullamento del
mondo! Quanto
aiprincipii, in generale, si
palesano entrambi eclettici;
ma è d' uopo intenderci nell'
applicar loro cotesto
nome. Sono eclettici appunto nel
significato e nel
valore che lo
stesso Leibnitz dav' a
tal voce; nel
qual valore ci
confermerebbero molte
sentenze del Vico.
Sono eclettici, io
dico, non perchè raccolgano
in un tutto
ciò che si
presenta come vero squadernato
ne' differenti sistemi,
eh' è precisamente il fiacco
e volgare eclettismo
sfornito d' ogni
originalità; ma sì
perchè, aggiugnendo anch'essi
qualche altra cosa di
proprio, riescono a
comunicare novello impulso a
tutti gli ordini
delle scienze. Rispetto alle fonti
del conoscere, o
fondamenti del sapere,
alla doppia sorgente vichiana
del vero e
del certo risponde '
Meditationea de cognitionet
veritate et ideiti f
1684. Lribnitz, Monad,f Vedi
questa sentenza del
Leibnitz nelle Lettre*
à Rémond de
Montmort, edlz. Erd.,
e ne* Nouv,
£»»., Hb. I.
Nel Vico poi
troviamo molte affermazioni del
tenore seguente: Chi
ai trae fuori
da questi prineipii,
guardi clC ei
non traggati fuori
deìV umanità, E
eh* egli poi
sia eolettico in questo
senso, anziché nel
significato voluto dal
Cousin, dal ristica
e popolare col
suo concetto della
monade. (La FU.
di Oiohertif ) Più chiaro
e più accoucio
di tutti sembraci
il modo col
quale il Chalibosus pone relazione
fra' successori di
Leibnitz. Kant, egli
osserva, col concetto della cosa
in s?, col
noumeno, nega Leibnitz;
la scuola di
Jacobi con r ide&
d* un contenuto
razionale accessibile solo
al sentimento, s' oppone all'idealismo critico
di Kant, e nel medesimo
tempo all'idealismo
subiettivo di Fichte;
mentre la scuola
di Herbart col
realismo delle monadi e
col realismo psicologico,
si oppone all'idealismo
obbiettivo e assoluto
di Schelling e
di HegeL (Willm)
Questi due gruppi rappresentano un
doppio svolgimento del
pari esclusivo del
concetto moMen fortunato
del Leibnitz il
Vico non ispiegò
grand' efficacia in Italia,
nettampoco in Europa,
per le ragioni ormai
dette e ridette
da' suoi critici ed
espositori. Ma anche in
questo gioverebbe guardarci
dal cadere in esagerazioni. Posta
la storia della
Scienza Nuova da noi
tracciata, nessuno, crediamo,
vorrà più oltre
dubitare che l'azione del
filosofo italiano fosse
stata nulla, così
ne' suoi contemporanei, come ne'
suoi seguaci. Legami
intimi, vincoli speculativi necessari,
storici, nou vi
sono; e quindi è
inutile cercarvi continuità
e processo veramente
detto. GENOVESI e GALLUPPI,
per dire un
esempio, tuttoché non ignorassero,
in ispecie il
primo, le opere
di lui, scrissero non
pertanto come s' egli
non fosse esistito
al mondo mai. Verso
il sesto lustro
del presente secolo,
in quella che co'
seguaci di Hegel
comincia a declinare
il moto filosofico originale
di Germania, e
in Francia come in
Inghilterra odonsi i
primi rumori del
Positivismo, vedemmo come anche
fra noi si
cominciasse a sentir più
acuto il bisogno
al filosofare. E
cosi il Mamiani (il
Mamiani del Rinnovamento), e
quasi nel medesimo anno
il Rosmini, si
provano a rannodar
gli anelli della nostra
tradizione filosofica, ma con efficacia
assai lieve. E dico
lieve, perchè, quantunque
ella ingagliardisse vie più
col crescer degU
anni e col
succedersi de' nostri filosofi, non
pertanto pretendere di
stabilire in essa
tradizione un vero processo
ed una continuità
logicamente progressiva, a me
sembra vana impresa
e, fino a
certo punto, anche infruttuosa.
Giova ripeterlo: a
voler rintracciare alcun filo
di cotesta tradizione
in maniera positiva, ciò
è dire storica,
né soltanto ideale,
io per me non
iscorgo altra via
tranne quella che
noi abbiamo, anziché percorsa, additata;
intendo la via
che dal Vico
ci mena ai nostri
ultimi filosofi, ma
per mezzo de'
giusnatuoadologico; ma vi
ò certamente un
progresso fra 1
rappresentanti del primo e
qaelli del secondo.
Vedi per le
notizie particolari di
questo periodo fllotollco tedesco
il Barohoc dr
Ponhoem, Hìh, de
la Phil. depuU
UibnitK juMqu'à Hegel.
BuuLE, Hi9t.
de la PhU,,
voi. Vili.
ralisti, de'sociologisti, de'critici
e degli storici
attraverso i tre differenti
periodi già discorsi.
Altre vie ci
saranno, io lo so;
ma tutte artifiziali,
tutte pericolose, tutte
vuote 0 rigonfie de'
soliti riscontri ideali
che agli occhi
dello storico e del
critico positivo valgono
fin' a certo
segno. Con la qual
cosa non è
a credere che
noi pretendiamo dare alla
filosofia italiana caratteri
e prerogative eh'
ella non ha, né
può avere di
fronte a quella
di Grermania. Il professore
Spaventa osserva, che
la filosofia italiana non
costituisce processo, né
assomiglia, per così
dire, ad un filo
che si sgomitoli
necessariamente e razionalmente, com' é
quello che in
organismo vivente e
palpitante annoda l'
Idealismo critico con l'
Idealismo assoluto, mercé l'Idealismo
subbiettivo di Fickte
e l'Idealismo obbiettivo di
Schelling: non é,
in somma, unevolturìone strettamente logica,
un dispiegamento serrato,
compatto, e come chi
dicesse inquadrato e
chiuso tutto in
sé medesimo com' una severa
dimostrazione geometrica. Il professore
di Napoli dice
benissimo. Questo oggi
dicon tutti; e questo
medesimo ripetiamo anche
noi. Solamente chiederemmo: non
potrebbe stare che
cotesto filar compatto e
processuale; che coteste
filiamoni seriali, com' ha detto
lo Spencer ai
Positivisti francesi; che, in
somma, coteste annodature
organiche, considerate (già s'intende)
nell'ordine istorico, fossero
per avventura altrettante immaginazioni
del nostro cervello, meglio che
relazioni di fatto
a cui ci
spinga la ragione, meglio che
attinen/ie concrete in
cui ci confermi
la storia? Annodamenti, giunture,
articolazioni intime formano di
certo il pregio
massimo della Scienza;
costituiscono r essenzial condizione
del sistema; sono
la vita della ragione,
avvisata come funzione
filosofica e metafisica. Ma si
vorrà dire che
tutto ciò sia
anche pregio e condizione
vitale ove dall'ordine
astratto e teoretico e
individuale si discenda
in quello delle
applicazioni e della storia,
per esempio ad
un periodo storico nel
quale ci sia
dato assistere all'opera
svariata di molti ingegni,
al lavoro molteplice
di più menti
fra loro diverse per
infinito numero di
condizioni, condizioni
differenti per luogo,
tempo, educazione, carattere
individuale, e civiltà? È
egli pregio, di
grazia, o non
più veramente difetto il
prendere un dirizzone
e andare sino in
fondo diritto come
fil di spada?
E dov'è, dunque, la
necessaria moltiplicità di
direzioni, e quella
ricchezza d'aspetti
differenti, e quella
varietà di vedute
e di metodi e
dottrine in cui
risiede, a dir
proprio, il moto
e l' essere e la
vita feconda della
storia? I quattro
filosofi di Germania costituiscono, come
dire, una mente
sola, un sol pensiero;
formano quasi un
sol uomo che
svolga e determini la
propria attività: e,
in effetti, come
un sol uomo essi
hanno saputo filar
sillogismi e tesser
la scienza cosi da
comporre, sto per
dire, una catena
salda e compatta di
soli quattro anelli.*
Per contrario la
filosofia italiana non ci
pone sott' occhio
nulla di simile.
Ella non è un
processo, o al
più è un
processo distratto, rotto, saltellante, fatt'a
pezzi e a
bocconi, Qual relazione mai
tra VICO e GALLUPPI?
tra GALLUPPI, SERBATI
e GIOBERTI? tra GIOBERTI e
lo scettico Fer?
fra Ausonio critico radicalissimo, e
il cattohcissimo Conti?
fra il neoplatonico ROVERE e il
severo storico BERTINI ?
fra' nostri Hegeliani e
i nostri redivivi
Tomisti? Riconosciamo francamente
i pregi del
periodo filosofico
germanico; e non
meno francamente riconosciamo i difetti
della nostra moderna
filosofia considerata sotto r
aspetto storico. Ma ci si
permetta una confessione,
ed è che noi
saremmo tentati a
scegliere più presto
questi difetti, anziché que'pregi;
per la semplice
ragione accennata poco fa,
che gli uni,
nella mancanza d'unità
e d'un'euritimia stecchita
e geometrica, ci
presentano il fecondo
moto * Ecco come
il Remnsat riduce
quasi a forma
geometrica V andamento progressivo del
pensiero germanico, o
meglio, de* quattro
filosofi in discorso: L*
idea^ dice Kant,
non prova che
«d «fe««a: l’idea^ ripigìiè Firkte^ produce Veuere:
Videa, soggiunte Schelling^
riproduce V e«itcrc:
V idf^, eondwe Hegel,,
> Vetsere. (De
la Phil. ÀUem,) del
fatto istorico, dovecchè
gli altri, nell'
evoluzione serrata e compassata
di loro speculazioni,
ci traggono e e'
incatenano allo spirito
dommatico, esclusivo, unilaterale del filosofare,
e perciò medesimo
racchiudon la morte del
pensiero appunto perchè
presumon di chiudere
il circolo dello stesso
pensiero. Non dimentichino
gli amatori de' periodi
storici filati e
serrati, come la
storia della scienza e
delle grandi età,
presso cui rifulse
più splendido il pensiero
filosofico, stia tutta
contro di loro. Si
rammentino che nell'
età gloriosa del
Rinascimento in Italia cotesto
filar sottile di
speculazione, cotesto fitto
annodarsi di più scuole
e stringersi e
allacciarsi di più
filosofi impersonandosi
quasi in un
sol filosofo, non
ebbe luogo. Non ebbe
luogo, checché se
ne dica, nel
più celebrato periodo che
ci presenti la
storia del pensiero
umano, il periodo della
filosofia greca, né
prima né dopo
Socrate; ma in esso
il critico vede
una moltiplicità sempre
più crescente e feconda
da' primi Ionici agli
ultimi Stoici, agli ultimi
Scettici, agU ultimi
Neoplatonici, tuttoché quelle scuole
così differenti si
fossero succeduta sotto
l' impero d'una legge universale,
storica e psicologica
insieme. Questa legge conforme
alla quale si
venne svolgendo il
pensiero speculativo nelle scuole
greche, possiamo trovarla
accennata dal Laerzio (come
hanno osservato il
Brandis e il
Ritter) là dov^egli
afferma che presso quei
popolo la filosofia
sMniziò con la
nozione d*una pluralità^
indi venne progredendo con
quella d* un' assoluta
um'rà, e appresso
cercò di stabilire una
relazione fra' due concetti.
E questi caratteri,
in generale, ci additano
veramente la scuola
ionica e pitagorea,
la scuola eleatica e
poi quelle d'Anassagora
e d'Empedocle; ma
sempre in maniera
esclusiva, grossolana,
oggettiva e naturale.
La comparsa di
Socrate segna un ricorto
della medesima legge,
ma con ben
altro significato e
indirizzo razionale. Accanto a
lui vediamo sorgere
la Sofistica: il
che vuol dire
che, oome in ogni
ritorno istorico, nel
2fi periodo della
filosofia greca ha
luogo un doppio lavoro
di demolizione e
di ricostruzione; l'uno
rappresentato da' Sofisti» l'altro
da' Socratici. Ond'è
che la sofistica
né vuol esser
avuta in dispregio, come' fanno
alcuni fra'quali il
Ritter, e nemmanco
esagerarne il valore e
l'importanza isterica secondochò
fanno altri, per
esempio l'Hermann, col porre
i Sofisti a
capo d'un periodo
novello di filosofare. Nella storia
del pensiero greco
(passaggio al 2o
periodo), tanto vale un
Sofista, quanto un
Socratico; appunto perchè
se la negazione
del primo non è
annullamento di speculazione,
l'affermazione del secondo
non Un vincolo storico,
reale, positivo, cosciente,
lo troviamo fra Platone
e Aristotele. Al di qua
e molto più al
di là de'
due luminari non ci ha
che relazioni ideali, gran
numero delle quali
è, piò che
altro, l'effetto della critica
armeggiona di certi
storiografi; essendo già note
le spostature a
comodo che son
venute mulinando certe fantasie
hegeliane dietro l'esempio
del maestro, ponendo, per
dime una, dopo
la scuola Zenoniana
d' Elea quella d'
Eraclito, con aperta
smentita della storia, de'
fatti, della cronologia
e de' dati
storici più sicuri, e
considerando Socrate, per
dirne un'altra, come logicamente
posteriore ai Sofisti,
mentre è noto .come
il gran figliuolo
dell'umile Fenareta fosse
loro contemporaneo!
Rammentiamoci che cotesti
lambicchi e distillatoi, cui
si pretende sottoporre
la storia, non ti
può dir neanche
posizione sistematica, ovvero
esplicazione organica d'nn dato
ordln d' idee. Ma la ricostmzione
rappresentata da Socrate
è essenzialmente psicologica ed
etica, non più
naturale, empirica ed
estrinseca; stantechè in loi,
come incontra in
ogni ricorto ttoricOf
ripetesi il carattere della pluralità
oggettiva (però come
eoncetH, i quali
importano la coscienza), e
quindi in Platone
ed Aristotele si
ripetono, ma trasflgorati,
gli altri due
caratteri. Platone infatti
pone V unità
assoluta in 8Ò, mentre
che Aristotele si
studia ritracciare una
relazione fra quella mmo
e il moluplieet
sforzandosi di levare
il dissidio fra
1* immanenza deU*a8ffoInto nel
mondo, e la
permanenza del mondo
neir assoluto avvisato in
sé stesso. Dopo
il *i0 la
Log, d^Ari»U^ T.
U, 19^. ' n
Barchou de Penho^ln
dice anche lui
non di rado,
come il Boullier,
qualche enormità tutta
francese. Per esempio
questa, che Cartesio, Spinoza e
Malebranche formino una
mrd4>nlmn icuofa^ e
una ntf^itm dot' trino/
Vedi Op.
cit., p. 101. discredere ad
ogni processo istorico
nel pensiero filosofico? Tutt' altro!
L'esigenza del processo,
in tutto, non è
meno salda e
men vivace nella
nostra, che nella
vostra mente. In noi
non sistematici assoluti
eli' è piii
vera, più legittima, più
pratica, positiva: ecco
la nostra pretensione. Sarà puerile
o troppo ardita
cotesta pTetensione: ma,
fra tante pretensioni
che c'è al
mondo, e delle quali
si mostrano cotanto
ricchi gli annali
della filosofia, non ci
potrà capir anche
questa? Un processo
nel pensiero filosofico, tanto
nella storia universale
come ne' suoi differenti
periodi e sin
nelle diverse scuole
d'un sol periodo, ci
ha da essere;
e ci ha
da essere appunto perchè la
storia, anche agli
occhi nostri, è
sempre l'opera d'un disegno.
Ma poiché l'incarnazione di cotesto
disegno non è
soltanto effetto di
pensiero incosciente, ma è
la risultante di
condizioni molte, svariate, complesse per
numero e complicate
per natura, fra
cui signoreggiano le intuizioni,
prevalgono i sentimenti,
primeggiano le tendenze istintive;
ne seguita che
il processo non può
manifestare, come si
pretenderebbe, una forma squisitamente
organica e seriale,
Ei debb' essere incompiuto, com'
avviene d' ogn' altro
fatto storico. Or s'egli
è incompiuto, non
bisognerà pur compierlo?
E chi potrà compierlo,
chi potrà integrarlo
fuorché il pensiero che
lo studia e
sommette alla propria
speculazione? Un processo dunque
ci ha da
essere; ma ha da
essere insieme obbiettivo
e subbiettivo, storico
e speculativo, essendo l' opera
combinata non già
dalla nostra fantasia, com'
è vezzo di
certi storiografi che
annodano, per esempio, Cartesio
e Kant co' fili
ch'ei sanno maestrevolmente rimaneggiare a
tutto lor profitto,
bensì r opera combinata
fra il pensiero
che fa, e
il pensiero che, facendo,
vede, scopre e
progredisce e sale
sempre più in su.
Spieghiamoci meglio. Non
si tratta di combinare
fra loro
le diverse menti
de' filosofi d'un dato periodo:
si tratta di
combinar tutto il
periodo, o, per lo
meno, i risultati
di tutta la
speculazione d' un dato periodo
filosofico, con noi
medesimi, cioè con
la nostra mente, co'
bisogni della presente
speculazione. Nel primo caso,
plasmando a nostra
immagine e simiglianza
una data serie di
dottrine e di
filosofi, la storia
sarebbe fatta da noi:
nel secondo, invece,
ella sarebbe fatta
mercè una doppia forza,
in virtù d'una
doppia leva; cioè
da sé stessa, e
anche da noi.
Non è quindi
la storia, la storia
come storia, quella
che possa e
deva render compatto organando appuntino
il processo; il
quale perciò non può
esser costituito nella
sua forma organica
da più scuole e
da più menti
considerate queste alla
maniera d'una scuola od' una
mente; bensì dev'esser
fatto tale da chi,
venendo dopo, è
deputato a raccoglierne
l'eredità. Se non fosse
così che cosa
ne seguirebbe? Ne seguirebbe
che per nessun
miracolo al mondo
sapremmo salvarci da questa
conseguenza: che, cioè,
la storia della scienza
s' identificherebbe, si compenetrerebbe con la
scienza stessa;* e
quindi per inevitabil
necessità dovremmo giungere ad
uno di questi
due corollari: credere, cioè, o che
il sapore filosofico
1' avremmo oggi beli' e
conseguito, o che
noi conseguiremmo giammai, essendo indefiniti
i limiti della
storia. Dimodoché dovremmo, com'è evidente,
imbrancarci o con
gli Hegeliani, ovvero co' Positivisti. E,
se co' primi,
non avremmo torto dijicantar
su tutt'i tuoni
d'aver già piantato
le colonne d'Ercole; né,
se co' secondi, c'inganneremmo menomamente nel
predicare illusorie le
speranze d' un sapere propriamente
scientifico e metafisico.
La condizione dunque
del processo istorico
del pensiero filosofico non
istà nell'esserci fUicusione
e continuità ne' suoi rappresentanti: basterà
che ci sia
svolgimento e progresso, e
quindi vincoli ideali
ove sieno impossibili gli storici;
i quali non
di rado è
impresa ben vana il
cercare, non potendo
esistere, o, pur
esistendo, non *
È questo, coni*
è noto, ano
de* dommi supremi
deU* Hegeliauismo, (Tedi Hrocl,
Logique) e del
Positivismo, tuttoché il
significato ne sia diverso.Vedi
CoirrB e Littbì
nelle Op. innanzi
citate. sarebbero che eccezioni.
Anche noi quindi
crediamo che nella storia
della filosofia c'è
attinenze; ma aggiungiamo che c'è
anche salti: e
se c'è attinenze
e salti, la
conseguenza (conseguenza
buona solamente per
noi, anziché per gli
aggomitolatori e sgomitolatori
de' periodi storici) è
questa, che una
critica è necessaria;
necessaria una critica filosofica
atta a scoprire
le une, e
colmare gli altri. Tornando
ora al proposito,
nella storia della
filosofia italian«r ci è
salti, per esempio,
fra BRUNO e VICO,
fra VICO e GALLUPPI,
fra GALLUPPI e SERBATI e GIOBERTI: ma
non ce ne
maraviglieremo per ciò, sapendo
che se questo
non è pregio,
non può dirsi nemmanco difetto.
Poiché il punto,
ad ogni modo,
sta nel vedere se
tomi possibile scoprirvi
una progressione ideale; e
questa per appunto
debb' esser l'opera concorde de'
viventi filosofi, e
il frutto d' una
storia saviamente critica. Nulla infatti
è inutile nella
storia della scienza,
e tantp meno in
quella della filosofia.
Agli occhi dello storico
spiegano egual valore
tanto il moto
speculativo attuatosi dal Leibnitz
ad Hegel, quanto
quello che, pur con
varietà d'indirizzi, è
venuto effettuandosi fra
noi da VICO a GIOBERTI Nello
svolgersi di*questi due
periodi filosofici potremo verificare
una gran legge;
la legge medesima che
presiede alla storia
generale del pensiero filosofico. Mi
spiego subito e
in brevi termini,
anticipando un' idea che
altrove giustificherò. Platonismo
e Aristotelismo sono due
parole di significato
altamente comprensivo per la
storia della filosofia
occidentale. Non solamente elle racchiudono
una legge che
ritrae la natura del
processo isterico della
filosofia, ma cotesta lor
legge è anche principio,
un principio d'indole
teoretica. Non v' è
infatti, né v'
è stato filosofo,
il quale non
si possa dir seguace
dell' uno o
dell' altro indirizzo,
ovvero d'entrambi, ma accordati
e accostati insieme
in uno de' tanti
modi tentati e
ritentati già fino
da antico, a contare
da CICERONE a BOEZIO, da BOEZIO
a BESSARIONE, e dagli altri
molti che nel
Rinascimento si provarono in
simili accordi, fino
al Rosmini. D'altra
parte chi pigli per
poco a filosofare
con serietà scientifica
anziché da burla, come
par che vogliano
fare oggi critici
e positivisti, non può a meno
di non riconoscer
nelle cose un fondamento
assoluto. Ora tal
fondamento assoluto non può
esser posto tranne
che in uno
di questi tre
modi: o nel senso
dell' idea platonica,
o nel significato
della categoria
aristotelica, ovvero in
una terza maniera
nella quale tomi possibile
un accordo fra
l'esigenza dell'uno, e
quella dell' altro indirizzo.
Qual debba esser
la natura di
tale accordo e come
porlo in opera,
diremo altrove. Qui
giova avvertire che siffatta
legge non solo
racchiude il nodo, per
così dire, della
storia della filosofia,
tanto guai-data neir insieme
del suo svolgimento
universale quanto nei suoi
particolari periodi, ma
costituisce ad un
tempo la vera scienza
della storia del
pensiero speculativo, appunto perchè forma
il triplice aspetto
sotto cui può
esser considerata in sé
medesima la mente del
filosofo nella soluzione del
problema metafisico. Si
dirà per avventura che
cotesta maniera di
considerare la storia
del pensiero filosofico sia
merce hegeliana? Può
darsi che in
apparenza la si dimostri
tale. Ma fin
d'ora avvertiamo che cosiffatto principio
è superiore all' hegelianismo stesso, in
quanto costituisce il
criterio col quale
potrà esser giudicato il
valore speculativo di
quel sistema. Tornando al
proposito, posto il
Cartesianismo, Leibnitz e Vico non
potevan essei-e, e
nel fatto non
sono, né puri platonici,
né puri aristotelici.
Essi bensì ci
esprimono il conato verso
un accostamento scambievoli
dei due indirizzi; tale
essendo il valore
della loro universalità, e di
quella sintesi confusa
ond' inaugurano, come avvertimmo, i
due periodi moderni
della filosofia tedesca e
italiana: i quali
perciò, rappresentando l'analisi, costituiscono il
lavoro a cui
necessariamente conduce quella
sintesi. Invero dopo
Leibnitz in Germania e
dopo il Vico
in Italia, la
filosofia assume, tanto
nell'uno quanto nell'altro paese,
il vecchio contenuto,
ma sotto novelle forme:
da una parte,
la filosofia fondata nel
sentimento, e l'idealismo assoluto;
dall'altra, lo psicologismo scolastico,
e l'ontologismo: indirizzi
più o meno esagerati del
platonismo e dell'
aristotelismo. E lasciando qui
de' due aspetti vieti
della filosofia germanica e
dell'italiana, le due
forme che in
esse addimostrano più spiccata
originalità rassomigliano quasi a
due correnti che
riescono a due
punti fra loro
opposti e contrari, e
sono la filosofia
ctisiologica, e quella dell'assoluta identità.
Se nella prima
vi è, come
s'è detto, processo e
continuità di sviluppo;
nella seconda non manca
già un carattere
comune tra i suoi propugnatori, n Teismo
fra noi è
venuto assumendo evidentemente forma sempre
più netta, meno
impacciata, men grossolana; perchè
se il concetto
religioso, per dime un
esempio, agli -occhi
di GALLUPPI e di SERBATI e di GIOBERTI
costituisce un elemento
essenziale nell'organamento
del loro sistema,
la rdigion civile di
cui ci parla ROVERE, è
una parola com' un' altra; una parola
che non dice
nulla, o pochissimo;
e pure ha fatto
e fa tanto
comodo all' autore
! Questo processo e
questo risultato della
filosofia itaUana è
come una risultante di
più forze: fra
cui è da
notare innanzi tutto r
educazione storica tradizionale
e cattolica, la forma
e natura speciale
dell'ingegno italiano non
così facile, come dissi,
a dar negli
estremi, e segnatamente gl'influssi della
stessa filosofia germanica.
Queste ed altre cagioni
partoriscono il movimento
filosofico in Italia nel
nostro secolo. Il
pensiero filosofico nostrano (e
qui han ragione
gli Hegeliani) è
venuto promosso, eccitato dal
pensiero germanico; a
quel modo, potremmo dire, che
le diverse forme
di filosofia del
nostro Risorgimento vennero
eccitate dal sùbito risvegliarsi della
filosofia greca e
platonica; da' comAatori
arabi e aristotelici
delle scuole di
Padova, di Bologna, di Firenze.
Il Criticismo esercita
grande Zone sili GALLUPPI;
e le tre
forme dell'Idealismo gern/anico,
subbiettivo obbiettivo ed
assoluto, spiegano alla lor
volta influssi potenti,
immediati sul Gioberti
e sul Rosmini, come
ci dimostrano la
Protologia del primo e
Ja Teosofia del
secondo, e anche
in gran parte
sul Msaniani. Ma se
è vero, com'
è verissimo, che
i nostri filosofi han
procacciato d'ormeggiare i
Tedeschi, e questi sono
valsi ad eccitare
in quelli piìi
gagliarda la virtù speculativa; è
altrettanto vero che
gì' Italiani mai non cessaron
di combattere le
pretensioni sistematiche assolute del
Germanismo; e questo
è un altro
carattere comune che li
distingue. Si può
dire, in somma,
che il pensiero italiano
sia venuto affilando
le armi nella fucina
dello stesso avversario:
ecco tutto. Di chi
sarà il trionfo?
Chi canterà gl'inni
della vittoria ? Parliamoci tondo
e netto. Il
trionfo dell' Ontologismo e
del Neoplatonismo, come
ci è dato
da' nostri filosofi, è
un' illusione; ma
non sarà meno
illusione il trionfo dell'
Idealismo assoluto. Noi
dunque non faremo festa
ne all' uno
ne all' altro,
né batteremo le
mani alla vittoria del
Grermanismo né dell'Italianismo, per la
semplice ragione che
in siffatt' ordin
di cose le
credute vittorie ci paiono
sogni di menti
ammalate. Queste due scuole,
queste due filosofie
(ci sia permesso
stringerle entrambe sotto due
concetti o indirizzi
distinti) ci rappresentano la speculazione
ardita del nostro
secolo; ma per opposte
ragioni si dilungano
entrambe dalla castigatezza della sintesi
ontologica, discostandosi in
pari tempo dalla severità
del metodo istorico
e psicologico. Sennoncthè, oggi
segnatamente, chi ben
le guardi, elle cercano
allearsi e compiersi
a vicenda, giusto
perchè rappresentano e riproducono
anch'esse l'antica lotta fra
r Aristotelismo e il Platonismo,
tanto in sé
stessa e nel loro
insieme, quanto nelle
loro particolari divisioni,
esprìmendoci perciò il
bisogno perenne e
crescente di quell'accordo sperato
sempre, ma non
attinto mai. Questo panni,
dunque, tutto il
significato del loro
svolgimento; e questo mi
sembra il problema
alla cui soluzione elle s' affaticano
da un secolo
e mezzo a
questa parte. Non è
egli giusto quindi
affermare che chi
spera nel trionfo assoluto
dell'una su l'altra
spera invano, e chi
s' affida in certi
accordi e temperamenti
in sostanza esclusivi e
unilaterali non ispera
peggio? Citiamone un esempio.
Il Gioberti dello
Spaventa, lavoro (checché
se ne dica dagli
hegelianissimi) d'una potenza
critica veraramente singolare
fra noi dopo i libri
del Rosmini, nelle intenzioni dell'
autore dovrebb' essere
un accordo tra la
filosofia italiana, e la così
detta filosofia moderna
Europea. Lasciando stare quel
moderna e molto
piii Y europea (frase, la
quale a me
rammenta quella che
han su la punta
della lingua i
Pontefici di Roma
quando costoro menan vanto
de' creduti e desiderati
dugento milioni di cattolici), io
chiederei, se il
fare assorbire à quel modo eh'
egli ha fatto
il filosofo italiano
dal filosofo tedesco, sia
da dirsi accordo,
o non più
veramente un solenne trionfo del
secondo sul primo,
e quindi '1
trionfo assoluto del divenire
sul creare? ¥* allora
dov'è mai l'accordo fra
le due filosofie? Un
accordo, come suona
la parola, è
necessario, ed è razionale;
che posta l'analisi,
posto il lavoro
analitico di quel doppio
indirizzo, una sintesi
ne dovrà sgorgare di
necessità. E il
fatto stesso ce
ne porge prova e
guarentigia. Il Mamiani,
l'autore delle Confessioni^ ha pronunziato,
fira le altre,
questa gran verità:
d'aver egli concluso e
chiuso, fra noi,
un periodo filosofico
nel quale egli stesso,
con GALLUPPI e con SERBATI e
con GIOBERTI, è venuto cogliendo
allori molti, e
ben meritati. L'À. delle
Confessioni ha detto
benissimo: ha chiuso
davvero un periodo; ma
solo ha dimenticato
avvertirci che in esso
egU ha chiuso
anche sé medesimo.
Chi consideri infatti il
suo neoplatonismo, per
quel tanto che contiene
di correzione verso
gli altri nostri
filosofi, l'illustre Pesarese ha
merito grande; ma
avvisato in sé stesso
cotesto neoplatonismo, specie
quant' alla parte psicologica, è già morto
in sul nascere.
E doveva esser così,
almeno per chi
voglia ammettere che
la storia della filosofia
non possa esser
ripetizione inutile e infruttuosa
di teoriche trascendentali. D'altra
parte l'Hegelianismo, checché
se ne voglia
dire, ha oggimai
esaurito la propria vitalità
con lo scindersi
nello tre note scuole
di destra, sinistra
e centro. Oggi
dunque non è impossibile
raccorre i frutti
di così lungo,
di così ostinato lavoro, e
di lotte e
contrasti e discussioni
infinite attuatesi nei due
paesi, appo cui l'
ingegno europeo serba piii
acconcia e vigorosa
virtù speculativa. A tale
impresa hann' influito
efficacemente i nostri
hegeliani, r opera dei
quali riguardata stòiicamente,
io non dubiterei chiamarla provvidenziale. Nelle
mani di questo infaticabile artefice
che appelliamo storia,
i nostri hegeliani sono, mi
si lasci dir
così, un istrumento,
un mezzo, acciocché nel
possibile accordo delle
due filosofie abbia a
trionfare il vero.
Più che apostoli
e messia e predicatori
della buona novella,
com' essi medesimi
si piaccion segnalarsi, sia
col tradurre le
opere di Hegel, come
fa VERA (si veda), sia
col modificarne e
interpretarne le dottrine, come
fa SPAVENTA (si veda), e'
mi paion la
condizione imprescindibile,
efficace, perché il
pensiero filosofico possa innovare
sé stesso nella
pienezza d' una coscienza speculativa chiara,
intima, vivace, sceverando
dal vero quel carattere
arbitrario di costruzioni
dommatiche il quale accompagna
i pronunziati dell'
Idealismo assoluto. L'
Hegelianismo é cosa
nostra: lo ha
detto SPAVENTA (si veda); ed
é verissimo. Ma
é cosa nostra
in quanto è anche
un assoluto realismo;
realismo obbiettivo nel vero
senso della parola,
non già campato
a mezz'aria, com'è quello
di Hegel, il
quale perciò usurpa, non
legittima il significato
della obbiettività. Ripetiamolo: se la filosofia
ha bisogno d'innovarsi esi i stro \ ica.
i diventando positiva e
razionalmente positiva, tale
esi genza del pensiero
italiano e tedesco,
pia che dal
nostro cervello, ha da
scaturire dalla stessa
ragione istorica Osservando lo
svolgersi di queste
due forme del
pensiero filosofico moderno, è
facile accorgersi com'elle assomiglino (ci
si permetta un
paragone) al cammino di
due linee le
quali, partendo lontane
fra loro, nondimeno si
vadano accostando sempreppiù.
L'una s'è mossa prima
dell' altra; e
assai più spedita
e più rapida
ne' suoi passi e
difilatamente ha percorso
assai più lungo
tratto che non abbia
guadagnato la seconda.
Questa poi s' è mossa
dopo, e spesso
è venuta sviando
e svagando per più
e diverse ragioni;
ma, non altrimenti
che ne' fenomeni elettrici d'induzione,
passo passo ne ha sentito gì'
influssi, e le si è
venuta più e
più avvicinando. Un punto
di coincidenza, dunque,
fra queste due
linee convergenti è necessario;
ma la grave
difficoltà sta nel trovare
cotesto punto. Usciamo
di figura. Se
i due periodi filosofici nel
dischiudersi per opera
di Leibnitz e del Vico
mostrano, come vedemmo,
cert' affinità spontanea e incosciente,
è pur mestieri
che cotest' affinità s'abbia da
palesare altresì nel
loro chiudersi; ma s' ha
da palesare cosciente,
riflessa, e quindi
promossa, eccitata, ricercata e
partorita dalla stessa
ragione come funzione filosofica.
E pensiero moderno
debbe aver coscienza di
tale affinità: né
può averla se
non la cerca; né
può cercarla efficacemente
se non la
pone. Ninno si meraTigli
se fra* vari
indirìzzi moderni della
filosofia noi qui non
abbiamo tenuto conto
altro cbe della
speculazione tedesca, e dell*
italiana. L' ingregno inglese
procede sempre a
un modo, ne
da due secoli A
questa parto ò
mai uscito dalle
orme segnategli dal
suo Bacone, e poi
dal Locke, da
Hume e dalla
Scuola scozzese. Spencer
e Mill ce *1
dicono chiaramente; ne*
quali filosofi è
pur chiaro un
progresso rispetto ai loro
antecessori, ma è
un progresso monotono,
omogeneo. L’ingegno francese poi,
dopo le grandi
tracce lasciategli dal
Cartesianismo, si è svolto
sempre fra il Sensismo
eil un acquoso
Spiritualismo; né la
scuola eclettica, i cut
ultimi rappresentanti oggi
fan tanto onore
alla Francia, ha nulla
di veramente originale.
)£ una bella
eccezione in quel
paese la scuola e
gli studi iniziati
dal Main^de Biran.
Se dunque originalità
di Italia e Glermania,
madri d'ogni grande
filosofia e dìvinatrici
delle più ardite
concezioni metafisiche, per necessità
isterica hann'a risalire
alle loro primitive
sorgenti moderne, Leibnitz e VICO; ma
risalirvi (intendiamoci) con tutta
quell'opulenta ricchezza che a noi porge
il lavoro di
specukzione compiutasi nello
spazio di due secoli.
Il trionfo ha
da esser comune,
perchè comune, quantunque diviso,
è stato il
lungo lavoro. Se non
fosse cosi, la
conseguenza, per le
menti che con ansia
febbrile e con
ignorati e crudeli
tormenti ma con altrettanta
fede si travagliano
invittamente nella ricerca d'ogni
parte spinosa della
verità, sarebbe dura davvero,
sarebbe sconfortevole. E la conseguenza è, che
la storia sarebbe
un' ingiustizia: ingiustizia altrettanto manifesta
e insopportabile, quanto inesplicabile. Ancora:
se questi due
periodi, queste due filosofie
di cui si
parla, non avessero
quelle attinenze e quel
valore e quel
fine che noi
diciamo, elle assomiglierebbero a due
forze distratte, inconsapevoU,
naturali, sciolte da ogni
legge, libere da
ogni ragione; sì
veramente che le analogie
e le differenze
e l'intero loro svolgimento sarebbero
tutte cose accidentali,
estrinseche, meccaniche,
fortuite, e perciò
stesso empiriche, perciò stesso
inesplicabili, perciò stesso
insignificanti, non altrimenti che que'
riscontri ingegnosi ma
vani, ma inconcludenti, che alcuni
storici sanno scorgere
fi-a la storia d'un
popolo, e quella
d'un altro, fra
la China, per
esempio, e l'Europa, tra
Confucio e Pitagora,
fra il Celeste
Impero e il Teocratismo
papale, come fa
il nostro FERRARI
Or noi domandiamo alla
coscienza di tutti
gl'indefessi indagatori del vero;
domandiamo alla coscienza
degli amici sinceri e
de’sinceri nemici della
filosofia : È egli
mai possibile speculazione oggi
è possibile, è d'
uopo ricercarla, quantunque
sotto forme diverse e
con risultato e
valore differente, nell*
ingegno tedesco e italiano.
So che gli
Hegel ianissimi sorrideranno di
gran cuore a
queste parole. Ma io
qui vo’restringermi a
chiedere, se da
quarantanni a questa parte
fuori d’Italia ci
sìa stato filosofo
che possa reggere
al paragone dell'ingegno del
Rosmini, miracoloso per
acutezxa speculativa. che la
storia, massime la
storia del pensiero
filosofico, abbia da essere,
o un' opera
cotanto ingiusta, ovvero
un artifizio cotanto sterile,
infruttuoso e meccanico? Concludo per
ciò che riguarda
il nostro filosofo nonché la
seconda parte del
nostro lavoro. Si
è detto e si
dice che il
Vico non ispiegò
efficacia di sorta
nel soQ. secolo. E
poi s' aggiunge che,
quand' ei venne
scoperto (e fu vera
scoperta) noi già l'
avevamo sorpassato. Sarà vera
V una cosa
e l' altra. Ma
gli uomini grandi e
ì grandi ingegni,
se vogliamo stare
all' osservazione di Mill, i
quali per difetto
di favorevoli occasioni non
poteron lasciare traccia
alcuna di sé
nella loro età, spesso
sono stati di
gran valore per
i posteri.* Tale per
noi è Vico;
e tale si
é pure la
sua Scienza Nuova. S'ei
nulla valse pe'
nostri padri (il
che non è vero),
vale moltissimo per
noi. Solamente in
lui potremo rannodar gli
anelli della nostra
tradizione scientifica: in lui
ricongiugnere il nostro
Rinascimento col nostro moderno Risorgimento.
Per andare avanti
debitamente, come suona il
motto volgare, è d'
uopo dare un
passo indietro: Chi vuol
salire, pigli V
aire. Se questo
é vero, se questo
é necessario in
tutto; non sarà
altrettanto vero,
altrettanto necessario in filosofia?
Con sifi'atti intendimenti
noi prendiamo ad
interpretare il principio filosofico
della Scienza Nuova.
L' acuto Littré lia detto
benissimo: Tout annonce
gu'on ne verrà plus
aucune grande éruption
métaphysigue, comparàble à celles
qui otit signaU
Vére moderne depuis
Descartes, et qui ont
abouti à HegeV
Ma la conseguenza
vera non è quella
che ne trae
il positivista francese,
bensì quella che ne
ricaviamo noi: e
tal conseguenza é
la necessità di critica,
la necessità di
ritomo critico su
la feconda speculazione degli
ultimi grandi filosofi,
e quindi la necessità
d'un accordo fra
essi. ' St. Mill.
SytL de Log.,
LiTTRi, Princ de
Phtl. Poeit., Pré/,,
pag. 59, Paris,
1868, Il concetto della
Scienza e '1
concetto del Criterio
si richiamano a vicenda,
poiché non si
può determinar l'uno senza
additare nel medesimo
tempo il significato
dell' altro. La prova
più facile e
megUo convincente di
tale affermazione ci è
data dalla storia
della filosofia; non v'essendo
sistema, non dottrina
filosofica, nella quale que'
due concetti non
rispondan fra loro
per caratteri comuni, e
per note affini
ed omogenee. E
poiché applicare il criterio
vai come imprimere
forma al conoscere,
onde poi risulta il
metodo; è naturale
che, tanto l' idea
della scienza, quanto quella
del criterio, abbiano
a racchiudere altresì la
nozione del metodo.
Se non che,
scienza metodo e criterio
sono tre concetti
dipendenti dalla soluzione d' un
medesimo problema, del
problema della conoscenza: nel
quale perciò si
radica propriamente, direbbe il
Trendelemburg, l' ultima differenza
de' sistemi. Sono dunque
tre aspetti diversi,
sono tre diverse determinazioni d'un
medesimo subbietto; le
quali noi non possiamo
definire, ma espUcare,
stanteché la definizione, secondo il
detto di CAMPANELLA, sia
come la conclusione e
quasi l' epilogo della
scienza stessa. Nel circolo
della riflessione infatti
la mente, ripiegandosi in sé
medesima si compie,
si pone, si
determina, cioè si definisce;
e si definisce
perchè si è
venuta esplicando; e con r
esplicarsi mostra col
fatto che cos'è
mai l’intendere, quali vie
abbia percorso, e con che
guarentigie si possa pervenire
ai risultamenti più
sicuri del sapere. Nondimeno ci
è cose che
noi potremo sapere
fino da ora; voglio
dire le condizioni
del sapere. In
che mai dobbiamo fondare
la scienza? In
che porre i
limiti del sapere metafisico?
I più de'
filosofi, com' è
noto, si fanno tosto
a rispondere: « su la
natura e sul
valore dell'uomo stesso. »
Ma il punto
è precisamente questo:
qual' è mai la
natura, qual è
il valore dell'
uomo ? La
risposta più seria e
positiva a tale
domanda, se non
vogliamo perderci nelle solite
ciance trascendentali, panni
questa: che l'uomo, l'uomo
quale ci è
dato da' fatti e
dalla storia, non l' uomo
concepito sotto forma
di spirito del mondo
{der WéUgeisf), non
sia tutto, e
nemmanco nulla: di che
ci porgono guarentigia
nel medesimo tempo
la coscienza, l'esperienza e la ragione.
Ora se questo
è vero, due conseguenze
n'emergono innegabili; la prima, che la
scienza, tolta nel
significato di sapere
metafisico, non può esser
né propriamente negativa,
né propriamente assoluta; la
seconda, che non si può
esser sistematici e dommatici,
non essendo noi
tanto fortunati da possedere
una formola assoluta
entro cui mostrar
chiusa la ragione ultima
e propriamente essenziale
delle cose. Ma diremo
perciò che il
filosofare altro non
possa essere fuorché una
pura e semplice
ricerca sfornita di
qual si voglia risultamento
metafisico che sia
positivo, sicuro, determinato?' Che
se anche per
noi filosofia suona ri'
Homo quia neque
nthU e«(, neqite
omnia^ nee nihil
percipit, nec in,' Jinitum, De
sntiqaiss. Italoram sapientia,
Filosofo dommatieo e
filosofo nttematioo a$8oluto
per noi suona
il medesimo, anche ammesso
che un sistema
possa esser costruito
per sola Tìrtù di
ragione, e innalzato
(se fosse possibile)
ad evidenza matematica, secondo che
pretendon gli Hegeliani.
Il dommatismo volgare,
teologico, fondandosi in un
principio estrinseco alla
ragione, è da
ripudiarsi per difetto; ne
conveniamo. Ma il
dommatismo sistematico de*
metafisici assolati col pretender
troppo, anzi tutto,
non è da
ripudiarsi per eccesso
? Différiscon ne' mezzi
infinitamente, io lo so; ma
il risultato è
il medecerca e
amor di sapere,
nondimeno è ricerca
effettiva, è ricerca non
solo atta a
raccogliere il fatto,
ma tale che sia
un fare altresì
ella medesima, cioè
una funzione critica, ma
efficace, positiva, attuale,
come può e
debb'essere dopo il
Kant; funzione quindi
capace non già
a rimandarci al futuro,
cioè ai risultati
della storia, sibbene a
saperci dire qualcosa
anc' oggi su'
grandi e terribili problemi di
nostra esistenza, del
mondo, della vita,
della società. Se la
scienza è possibile,
come alcuni, positivisti cominciano a
credere,* non vuol
essere in qualche
maniera attuale? Poiché, giova
bene ripeterlo anche
qui, un possibile che
mai non esca
dalla nuda possibilità,
in realtà non è
alti*o che un
impossibile! È da dire
perciò che tanto
V idealista assoluto
o l'ontologista Giobertiano, i
quali in una
formola, tuttoché
diversissima, ti assommano
la ragione d'ogni
umano e divino sapere,
quanto il positivista
e il puro
critico che ogni sapere
metafisico dichiarano impossibile,
escano tutti dal positivo,
perchè chiudon l'indagine,
e spengono siffattamente ogni
bisogno critico nel
pensiero. E così neir
uno come nell'
altro caso, la
mente si rimane impigliata in un' affermazione
supremamente dommatica: dommatica
positiva (sistematica) nel
primo, dommatica negativa
(esclusione della metafisica)
nel secondo. Or la
filosofia intanto può
assumere forma e
valore di speculaziope positiva,
in quanto riesce
a schivare non pure
il donmiatismo (il
sistema assòluto propriamente detto), ma
eziandio l'assoluto positivismo
(scetticismo, nullismo
metafisico). Fra questi
contrari il filosofo
che Simo, perchè Tano
con la credenza
e l'altro con
la dimostrazione presamono
darci tutto il
vero. Entrambi quindi
negano 1* attività
speculatÌTa; il primo la
nega dichiarando la
ragione impotente, il
secondo la nega reputandola esauribile
anzi esaurita e
soddisfatta. Che nel]*
insieme delle dottrine del
Vico non vi
sia pretensione di
gUtema propriamente detto, Tabbiam visto
riportando alcune parole
della Conchu. del Libro
MetaJUieot e meglio
si può vedere
laddov*egli accenna ai dommatici del
suo tempo ch'erano
i Cartesiani. De Antiqui^,
etc., Vedi la
Conclus. dell'ultimo libro
del Taine suìV Intelliyenza, voglia esser
davvero positivo, sa di non
esser dommatico; ma poi sa
qualche altra cosa.
Egli sa di
non poter esser mai
dommatico, non mai
sistematico assoluto. Sa di
non saper tutto,
e, che più
monta, può giugnere a
conoscere la ragione
per cui deve
ignorare qualche cosa. È
il caso del
sapere del non
sapere, appunto perchè se
ne ha coscienza.
E non è
ignoranza cotesta? mi si
dirà. Sì,
certo, è ignoranza:
ma è ignoranza dotta, direbbe
il Cusano. Tre ci
sembrano adunque le
condizioni, tre i
caratteri precipui del filosofare
che voglia riescire
seriamente e razionalmente positivo;
e sono questi: La
speculazione filosofica non
può esser fondata sopra
elementi che non
siano sperimentali, ma di
esperienza intema ed
esterna. Tutto è
processo, genesi, attività nel
pensiero; stantechè tutto
in lui sia
generato, tutto edotto mercè
i dati sperimentali.
Né questo vuol dire
sensismo, psicologismo grossolano,
nettampoco materialismo ed empirismo,
come potrebbe parere
a tutta prima; perocché
non per nulla
ne' ricchi annali
della moderna filosofia esistono,
chi voglia meditarli
sul serio, i Nuovi
Saggi del Leibnitz,
la Critica della
Ragion pura e quella
sul Giudizio di
Kant, il Nuovo
Saggio del Rosmini, e
qualche altro libro
di questo genere,
ma non certo d' egual
valore. Fatti dunque
(ripetiamo anche noi co'
Positivisti) e leggi
de' fatti; ma,
aggiungiamo, la ragione anche
degli uni e
dell'altre. La filosofia non
meriterà titolo di
positiva, dove pretenda procedere
scompagnata dall' altre
scienze, e far da sé. Come
nella soluzione de'
grandi problemi queste non
bastano a sé
stesse, parimenti non
v' è ragione a
credere che anche
quella da sola
non abbia a
soggiacere alla medesima condizione.
Che se mossa
da antico orgoglio presuma
d'essere scienza di
tutto, per ciò
appunto eli' abbisogna di tutto;
abbisogna di tutt'i
fatti, di tutta r
esperienza, del concorso
di tutte quante
le sfere e discipline
dell' lunana enciclopedia.
Il perchè non si
può dire in
modo assoluto esser
la metafisica quella
che generi le scienze;
vecchia pretensione del
teologismo che ci ricaccerebbe
nel più fitto
medio evo: ma
neanche si può aflFermare
esser le scienze
quelle che, come altrove
notammo, possano di
per sé sole
partorire la filosofia. A
due patti la
funzione filosofica riesce
positiva: quando sia generata
dalle scienze, e
quando, generata che sia
in qual si
voglia modo, possa
e sappia come ogni
produzione organica viver
da sé, e
far vivere. Non è
dunque vero che
all'altre discipline ella porga
principii e dispensi
metodi e partecipi
criteri. Riceve anzi dal
di fuori tutte
queste cose; ma
per legittimarle, organarle, ricrearle:
il che non
può esser riconosciuto dal positivista
conseguente a sé
stesso, senza ch'egli inciampichi
in contraddizioni per
quanto evidenti altrettanto inevitabili. Il terzo
carattere, conseguenza da' due
primi, è questo; che
concepita così la
filosofia di fronte
alle altre scienze, ella
riesce positiva, ma
non però cessa
di possedere un valore
metafisico. Diventa metafisica,
non metafisica teologica, né
metafisica a priori
e tutta d'un
pezzo; orditura dialettica ideale
somigliante a rete
d' acciaio che stringa, affoghi
e strozzi tutto
ciò che tocca
o ricopre. Diventa bensì
metafisica atta a
costruire sé stessa,
ma in quanto costruisce
anche le scienze;
in quanto, in
somma, é attività filosofica
d'un' attività anteriore,
dell'attività scientifica,
sperimentale, molteplice, essenzialmente analitica e
particolare. Non é
quindi lecito confondere, né identificare
queste due sorgenti
d'attività, sia riducendo la
prima alla seconda,
sia facendo che
questa venga tutta assorbita
in quella. Evidentemente
contraddiremmo ad un fatto;
contraddiremmo al bisogno potente in
ogni tempo, in
ogni luogo per
la speculazione. Perocché non è possibile
(per dirla con le memorabili parole di
Kant) che V uomo rinunei
alla metafisica, come non
rinunzia cMa respiratone
anche con la paura
di respirare uri
aria malefica. Queste condizioni
che noi poniamo
alla ricerca filosofica sono, quanto
semplici, altrettanto positive.
Non è a dirsi
eh' elle precludano
e arrestino in
modo alcuno la funzione
critica, secondo che
incontra tanto ai
nemici d'ogni sistema, quant’ai
sistematici assoluti. Nel
determinare infatti la natura
e '1 fine
della scienza, i
primi ci dicono: «
non bisogna tentar l’impossibile prefiggendoci '1 fine
di conoscere VinconoscìbUe, l’assoluto. Ecco posta al
sapere una condizione
essenzialmente negativa,
perchè contraddice alla
natura stessa del
pensiero e dell’attività
critica.* I secondi
poi, cioè i
sistematici, sostengono che la
scienza non solo
può e deve
attingere r assoluto, ma
ha da ridurlo
trasparente così da
adequarlo, da conoscerlo sicuti
esty altrimenti vai
come nulla conoscere.* Ma
se cotesto conoscere
(metafisicamente) il tutto, fosse
un bel sogno;
non ne verrebbe
che nulla * I
poBitWisti credono anch*
essi no fatto
il bisogrno specalativo;
e come fatto noi
negano. Ma dopo
aver distinto quel
che in esso
?* ha di permanente, cioè
la presenza perpetua
dell'infinito nollo spirito,
da ciò che è
transeunte, eh' è
dire 1* inutile
sforzo a risolverò
problemi per se medesimi
insolubili, sogrgiungono : e Se l'Assoluto
è qualche cosa,
non può essere che
una realtà. Ora og^ni realtà
si conosce mercè
l'esperienza, la quale, del
resto, non potendosi
applicare all’assoluto, ci
fa piombare In un
circolo senza uscita.
Dunque la metafisica
e una fase
tratmtorta dello spirito umano (Littré, Prineip.
de Phtl. Posiu
Prófac.) Innanzi tutto domandiamo,
se condizione permanente
del fatto, che
nel caso nostro è
il bisogno della
speculazione, ò la
presenza nel pensiero d'un
infinito, non sarà
appunto per ciò
possibile una ricerca
metafisica? Quant'all'inutile
sforzo poi non
approda fondarsi nella
storia, non potendo in
siffatt' ordin di
cose indurre legittimamente dal
passato al futuro. Finalmente, quant'al
circolo senz'uscita, osserviamo
che l'assoluto è
reale, realissimo, ma non
di realtà sensata
e tangibile; e
non è vero
che ogni realtà non
si possa altrimenti
conoscere se non
per l'esperienza; errore capitale del
Positivismo. Queste ed
altre risposte han
dato al Littré
i medesimi francesi, specialmente
Janet, Caro, Vacherot,
Rénouvier, Pillon, Reville, Laugel.
A noi piace
rammentargli un'altra bella
sentenza d'un filosofo poco
fa citato non
certamente benevolo ai
matefisici: Una metajinca
è tempre enttita
e tempre eneterà
nell* umanità^ perche
etto ì inerente
alle invettigagioni della
ragione umana che
epecìda. Kant, Critica ddUi
Ragion Pura^ noli' Introd.
alla 2.* odiz.
Niente ni conosce
te tutto non
ti conotce. SPAVENTA, Lex.
di FU. Vrba, specialmente
nell' /n6 resultato d'azioni
e reazioni fra
il mondo fisico
e quello dello spirito,
e quindi d'
una doppia serie
di leggi, naturali e
psicologiche, modificate dalle
diverse, attribuendogli caratteri
e valore non
propri: avrete falsato
la natura delle scienze;
le avrete confuse;
ne avrete guasta
V ìndole, turbando cosi
tutta r economia
razionale del sapere. Questa dottrina,
essenzialmente psicologica e
quindi razionalmente
positiva, contraddice, com'
è evidente, alla
distribuzione enciclopedica
de* sistematici, per
esempio a quella
del Gioberti e
di Beerei; e
nel mentre racchiude i
pregi della classificazione de*
Positivisti inglesi e francesi,
ne corregge insieme
i difetti. Ma
i pregi e
la verità d*
un criterio ordinativo non
può vedersi altro
che nelle sue
diverse applicazioni, nelle •quali
non possiamo intrattenerci. Solo
notiamo che tal
dottrina ò un* interpretazione
de* principi! psicologici
del nostro filosofo,
come vedremo. * T.
BuCKLS, History of
OivUiMation in England . fa
benissimo. Ma nella
sua dottrina cotal
distinzione à
un'inconseguenza. La costituzione
d'una scienza muove dalla
ragione: la evoltmone
di essa, per
contrario, è frutto della
storia. Or se
F una cosa
non è V
altra, è da concludere
che la
scienza è superiore
alla storia. Perchè dunque
compenetrarvela? D'altra parte,
non è punto
vero che, vuoi nella
genesi ideale o
psicologica delle scienze, vuoi
nella lor genesi
storica, procedasi dalla
parte al tutto, dal
semplice al composto,
dal rudimentale e
irreducibile al complesso, come
vogliono i Francesi.
È vero bensì che
dal tutto si
va al tutto,
cioè dal tutto
iniziale al tutto attuale,
o, come direbbe
lo Spencer in suo linguaggio, dall' omogeneo
slVeferogeneo,^ La genesi
storica del sapere, infatti,
rassomiglia quella della
società stessa: nella quale
dapprima i poteri
dello Stato, per
esempio, anziché
distinguersi fra loro,
formano un potei'e
unico; e, anziché individui
liberi, vi esiste
un solo individuo. Parimenti le
scienze forman dapprima
una scienza; uno le
possiede, uno o
pochi le insegnano,
come uno è
quegli che comanda. Però
diciamo che la
genesi storica di
esse procede per tre
momenti (vecchio concetto
aristotelico) cioè: Sintesi iniziale
e confusa, poi
Analisi, e poi
Sintesi finale. Nel primo
di cotesti momenti
non s' ha una
data serie di scienze,
come dice il
positivista francese. S' ha bensì
tutte le scienze,
ma fomite d' un
carattere comune ; il
qual carattere sta
nel comporre il
sapere traendone le ragioni
da tutt' altra
fonte che non
è Y intimità stessa dello
spirito. In questo
primo momento, in
somma, [La legge secondo
cui Spencer chiarisce
la sua teorica
del progresso con tanta
sapienza ed erudizione
da lasciar maravigliata
la mente d*ogni lettore,
si potrebbe applicare
benissimo alla genesi
delle scienze intesa storicamente.
Egli, come 8*ò
detto, non ha
fatto quest'applicazione. Ma ci
è da sospettare
che, facendola, rieacirebbe
incompleta, com’è incompleto il
principio su cui è basata.
Il procedere daW
omogeneo alV eterogeneo è
davvero un processo:
ma è processo
che non risolve,
mancandoci un terzo momento
necessario a compiere
il primo e
1 secondo. Oltre questo
difetto, il principio
di Spencer ha l’altro
di non esser
nuovo, anzi vecchissimo, perchè
risale ad Aristotele:
*Aft 70?^ sv tw
iffS^C \jncf.p^st To vfpÓTtpov,
De An. II, m. lo
spirito è, come
dire, fuori di
sé, nella natura,
nelr autorità, e
quindi la scienza
è quasi indotta;
ma tale induzione dapprima
è affatto empirica,
naturale, grossolana,
divina, direbbe il
Vico. Nel secondo
momento ci ha distinzione,
analisi, astrazione: e
qui la mente, accostandosi a
sé medesima, deduce.
Nel terzo, finalmente, il pensiero
possiede sé stesso,
perchè possiede l'altro: egli
é filosofia perchè
è scienza; ed
è scienza vera perchè
è filosofia. Ci
è dunque rispondenza,
ci è armonia fra
la genesi ideale
e la genesi
stòrica della scienza, non
già compenetrazione, come
vorrebbe Comte. Anche noi
quindi crediamo in
una legge di
successione nell'attività
del pensiero; né
respingiamo una disposizione gerarchica e
genealogica del sapere.
Ma né r uua
è assoluta filiazione,
né 1' altra
è composizione organica e
compatta sì che
le scienze che
seguono altro non possan
essere fuorché semplici
appendici di quelle che
precedono. È vero:
il pensiero nella
storia assume innanzi tutto
forma teologica. £
quando accada eh' egli
abbia carattere metafisico,
il suo contenuto
sarà sempre di natura
mitologica, religiosa, tradizionale,
rivelata, essendo sempre un
prodotto d' autorità. Appresso riveste forma
naturale; stanteché sorgano
le scienze le quali,
svolgendosi com' elementi particolari
del papere, si vanno
liberamente determinando con
metodo appropriato a ciascuna
di esse. In
un terzo periodo,
finalmente, piglia forma complessa
e insieme universale
come nel primo; toa
non più sotto
forma teologica, né metafisica
ed a
priori, bensì filosofica;
appunto perché è deputato
a raccoglier la
ricca eredità accumulatasi
negli antecedenti periodi. Or
se è vero,
come dicemmo, che il
pensiero è superiore
alla storia tuttoché
emerga dalla storia, non
è men vero
che la speculazione
riflessa trascende anch'olla le
scienze, comecché dalle scienze
sia venuta germogliando.
CJondanniamo dunque, anche noi,
la metafisica che
si presenta com' elaborazione teologica riflessa.
Condanniamo, per dirla
col Littré, quel
punto di vista
metafisico eh' è trasformaeiane del punto
di vista teologico.
Ma potremmo condannare quella metafisica
eh' è insieme critica
e inveramento del punto
di vista positivo?
In altre parole,
condanniamo rìsolutamente la metafisica
fatta a priori;
ma non meno risolutamente
neghiamo che la
terza fase^ il terzo
stato della scienza,
abbia da esser
positivo nel senso che
i Francesi tolgon
questa parola. Lo
staio positivo de' Gomtiani,
afferma un giudice
non sospetto, non è
che un'ignoranza confessata
della causa: an avowed
ignoring of cause
àltogether^ Ed è
veramente così. L'attività riflessa
della ragione intanto
giugno ad esser funzione
critica feconda e
profittevole, in quanto riesce
a superare il
positivo mediante il
positivo. Or è tejnpo
d' interrogare il nostro
filosofo. Che cosa ci
lascia indurre Vico
tanto riguardo al concettx)
della scienza in
generale, quanto rispetto alla
costituzione e coordinamento
delle umane discipline? Rifacciamoci da
questo secondo punto. Ei
non parla di
formolo dommatiche, né
d'alberi genealogici. Anzi ci
avverte come in
certo senso la metafisica
abbia da esser
subordinata aUa fisica;
la quale dà per
vero ciò che
sperimentalmente possiamo
imitare} Sennonché qui
è da far
piìi osservazioni. Una scienza
è indipendente nel
metodo e autonoma
nel processo. Questo è
il nostro pensiero.
Ma potrebb' esser ' Sprncrb,
The daasif. of
The Scienc,, De
Anttq. hai, Sap,^
nella Condunone, Si
dirà che per
lai la scienza tovrana
sìa la teologia:
ed è t ero;
ma è sovrana
solo in quanto è
la piil oerta.
Ora il eerto
nelle sue dottrine
non è il
vero, ciò ò dire
un prodotto di
ragione, bensì un
effetto di persuasione, un prodotto di
natura empirica inseritoci
nell* animo dall*
autorità. Quanto egli poi
si mostri avverso
alle scompartÌEioni sistematiche
delle scienze, vuoi nel
senso pontivteta, vuoi
nel senso metajUieo
dommatico^ può vedersi
là dove con sottile
ironia parla de'
Cartesiani (dommatici del
suo tempo) i quali
unum Metaphyeicam «Me
docent qua notte
indubium det verum^
et ab eOf TAKQUiM
a fontr teeunda
in aUa» teientiae
derivari.»,, quare metaphyeieam
eeterie »eientu9 fundo»^
euique 9uum aatedere
exietimant. anche tale
nelle sue ultime
conclusioni? No, certo: stantechè queste,
essendo di natura
universale, hann' a dipendere
dal lavoro, anziché
d^una, di tutte
quante le umane discipline.
Più ancora: potrebb'ella
dirsi indipendente rispetto alle
condizioni logiche e
formali? Nettampoco: se così
fosse, tornerebbe impossibile
l'unità della enciclopedia. Finalmente
si potrebbe osservare, con Spencer,
che a sapere
se i corpi
esistano la fisica non
abbisogni nuli' affatto della
metafisica. Ed è vero.
Ma evidentemente cotesta
notizia, più che razionale,
è notizia empirica.
Or bene, quando
il fisico volesse darsi
dimostrazion razionale del
soggetto o della materia
eh' egli ha
fra mano, e
cod legittimare il postulato
onde move il
suo pensiero, non
diverrebbe per ciò solo
un filosofo? Diverrebbe,
io credo. Nel processo
della scienza, dunque,
v'ha un momento
nel quale il fisico,
od altri che
sia, non può
far a meno della
speculazione metafisica. Se
a tal esigenza
egli sappia e possa
per avventura soddisfare
da sé, tanto meglio:
vuol dire che,
oltre d' esser fisico
e fisiologo e geologo
e simili, egli
è anche filosofo.
Ma ov' egli
non senta questo bisogno,
con che diritti
e ragioni disco)ioscere
ogni valore alla
ricerca filosofica? Il
vincolo che tutte aduna
e stringe le
scienze son le
norme logiche ; la
necessità logica che
scaturisce dall' intima
costituzione dello stesso pensiero.
Intesa quindi come
logica, la filosofia precede
e accompagna le
sfere diverse del sapere;
ma, in quant'è
metafisica, ella tien
dietro ad esse, e
ne é il risultato finale.
E anche in ciò siamo Aristotelici. Mei., Tal
si è pure
la sentenza del
Vico. In questo
senso egli afferma che
ninna geienta bene
incomineia »e dalia
mektfieiea (logica) non prenda
i prineipii; perchè
ella ì la
eeienna che ripartieee
alle altre i lor
propri eoggetti; e
poichi non pud
(in quanto metafisica)
dare U 9W>,
dà loro immagini del
euo. Onde la
Geometria ne prende
U punto e V dieegna; VArUmetiea V
uno, e *l
moltiplica; la Meccanica
il conato, e
V attacca ai corpi.
(Risp. al Oiomale
de^Lett.) In queste
parole parmi chiaro
T ufficio della filosofia,
in generale, rispetto
alle altre scienze.
Filosofia è logica. Veniamo al
concetto della scienza;
ma gioverà fare innanzi
tratto un' osservazione
storica. Dicemmo com'
Vico sia tra
Cartesio e KAnt,
vuoi storicamente, vuoi teoreticamente. Posizione
puramente psicologica è
quella del primo; puramente
logica e psicologica
quella del secondo, la
cui dottrina perciò
molto acconciamente è stata
detta Idealismo crìtico,
o Criticismo ideale.
Nella posizione cartesiana, avvertimmo
anche questo, il
pensiero non è altro
che un fatto:
la coscienza trascendentale di Kant
poi tiene doppio
rispetto; è una e
molteplice, è diflferenza
e medesimezza, in
quanto importa il doppio
elemento formale e
materiale nella cognizione. Ora, per
quanto diverse, queste
due posizioni han comune
un carattere; quello
d'esser solitarie, astratte, puramente suhbiettive,
e quindi insufficienti; nel
che ci confermerebbe, s'altro
mancasse, il resultato
puramente speculativo cui pervennero
le scuole diverse
inaugurate da que' due
filosofi. L' analisi della
Ragion pura alla
fin fine a che
mai riesce? A
metterci in guardia
dell'assoluto di ragione, rilevandone
i paralogismi e
le antinomie, e facendoci
assistere scontenti e
umiliati a quell'inutile ideale che
ci rende immagine,
a dir cosi,
dell' acqua di Tantalo: per
cui s'è detto
che l'autore del
Criticismo, sempre per quell'
esigenza d' un ideale
rimastogli in tronco, scambio di
chiudere, apri anzi
le porte ad
una varietà di scetticismo,
come osserva il
B. Saint-Hilaire: nel
che tutti convengono, perfino
Hegel, il quale
appunto con l'idealismo obbiettivo
e assoluto cercò
soddisfare aU' insoddisfatto
bisogno della Ragion
pura.^ Cartesio poi
dove psicologia, metafisica e
simili. Come logica
eli* è scienza
madre, in quanto è
universale condizione d*
ogni disciplina. Che
poi in senso
di metafisica debba riguardarsi
come risultato finale,
ci è avvertito
dnl medesimo filosofo dove
accenna alla relazione ch’ella ha,
per esempio, cou la
geometria: Geometria e
Metaphy$iea mum verum
tMccipity et aecepttun (e
però elaborato) in
iptam Metaphynctim refundit.
De Antiq.y Giusta
quindi, per tal
motivo, l’accusa fatta al criticismo dallo
stesso B. Saint-Hilaire:
Kant a voulu /aire
une revolution} il
na guère en/anté qu'iine anarokie
plue fatale. Log. d' Axist.,
Pref. si riduce
egli? Alla necessità
d' invocare il solito
Deus ex machina, tornatogli
insufficiente il criterio
delPevidenza e deir idea
chiara e distinta;
senza dir già
eh' egli medesimo annunziava
il Cogito qual
semplice ritrovato atto a
soddisfare il bisogno
di sua mente,
non già pel fine
d' insegnare agli altri
un metodo a
ben governare il pensiero:
seulement (son sue
precise parole) de
faire voir en quelle
sorte fai tàché
de conduire la
mienne. Nella posizione di Vico,
per contrario, è
schivato nel medesimo tempo
tanto il fatto
empirico di Cartesio, e
quindi V indirizzo
dell' ecclettismo e di
quel timido spiritualismo che
da lui hann'oggi
redato i Francesi, quanto lo
scetticismo al quale
pur tiene aperto
il fianco il criticismo, nonché
quella serie di
posizioni che, nate
da Kant, riescono all'
Idealismo assoluto. Con
qual mezzo? Con un
mezzo semplicissimo. Col
criterio del vero
e del fatto; ma
elevato a dignità
e valore di
principio. L'osservazione
che Vico
fa a Cartesio
è, quanto agevole,
altrettanto efficace.
Neanche gli scettici
dubitano di pensare, egli
dice: essi aifermano
solo che del
pensiero non si possa
avere scienza, bensì
cosdensa} Ora il
pensiero cartesiano è un
eerto, non già un vero;
quindi ha natura
di segno, d'indizio certo
(rsxfxyj/jtov), della cui
certezza ninno al mondo
non ha mai
saputo né voluto
dubitare. Di qui si
vede come la
sua posizione speculativa
non istia già nell'aflFermare una
verità di fatto,
sì nell' indagarne l'origine, la
genesi, la guisa:
cioè nel far
la critica del
vero che appare alla
coscienza, perché sdre
est tenere genus seu
formam qua res
fiat. E si vede come
il criterio vichiano
del fare il
vero acchiuda una
dottrina schiettamente
aristotelica, eh' è
dire la ragion
vitale di quel*
Yed. le bello
riflessioni del Rsnottvzkb
in proposito. EnsaU
de Oritiqne generale^
toni. Il, part.
3. ' I difetti
che nella posizione
Cartesiana scorge il
nostro filosofo gli abbiamo
già riferiti. GIOBERTI non s'ingannava
nel dire che Oarteno
non ebbe il
menomo sentore de*
teeori che n
acchiudono nel SUO Cogito.
(Protol. VOLTI) l'artifizio logico
secreto, naturale, onde
la mente nel discorso
rinviene il medio
termine. La mente
sa perchè fa: AtTtov
Sort vójfjffef >?
i^épytia} Or di
cotesta attività occulta, superiore
ed essenzialmente eduttiva,
sensisti, scettici, empirici, positivisti
non hanno coscienza.
Essi ignorano cogikdionis causs€e,
seu quo poeto
cogitalo fiai^ * ilTTff
ff9.ittpòit OTt ra
?ov«p£i ovra tiQ
ivspysiav àva'^òiJLstfx gUjOtcxerai.
Airtov 5'ò?i vónii^
>j èvipynx. ÌItt'
$5 ève py e loti
>i Sxivafii^' xa«
Antiqui^. ItaLf Anch'
egli quindi è
scettico la sua parte:
e debb' essere, in
forza del suo
medesimo criterio. Ritiene
infatti che, quantunque la
mente conosca sé
stossa, ignora nondimeno
la propria genesi: Dutn
«e mens cognoscttp
non facit; et
quia non /acit^
neacit genvs quo «e
cognoscit. Con la
qual sentenza potrebbe
sembrare cb'ei cada in
contraddizione con sé
stesso; ma riflettendo
che la mente che
«» conotce qui
ya intesa non
come facoltà, bensì
come potenza (della qual
distinzione ragioneremo appresso),
la contraddizione si
dilegua. Così pure è
da intendersi quell'altra
sentenza ove dice
che l'occhio Tede le
cose, e pur
non vede sé
stesso; che a
veder so medesimo
egli abbisogna d'uno specchio;
e però chiama
insufficiente l'idea chiara
e distinta di Cartesio.
Dal tutt' insieme quindi
possiamo argomentare tre conseguenze: 1°
Che la posizione
del Vico non
è né dommatica
nò scettica, ma essenzialmente critica;
e Critica del
vero per eccellenza
egli definisca, ricordiamolo anche
qui, la metafìsica:
2» Che a
pervenire al sapere
scientifico non basti il
eerto, il fatto,
l'indizio, nò il
criterio che il
vero sia il fatto;
ma è d'uopo
che cotesto criterio
sia levato anche
a principio: 3" Che
a Ini non
manca il nuovo
pensiero, il nuovo
Cogito reoo bum, come
vorrebbe Spaventa; anzi
possiede chiara l'esigenza,
per lo meno, della
critica psicologica, bastevole
a prevenire il
Kant. Dico esigenza, perché il
problema critico a
lui si presenta
sotto 1' aspetto
isterico, ciò che forma
la sua novità;
e avvertimmo come
V aspetto storico
importi già r esigenza
psicologica. Se poi
si vuol dire
che a lui
manchi il Cogit*» nel
significato di mediazione
assoluta e però
di perfetta trasparenza
deWesaercf Spaventa ha
ragione. Ma questo
per noi, anziché
difetto, é pregio grandissimo. E
qui il filosofo
di Napoli é
tanto dappresso a
quel di Kcenisberg, quant' altri
non s' immagina. Dommatici
e sistematici, hegeliani e
ontologisti cattolici, unisconsi
ad una voce
nel battezzare scettico l'autore del
Criticismo. Perciò gli
Hegeliani credono compierlo
dicendo, che la ragion
pratica ò siffattamente
collegata con la
Ragion Pura, che la
prima in sostanza
non sia altro
che l' incarnazione, il complemento
della seconda, ma
che questa di
per sé stessa
inevitabilmente meni allo scetticismo.
Io non vo'
negar tutto questo.
Osservo solo che due
sono i grandi
concetti di Kant:
che non si
possa giungere al vero
sistema, alla dottrina
propriamente dommatica^ che,
ciò non Non si
può ridire il
mal governo che s'
è fatto
e seguita a farsi
del criterio vichiano.
In molti libri
leggiamo: criterio del vero
è il fatto;
e da tutti
è stato inteso
• 0 in modo
materiale ed empirico,
ovvero in significato trascendentale e
assoluto. Se così
fosse, quel filosofo avrebbe consacrato,
da una parte,
ogni sorta d'empirismo e
di materialismo; e
dall' altra avrebbe
fatto ragione ad ogni
maniera di panteismo.
La formula vera,
la vera posizione della scienza
e del pensiero,
per lui, non
è questa: Criterio dd
vero essere il
fatto; bensì quest'
altra: La conversione del
vero col fatto.
Fra la prima
e la seconda ci
è un abisso
addirittura. E per
veder cotesto abisso e
ritrarsene, è mestieri
penetrar Bell'insieme delle
sue dottrine con la
luce del medesimo
principio. La chiave
di volta d' ogni positiva
speculazione, e quindi
il vero Deus intus
adest della mente
di questo filosofo,
e però il
bandolo a strigar tanti
nodi che avviluppano
il suo pensiero,
è appunto cotesto criterio,
secondo che noi lo interpretiamo. Il criterio ha
da esser egli
un segno, un
indizio del vero, 0
piuttosto un primo
vero? Ha da
esprimerci un dato, un
fatto, o pur
V essenza del
vero, la condizione originaria e
trascendente del conoscere? Intendendolo al
primo modo, la
scienza tornerà impossibile, e trionfa
lo scetticismo; perocché
non ci salveremo dal
noto circolo eh' è
questo: per conoscer
la ostante, non si
cada nollo scetticismo,
appunto perchè egli
non crede che il
non esser sistematici
Teglia dire essere
scettici addirittura. (V. Critica
dtUa Ragion Pura)
Per me la
riyoluzione operata dal filosofo
prussiano nel regno
della speculazione, cioè
quanta alla natura del
sapere, sta tutta
qui. Il Vico
in ciò lo
prevenne: almeno era su
la medesima strada.
Quindi può dirsi
che entrambi condannino le
due posizioni esclusiye
del Si^temaH^mo e
dello Soetticinno. verità è
necessario il criterio;
e per ayer
il criterio è necessaria
la verità. Pigliandolo poi
nel secondo modo, difficilmente schiveremo
un sistema esclusivo
e dommatico. Il
vero criterio, dunque,
ha da esser
Tuna cosa e l'altra;
indizio e principio.
Come indizio, come
postulato atto a conquider
lo scetticismo e
inaugurare la scienza, e' consiste
nel porre, come
si è detto,
il fatto qual criterio
del vero; né
e'' è altra
via. Come principio, sta nel
porre, dall'una parte,
la conversione del
vero cól fatto, e
dall'altra, come appresso
mostreremo, la conversione del fatto
nd vero, applicandolo
all' essere e a
tutte le
categorie dell'essere. Or in questa
seconda forma assume egli
davvero natura di
principio? Di certo, l'assume;
giusto perchè importa
l'essenzial condizione
dell'essere stesso. Ma
non anticipiamo. Abbiam detto
che di questa
dottrina del Vico
s' è fatto mal
governo. Mostrammo già
come primo fra
tutti ne discorresse il
Mamiani, e, poco
appresso, SERBATI. Giova qui riassumer
le ragioni della
controversia fra' due
filosofi. Il Mamiani
accogliendo questo criterio,
come si disse, osserva
che con esso
il Vico non
intende propor nulla
che esca da'
termini della intuinone
(secondochè allora diceva
l'A. del Rimiovamento), ma
considerare in essa, oltr'
a' caratteri universali,
alcune doti più particolari,
col fine di
proferire a un
tempo medesimo il criterio
della certezza, e
'1 criterio della
scienza. In altre parole
egli dice: col
suo criterio il
Vico intende guardare non
pure al formale
della cognizione, ma
eziandio al materiale obbiettivo.*
Tutto questo è vero; ed è
verissimo che, tranne
la natura fisica
e quella degli
atti del mondo estemo,
tutt' altro pel
filosofo napoletano sia produzione del
pensiero, com'avviene dell'algebra
e della geometria. È
fuori dubbio altresì
che il criterio
per lui non pure
ha da esser
segno del vero,
ma anche principio. «
Nee ulla »ane
alia patct via
qua eeepticit re
ipaa convelli poétit,
niti ut veri criterium
9Ìt id ip»um
fecitte* t De
Antiquisi, Ttaì, • ìiAìttAVif
Rinnovdm, ec, Sennonché FA.
del Rinnovamento non
vide allora ciò
che avria potuto e
dovuto veder oggi
V A. delle
Confessioni. Non vide che
l'aspetto originale di
tal dottrina non
istà nel riguardare il
criterio vichiano qual
semplice segno ed inizio
di scienza, ma
qual principio, qual
legge dell'essere stesso in
universale. Laonde non
avendone còlto altro che
il significato psicologico,
accadde che alla possente
lima di Rosmini
non poteva tornar
guari difficile ridurre in
polvere cotesto criterio
al modo che maneggiavalo il
Mamiani.' Se non che è da
confessare come neanche
il Rosmini dal canto
suo valesse a
cogUere né la
dottrina in discorso né
quella parte di
vero che, con
altrettanta verità quanto calore, propugna
il Pesarese. È
noto che il
criterio pel Rosmini ha
da essere un
principio, e dev'
esprimere la verità prima,
l'essenza della verità.
Or qual è
l'essenza del vero? Eccotelo
ricorrere al solito
rifugio àeW Ente idmle! Ma
se cotesta potrà
dirsi condizione di
conoscenza, non però é
principio di scienza,
criterio del sapere per
via di scienza.
Che cosa potrà
insegnarci mai con la sua vuotaggine
l'essere possibile? l^ou è dunque cotesto il
criterio di cui
parlava il Mamiani,
e tanto meno quello
del Vico. Non
potendo indugiare in minute
osservazioni sul modo
con che il
Rosmini interpreta la dottrina
di che parliamo,
osserveremo solamente che sapere
il vero, pel
filosofo di Napoli,
non é solo
un conoscere il vero,
come vuole il
Rosmini, ma è
porre, è fare,
é creare il vero;
altrimenti per nessun
miracolo al mondo giugneremmo ad
averne notizia. Conoscere
per Vico non
RosMiKT, Rinnovami, ddla
FU. in Ttalia,
Milano. Gioverebbe Ieg(?ere in
questo copioso volarne
del Roveretano qnel
lungo capitolo e que*
prolissi cementi nonché
quelle sette conseguenze
che la invitta dialettica
Rosminiana seppe cavare
dal criterio secondochè
intendevalo il Mamiani.
A lui bastò
congegrnare, al solito,
una di quelle sue
tavole sinottiche nelle
quali ei dimostra
di quanta e
qual vena analitica fosse ricca
la sua mente,
per metter Tavversario
col suo criterio accanto ad
Elvesio, ad Epicuro
e ad altrettali!
Ved. Tav. Sinottica
(WSitt. FU.j intomo al
criterio della cert&ma^
voi. è vedere,
non è patire,
non è semplicemente
apprendere. È vedere, patire,
apprendere, appunto perchè
il pensiero è essenzialmente un
conoscere. In una
parola, se il vero
non si conosce
facendolo, non si
conosce nuU'aifatto; non s'intende.*
Quand' è infatti che diciamo
di pensare? Giusto
quand'abbiamo idee. Avere idee
importa cólligere dementa
rei; ex quibus
perfecHssime exprimatur idea.
Il vero è l'
idea, ma
l' idea innanzi che sia
tale: è l'idea
germe, l'idea potenza,
la stesso spirito in
potenza, il pensiero
non per anche
attuatosi come tale: in
una parola è
il senso che
si leva a dignità
d' intelletto. Raccolta l' idea,
fatta l'idea, cioè dispiegatasi la
meìite, eccoti il
vero-fatto. Mi si
domanderà in che maniera
il Vico chiami
esterni gli elementi onde
risulta l'idea? Perchè,
rispondo, l'eduzione dell'idea suppone la
formazione del concetto;
e il concetto suppone una
serie di atti
induttivi che appresso
determineremo. Tutto ciò è
come estemo all'idea;
è condizione, non causa
del suo processo. Senonchè col
raccorre gli elementi
esterni la mente pone
qualcosa di proprio:
pone se stessa
come pensiero; diventa ella
stessa le cose;
diventa tutte le
cose. Ond' è agevole
vedere come il
criterio del Vico
sia il principio del
metodo geometrico, che
per lui, ricordiamoci,, suona genetico.
Mi spiegherò con
un esempio. Come si
hanno gli assiomi,
le verità prime
e necessarie, secondo i
positivisti? Mercè 1'
esperienza, risponderebbe il Mill.
L' assioma che due
rette non cTiiudono
spazio [Leggere è raccogliere
gli elementi della
tcriUura onde le
parole tono composte; con
V intendere è
COLLIORBB elbmbnta RBI,
KX QUIBUS PRRrBCTis-31VA RXPRIMATOR
IDRA. Donde è lecito conghietturare che gl’antichi itttliani
conveniseero in queeto
pensiero : Vbrum rssr
ipsuv factum.» Qual è cotesto
fatto? È il
pensiero, il vero-fatto:
perchò ricevuto, indotto,
raccolto, e anche edotto
dalla mente. In
tale questione il
nostro filosofo, contro il
solito, non manca
di chiarezza. Egli
infatti dice: e
AUora il vero 9Ì
converte col /atto,
quando trae il
9uo essere dalla
mente d^ lo
eonoece; HI QDOD YERUM
00GNO8CIT0R SUUM K8SR
A MBNTB HABBAT
QUOQaR A QOA cooKosci'TOR.» De
Antiqui^,, De Origine
et ventate Scientiaruni.. Sgorga immediate
dall'esperienza. Che se
apparentemente si origina dal
pensiero, cotesto pensiero
in tal caso non
è altro salvochè
una ripetizione dell'esperienza : è
r immaginazione che
allarga i limiti
del fatto. Ma questa,
evidentemente, se è
una maniera di
sapere, non è il
vero conoscere; perchè
cotesto conoscere non sarebbe
una mia fattura,
sibbene imitazione, copia
dell'esperienza. Che cosa,
invece, vi direbbe
il Vico a tal
proposito? Direbbe: non
istate a immaginarvi
due rette portevi già
dall' esperienza e
poi prolungate all'infinito: fatevele da per voi
medesimi coteste rette.
Ma come farle
? Generandole entro voi,
per voi stessi,
con elementi sperimentali; e così,
più che l' immagine
del fatto, avrete
la vera definizione, e
però la genesi
del fatto. Concepite il
punto come prolungato
verso un altro
punto: eccovi la linea.
Or se due
rette hanno in
comune due punti,
potrann'elle chiudere spazio?
Non potranno. Questo
precisamente è il vero-fatto,
il vero da
me stesso fatto,
da me stesso prodotto,
da me stesso
generato.* Per non chiamare
il vero fattura
di nostra mente, il
Roveretano si puntella
nel solito argomento
de' caratteri della verità:
immutabilità, assolutezza, eternità, necessità, università
e simili. Ma ci sarà
lecito chiedere Men«
humana eontinet dementa
verorum quce digerere
et eomponere poMt'ti et
ex quibu$ dUpontU
et compoeitie, exittit
verum quod demoiutraiU {teientice) ut
demontiratio eadem ae
operatio «i/, et
verum idem ao
faetum. > Ve Antiq.f
cap. Ili, 4.
Né Yale che SERBATI, chiamando
in soccorso lo stesso
Vico, dica, questi
elementi esser le
idee e coteste
idee crearti ed eccitarti
da Dio negli
animi degli uomini.
Per questa frase
VA., della Scienza iVuova è
stato battezzato Malebranchiano !
Ma come non
vedere che in quel
luogo il filosofo
intende parlare del
senso dato a questa dottrina
da coloro che eteogitarono
tali locuzioni, le
quali ei non
accetta perchè non sempre
accetta il significato
delle parole latine,
come osserva lo
stesso Rosmini a proposito
del verum e del factum f
Bastino queste parole:
e Par, igitur eet
ut qui ha»
loeutione* excogitarint, ideas
in hominum animi*
a Deo oreari exeitarique
eunt opinati, Fa
meraviglia che il
Rosmini non siasi accorto
come quattro righe
più giù l’autore
contraddica apertamente a Malebranche
{Malebranckii doctrina arguitur): e
come, se fosse
vera V interpretazione eh*
ei ne dà, il Vico
avrebbe sciupato addirittura il
senso verace e
originalissimo del suo
criterio. una proposizione d' Euclide
serba ella questi
ed altrettali caratteri perchè
ve li abbia
inseriti la mente
di Euclide come tale,
o non piuttosto
il pensiero medesimo, il
pensiero in quanto
è identico appo
tutt' i pensanti, identico nelle
sue leggi essenziali,
identico nelle condizioni logiche originarie?
Nella proposizione 4 -j 4
= 8 havvi necessità.
Perchè? Perchè lo
stesso pensiero ne ha
messo gli elementi. Ma
perchè vien fiiora
8 e non 10?
Precisamente perchè ci
abbiam posto il
4 -h 4: cangiate
questo, e avrete
cangiato anche quello.
E perchè serberà egli
un valore universale
tanto da non parer
fatto né d' ieri
né d'oggi, né
intuito solamente in Francia
o in Australia,
nell' età della
pietra ripolita 0 nel
bel mezzo del
secolo XIX? Appunto
perchè il pensiero è
anch' egli necessario, universale
nelle sue native condizioni
in ciascun individuo
che in qual
si voglia tempo o
luogo sia capace
di pronunziar 4 -f
4. Le critiche dunque
che altri potrebbe
trarre dal RoHmini
là dov' ei
si studia d' interpretare a suo modo la
mente del Vico
rispetto al problema
del conoscere, tornano tutte
vane, tutte manchevoli. Ma veniamo
al più sodo.
Il criterio del
nostro filosofo si porge
altresì come il
fondamento più saldo
della dottrina della prova.
Nel conoscere per
cause, egli dice .
seguendo lo schietto
Aristotelismo, sta la
vera scienza: il che
si riduce al
medesimo criterio della
conversione del vero col
fatto.* Che cos'
è in sostanza
il provare per cause?
Al solito è
un raccoglier gli
elementi della cosa.* Provar
dunque per cause,
e convertire il vero
col fatto, suona
il medesimo. Un
esempio. Il principe Alberto,
dice St. Mill,
morirà. Perchè? Non perchè
tutti gli uomini
(egli risponde) sian
mortali ; si perchè
tutti quelli a
me noti e
che son vissuti, *
« Probare per
cauMaat e/Jhere eat,
Effecttu eH verum
quod eum facto eonvertitur. (De Antiq.
}TCx>j, ri
x fitriy^o^Tx ti
^caviac, ntpi aiTcaec xxt
^px^i sVtiv, if
o^xpi^ivripa^, -il dn'koìjvripaiy {Mttaph.\,\), Or questo
precisamente ò U
metodo che il
Vico, certo in
modo assai confuso, esitante,
arruffatissimo, adopera nelle
sue ricerche; nò
quindi il De Ferron
s' ò apposto male
nel dichiararlo, come
vedemmo, metodo
essenzialmente aristotelico. * Dice
anzi così: H
mio criterio i
in me aeeieurato
daUa eeienga Hi Dio,
eiCl fonU e
regalia dT ogni
vero. (Risp. II
al Oior. de^Lett.) eh'
ella non possiede,
ma che pur
va con infinito
processo e per gradi
accostando sempre più.
Talché quando sentiamo il
metafisico teologista e
Tontologista affermare la scienza
divina essere norma
e regola dell'
umano sapere, mostrando credere
con ciò d'averne
contezza vuoi per virtù
d'un rapido volo
d'intuito, vuoi per
notizia chi sa come
e da chi
graziosamente rivelataci, e' non
dicon nulla di
serio, nulla di
positivo addirittura. Per affermar
tutto questo con
tanta sicurezza, non dovremmo
possederla cotesta scienza?
Non dovremmo anzi dominarla
e rimaneggiarla a
nostra posta così
come l'agrimensore fa del
suo compasso? Norma vera,
norma che noi
dominiamo davvero, norma già
nota al mondo
prima d'ogni altra,
semplice, evidente,
inconcussa, è per
l'appunto la matematica. Della quale
l'A. della Scienza
Nuova, non altrimenti che Leibnitz,
GALILEI, BOEZIO, CICERONE, Aristotele,
Platone, Pitagora, è grandemente
innamorato, e sempre ne
parla, e sempre
con passione viva
ne esalta i
pregi* La contraddizione ch'altri
vede nel porre
ch'ei fa qual modello
del sapere or
la scienza divina
or la matematica, è
affatto apparente. Che
nell'un caso parla,
o intende parlare, deìVidea
massima della scienza,
della scienza divina, la
quale altro non
potrà essere salvo
che la perfetta conversione del
Vero col Fatto,
la compenetrazione assoluta dell'oggetto
col soggetto. Nell'altro,
invece, discorre non già
dell'idea massima, bensì
d'un tipo, d'una forma
che, più d'ogni
altra accostandosi alla
prima, più fedelmente la
esprima e la
rappresenti. Tal si
è per appunto la
matematica. Tipo infatti
del sapere squisitamente razionale per
lui è la
scienza dell'astratta quantità; tant'è vero
che Dio stesso,
die' egli in suo
linguaggio, non altrimenti opera
nel mondo delle
forme reali, di quel
che faccia il
matematico nel mondo
delle figure.* Questo parmi
'1 significato più
acconcio da dare Ved.
Risp. n al
CHorn. de' LetU,
§ IV. a tal
sentenza del Vico
se non vogliamo
farlo cadere in aperta
contradizione con seco
medesimo; non già
che Dio e la
sua scienza abbian
da esser davvero
norma immediata, origine e
sorgente del sapere
umano 1 È
un paragone, è una
figura e nulla
più. E poiché intende
a questa maniera
la scienza divina, perciò riesce
a salvarsi dagli
estremi cui per
vie diverse rompon l' idealista
assoluto e il
teologista ontologo. Pel
primo scienza umana
e scienza divina
son tutt'uno: pel
secondo ce n' è
tal divario quanto
fra il finito e
V infinito. Se
non che Rosmini
e Gioberti nelle
opere postume, ormeggiando gli
aprioristi, pongono anch'essi medesimezza fra
V una e
Y altra scienza,
distinguendo solamente,
specie il Rosmini,
la materia dalla
forma, e questa reputando
identica, e quella
diversa nelle due scienze.*
Ma, s'egli è
così, divario essenziale
non ci è, né
ci può essere;
stanteché l'essenziale nel
conoscere, più che nella
materia, stia nella
forma. Invece secondo la
dottrina del Vico
può dirsi, che
se tra l'una
e l' altra scienza non
corra assoluta identità,
non vi possa
esser nemmanco assoluta difi'erenza.
Il pensiero divino
conosce, perché raccoglie gli
elementi; e nel
raccorli reci' meivte li
pone. Il pensiero
umano va raccogliendoli anche lui,
e nel raunarli
idealmente li pone.
E tale veramente appare la
sua sentenza là
dove osserva che il
conoscere umano si
discerne dal divino
quanto il solido dal
piano, quanto 1'
effige in rilievo
dal monogramma. SERBATI, Teosofia^
GIOBERTI, ProtoUy Altra
difficoltà, secondo alcuni
critici, sarebbe questa.
Se vero sapere è
il sapere per
cagioni, se conoscere
Tal produrre, se
pensare è fare;
com* è possibile arere
scienza dell* assoluto
senza farlo, senza
produrlo? Conoscere Dìo a
questa maniera non è un
assurdo? anzi una
bestemmia, a detta del
medesimo Vico? Per
tutta risposta io
to* riferire alcune
sue parole le quali
racchiudono, panni, il
significato sincero di
sua mente, checché ne
possa dire in
contrario egli stesso:
(Hist. ) E altroTO,
parlando del perìodo della
filosofia greca, dice
il suo processo
esser e eon/orme
au déveloj^ment iiUelìeetuel
de Vhofinne, don»
Vindividu eomme dan»
Veipèoe, ear la civili»ation tend
toujour» de la
circonférence au oenlre, periodi storici
perchè la materia
si presta a
tal fine, come farebb'egli,
il Ritter, a
rilevare e ponderare
acconciamente i caratteri delle
differenti scuole e
sistemi senza il sussidio
d'una norma anteriore
e superiore alla storia?
Eccoci ricascati nella
solita necessità d'un criterio
che valga ad
imprimere forma razionale
alla storia: senza di
che lo storico
potrà esser pregevole
per erudizione, prezioso per
esattezza storica, saggio
e conscienzioso per
fedeltà critica, ma non per
questo avrà valicato i
confini dell' empirismo.
Tale è il
Ritter fra gli storici
contemporanei della filosofia.
Egli è critico
savissimo, checché ne dica
la scuola di
Hegel. È interprete coscienzioso, indipendente,
scrupoloso, accuratissimo; ma non
è filosofo. A
lui fa paura
il dommatismo; fa
paura il sistema nella
interpretazione istorica: e
non ha torto. Ma
non si può
essere storico filosofo
senz* esser dommatico
e sistematico? Il
gran pregio di Ritter
sta nel carattere d' indipendenza eh' ei dà
alle differenti scuole. Ma
un principio sopra
cui s'incardini la
sua critica, e gli
porga ragione di
tale indipendenza, a lui manca assolutamente. 11 criterio
mercè cui lo
storico potrà render
utile lo studio della
storia ed elevarla
insieme a dignità
scientifica, sta neir interpretar
la successione e
la genesi e le
attinenze de' sistemi
filosofici ponendo in
opera il criterio delle tre
posizioni che noi
abbiamo accennato. Queste tre
posizioni (e altre
non sono possibili)
invocate a chiarirci nel
magistero della critica
e della interpretazione della storia,
non costituiscon già un criterio
empirico, né un criterio
d' indole eclettica; tanto
meno un criterio dommatico,
sistematico, ricostruttivo. Non
è criterio empirico, perchè
non sono i
fatti storici (e
nel caso nostro i
fatti storici sono
i sistemi filosofici)
che lo partoriscano, 0 lo
spieghino; ma egli
stesso è che
spiega la comparsa delle^differenti scuole
e dottrine filosofiche nel regno
della storia. Non
è poi criterio
eclettico perchè non iscaturisce
dalla storia, né da'
sistemi; anzi ci fa
capaci d' interpretar V
una e giudicar
gli altri senza esser
sistematici: sentenza che
per taluno avrebbe
faccia di paradosso, ma
non è.* Finalmente
il nostro criterio non
è sistematico, perchè
non isgorga dalle
viscere stesse di alta
metafisica, né quindi
importa ombra di
necessità dialettiche, a priori,
metafisiche. Ma qui
dobbiamo intenderci con gli
storici hegeliani. Qual è
il criterio storico
di Hegel? È
il principio stesso cella
sua filosofia; V
identità assoluta. Una
infatti per lui è
la filosofia, uno
il sistema; e
le dottrine particolari non altro
che forme diverse
d' un medesimo contenuto. 11
dommatismo sistematico nella
storia de' si*
La H;nola del
Cousin scimmiottando Hegel,
com'è noto, Terrebbe far
germinare la filosofia
dalla storia, o
considera perciò come
elementi organici necessari, aempiici
e irriducihili solo
quattro sistemi; Sensismo, Idealismo, Scetticismo,
Misticismo. Da questi
fa risultare la
storia d'ogni tempo e
ln)go; o da
essi medesimi vuol
far germogliare la
filosofia: La teoria deve
emergere dalla storia.
[Court ec. Ber.)
Or 80 la storia
in ogni grand’età
e in ogni
periodo filosofico presenta qne
soliti qiattro demetiti
organieif ne segue
che la teoria,
dovendo pullulare appuiÉo da
essi, altro non
potrà esser che
un accozzo eterogeneo e,
meglio che un
eclettismo, un sincretismo.
Se gli elementi
infatti sono contraddittorìi ed
eterogenei, non dovrà
esser tale altrosì
l’insieme che ne verrà
fuom V Che
se per tale
accozzo è mestieri
d* un criterio,
eccoci tosto fuori della
storia; e allora
non sarà altrimenti
vero il gran
domma che la teoria
abbia da emerger
dalla stessa storia.
Altro difetto di Cousin
è, che iella
sua divisione non
trovan luogo parecchi
sistemi, come per es.
il Critclsmo, e
Y Idealismo assoluto:
1’uno perchè non
è sistema, e nemmanco
icetticismo; l'altro perchè,
sotto il riguardo
psicologico, sarebbe l’
unione di due
sistemi, secondochè avverte
egli stesso. Inoltre non
giunge a determinar
nettamente la fiinzione
dello Scetticismo nella storia,
e distinruerla dalla
funziono che esercita
il Misticismo, il
quale definisce, le eotf>
ds désespoire de
la raièon humaine:
quasi che il
secondo fosse un atto
legativo cosciente, com'è
il primo, e
non già positivo
in qnanto che imprta
fede, contemplazione, sentimento
e simili. Finalmente chi non
vorrà legare p^li
Eclettici che il
Misticismo, il Sensismo
e lo Scetticismo siaio
da riguardarsi come
altrettanti sistemi V
Ecco a che mena
un criteri) erroneo
su la divisione
e genesi de'
sistemi filosofici. Non s' intende
h storia, e
poi si precipita
senza rimedio in
una teoria affatto sincretici
e però assurda. La
storci della filosofia
mani/estaf ne* vari
sistemi che sono
apparsi, una sola
i medesima filosofia
che ha percorso
diversi gradi, e
prova che i prineipii
particolari di ciascun
sittema non sono
che parti d’un solo
e medesimo utto.
> (Hbgel, Log.
Introd. trad. Vercu Wilmx, stemi
non potrebbe risaltare
più evidente, più
rigoroso, più universale, più
assoluto. Noi innanzi
tutto neghiamo risolutamente che le vario
dottrine non possan
essere altro fuorché momenti
diversi d* una filosofia.
Dov'è identità di contenuto,
a dirne un
esempio, fra Idealismo
e Materialismo? Tra Teismo
e Panteismo naturale
o ideale che sia?
Ci vuol davvero
la pupilla lincea
degli hegeliani a vedere,
o meglio, a
travedere siffatte ideatità
di contenuto ! D' altra
parte, se posta
la evoluzione della idea
0 contenuto dello
spirito ne seguita
(come dicono) che la
filosofia ha da
esser identica alla
storia: non è egli
codesto un principio
degno d' un eclettico
francese? Non è la
negazione più aperta,
più schietta del
progresso in filosofia, meno,
s'intende, epoca memoranda in
che con la
sua bacchetta d'acciaio
il gran negi-omante del
Nord ebbe diffinitivamente segnato
e chiuso in perpetuo
il circolo della
filosofia? S'egli è così,
la dottrina ^é*
circoli e de'
ricorsi storbi che il
Vera dice esser
l' errore madornale della
Sdenzii NuovOj per me
sarebbe anzi una
conseguenza logica, immediata, inevitabile dell'
Hegelianisrao, almeno quant'
al pensiero speculativo.*
Hi9t., voi. IH).
La successione istorica
de' sistemi perciò
riesce identica a quella
delle determÌDazioui logiche
della Idea: il
perchè in fondo a
tuttM sistemi non
si occulta altro
che un medesioo
oontenuto. Chi consideri bene
le dottrine e
applichi con acciiiatezza
le esigenze del metodo
vichiano alla storia
de' sistemi, si accorgerà
tosto corno nella filosofia,
guardata storicamente, ci
abbia da esser
moIiipUcità di momenti, e,
che più monta,
diversità di contenuto;
del che /a storia
dt'Ila filosofia greca, come
accennammo porge splendido
esempio. Ma, si badi,
ciò non toglie
punto che ci
abbia da esser»,
come di fatto ci
è, differenze di
forma. Se i
ritomi e i
rieorgi «tarici nm
importassero anche in filosofia
un contenuto nuovo
pur occultato sotto
vecchia forma, che cos'
altro sarebbe la
storia del pensiero
filosofico salvo che
an' og;,Mo8a e
sterile ripetizione d'un
medosiuio uggiosissimo spettacolo'?
Nella storia de' sistemi, più
che in altre,
il moto e
lo svolgim4Qto storico
non somiglia ad una
linea retta, come
dicono alcuni, e
mmmanco ad un circolo,
come pretendono altri.
La storia della
filosofia 3 linea
retta e circolo insiememente.
È linea retta,
chi guardi al
contenuto; ed è poi
circolo, chi consideri
la forma, cioè
la parto meccanica
do' fatti; giacche la
storia, lo dicono
e lo credon
tutti, ò fornita
alch'ella del suo Un'
altra osservazione contro
gli Hegeliani poiché ci
calza. Se V
ingegno filosofico (quello,
ben inteso, degl' imperturbabili e
severi negromanti in
filosofia) racchiude in sé
tanta virtù e
tal vena architettonica da costruire
con lavorio tutto
a priori il
sistema della scienza dell'essere
e del conoscere;
la conseguenza parmi chiara,
irrepugnabile: ed é
che la storia
della filosofia non potrà
non riescire affatto
inutile e insignificante. A che
sciupar tempo, a
che sprecar la
nostra attività critica a
studiar ne' bozzetti
piii o manco
smorti e melensi e
sconci e abortivi
che ci presenta
la storia, se abbiamo
già dinanzi agli
occhi in marmo
vivo e quasi palpitante il
Davide e '1
Mosè? Dicono: «
Noi invochiamo la storia
de' sistemi, é vero,
ma per semplice
guarentigia del sistema: la
invochiamo com' una riprova
di fatto, com' una
conferma sperimentale.... »
Conferma di che? Della
costruzione a priori,^
Dunque codesta vostra costruzione è
una congegnatura inefficace!
D' altra parte, se il
sistema giace ascoso
e beli' e
apparecchiato nella storia e
non fa che
germinare da essa,
in questo caso non
sarà inutile la
vostra costruttura ideale,
a priori? Brevemente, una
delle due: La
costruzione a priori del sistema é
ella assoluta? Dimque
è faccenda inutile la
storia de' sistemi.
Il sistema giace
egli beli' e apparecchiato nella
storia? Dunque inutile
ogni alma meccanismo. Ora
dunque per noi il pensiero
fllosofico ò daTvero
progressivo; è progressivo sul
serio; progressivo noi
verace senso della parola
progresso, appunto perchè
si svolge anche,
e sopratutto, nel
suo contenuto. £ qui,
com* è chiaro,
noi rispetto agli
Hegeliani siamo addirittura a:rU antipodi;
e non è
altrimenti il nostro
povero don Giambattista quegli che
non ebbe la
fortuna (sic) di
scoprire la gran Ugge
dd progredire della
utnanità, ma è
proprio il loro
Hegel cui toccò la
sventura (abbiano pazienza!)
di non conoscerla,
anzi di negarla
cotesta legge; o
almeno, riconosciutala da
Talete, Tha poi negata
a tutt*i secoli
avvenire, condannandoli senza
scam(H> a ruminare eternamente la
medesima formola metafisica!
Il concetto del
vero prògre99o è
concetto propriamente impossibile
nella mente degli
Hegeliani, come vedremo nella
Sociologia. MiOHKLiT, Exam, Crit,
de la Mèi.
d'Arisi., Paris] nacchìo architettonico dialettico
a priori. Nel
primo caso voi sarete
altrettanti Dii; e
noi non v'intendiamo, perchè confessiamo
di non esser
capaci d' intendere un linguaggio
e un pensiero
sovrumano. Nel secondo
poi sarete eclettici, o
positivisti; e noi
vi superiamo. Non v'è scampo.
Se la storia
de' sistemi ha
da servire di
per sé sola a
darci la filosofia;
se, d'altra parte,
la congegnatura a
priori ha da
essere assoluta e
tutta d'un pezzo: come
legittimarle entrambe? perchè
invocar la necessità d'entrambe? Intendo
l'eclettico che, non
sapendo rinvenir filo d' energia
speculativa ne' bisogni
intimi del suo pensiero,
viene a chieder
soccorso alla storia.
Intendo non meno il
positivista che con
le mani sotto
le ascelle tutto aspetta
dalla storia appunto
perchè non ha
briciol di fede nelle
native forze della
ragion filosofica, e
sorride agli sforzi ne'
quali nobilmente altri
si prova. Ma
come potrò intender gli
hegeliani che invocan
la storia nel momento
istesso che vantano
la singoiar pretensione di costruir
l' edifizio scientifico a
priori rifacendosi dal tetto
? Che cosa dunque
è da concludere?
Precisamente r opposto di
ciò eh' essi
pretendono: che ne
la storia contiene il
sistema, né la
mente può costruirlo
e dedurlo a
priori. Né induzione,
al solito, né
deduzione neanch' in quest'
ordin di cose.
La possibilità d' una
dottrina metafisica può
germinare dall' azione
combinata delle due forze;
dalla storia de' sistemi
interpretati a dovere, e
dalla energia intima
del pensiero speculativo. Or tutto
ciò potrebb' egli
esser possibile, se
questo pensiero non fosse
ad un tempo
e dentro e
fuori della storia?* Schmidt divìde
la storia de’
sistemi filosofici morendo
dal concetto della filosofia
elio per lui è teienza
del fondamento ultimo
del nottro pentierOf e
delV a$§oluto, E
poiché cotest' obbietto
si può concepire
in tre gaise, cioè
obbiettivamente, sabbio ttiv
amente e
neirun modo e
nell* altro riconoscendoli entrambi
come identici, però
ne deduce 1’opposizione de* sistemi,
e la divisione
della storia. La
prima e più
generale divisione è questa;
1» filosofia grreca;
2o filosofia nuova
avanti Kant; S*"
filosofia Il nostro criterio
non è niente
di tutto questo.
Non è empirico, non
è eclettico, non
è sistematico, non
è dommatico. E
positivo, e razionalmente
positivo. Ed è tale
perchè piglia di
mira non già
i sistemi propriamente detti, anzi
le posizioni ultime,
più semplici, irreducibili del filosofare,
squadrandole sotto doppio
rispetto; sotto il rispetto
della scienza, e
del suo oggetto.
Le posizioni possibili dell'
ingegno filosofico, di
fronte al sapere
metafisico, dicemmo esser tre:
!• impossibilità della
metafisica (Scetticismo); 2» sua
attualità (Sistema beir e compiuto); 3»
sua possibilità (Critica).
Anche tre, dicemmo, le
posizioni del suo
oggetto, cioè le
possibili soluzioni del problema
metafisico. Dunque tre
han da essere
i sommi generi sotto
cui la storia
può venir adunando,
disponendo, ordinando le dottrine,
gì' indirizzi, i
metodi, le esigenze speculative formanti
le specie e
sottospecie, le recente dopo
Kunt {St, della
FU.). Innan^ù tutto
questa è una
diTisione essenzialmente sistematica,
e riesce alla
filosofia dell* identità:
il che solo basterebbe
a condannarla. Il
concetto inoltre nel
quale è fondata •
è superlativamente esclusivo;
tanto cbe rimaui^on
fuori del corso
isterico interi periodi di
speculazione occidentale, per
non parlare della
filosofia orientale. Così precisamente
egli tratta, per
esempio, la scolastica:
la quale, tuttoché non
si possa dire
speculazione metafisica, non
però cessa d'essere 8peéulazione,quantunque in
servigio della teologia
e del domma. K
poi, come mai
dalla filosofia greca,
con un salto
più che mortale,
si piomba a Cartesio?
Dov* è qui,
non dico la
verità, ma la
realtà del processo storico della
filosofia? Un'altra domanda.
Schmidt pone Videntìtà come contrassegno
del 8^ periodo
della filosofia. Ma,
con qual diritto,
con che verità qualificar
tutt* i filosofi
di cui egli
parla nel suo
S"* periodo col carattere
dell* identità? Come
si vede, lo
Schmidt cade nel1’ a
pr»art«mo hegeliano, ma senza
far pompa de*
grandi pregi di
Hegel. Tranne V opposizione
fra' sistemi, nonché
la triplice maniera
onde in essi
è concepito l'assoluto, ei
confessa dì non
saper altro per
via a priori
di concreto, di particolare circa
la storia delle
scuole e delle
dottrine filosofiche: doveccbò
Hegel non pnr
move dalla logica,
come s'ò detto,
e dalle alture logiche procaccia
dedurre i sistemi
ed i momenti
della storia, ma
più ancora li costruisce;
li costruisce indipendentemente dalla
storia. Il metodo dello
Schmitd, quindi, avrebbe
una parte accettabile,
un aspetto vero; che,
cioè, r indagine
storica, per lui,
non riescirebbe un
di più affatto inutile, come
in sostanza dovrebb' essere per
Hegel. Se non
che cotesto bel pregio
svanisce, tostraf«, appresso
il vero metafinoo.
Or questa genesi a
cui egli accenna,
si applica evidentemente
tanto al processo
delle scienze, quanto a
quello della filosofia;
e, di più,
risponde appnntìno alla
storia e al processo
ideale de' metodi. I
metodi per lui
sono ìtq;V Induzione^
il Sittogiemo, il Sorite.
{De Antiquiee.) È
bene avvertire com'ecfli, discorrendo
del Sorite^ sbagli
nell'attnbuire a Socrate
quella forma. d'induzione
cui allude nel
Libro metafìtico; e
non meno sbaglia, come
osservammo, quando chiama
sillogistico il metodo
aristotelico. Ma questi, com'
ò chiaro, sono
sbagli di storia,
inesattezze di fatto,
non già di dottrina.
Ciò che importa
è che sin
nel Libro metaJUico
egli sa scorgere un
vincolo, un processo,
e quindi un
progresso fra le
tre posizioni metodiche del
pensiero: Induzione, Dedazione,
Eduzione, rispondenti alla storia
delle scienze, come a quella
della filosofia. Giova
perciò intenderci bene. L' Induzione,
per lui, è
un artifizio sintetico,
ma d'indole empirica; ondo la
mente non facendo
che raccogliere, adunare,
procede dall'effetto alla causa,
e quindi è
analisi, diremmo, sintetica.
(Inductio, pioura ànalytica;
Stllooismus, stntrtioa. Ved.
De Conet, PhUologim)
Il Sillogismo invece è un artifizio
deduttivo, è ainteei
analitica per cui la
mente procede dalla
cagione all'effetto; ma
è incerto nel
euo procedimento e però inetto
a scoprire {De
AntiquÌ9$., cap. II,
VII, 4). Questo
è quel metodo eh*
ei condanna ne'
Cartesiani, ed è
quel 9ÌUogi»mo debole oÌ79iv'/ì^ i7uXXo7(7]txo; che
Aristotele biasimava in
Platone (>lna/. Poet.,!,) Finalmente il
Sorite, per lui,
è tutt' altro di
ciò che ne
dice la logica
ordinaria. II Sorite non
è, a dir
proprio, nò sintesi,
né analisi. Non
è analisi sintetica che
dall'effetto ealga alla
cagione, e nemmeno
è sintesi analitica che
dalia causa eeenda
all'effetto. Invece è
funzione che oofuxitena
caute con caute:
Qui utitcb borite
gauss ab oaussis,
ouiqur proxiMAif ATTBXIT.
{De AntiquÌ89„ De
certa /acultate eciendi, ) Perciò
il Sorite essendo la
funzione sillogistica nella
forma pid compiuta,
presuppone e racchiude in sé l'analisi
e la sintesi,
la deduzione e
l'induzione, e di
fronte a queste debb*
esser superiore e
posteriore. Dunque la
funzione discorsiva che egli
appella Sorite e che pone
nel terzo momento
della storia Se tutto
questo che noi
siamo venuti sin
qua discorrendo è vero,
quale ne sarà
la conseguenza? Sarà
che tanto nella storia
deUa filosofia, quanto
nel succedersi de' sistemi,
il progresso non
è, come ci
predicano i positivisti, un' illusione
de' filosofi di
mente ammalata e nebulosa,
ma un fatto
storico e psicologico
ad un tempo; una
storica e psicologica
necessità. I diff'erenti
sistemi, ci dicono i
filosofi deW avvenire^
possono conferire al progresso
non come
cagioni determinanti, ma
come semideale de*
metodi, non è
altro che il
processo ednttiro di
cai altrove abl)iaino
discorso. Neir annodar
cau»e con carne
sta V invenzione
del termine medio, e
perciò la conversione
dd vero col
fatto. Se non che
talora anche in
ciò egli si
contraddice ! ifferma,
per es., che
V analisi (la qaale
abbiam visto essere
per lui posteriore
alla sintesi, e
però, come artifizio deduttivo,
posteriore ali* induttivo),
sia il metodo
puramente critico de* Cartesiani;
e non senza
ragione lo condanna,
perchè esclusivo e solitario.
Ma più volte
poi dice esser
tale anche il
Sorite; cioè un artifizio
puramente critico e
analitico. {De
AnUqxUss,^ Ds Nos. Temp.
Stud. Jiat,, Argum.
RUp, i* al
Glor. de' Lett.,
§ IV. - /?« Oonst. PhiloL,
Sec. Se. Nuo.)
Ma non abbiam
vist ) com'egli medesimo
ponga il Sorite
dopo Vlnduzimie che
è analisi-sintetica, e dopo
il Sillogismò che
è sintesi-analitica? Come,
dunque, se è
posteriore e superiore, potrà
esser non altro
che pura critica
e pura analisi, e
perciò anteriore e
inferiore? Non è
contraddizione palpabile cotestaV A
levar di mezzo
siffatti controsensi, bisognerà
stare alla definizione eh' ei medesimo
ne porge del
Sorite: funzione che
concatena cause con ca«we,
non già effetti
con causcy o
eause con effetti.
Ella compenetra, come dicemmo,
in un medesimo
circolo l'analisi e
la sintesi, l'artifizio
induttivo e '1 deduttivo].
fe insomma il
nwtodo ch'egli sposso
appella geometrico (Risp. al
Oior. de' LcU.).
È, ripetiamo, il
metodo ednttivo, genetico, il
quale non è
geometrico in quanto
debba essere tolto cosi
com' è dalla
matematica, ma nel
senso che dalla
geometria s'ha da pigliar
la dimostrationCf cioè
la guisa per
far la scienza.
Lo dice egli stosso;
non m^hodus geometrica^
sed demonsb'otio. E
dopo ciò auguriamoci che
alcuni suoi crìtici
non vorranno maravigliarsi
più oltre ch'egli abbia
voluto appellar geometrico
il metodo proprio
della sua Scienza Nuova!
{i^ Se. JVuo.).
Uno de' continovi lavori
di questa scienza d
dimostrare FIL PILO....
lo spiegarsi delle
idee umane . Concludendo: Col
porre la genesi
psicologica de* metodi e '1
processo isterico delle tre
funzioni metodiche, il
nostro filosofo ci
ha dato insieme la
dottrina su la
genesi positiva delle
scienze, secondo l'interpretazione che noi
altrove abbiamo accennato
(p. 230), e
sopra questa legge si
modella eziandio la
storia ideale della
filosofia^ com'egli dice,
o la storia naturale
de' sistemi JUoéoJtci. Sono
germi cotesti, io
lo veggo; ma germi
fecondissimi. plici
condizioni del progredire;
cioè com' errori che si
combattano, e che
nel combattersi a
vicenda si correggano. La contraddizione qui
è palpabile; e
non è la prima
né l'ultima nella
quale intoppino i
positivisti. I sistemi filosofici
non sono che
errori, e pur
si correggono ! Ma,
so correggonsi, in
clie maniera saran
tutti un errore? È
possibile correzione senz'una
parte di vero? Or
se racchiudon parte
di verità, certo
non avrebbe a parere
impresa disperata poterli
assommare; per la semplice
ragione che se la mente
umana è quella
che ha potuto partorirli
e poi di
mano in mano
correggerli, ella medesima potrà
venirli adunando in
organismo, nel che, come
si disse, è
necessario un criterio
superiore/ Abbiamo detto esser
triplice il processo
delle cose governato da
un medesimo criterio,
il quale perciò
assume valore di principio:
la Conversione del
vero col fatto. Ora
il primo processo
a cui è
d' uopo fare
cotesta applicazione è
appunto la storia,
perocché lo spirito nasce
nella storia, e
la fa. E
poiché nel medesimo processo isterico
é racchiuso il
processo psicologico il quale
n' è il
fondamento più immediato
in quanto é la I
sistemi si combattono,
è vero: essi
rappresentano il transito
a verità; e anche
questo è verissimo.
Ma ciò fanno
non tanto perchè
sono errori, non tanto
perchè lottano, qaanto
perchè racchiudono in sé medesimi un
elemento di speculazione
e perciò di
verità metafisica. In una
parola, essi lottano,
ma non per
distruggersi a vicenda,
sì per legittimarsi, e compiersi.
Giova ripeterlo anche
qui: Positivismo e
Idealismo assoluto mancano del
vero concetto del
progresso nella storia
de' sistemi. L* uno
considerandoli come produzioni
fantastiche della mente,
crede che poco alla
volta essi finiscano
per divorarsi a
vicenda senza verun incomodo degli
spettatori; dovecchò l'altro,
avvisandoli come organi
e vegetazioni d' una medesima
pianta, nega loro
ogni ulteriore progresso giunto che
sia a vedere
sbocciato quel fiore
nel quale sono
contenuti in atto rami,
fronde, foglie, tronco
e radici della
pianta. Questo fiore, si
sa, non può
essere altro che
la filosofia dell'identità. Ora
a me pare che,
se hegeliani e
positivisti vorranno per
poco tenersi conseguenti
a sé stessi, la
storia della filosofia
agli occhi loro
non potrà essere
altro che un caput
mortuum; sempre per
la solita ragione,
che gli uni
hanno intera fiducia nella
costruzione ideale della
metafisica, mentre gli
altri non ne hanno
punto, anzi la
negano. Caput mortuuml
nò più, né
meno. La logica è
inesoraWle. stessa nostra coscienza,
perciò la prima
applicazione di quel principio
riguarda la genesi
psicologica. Ma, innanzi tutto,
che cosa ci
dice la storia
della psicologia rispetto al
problema psicologico?
Capitolo Quarto. platonismo e
aristotelismo nel problema psicologico. Il nodo
al quale per ragioni più o manco
immediate si rappicca la soluzione de'
piii vitali problemi
delle scienze morali, e
stavo per dire
anche quelli della
metafisica, è il problema
psicologico, che un
moderno filosofo ha giustamente
appellato problema generatore.^ La psicologia
segue anch' ella
una legge cui
vediamo soggiacere ogn' altra
parte della filosofia.
Pigliando a considerare il
problema psicologico sotto
l' aspetto teoretico, ci accorgeremo
tosto della possibilità
d' una doppia soluzione, che
si riferisce a due sistemi
fra loro opposti e
contrari: i quali
sistemi, per quanto
si voglian fregiare di
titoli vistosi e
facciano pompa di
nomi pili 0 meno
appariscenti, ci rivelano
sempre alla fin
fine l'esigenza del materialismo,
ovvero quella dello
spiritualismo. Se pigliassimo poi
a guardare il
medesimo problema sotto r
aspetto isterico, sarebbe
agevole il vedere come
quelle due soluzioni
mettan capo a'
due maggiori filosofi dell'antichità, Platone
e Aristotele, ne'
quali s'imbatte sempre la
mente dello storico
quando meno se '1
crede. Che se oltr'
ai due massimi
filosofi di Grecia
togliessimo ad esame anche
la teorica psicologica
degl' insigni rappresentanti della
sapienza cristiana. Agostino ed AQUINO, i
quali non fanno
che ormeggiare i due
Fichte, Doetrine de ki Seienetf
trad. Grimbl^t,] greci quanto
le necessità del
domma comportavano, avremmo beli'
e fissato l' obbietto
e determinato i
confini della critica intorno
alle principali soluzioni
date sul problema in
discorso, e fors'anco
avremmo tirato le somme
linee d' un intero
disegno isterico della
scienza psicologica fino all'
età del Rinascimento^
I quattro filosofi menzionati comprendono
in germe tutte
le posizioni psicologiche possibili,
meno una; meno
quella, cioè, che, nulla
serbando di filosofico
e di psicologico, si riduce
tutta a negozio
di biologia, come
vorrebbero certi moderni fisiologisti. Nella storia
della filosofia, infatti,
avviene quel medesimo che
in ogn' altr'
ordin di cose
morali: le prime tracce
dello sviluppo, i
germi del processo,
come germi, s'annidan tutti
nelle origini. Nelle
origini la virtù
spontanea e divinatrice dell'
ingegno emerge vigorosa
e potente così che
basta ad alimentare
i' attività analitica di
più secoli, ed
eccitar 1' ansia
e '1 bisogno
speculativo di più e
più generazioni. Le
origini . riflesse della
speculazione occidentale
pongono lor prima
radice nel pensiero greco; massime
in quel perìodo
in cui Platone
e Aristotele rappresentando, per
così dire, 1'
analisi in cui sdoppiossi
e ingagliardì la
sintesi socratica, giungono a
toccar l'apice della
riflessione metafisica sotto duo
forme distinte; distinte
nell'idea, diverse nella forma
e anco nello
stile, ma atte
ad integrarsi e
compiersi a vicenda. Il
vivente storico inglese
della Grecia ha detto
che la speculazione
europea, nonché gran parte
dell'orientale, altro non
sia stata in
sostanza fuorché un commentario
intricato e perpetuo
de' due massimi filosofi.
A compiere il
concetto avrebbe potuto •e
dovuto aggiugnere che
in cotesto commentario,
in cotest' analisi, tanto
più evidente appare
il progresso, quanto più
intenso é lo
svolgersi delle dottrine,
e più fitto e
più variato il
succedersi delle scuole.
Chi dunque pigliasse a
far la storia
critica del Platonismo
e dell'Aristotelismo, e' sarebbe
già in grado
di far la storia della
filosofia: in cui lo scetticismo
avrebbe quella funzione e
queir ufficio che
gli spetta; ufficio
senza fallo assai rilevante,
ma, come dicemmo,
di semplice strumento più
che d' artefice; funzione
di mezzo, d' espediente, d'incentivo piii
che d'elemento vitale
della scienza. Se infatti
v' ha cosa
nella quale consentano
appieno i due massimi
filosofi, è questa:
che il concetto
del sapere, del sapere
per via di
scienza, debbasi appuntare neir universale,
stante che dall'
universale possa emergere unicamente la
possibilità della metafisica. Ecco perchè
tale possibilità è già beli'
e dimostrata, s' altra prova
mancasse, dal fatto
storico, dalla storia della
filosofia. Ecco perchè
lo scetticismo, siane
qualunque la forma, è
distrutto, o meglio,
è ridotto al suo
legittimo valore, dall'esistenza atessa
e dallo svolgimento cui son
venuti soggiacendo il
Platonismo e l'Aristotelismo. Ed ecco
perchè, ripetiamolo, questi
due grandi sistemi racchiudono un
significato supremamente comprensiva per due
rispetti diversi, l'uno
storico e l'altro
teoretico, e per due
diverse ragioni altrove
accennate. Sul carattere precipuo
del Platonismo ci
sarebbe a sperare che
né critici, né
storici qund' innanzi
avessero a discutere più
oltre. Volumi in
foglio scrissero antichi e
riscrissero moderni, sia
per determinare il
concetto platonico del Bene,
sia per isgroppare
que' tanti viluppi su
la natura delle
idee, sia per
ispecificar l' attinenza
peculiare fra esse
e Dio, o
per lumeggiare il
processo della dialettica e
chiarir la forma
verace del metodo filosofico platonico,
o, finalmente, per
additare il rapporto fra
'1 pensiero e l'
obbietto sovrassensibile di
esso. Pare che i
più oggi consentano
a ritenere, il
distintivo platonico star nella
teorica dell' esemplarismo,
e quindi nella dottrina
(vera o no
che sia) delle
idee avvisate oom' eteme conoscibilità, e
com^ eterne e
assolute specie delle cose,
11 che tanto
più avrebbe a
parer vero, in ^Ytìov
wjTTioòc To (zé^iov
(iTxpct^ityt/y.) iS\tntv. Tm. Cfr. quanto che
il punto attorno
a cui s'aggira
la critica dello Stagirita
sta tutta qui:
Videa non pure
esser Buperiore alle cose,
ma tutta al
di là e
tutta al di
fuori delle cose. Né
le tre scuole
d' interpreti che hanno
a capo Herbart Hegel
e Bitter, e
che in Germania
oggi dividonsi '1 campo
della critica sul
significato essenziale e speculativo
de' dialoghi platonici,
dissentono guari intorno a
cotesto particolare, quantunque
tutt' e tre
riescano a dissidii profondi
nell' applicar la
critica non tanto erudita,
quanto d'interpretazione filosofica. Difficoltà pili
gravi porge l’Aristotelismo; col
qual nome intendo abbracciare
tanto Aristotele, quanto
la interminabile tratta de' suoi
commentatori. Queste difficoltà senza fallo
tengono all' indole
stessa della dottrina aristotelica, all'esser
eUa, per così
dire, bifronte, racchiudendo i
germi di due
contrarie ed opposte
direzioni speculative: cosa che,
ove non fosse
universalmente riconosciuta,
basterebbe a comprovarcela, s' altro
mancasse, la critica
che neanc' oggi
ha smesso e
certo mai non ismetterà
la speranza di
porre in accordo
lo Stagirita con sé
medesimo. Eertanto, riconosciuta
l' ambiguità e r indeterminatezza del
sistema aristotelico nonché il
difetto d' impasto omogeneo
in parecchie sue
teoriche; considerato come Aristotele
uscito del tirocinio platonico dovea
serbare, come serbò
evidenti, alcune tendenze già
inseritegli nell' animo
dalla viva e
potente e drammatica parola
di chi seppe
concepire e scrivere il
Protagora e '1
Filébo; tenuto conto
sopratutto dell'opposizione gagliarda
e severa ch'ei
mosse contr'al maestro; e,
finalmente, considerato lo
svolgersi così vario, così
intricato, così opposto
ne' suoi resultamenti cui r
Aristotelismo andò «oggetto
attraverso civiltà diverse, tempi diversi,
luoghi divedi : non
avrebbe a parer Stallbacm, ne*
ProUgom, al Parmenide di VELIA, SERBATI, Aritt.
eep. ed esam.f Introd. Zkllbr, DeU^
espogiz. aritt, della
fil, di PUxtone, c.
rV. Tbbndelsnburo, Plut.
de id., Mabtik,
Éhui. mr le Tim.,
Àrgom, CousiN, Du
vrai, du beau
et du bien,
loz. IV.
troppo ardito T
argomentare, come dal
tatt' insieme delle sue
teoriche, in ispecie
dalle tendenze molteplici
degli esegeti d'ogni età,
cotest' indirizzi devan essere
tre, meglio che due.
De' quali indirizzi
noi chiameremo il
primo ip&rpsicólogko; il secondo.
Triturale oàempirico; e
il terzo medio, ovvero
aristotelico-platonico
propriamente detto. Dal significato
stesso di queste
parole, ognuno s'accorgerà come il
nostro criterio diflferenziale, e
la divisione riguardante gì'
indirizzi della dottrina
aristotelica nonché le diverse
esegesi a cui
elle conducono, sia
per noi principalmente di
natura psicologica; e
non può non esser
tale. Aristotele, infatti,
non cessando d' essere Aristotele, è
anche mezzo platonico.
Un criterio diflFerenziale, dunque,
circa le dottrine
de' due filosofi,
non potrebb' essere attinto in
altra sorgente salvo
che in quella della
psicologia, dove appunto
riluce piii netto il
dissidio, checché ne
dica il Ravaisson,*
tra i due filosofi
della Grecia. D' altra
parte cotesta nostra
divisione non solo si
porge come criterio
a discemere e giudicar
le diverse scuole
aristoteUche, ma ci
somministra modo altresì per
valutare l' esplicazione storica
del Platonismo al lume
di quel terzo
indirizzo che noi
pensatamente abbiamo
appellato medio. 11
quale, se con
gli altri due l' abbiam
detto aristotelico, non
è meno platonico perciò. Cotesto
indirizzo medio, infatti,
non è originario, ma secondario.
Non è nato
fatto, ma capace di
farsi, di generarsi,
d'assumere fattezze proprie
e fisonomia sempre più
individuale e spiccata
nel corso della storia.
Però più d'uno
storico della filosofia
ha paragonato 1' Aristotelismo
e '1 Platonismo
a due fiumi che
risalgono verso due
sorgenti diverse; e
meglio avrebber detto due
correnti distinte d' un medesimo fiume, le
quali, scorrendo, sempre
più si rimescolano e
conifondono per entro
a un medesimo
alveo. Nelr Aristotelismo
quindi ci è il Platonismo,
o meglio ci *
E9$ai de Ifitaph,
d' ÀrUt, Tom.
I, Introd. p. Y.
è germi
di due maniere
di Platonismo, legittimo
e spurio. Il Platonismo
spurio in sostanza
è Arabismo; e la
cagion prossima, X
origine immediata di
esso non risale già
alla dottrina platonica,
come altri ha
creduto cogliendo a frullo
qualche sentenza qua
e là sparsa ne' dialoghi del
filosofo ateniese; ma
risale al medesimo Aristotele; e ciò
per due diverse
ragioni. La prima delle
quali, come ha
osservato un illustre
storiografo,* si radica nell'opposizione che
lo Stagirita ingaggiò
contro il maestro; e
questa, più che
cagione, noi diremmo sia
stata occasione, incentivo
alla dottrina averroistica. La seconda
poi vuoisi riferire,
come toccammo, all'indeterminatezza e ambiguità
della stessa dottrina
aristotelica su l'intelletto; tant' è
vero che Alessandro d'
Afrodisea, intendendolo in
parte sotto l'aspetto
empirico, potrebbe aver fatto
più sdrucciola, per
parte sua, la strada
all'Averroismo.' Se dunque
tale è l'Aristotelismo di fronte
al Platonismo, si può dire
che, ove altri pigliasse a
far una storia
compiuta del primo
conforme al criterio che
noi diciamo, farebbe
anche la storia del
secondo, cioè del
Platonismo vero, del
Platonismo legittimo,
appunto perchè nell'uno
e' è, anche 1'
altro, ma corretto, o
a dir meglio,
compiuto per più
d'un rispetto.' Ora che i tre indirizzi
non siano per
avventura tre fantasie del
nostro cervello, potrebb'
apparir manifesto dalle sentenze
diverse che noi
potremmo agevolmente venir adunando
nel medesimo Aristotele,
se potessimo, anche a
far bella mostra
di peregrina ma
non difficile erudizione, ingolfarci
in esami di
esegesi minuta e particoleggiata, e
se il Rosmini
non avesse già,
meglio che * Renan,
Averrhoé» et VAverr.^
pag. 42. * Ravaisson,
Bonghi parlando della
metafisica d'Aristotele osserva,
c^ tutti qtianti %
»Ì9temi fino a
Carteno ei »%
»ono tpecehiati dentro^
e ci hanno jwù
o meno riconoeciuto
il proprio vieo,
(Lett. al Rosm.,
Trad. della Metaf.i).
Nourisson dice fino
a Leibnitz. {Tabi,
de» progrU, ec., 2*
ediz, 1S59 nella
Condu$,) Perchè non
dire fino ad
Hegel addirittura? ogn' altri,
posto in sodo
con maniera davvero
magistrale r esistenza nello
Stagirita de' due
primi indirizzi. Ma una
prova più chiara
potrebbe averla chi
guardasse al modo con
che sonosi venute
svolgendo e diramando e
poi intricando e
vie più ravviluppando
fra loro le varie
scuole aristoteUche non
solo per tutte
quelle dieci età che
il nostro Patrizi
distingue nella storia
degli esegeti aristotelici, ma
eziandio per tutto
il periodo che corre
dall' epoca del
Rinascimento fino agli
ultimi critici tedeschi hegeUani
e non hegeliani,
Michelet, Pranti, Zeller, Trendelenburg. Da
Teofrasto, per eserapio,
a Stratone di
Lampsaco incomincia a
prevalere di già r
indirizzo naturale, pigliando
forma sempre più empirica
di guisa che
si potrebbe dire
non v'essere stacco assoluto
fra questo indirizzo
aristotehco, e quelle scuole
che vi tenner
dietro, segnatamente l'Epicurea e
la Stoica.* 11
Nominalismo del medioevo
che SERBATI più
acconciamente appellerebbe Bealisfno
aristotelico, nonché il naturalismo
d'alcuni peripatetici, ci
palesano anch' essi
l' indirizzo empirico. ' I
Positivisti, finalmente, credono
anch' essi oggidì potersi
agganciare allo Stagirita,
ne in verità avrebbero gran
torto se troppo
facilmente non dimenticassero come accanto
all'Aristotele positivista ci sia
un Aristotele filosofo
anzi metafisico propriamente
detto. D'altra parte, il
Neoplatonismo e più
l'interminabile serie dei commentatori
arabi o arabeggianti
che smarrivansi in
quella grossolana forma
di panteismo ])sicologico
annidatasi nella dottrina
dell'intelletto agente così balordamente
interpretata in Aristotele,
non ci palesano schiettissimo
l'indirizzo iperpsicologico?
Fra questi estremi
quanto evidente nella
storia al[Ravaisson. SERBATI,
ArUu eiip. ed
etam.y Introd. Roussblot,
Étud^ tvr la Phil.
dan» le moì/en
àgef l» Saint-RinÌ Taillak> DntB» Seot
Erigene et la
Phil, Seolwtt., CousiN,
Fragni, de PkiU du
fnoyen Age, [trettanto necessaria
in teoria è la posizione
mediana. Ella si studia
porre nn accordo
fra l'esigenza fondamentale del Platonismo,
e quella dell' Aristotelismo; fra
l'uniTersale in sé,
e Y universale
anche nel mondo.
Se non che è
facile vedere come
questa posizione abbia
a rendere immagine, diremmo
quasi, del ferro
magnetico il quale senza
posa oscilla fra
mezzo al polo
positivo e al polo
negativo. Tale davvero
è l' indirizzo medio,
un ferro magnetico: per
cui non è
impresa agevole stabilire, per esempio,
se certi realisti
e certi nominalisti dell' evo
medio, de' quali
il Rosmini con l'
usata pazientissima industria andò
scovando più e
diverse famiglie, sLin da
dichiararsi aristotelici meglio
che platonici. L' indirizzo
medio nelle dottrine
filosofiche, massime
parlando di Platonismo
e d' Aristotelismo avvisati
nel loro svolgimento istorico,
spicca per questo
contrassegno: d' esser la
molla maestra, per
così dire, del
progresso nello sviluppo del
pensiero speculativo. Or
s'egli è tale, non
debb' esser rappresentato
da que' filosofi
che Pretendono alcuni storici
ctie il nominalismo non
dlfForìsca punto dal Concettualismo (per
es. il Cocsin,
(Euvres cT Abelardo Introd., in
ciò confutato meritamente
da SERBATI, Atìm, ec.)
Meno a?7entato degli
altri il Roverotano
si contenta designare
il secondo com*
una gpecie del primo.
E sia pure.
Ma se fra
Tun sistema e
T altro non
fosse alcun diyario, dovremmo
porre in un
fascio, non diciamo
con quanta verità, i
nomi di Roscellino,
di Guglielmo di
Champeaux e d'Abelardo? Per noi
la differenza delle
tre direzioni filosofiche
medievali è precisamente quella che
esiste fra le tre posizioni
dell' universale rispetto
alle cose: ante rem,
in re, poH
rem. Non dico
già che tra
Nominalismo e Concettualismo corra quel
medesimo divario che
pur troppo intercede
fra essi presi insieme,
e quella specie
di Realismo per
cui si distingue, 'per es., Anselmo
d* Aosta. Ma
la differenza è
pur evidente, essendoci
differenza, parmi, tra V
ammettere e 'I
negare Vunivenalenel concetto.
Checche se ne dica,
la scuola di
Roscellino è nominale
pura. Quella di
Guglielmo di Champeaux è schiettamente realista.
Ma un barlume
di vero progresso nella scolastica
traluce nel concettualismo. Esso
ci rappresenta, almeno compera possibile
in quell'età e
in quelle condizioni
della scienza, l'indirizzo aristotelico medio.
Il Concettualismo è
tanto superiore al
Nominalismo, quanto Io spirito
all'esperienza, -le idee
ai fatti, il
senso al pensiero. Il
Rimuaat e il
Nouritaon han saputo
rilevare a meraviglia
i meriti di questo
indirizzo nel periodo
scolastico. (Abìlakd, Tahleaux
de» progrì») la critica
non radamente finisce
per battezzare con
titoli diversi e disparati
e talvolta anche
opposti, non altrimenti che gli
zoologisti adoperano riguardo
a certe specie zoologiche
le quali, in
via di formazione
specifica, non possiedon per
anche caratteri netti,
spiccati e ben determinati?
Tal si è
agli occhi nostri,
per dire un esempio,
Afrodisio; il quale,
tuttoché meritasse titolo di
secondo Aristotele, ninno
però vorrà dichiarare schietto
aristotelico. S'egli infatti,
combatte la dottrina atomistica
degli Epicurei nonché
quella delle forme seminali
degli Stoici, é
questa una buona ragione
perché non sia
detto seguace dell'
indirizzo aristotelico
empirico. E, inoltre,
se contro Avveroé
piglia a corregger la
dottrina dell' intelletto
possibile, ciò dimostra com'
ei non sia
nuli' afiatto un
iperpsicologista, e per la
stessa ragione non
é a confondersi
co' puri platonici. Che se,
finalmente, opponendosi allo
stesso Aristotele procaccia dimostrare
come la specie
anziché nell'individuo sia nel
pensiero, con ciò
si manifesta chiaramente seguace dell'indirizzo mediano.
L' Afrodisio dunque, se potessi
designarlo così, sarebbe
il concettualista per eccellenza
fra gli esegeti
ellenici, e quindi potrebbe rappresentarci l'antecedente
ideale del Concettualismo mediqevale. Egli
per primo nella
storia dell' Aristotelismo ci
esprime il bisogno
d' accordare le due opposte
direzioni aristoteliche, restando
egli stesso aristotelico, e però
non arabo, né
sensista. Si
potrebbe facilmente
dimostrare, se qui
fosse luogo, che
il medesimo indirizzo ci
esprime e la
medesima funzione esercita san
Tommaso nel medioevo;
talché nell'età medioevale AQUINO rappresenta ciò
che l' Afrodisio fra' primi
commentatori greci.* * Parlando
d’AQUINO BONGHI dice:
Quello che m'ha
fatto molto maravigliare, e
di cui non
mi $on reso
cofUo pienamentef come •'
accordi in tanti
luoghi coW A/roditeo^
tema perft citarlo
mai, ìé accordo ^
tale che non
pud ewer casuale.
(LeU. al Rosm.)
È vero, AQUINO non
conoscerà che di
nome rAfrodisio. Lo
conosceva per mezzo d’Averroé;
eppure tanto spesso
trovasi d'accordo con
lui neir inAltri
esempi più spiccati
potremmo averli nel Rinascimento;
esempi di filosofì
che a tutta
prima non paiono stare
né di qua
ne di là.
Tali per noi
sono, a dime questi,
PORZIO, ZABARELLA, LAGALLA, CASTELLANI; e non
esiteremmo annoverarvi anche
il Sessano, come quegli
che finì per
combatter l'Averroismo e dar
molto da pensare
a' seguaci dell'
indirizzo empirico fra' quali
in cima a
tutti siede il
Pomponazzi * Che
se il Patrizzi e più FICINO, fra
gli altri, si
palesano schietti
neoplatonici, cotesto lor
platonismo non va
certamente confuso con l'Arabismo.
Anche noi crediamo
che certi Platonici e
certi Peripatetici arabeggino
la lor parte, e
tanto s'assomiglino fra
loro quanto due
gocciole d'acqua. Ma perchè
pretendere porli in
un mazzo? La lor
mente muove da
sorgive diverse; così
che, interpretando a lor
modo Aristotele e
Platone, gli uni spesso
vaporano, come s' è
detto, in una
forma confusa di panteismo
psicologico, in mentre
che gli altri
svolazzano sì da restare
immersi e balordicci
in mezzo agli splendori
d' un misticismo il
quale se non
è panteismo poco ci
corre. Arabismo quindi
non è Platonismo; 0, se
si vuole, è
i) fiacco, è
il grossolano Platonismo venuto fuori,
come to^tommo, attraverso
la critica male interpretata
d' Aristotele contro
il suo maestro. Se
dunque la storia
dell'Aristotelismo è lì
pronta a mostrarci incarnate
nelle sue scuole
tre diverse tendenze, ciò
vorrà dire più
cose. Vuol dire
che queste tre
tendenze debbono esistere, ma
esistere come in
germe nelle dottrine e
nella mente stessa
del Caposcuola. Vuol dire terpretare il
JUo$ofo, che davvero
tale consenso non
può esser ccituale. Quale n'
è, dunque, la
ragione? BONGHI non
ne avrebbe fatto
le meraviglie se avesse
pensato eh* eran
tutt' e due
nel medesimo indirizzo,
nelr indirizzo aristotelico
mediOf per quante
possano esser le
differenze. Molti filosofi italiani,
che d'ordinario sono
mossi iu fascio
con POMPONAZZI 0 con gli
schietti averroisti ovvero
co' puri platonici
(come appunto NIFO) a
noi paion seguaci
più o mono
spiccati dell'indirizzo
medio, quando siano
interpretati con benignità
di giudizio, e
senza le traveggole d'una
critica sistematica. ch'elle hann'a
distinguersi e sdoppiarsi
e correre il
palio del processo istorico.
E vuol dire,
perciò, che a
questo ior successivo distinguersi
ha da presiedere
una legge di progresso
che per passi
lenti, ma sicuri,
valga a ricondurre r
analisi alla verità
della sua sintesi
primitiva. Aristotelismo e
Platonismo, ripetiamolo, non
sono a dir proprio
due filosofie; né
sono due serie
di filosofi gli Aristotelici
veri ed i veri Platonici.
Sono ben due filosofie
que’due commenti così
opposti fra loro
e contrari, che, fondandosi
in un concetto
b empiricamente naturale o
esageratamente
iperpsicologico del pensièro, vennero fabbricandosi
col succedersi de'
secoli, con l'incalzarsi de' filosofi,
e con 1'
avvicendarsi delle scuole. Non
seguiremo perciò, a
questo proposito, la
sentenza del Buhle, del
Bitter, del Renan
tb d' altri
storici che altro divario
non sanno scorgere,
fra' peripatetici del Rinascimento, se
non quello eh'
è possibile riconoscere fra' commentatori
d' un medesimo caposcuola.
Come confonder ACHILLINI con PORZIO?
e PORZIO con NIFO?
e NIFO con ZABARELLA e
con GONTARINI? e tutti questi
con ZIMARA e
con altri di
simil tenore? Il criterio
innanzi stabilito ci
può far comprendere perchè mai
tutti quelli che
han sempre sospirato
un accordo fra l' uno
e l' altro sistema,
risentano piii dell' indirizzo platonico
anziché dell' aristotelico;
e perchè accanto a BESSARIONE, a PICO
Mirandolano, al citato
Gontarini, al MAZZONI,
e a tutti
gli altri che
credono toccar col dito
il vagheggiato accordo,
non manchino i
Donato, i Folieta. i
Buratella che reputino
pazzia cosiflFatto accordo. I
primi ci dimostrandoci
fatto che nell'Ari[Una
prora estrinseca che
fra il Platonismo
e l’Aristotelismo primitivi
non V*
è, masdme in
certi ponti di
metafisica, divario sostanziale, potrebb* esser
tolta dalla maniera
ond' Aristotele conduce
la crìtica inverso alla
fllosofia del sno
maestro. Lo Scbleiermacher Tha
chiamata critica da maestro
di scuola: e,
per alcuni rispetti,
non a torto.
Zeller infatti ha mostrato
ad evidenza come
il discepolo stiracchi
non di rado il
maestro per meglio
abbatterlo. Ved. Op. cìt.
trad. da BONGHI
specialmente nel Cap. iV. stotelismo c'è il Platonismo,
e però l'indirizzo
medio; i secondi poi
che nello Stagirita
ci ha i
germi delle altre opposte
e contrarie direzioni.
Un accordo è
possibile; ma non fatto
a maniera ^meccanica
e per sovrapposizione, come si
pensano certi viventi
neoplatonici col trasferire all'un
filosofo ciò che
si crede faccia
difetto all' altro, e
dando per esempio
ad Aristotele l' idea
platonica, e a Platone
il concetto della
Juva^c? o della ytvevii
aristotelica. Il discepolo
ha pur egli
la sua idea, cgme
al maestro non
manca la virtù
del fatto e il
valore dell'esperienza. L'accordo
quindi è opera
della storia; ed è
r opera travagliosa
della critica rintegratrice. La quale,
rotondando le sporgenze
e ammorbidendo le angolosità
che pur troppo
si lasciano scorger
ne' due filosofi, li modifica,
li rimpasta, li
trasfonde 1' uno
nelr altro e
li trasfigura siffattamente
che ci scompaian dagli occhi
Aristotele e Platone,
senza che perciò
abbia a scomparire ed
estinguersi quell'eterna e
vivace esigenza cui levossi
il pensiero indoeuropeo
fin da' primi momenti della
sua riflessione speculativa
e metafisica. Ripetiamolo anche
qui. Il risultamento
finale dell'Aristotelismo e del
Platonismo non è
già il trionfo dell'uno su
l'altro, od al
contrario. È il
trionfo d'entrambi, per una
ragione altrove rammentata
a proposito delle due
moderne filosofie. E que'
critici che tanto sudano
e s' arrovellano
a mettere in
trono vuoi un Aristotele
passato attraverso i
lambicchi d'una critica infedele ed
eunuca, vuoi un
Platone rimpannucciato co' cenci d'un
troppo vieto tradizionalismo, negano, senz'
addarsene, la storia.
Negano la storia,
perchè disconoscono gran parte
del lavoro storico
già compiutosi per opera
degli esegeti ellenici,
arabi, alessandrini, latini, italiani
del Risorgimento. Reca marayiglia
davvero il pensare
come in questa
maniera di critica incappino perfino,
parlando d'Aristotele^ gli
hegeliani più assennati
quando affermano, per esempio,
che aìVidea topra
le cose di
PlaUme AnstoteU SOSTITUÌ Videa
delle coae^ o
la forma. Basterebbe
già la parola
909Htu\ a far cangiare
ftsonomia, non pure
airAristotelismo e al
Platonismo, ma a
tutta Premesse queste considerazioni generali,
veniamo alla quistione psicologica.
U problema psicologico
al quale si connette
ogn' altro, è quello
che risguarda la relazione
fra V anima
e '1 corpo.
Se cotesta relazione interviene fra
mosso e movente,
per usare l' antico
linguaggio, s'ha l'indirizzo platonico;
il quale j>wò
trovar riscontro con la
posizione iperpsicologica della
esegesi de' commentatori averroisti.
Se è relazione
di potenza e Aleuto,
pigliando l' atto come
determinazione o semplice la
storia della scienza.
B tal si
è infatti il
linguaggio tenuto nella
ìot critica da Hegel,
dal Michelet, dal
Franti, dallo Zeller,
ne' quali attingono ispirazione i
nostri hegeliani. Ma
dicendo che Aristotele
sostituì oc, non sembra
che lo Stagìrita
abbia inteso di
negare addirittura V
idea platonica? Giacché a
poter sostituire bisogna
innanzi negare; e per mettere qualcosa, è
d^uopo averne levato
qualche altra. Ora
il vero si
è che Aristotele, oltre la
specie come predicabile,
il che costituisce
proprio la novità sua
di rimpetto a
Platone, riconosce altresì
la specie separata^
la specie in sé,
là forma in
sé, spoglia di
materia. La qual
forma in sé (s
Zi poi aurvj
x^-^' aur^fv vj
uo^^tj) è altrettanto
chiara in Aristotele,'quanto la
forma mista alla
materia (ùtgjùti^jvvj (uterà
rrì; vItiq). lì divario
fra* due ftlosoft
perciò non risguarda
la prima, vo*
dir la specie per
eccellenza, ma si
la seconda, cioè
la cosa contenente
la specie. Di che
si vede
come per lo
Stagirita, oltre l'insieme
de' due elementi (to au voXov) ci
sia ben altro
ancora. Al di
là del to' slSoz sv
fn uXv), infatti,
vi ha l'essere, vi
ha la ragion
delle cose, tÒ
tìSo;, (Ved. Metaph.).
Intanto, che cosa ti
fanno i critici
hegeliani ? Essi
pigliano quel che
loro toma comodo. Pigliano
il to' oùvoXov,
e il resto
considerano come un
caput mortnumj o sentenziano:
Ècco qua il
vero Aristotele! Che
sia l'Aristotele del loro
cervello, è chiaro,
né vi cape
ombra di dubbio.
Che sia l'Aristotele che ci
porge la storia,
lo neghiamo risolutamente; né ci mancherebbe modo a
darne dimostrazione, se
questo fosse il
luogo. Si dirà che
quel caput mortuum
sia come il
Deus ex machina
dì Cartesio? una contraddizione? Innanzi
tutto potrebbe stare
ch'ella non fosse
tale: e tale infatti
non la reputarono
i nostri vecchi
critici del Rinascimento,
né tale è creduta
oggi da' massimi
e più severi
interpreti moderni, qual è
Trendelenburg in Germania,
SERBATI in ITALIA,
Ravaisson e B.
SaintHilaire in Francia.
Checché ne sia,
la critica seria
e feconda starebbe appunto nel
levar di mezzo
la contraddizione, ma
senza negare nò radiare
in Aristotele l'esigenza
platonica; se no,
risicheremo d'incespicare
nel solito scoglio,
quello cioè di
far la storia
zoppicando, e far
camminare la macchina con
una sola ruota.
Nessuno de' quattro
critici poco fa rammentati,
fra' moderni, e
neanche fra gli
antichi il nostro
Simone Porzio per esempio,
avrebbero detto, né
dicono, sostituì. Avrebbero
dette aggiunse, a/mpìè, eon-ewT,
iiirern, t' simili. modificazione della
potenza, avrai la
posizione empirica
dell'Aristotelismo, il cui
rappresentante più logico,
più originale nell' età
del risorgimento dicemmo
essere il Pomponaccio. Se
cotest' attinenza, per ultimo,
è quella di forma
e di matefia,
ma intesa in
maniera che la
prima tuttoché rampolli dalla
seconda non però
sia come assorbita da
questa e ne
dipenda in modo
assoluto, ma anzi
la superi, la informi
di sé e
basti ad alimentarsi
di sé medesima; in
tal caso avremo
una terza posizione,
la cui esigenza é
pur manifesta in
Aristotele, e nella
quale pone radice la
soluzione più acconcia
del problema psicologico. L' indirizzo iperpsicólogico, nome
che d' ordinario scambiasi con
l'altro di platonico,
ha natura deduttiva, e
costituisce il metodo
degli spiritualisti di
tutt' i tempi: nelle
cui mani la
psicologia assorbe siifattamente la fisiologia,
da ridurla alle
umili condizioni di sem.plice appendice
della prima. L'indirizzo
aristotelico empirico ha natura
puramente induttiva; ed
é il metodo de'mateiialisti d'ogni
età, nonché di
certi moderni biologisti e
positivisti, agli occhi
de' quali la scienza dell'
anima é com'
un' ultima pagina,
una modesta appendice della fisiologia,
ovvero una specie
d'enumerazione, come direbbe Hegel,
di ciò che
é l'anima, di ciò
che in lei
avviene, di ciò
eh' ella opera.
* L' indirizzo medio, finalmente,
facendo giusta parte
e ragione tanto alla
psicologia quant' alla
fisiologia, interpreta il rapporto
fra la potenza
e l' atto col
sussidio del metodo genetico; e
così giugno a
salvare ad un'
ora medesima i diritti
dello spirito e
quelli della materia. A
siffatto risultamento ci
mena la critica
e la storia delle
differenti soluzioni date
a quest' arduo
problema. Rifacciamoci
brevemente dal Platonismo. Il concetto
psicologico del gran
figliuolo d' Aristone, se
é parso profondo
a molti in
quanto che mira,
come direbbe Cousin, a
congiugner la natura
intelligibile * Phil, de
VEnprit, trad. VERA, con
la materiale maritando
due mondi opposti
nell'anima razionale e sensitiva [cf. Grice, The power structure of
the soul], pur nullameno
e' riesce manchevolissimo
chi pensi come
anima e corpo
al filosofo d’Atene
s’affacciassero dislegati, scissi,
e solamente appaiati così
fra loro com'
il nocchiero col
suo naviglio.* Nessun vincolo
secreto, adunque, nessun
nodo, né ombra di
processo nelle funzioni
psicologiche pel padre
del Platonismo.' Di qua
proviene che per
lui la mente,
vivendo d' una vita superiore,
non abbisogna, a
dir proprio, di pareli^;
il pensiero essendo
già per sé
stesso un discorso con
sé medesimo: Sto^UyaSat^
Perciò stesso una divisione
razionale e organica
degli atti psicologici teoretici nella
dottrina platonica è
impossibile: laonde quant'
all' essenza propria
e specificante l' anima,
piuttosto che generarsi, si
compone; o, come
osserva acconciamente un acuto
scrittore, si raccozza,
non si esplica.® Il
concetto psicologico dunque
del primitivo Platonismo é
tanto incompiuto, quanto
incompiuto si palesa quello
della sua cosmologia,
nonché l' altro delle
relazioni fra il mondo
e gli etemi
paradigmi. Il processo psicologico
é assai meglio
determinato neir
Aristotelismo. Ed é
tale in grazia
della dottrina dell'entelechia,
e della
relazione fra la
materia e la
L' anima uriiana
è formata alla
stessa maniera dell*
anima del mondo. {Tim.,
trad. Coubin) È qualcosa
d' intermedio fra il
mondo sensibile e
V idea. (Zeller,
Eapo»tx. arìatotelica della
jUoBofia platonica) * Di
qui la celebre
definizione dell* uomo
alla quale han
fatto e fauno buon
viso tutti gli
spiritualisti: Avro^f tu
toO» (Tw^aro; OLpy^ov (àjÀo'koyTntTafisv «vO^owttov
govai etc. Ved.
nel Primo Alcib.f
51. • Chaigkbt, De
la Paycologie de
Platon^ Paris, Ved.
nel Soph,, trad.
del Cousin, La
classazione accennata nella
Repub. si riferisce agli atti
morali; e lo
stesso può dirsi
dell'altra simboleggiata nel
mito poetico del Fedro.
Solo nel Teeteto
havvi un principio
di divisione teoretica delle funzioni
psicologiche, ma anche
questa manchevole. • BONQHI,
Storia del concetto
deWAnipia neUe varie
scuole antiche e del
medio-evot, nei Saggi
di FU, Civile^
Genova' Arist., 2)« i4»., :
W\j'/ri sanv «vtc>«x***
**^/'**'''*' arà^y.roc yuTtprou Sovy.jjLH
Zwvj'v j^^ovto?. forma. Tale
anche dove si
rifletta al valore
che Aristotele porge al
senso come rappresentazione com' elemento essenziale del
pensiero,* nonché all'ufficio
eh' egli attribuisce all'immaginazione (>3stxaT«a) come
facoltà mediana fra senso
e ragione;* anticipando
così la dottrina su
la relazione che
il Kant stabilì
fra questa facoltà e
le altre due
estreme funzioni dello
spirito. Con queste idee
fondamentali, checche ne
dicano coloro che
col B. Saint-Hilaire non
rifiniscono d'incelare la
psicologia platonica,"
Aristotele creò la
psicologia come scienza indipendente dalla
biologìa, gettando insieme
le basi della zoopsicologia
che, nelle mani
segnatamente del Darwin e
dell' Agassiz, oggi comincia
ad assumere dignità e
significato razionale. Ecco
dunque uno degli esplicamenti, una
delle correzioni dell'Aristotelismo verso il
Platonismo neU' àmbito
delle ricerche psicologiche. Nel Timeo
Platone riguarda l'animo
qual moto originario e
spontaneo fàuToxtv»Toc); Aristotele,
meglio avvisandosi, estende siffattamente
cotal virtii da
riferirla altresì all' animale.^
E questo, senza
dubbio, fu un
passo gigantesco. Ma se nel
filosofo di Stagira
vi ha passi
cCoro ad ogni pie
sospinto, non per
questo vi manca
la scòria. La sua
psicologia, come quella
del suo maestro,
è manchevole ; ed
è manchevole, perchè
riesce tale altresì
la costituzione della sua
cosmologia. Il sistema
dell'universo per lui è
quasi una catena
di cui gli
anelli principali ' rappresentati
dalla forma e
dalla materia, dalla potenza
e dall'atto (5uvx/:xtc
ed ivtpyéia), si
ripetono, s' ingradano e moltiplicano
viepiù col distendersi
di essa. * Akist.,
Ve An.f lib.
I, cai). L ^
* Idem.
Ta y.iv ovv
e*trìvì rò vokjtcxov
«v toìc (por.vróÌ9fia9t voti. De
An., B. SAnrr-HiLAiRK, Tmité
de VAme^ Introd. *
Abist., Melaph. X. *
Intendiamo accennare a*
due princìpii intemi
che per Aristotele costituiscon r essere
e sono anzi
Tessere; a differenza
degli altri 4no ntemi
che ne costituiscono
i Jimiti. (Meutph. ) È
una scala in
cui per moto
continuo, dallo stato
di sonno e di
stupore, la potenza
s'aderge al più
alto grado dell'attività pura.
In cotesta relazione
trovasi precisamente la materia
corporea di fronte
agli esseri vegetabili e
sensitivi; il vegetabile
e '1 sensitivo
rimpetto all'essere
intellettivo; e T intellettivo inverso
agi' intelligibili.' Ma in che
risied'egli cotal passaggio?
Tutto ciò che agisce
non può non
essere un ente
in atto, cioè la
specie che operando
sopra un ente
potenziale vien così traendolo
dal nulla.' La
forma dunque che
germoglia dalla materia è
davvero il passo
d^oro nella cosmologia aristotelica;
come il passaggio
empirico e al tutto
materiale e puramente
generativo dall' uno all'
altro, n' è
la parte inaccettabile
ed erronea. La potenza
non movesi da
sé per intima
energia, ma solo in
virtii del movente,
della forma. Il
potenziale, in una parola,
non giugne all'attualità, salvo
che per mozione d'un
attuale.* Or com'è
possibile che la
potènza riesca anteriore all'atto,
se in realtà
è sempre un atto
quello che ha da movere
il termine correlativo
? Che se l'atto
è antecedente alla
potenza e la
precede altresì di tempo;
^ non è
egli chiaro che
cotesta potenza abbia a
riescire affatto vuota
e sterile e
infeconda, posto eh' ella
abbisogni sempre d' un
atto che la
tragga ad atto? • Ma c'è di
più. Se l'originalità
d'Aristotele risiede neir aver
visto l' elemento formale
intrhisecarsi col materiale ;
e la forma
in quanto reale
costituire perciò la sostanza
(ouVJa); e questa
esser non altro
che processo. V? fuo-c;,
wTTff rin trvvtyjia
XavOoévscv to' TtsBóptov
aur&ìv xat tÒ ^ttjoy
wOTi/Owv ««TTt'v. Hi»U Anim.f
Vili. Arist., Metaph., De Oenerat.
Aninu. O
ffTTÌv VI xcv)}(7(;
«V Tw xtv>jTw,
Stj'koy' i'»Ts\éyr^siwc, 7ivj(T5a£
rt): la parte
fiacca di sua dottrina,
invece sta nell'aver
posto, com'ho toccato, medesimezza di
natura, fra le
due supreme determinazioni degli enti
nell'ordine delle sensate
realtà, onde poi accade
che rimanga difettosa
tutta la cosmologia.
La potenza avvisata in
sé medesima è
Sivafii^, In quanto fluisce verso
l'atto è tvspysia.
In quant'è atto,
stato, riposo, stasi, è
5VT«>ex«ta. In quanto
poi transigi ad atto
novello ripiglia valore
d' Bvspyùv., e così
di seguito. Il moto
(KlvYiTit:), il conato^
come direbbe il
Leiljnitz, il conato 0
lo sforzo, come
direbbe il Vico,
costituisce l'essenza di tutti
questi tennini diversi;
in lui s'incentrano potenza ed
atto;* il perchè
formando fra loro continuità, compongono
un sol ente
capace di passare attraverso stati
o momenti in
sé stessi diversi
per intrinseca eccellenza. La
produzione si fa
sempre nella medesima specie,
ed all' univoco.
* Or se cotest'
appunto è la
natura del passaggio, non è
egli chiaro che le cose
devan liescire identiche nella sostanza?
Non é chiaro
che, ov' elle
progrediscano, cotesto lor progresso
altro non sarà
che trasformazione, ninno potendo
affermare che trasformarsi
vai progredire ? E s' é così,
a qual fine
e con che
ragioni mover critica al
maestro, nella cui
dottrina il mondo
non è che parvenza,
fenomeno, ombra vaniente
e passeggera? Nella dottrina
cosmologica aristotelica, dunque,
il pròcessus è
al tutto apparente.
Apparente e fallace
la spontaneità e r
intrinseca attuosità delle
forze. Né AQUINO ebbe torto
d' affermare, contro gli
arabeggianti dell'età sua i
quali così appunto
interpretavano Aristotele,
che una
forma sostanziale novella
mai non appare, *
"iÌTxs \sins70n TO
'key^Biv slvxc xat
ivépystav xat fivj 9*
ecyae, Metaph,, Mrtaph. ove
la vecchia non
isparisca; e che
la generazione, concepita qual
moto continuo e
come incessabile trasformazione d' un subbietto
identico, renda le
forme novelle affatto accessorie
e accidentali.' Se
quindi il genie possente d'Aristotele
seppe scorgere e
dimostrare una delle grandi
leggi della realtà,
vo' dir la
continuità tra forma e
materia (tò (ruv-^sf),
la relazione intima
fra la ^uvaj^xì; e
r £VTf>èX5*«» P^rò
il profoudo concetto
della £V5/>7sia; non però
giunse a vedere
quell'altra condizione, non meno
imprescindibile della prima,
la quale seguendo una
vecchia frase pitagorica
potremmo appellar legge ddV
intervallo {StitTTviiia), I medesimi
pregi e le
stesse manchevolezze nella sua
psicologia. L' uomo è tu
vo>ov: dunque è
materia e forma ad
un'ora medesima. L'anima
intellettiva, quindi, è atto.
E la potenza
di quest'atto? È
il senso.... Lasciando le
induzioni favorevoli che
si potrebbero fare circa
tal dottrina d'Aristotele
interpretando il concetto del
senso ch'ei chiama
generale, si potrebbe
domandare: in che sta
la relazione, e
qual' è mai
la natura del
passaggio fra' due -termini? Se
ci è continuità,
in che maniera il
senso può diventar
ragione, l'esteso inesteso, la
materia pensiero? Se
poi non v'.è
continuità (né ci può
essere una volta
eh' ei medesimo
invoca la mente dal
di fuora^), com'
è che alla
fin fine si
ritrovan, por cosi dire,
sovrapposte le tre
anime che sono
anch' elle forma e
materia, atto e
potenza? Trendelenburg e
Rosmini, fra gli
altri, han messo
a nudo, com'
è noto • Summa e fe
bene arvertire come
gli storiografi hegeliani, imbattendosi
in questa dottrina
Aristotelica, credano
scoprir le Indie
e vi s'aggancino
tenacemente, senz'addarsene ch'ei
s'agganciano, anziché al vero
e genuino Aristotele,
ad nn tronco
arabo ! E' non
s'accorgono come già
da sette secoli
siano stati mlnerati
da quel modesto fraticello che,
primo e meglio
d' ogn' altri, mise
a nudo le
magagne dell' Averroismo ove dimostra
Averroè peripatetiofn philotopJUm
depravatore Ved. Opusc. Contra
AverroytUy; e nella Somma
q. LXXIX. * Aribt.,
Or Gerterot, Anim.,
questo sconcio aristotelico.
L' un d' essi non
capisce in che maniera
lo Stagirita interrompesse
la serie preclara, e
però si studia
correggerlo facendo che
la mente in potenza
(tw Travra 7£vsf
cor*»;), ma anche potenza
del corpo (d^jv^im
tow jw/xaro;).' E
nello stesso metodo fu
poscia ormeggiato da
parecchi filosoh del Rinascimento: da
quelli segnatamente che
tra V anima e
'1 corpo introdussero
un' attinenza di
causalità reciproca, stante clie
la natura partorisca
la forma in
quanto é potenza anch'
ella, ma potenza
attuosa; e la
forma (juinci rigeneri e
ravvivi la materia
in quanto la
compie. Se non che
il Tomismo, scordando
spesso l'ottimo indirizzo d'Aristotele,
tìgge gli occhi
nella materia, e in
questa presume riporre
talora la ragione
e '1 principio dell' individualità. Errore
del quale secondo
alcuni storici tornerà sempre
vano il voler
difendere il dottore Angelico, quando
si consideri che
la materia, perchè
si ' Idem, eoci.,
XG: educitur e
potentia imtterice. Ved. ueirOp.
cit. del RAyAiSHUN,
porga qual principio
d'individuazione, ha pur
bisogno d'esser determinata, suggellata,
segnata: or da
che cosa mai può
esser ella improntata
sadvo che dalla
forma? ciò che formava
appunto il nòcciolo
della opposizione degli Scotisti.*
Del buon indirizzo
aristotelico inoltre si dimentica
san Tommaso dove,
rasentando l'aristotelismo
emJ)irico, si mostra
così titubante su
la verace natura del
senso, che la
potenza per lui
non è così piena
e così feconda
come pur domanderebbe
la produzione dell'atto; e
quindi sente necessità
di chieder sussidio a
un lume piovutoci
addosso non sai
dir come * Io
qui non intendo
propugnare la teorica
sa T indìvidnazione di san
Tommaso. Son anch'
io del parere
che gli Scotistl
non aressero poi tatt*
i torti neir
opporrisi, perchè davvero
non mancano sentenze nel Tomismo
che debbano andar
soggette ad una
critica severa. Ma
fa meraviglia il pensare
come non tutti
che ne han
parlato siansi dati
cura d' interpretare con benignità
siffatta dottrina; e più meraviglia
il vedere come r
abbian trattata male
anco i più
versati nella filosofia
scolastica e nello studio
deir Àquinate, qual*
ò, per esempio,
lo Jourdain che tanto
nel 1® quanto
nel 2* voi. Dell’opera poco
fa citata, si
mette a sfatar l’Angelico
AQUINO (si veda) in modo poco
serio per le
contraddizioni nelle quali secondo
lui, cade 1*
autore della Somma,
e per V
inanUà con che
tratta siffatta questione. Si
dice e si
scrive che il
principio d* itulividwuione per TAquinate
stia nella materia;
e se davvero
fosse così, non s* avrebbe torto
a dargliene biasimo.
Ha, a voler
interpretare con dirittura
di giudizio la dottrina
tomistica, non è
proprio e sempre
la materia quella in
cui è da
riporsi tal principio,
slbbene ciò che
in un ente
ha ragione di primo
subbietto. Ecco le
parole deirAquinate: Ulud
qntodtenet rationem primi
tubieeti, est oausa
individuationie et divieionin
tpeciei in euppoeitis.
E qual' è
questo primo «ubbietto
t Est id
quod in alio
recipi non potesL Or
le forme separate,
per ciò che
non ponno esser
ricevute in altro, hanno
ragion di primo
subbietto; però s'individuano; e
però In et« tot
»unt epeeies, quot
eunt individua, (Ved.
De nat. materia,
e 8.) Or la
materia è ella
principio di distinzione?
Si, certo: ma
in quanto e sin
dove ha
funzione di primo
subbietto. Nella dottrina
tomistica, dunque, il principio
d' individuazione non sarebbe
nò la forma
né la materia,
ma or l'una or
l'altra secondo che
quella o questa
esercita funzione di primo
subbietto. So che
i dubbi non
per questo si
diradano, né gli oppositori
cessano. Ma io,
ripeto, non difendo
in tutto tal
dottrina, sibbene chiarisco
la interpretazione da
darsene, e la
critica da fame. Vedi in
proposito le lettere
dell' egregrio Aless.
Bbrntazzoli assai dotto
nella filosofia d’AQUINO: Di
un ulteriore e
definitivo esplicamenio ddla FlIoHofin /tcnlasttra
ec, Bologna, ISCl. né
perchè,* invocando così
un atto immediato
di creazione. Se l'anima
è forma, atto
puro, potrebbe esser generata
dal corpo? Non
potrebbe, risponde AQUINO: ciò
eh' è immateriale
è impossibile che
rampolli per via di
generazione; la quale
non è altro,
a dir proprio, che
trasformazione. Ma potrebb'
esser fatta della sostanza
divina? Tanto meno;
perchè questa non è
che un atto
purissimo.' Eccotelo dunque
anche lui all' intervento
del solito DetAS
ex machina; alla
necessità d' un atto peculiare
di creazione ex
niMlo, Or non vi
sarebb'egli altra via
al nascimento dell'anima
fuori di queste due,
generazione o creazione
estranea e divina? CJom'è
evidente l'A. della
Somma (non altrimenti che l'A.
della OUtà di
Dio risguardo a
Platone) eredita, co' grandi
pregi, anch' i difetti
della dottrina aristotelica. Il concetto
della individuahtà è
concetto capitale nella storia
della psicologia. È
propriamente la radice prima
onde pullula, chi
ben guardi, tutto
il pensiero moderno filosofico,
politico, religioso. La
teorica della individuazione, perciò,
è l' addentellato più
acconcio per cui, nella
storia delle soluzioni
riguardanti il problema psicologico, il
medioevo, segnatamente il
Tomismo, si congiugne con l'
età e
co' filosofi del
Rinascimento. Non ostante i
pregi e i
meriti grandi che
l'Aquinate può vantare verso
l'Aristotelismo e più
verso il Platonismo, la sua
dottrina doveva esser
corretta mostrando che il
principio d' individuazione non
istà, a dir
proprio, nella forma, né
tampoco nella materia,
ovvero nell'una o nell'altra
secondo la ragione
del primo suòbietto.
Meglio ponendo il problema
psicologico si dovea
mostrare che 1' anima
è individuale non
perchè informi una
materia, ma sì perchè,
materia ella medesima,
diventa forma; perchè l' anima
si fa coscienza;
perchè la coscienza
empirica attinge valore d'autocoscienza e di libero
pen[Summa, !• 2»,
CXI, art. 2:
impre9no divini luminii
in noòw, refidgentia
divincB cIoritoiM in
anima, • Summa] siero, nel
cui regno non
v' ha materia
e organismo che lo
spirito non vinca
e sorpassi, né
fantasma o immagine eh'
ei non superi
e sottoponga a
sé stesso. Ora produrre,
o almeno compiere
cotal dimostrazione in maniera
positiva ponendola sotto
novelli punti di luce,
non era possibile
senz' il concetto
della storicità, essendoché appunto
in seno alla specie,
in seno al comune
e alla
moltiplicità appaia e si determini
e spicchi vie più la nota
della differenza, tuttoché
cotal differenza germogli nelP
individuo, e sempre
per natia virtù
dell' individuo. A tal'
opera spiegarono grand'
efficacia innanzi tutto i
nostri filosofi del
Risorgimento. Altrove
mostreremo come in
tal' epoca si
riproduca il medesimo triplice indirizzo
della scolastica, ma con esigenza
ben diversa, perché la
storia è tale
artefice che mai
non ricopia sé stessa.
Qui notiamo solamente
che nel medioevo le
tre tendenze aristoteliche, le
quali abbiamo appellato iperpsicólogica, empirica
e media, riproducono nel Risorgimento
l'esigenza del Realismo,
del Nominalismo e del
Concettualismo, ma trasformandola. Se per
queste tre scuole
la ricerca filosofica
versava su la natura
dell' universale dapprima,
e poi, massime
con r Aquinate AQUINO, su
la natura del
medesimo universale ma in
relazione col particolare
(principio d' individuazione);
per i
filosofi del Rinascimento,
in vece, ella
risguardava in modo precfpuo
la natura intellettiva
dell'anima, nonché il rapporto
fra il pensiero
e l'organismo. Essi
modificano profondamente
tanto il Platonismo
quanto l' Aristotelismo;
così che
alcuni, specie quelli
che rappresentano r indirizzo
medio, non intendono
ristringere l'intelletto nel puro
senso, ma lo
allargano si che, 'ricollegando il problema
psicologico al problema
cosmologico, si sforzano di
rannodar l'anima in
quanto intelligente con la
natura in quanto
intelligibile.* * Noi avremmo
buono in mano
a dimostrare, se
qai fosse luogo,
che r indirizzo medio
aristotelico nel Rinascimento
fa rappresentato, sebbene in
maniera incerta e
assai confusa come
portava il carattere
di quelIl Rinascimento
apparecchiava la moderna
psicologia, ma non la
costituiva. E non
la costituiva perchè il
problema psicologico non
può ricevere acconcia
soluzione quando sia troppo
confinato nelle pure
indagini psicologiche.
V'era, per esempio,
chi studiavasi di pro* vare
V immortalità dello
spirito e chiarire
le ragioni e i
modi ond' il
pensiero nel suo
operare s' addimostra indipendente dal
corpo. E v'
era poi chi facevasi ad invocare
il sussidio de' soliti
influssi divini come
fanno anc'oggi, a tre
e quattro secoli
di distanza, i
nostri neoplatonici. Or io
non dirò che il problema
su' destini dello spirito
possa esser risoluto
così facilmente quant' altri
s' immagina. Dirò che
alla psicologia potrà dirivare qualche
sprazzo di luce
non già mostrando (inutile tentativo!)
che l'anima sia
indipendente dal corpo, ovvero
che Dio faccia
piovere il suo
influsso su r intelletto
arzigogolando in che
guisa lo irraggi,
lo il^ lumini
e lo riscaldi;
ma procedendo per
altra via; procedendo per una
via men soggetta
alle angustie dell'empirismo, 0
meno aperta alle
facili speculazioni dell' a priorismo.
Se Dio influisce,
comunque si voglia, su
l'anima, altro ei
non potrà fare
che modificarne
l'operazione: cangiarne la
natura non può
davvero. Che se, d' altra
parte, si giugno
a dimostrare l' indi-pendenza dal corpo,
non per questo
s' avrà dimostrato ch'ella sia
proprio immortale, se
pure non vogliamo r
età, da parecchi
filosofi; fra' quali
notiamo il Contarini,
PORZIO, ZABARELLA, VIO, SPINA
(si veda), SCAINO (si veda) fra gì'
interpreti, 0 anche SESSANO. Il
quale, nella forma
ultima da lui
data alla dottrina 8U
r anima, si
può dire che
si rannodi con AQUINO
e perciò anche
con TAfrodisio; onde BONGHI ha
detto benissimo affermando
che, nell' interpretare
Aristotile, il Sessano
segue appunto il
commontatore greco {Meta/, rf'Arwt.,
Leti, ed Roam.).
Questi ed altri
vecchi nostri filosofi andrebbero studiati,
interpretati, e naturalmente
anche corretti secondo il
criterio che abbiamo
appellajto medio. Specialmente
andrebbe studiato il povero
Nìfo cosi malconcio
e sfatato dal
nostro collega Fiorentino: al quale
il Franck, del
resto, ha saputo
dire che il
Sessano non pure fu
il piò, Maggio
metafisico del suo
tempo, ma, più
ancora, che il Pomponazzi
trovò appunto nel
Nifo un contraddittore imbarazzante,
e d'una grande autorità.
(Joum, dee
Sav. Magg. 1869.) acconciarci alla
celebre quanto inutile
distinzione del Pomponazzi dell'Io
fisico e dell'Io
intellettivo, e dell' anima
propriamente mortale e
impropriamente immortale! Al pili
potremmo giugnere a dir questo;
che r anima non
finisca così come
finisce il corpo,
cioè disgregandosi e trasformandosL. Ma
cotesta soluzione non è
affatto negativa? Tutt'
insieme dunque la
speculazione del Rinascimento, per quanto
riguarda il problema
psicologico, era piuttosto negazione
anziché affermazione: negazione
del medioevo, e apparecchio
a novelle affermazioni.
Neanche il Pomponaccio, il
più schietto seguace
dell' indirizzo aristoteUco naturale^
potrebb' esser detto materialista nello stretto
senso della parola.
Il significato vero del
suo libro su
la immortalità, diciamolo
di passata, è quello
di porre sott'
occhio, da una
parte, le magagne delle
viete dimostrazioni su
la natura, e
sul fine e su
r origine dell'
anima; e manifestare,
dall' altra, il bisogno
di prove
più salde, e però la
necessità in cui trovavasi
il pensiero filosofico
di tentare ben
altre soluzioni, e schiudersi
altre vie. Qual'
era una di queste vie? La
durata dello spirito,
come personalità, doveva esser
indagata nella medesima
essenza e costituzione intima del
pensiero. £ a
tal fine che
cos' era necessario? Era necessario
lo studio del
processo isterico; appunto perchè
l'intima costituzione del
pensiero si rivela da sé medesima
nello svolgimento della
vita dello spirito; e
la vita dello
spirito è appunto
la storia. In altre
parole: era necessario vedere
per via di
fatto, cioè col processo
storico, come l' essenza
dello spirito tutta nelP esser
egli un conato,
un'attività profonda che sempre
più si estrica
da'viluppi di natura
e di sé stesso;
che sempre più
si determina in sé, e si
compenetra con la
natura e con
sé medesimo; e come
per siffatta qualità
egli sia capace
di trascender la natura,
di sorpassare l'organismo,
di superare anche sé
medesimo, pur rimanendo
sempre una personalità. Ed eccoci
pervenuti alia conclusione
dove in questo capitolo desideravamo giugnere,
e per la
quale abbiam dovuto fare
sì lungo giro
da risalire fino
alla doppia sorgente storica
del concetto psicologico.
Se per più e
diverse ragioni ne
il Platonismo né
l'Aristotelismo primitivi
non pervennero, in
generale, a determinare
il vero concetto dello
spirito quantunque ne
apparecchiassero gli
elementi da secoli
molti, il che
non è poco;
se i due massimi
rappresentanti della filosofia
cristiana, tuttoché
introducessero due nuovi
concetti in siffatta
questione, non però giunsero
a salvarsi da
incongruenze manifeste; se, da
ultimo, cop lo
sdoppiarsi
dell'Aristotelismo nel
Risorgimento fu messa
a nudo la
fallacia delle vecchie posizioni, l'insufficienza d'im
argomentare fiacco e barcollante
esprimendoci così l'esigenza
di prove novelle in
siffatte indagini: è
chiaro come all'uscire del medio
evo importasse rannodare
i quattro concetti attorno a'
quali vennero travagliandosi per sì lunghi secoli
co' lor proseliti
i quattro filosofi
cui siamo venuti accennando, correggerli,
esplicarli, compierli, e
statuire una dottrina positiva
circa la genesi
psicologica. In altre parole:
importava accettar l'esigenza
psicologica platonica
risguardante il connubio
del doppio mondo sensato
e razionale: ma
occorreva anche correggerlo mercé il
concetto della triplicità
intima, originaria cui poggiò,
primo fra tut^i.
Agostino. Importava altresì
accettar r esigenza aristotelica
del processo psicologico,
e nel medesimo tempo
modificare profondamente e
trarre a maggior compimento
il concetto della
generazione psichica dello Stagirita
mercè il concetto
di creazione; il che
tentò fare, e
lo fece da
par suo, AQUINO (si veda): ma più
ancora importava correggere
il concetto creativo de'
Tomisti e de' filosofi
cristiani, in generale,
cancellando in esso queir
immediatezza divina eh'
è un dato
di fede anziché di
ragione, avvisandolo invece
com' essenzial condizione dello
spirito. Questo, possiamo
dire, si studiaron
di fare tutt'
insieme parecchi filosofi
italiani de| Rinascimento, o
per lo meno
ne sentivano la
necessità. ^ Nessuno vi
riesci compiutamente, per
la ragione qua ^ dietro
accennata, d' aver
voluto ristringer tale
ricerca ^^ negli angusti
confini della psicologia.
Ad essi mancava un
altro grande concetto.
Mancava un'altra posizione, per cui
si distingue infinitamente
il Rinascimento dal tempo
moderno. Mancava l'esigenza
di riguardare il pensiero
innanzi tutto come
genesi psicologica, e
questa genesi psicologica poi
considerare qual fondamento
immediato della genesi storica.
Però non è
da meravigliare se alla
scuola de' nostri
politici facesse difetto la
vera nozione del
diritto sopra cui
si puntella unicamente la
scienza politica, nonché
il concetto vero della
individualità, senza cui
non può sorgere
né perpetuarsi lo Stato
libero. Né fa
meraviglia se i
teologi assorbissero il gius
nella morale, e
se una riforma
religiosa allora non potesse
fra noi essere
effettuata nelr ordine
civile, comecché fosse
già in gran
parte penetrata nella mente
de' nostri filosofi. Mostrammo come
il Vico si
colleghi col Cartesianismo; e dicemmo
che co' nostri
filosofi del Risorgimento ei si
congiugne logicamente, più
che per le quistioni metafisiche, per
la ricerca psicologica.
In lui si
compie la posizione cartesiana,
e si riproducono
e ringiovaniscono i vecchi
principii improntati del
sentimento della viva realtà.
Vi é dunque
un' attinenza ideale,
vi é un legame
logico tra la
posizione di VICO, della Scienza Nuova, e
quella de' filosofi del
Risorgimento. Alla ricerca psicologica nuda,
astratta, empirica e
subbiettiva, deve tener dietro
necessariamente la ricerca
informata alla esigenza della
storicità. Ecco perchè
a ricostruire la storia
del pensiero italiano non
avremmo guari bisogno
né di Cartesio né
del Cartesianismo, se
non fosse per
alcune questioni
cosmologiche e ontologiche.
Egli si ricongiugne co' filosofi
del Rinascimento in
tre modi, come
nel prossimo capitolo mostreremo;
ma di più li trascende
infinitamente, perchè se è vero
che nel medio
evo il pensiero filosofico riponeva
l'essenza dello spirito,
a così dire, furori
di §è, mentre
nel Rinascimento, attraverso forme diverse,
inchinava a riporlo
sotto di se;
è naturale che, col
sentire la necessità
del processo istorico, novello sentiero
egli avesse a
dischiudersi, rintracciando
quell'essenza nel seno
stesso dello spirito
siccome centro e insieme
processo della storia.
Gli storici della
filosofia italiana,
ripetiamolo anche qui,
non potranno far a
meno, quando voglian
discoprire un vincolo
ideale fra le due
epoche, di questa
relazione alla quale
siamo venuti accennando, e
su la quale
ci rifaremo più
riposatamente in luogo più
acconcio. ORGANISMO E PROCESSO
PSICOLOGICO. {Fxmdamenio
razionale del processo
istorico.) I punti
sostanziali ne' quali
possiamo stringer la dottrina
psicologica, seguendo le
orme del nostro
filosofo, son questi: !• Concepire
in maniera compiuta
e vera la
natura della facoltà psichica
in generale. 2« Distinguere
nelle funzioni psicologiche
due processi, conoscitivo e
operativo, ma formanti
unico organismo, unico circolo. Riguardar gli
atti psicologici come
una moltiplicità di
funzioni distinte e
per sé stesse
irreducibili; ma nondimeno determinate
e recate in
atto dalla virtù d'
unico principio originario. Finalmente, porre
siccome base razionale
e immediata del processo
istorico lo stesso
processo psicologico. Col primo
di questi concetti
il nostro filosofo
si collega dirittamente
con Aristotele, e con gli
Aristotelici del
Rinascimento seguaci dell'
indirizzo medio; e nel
medesimo tempo corregge,
in ordine alla
psicologia, quel vecchio domma
del falso Aristotelismo
e del malinteso Platonismo che
suona così: niente
moversi da sé, che
non sia mosso.
Col secondo e
col terzo imprime forma
razionale e organica
alla scienza dello
spirito tanto contro Averroisti
e Neoplatonici che
troppo distaccano i due
elementi onde risulta
V ente umano,
quanto contro quegli Aristotelici
empirici che, troppo
affogando r uno neir
altro, finiscono per
confonder la sfera
della psicologia con quella
della biologia: ma,
sì nel primo come
nel secondo caso,
egli serba Y
esigenza psicologica
platonica che dicemmo
consistere nella distinzione
dei due elementi, nonché
V esigenza aristotelica
la quale riguarda il
processo nelle funzioni
psicologiche. CJon gli stessi
concetti onde corregge
nella quistione psicologica il Platonismo
e l'Aristotelismo, previene
l' esigenza del Criticismo intomo
al doppio ordine
della Ragion teoretica e
della Ragion pratica,
e insieme la
invera e la compie.
Col quarto concetto,
finalmente, imprime significato razionale e
positivo al fatto
storico, e crea
la Scienza Nuova. Innanzi tratto
intendiamoci sul metodo
acconcio a simili indagini. Tommaso Buckle
osserva che i filosofi,
parlando su la natura
dell'anima, non sanno
pigliar le mosse altro
che o dalle
sensazioni, o dalle
idee; riuscendo così, nell'un
modo e nell’altro,
ad un metodo
solitario, astratto, inefficace, inconcludente.* Sennonché
egli stesso, il Buckle,
non giugno a
salvarsi dal primo
difetto. 11 suo
metodo isterico, differente dal
deduttivo inverso raccomandato dal Mill,
é addirittura un
metodo empirico; onde inciampa
in quel sensismo
ch'egli condannando vorrebbe causare. Checché
ne sia, l'osservazione é
degna d'un * HUtory
of Civilization in
England]. positivista inglese; e
noi, pur correggendola, non
dubitiamo farla nostra. A
schivare infatti tanto
le conseguenze d'un gretto
empirismo, quanto le
arditezze d'un magro e
sfumante idealismo, è
forza movere non
dal fatto della sensazione,
eh' è cosa estrinseca
e quasi sopravvenuta allo spirito,
e nemmanco dalle
ideej le quali
in sostanza non sono,
per noi, fiiorchè
produzioni di lui; ma
da lui stesso;
dallo stesso spirito
in quanto pensiero. Bisogna movere,
in somma, dal
centro, anziché dalla circonferenza; dalle
facoltà, ma dalle
facoltà concepite quali sono
in realtà, cioè
come funzioni. A
tal uopo è necessario
adoperare un metodo
che non escluda,
ma che sappia includer
le esigenze di
tutt' i metodi; empirico, naturale, sperimentale,
psicologico astratto, fisiologico, e simili.
In una parola,
è necessario il
metodo genetico; il quale,
rispetto alla psicologia,
è ciò che il
metodo eduttivo è
rispetto all'ordine del
conoscere.' * Il metodo
col qnale i
Positiristi presamono di
far la scienza
psicolosrica è al
tutto empirico e
artificiale; ma qui
non intendo porre
in nn fascio psicologi
positÌYisti inglesi e
francesi, com*ha fatto
il Vacherot. {Betf. de»
Deux MondeSf die.)
Spencer, Mill e Bain
stimano che la psicologia
è superiore, indipendente dalla biologia,
precisamente come la
deduzione è indipendent-e
e superiore air induzione
pel Mill, e
come la Sociologia
è indipendente dalla
storia tanto pel Mill
quanto per lo
Spencer. I Francesi,
al contrario, facendo della
Psicologia una semplice appendice della
Biologia, non sanno
concepir r nna senza
1’altra. lì ri'y a
point de p9yeolog%e
en déhors de la
biologie. (LiTTRÉ, A.
Oomte et St.
Mill) Tale anche
è per la deduzione
rispetto air induzione,
la psicologia rispetto
alla storia, la Dinamica
rispetto alla Statica
Sociale. Sennonché, qualunque
ne sia la differenza,
le due scuole
intoppano in due
errori diversi; nel
formalismo empirico Tuna, e
nel materialismo Tal
tra: e così
entrambe rendono impossibile la scienza
della psiche. Rifacciamoci
brevemente dagP Inglesi. Qual
debb* essere, secondo
St. Mill, il
fine della psicologia?
Non altro che la
ricerca diretta delle
ntceeeeioni mentali, (Sjfét,
de Log,) E
quaV è la
legge più semplice,
più generale cui si riducono
i fenomeni psichici? Quella
àéiV anaoeiazione delle idee;
la grran legge
osserrata da Hume.
[La PhU. de
Hamilton) Innanzi tratto
si può osservare: La
legge dell’associazione è
legge empirica, e
quindi ò un fatto:
ma qual n'è
la ragione? Senza
questa ragione potreste
uscire dall'empirismo? st.
Mill non ispiega
cotesto fatto, ma 1’accetta dair
esperienza. Altro difetto gravissimo,
conseguenza del primo,
è questo; che Il
metodo genetico applicato
alla ricerca psicologica attinge valor
positivo e insieme
razionale, quando la legge
d* associazione nou
racchiude necessità psicologica
di sorta. È una
legge men che
empirica, e può
mancare. Dunque una
notizia scientifica circa la
natura psicologica, per
lui, è impossibile. Più ancora:
il prodotto ddV anaociaziowi
è un fatto
«t* generi»: egli
stesso ne conviene. {DUaertation and
DiicuMiona) Or bene,
come spiegare cotesto 9ui
generi» con la
pura legge d’associazione? Ci
ò qui rispondenza,
ci ò proporzione tra l’effetto e
la causa? Finalmente,
come spiegare con la
semplice associazione il
gran fatto della
coscienza f Bisognerà
dunque concludere che la
legge, la quale
St. Mill dice
esser la più
semplice e generale fra
tutte quelle d' ordine
psichico, importi qualche
altro fatto anteriore, 0
irreducibile. La psicologia
contemporanea inglese quindi
cade nel formalismo empirico.
E se riesce
a distinguer la
psicologia dalla biologia e
dalla storia (eh*
è il suo
pregio), non riesce
a trovare fra
V una e le
altro vincolo di
sorta. Tocchiamo ora
della scuola psicologica
de’ Positivisti francesi. Il
Littré riguarda la
psicologia qual semplice
appendice ed applicazione della biologia;
e vuol quindi
trattarla con metodo
analogo. Ma fa una
distinzione acuta e
ingegnosa di cui
giova tener conto,
perchè forma la sua
stessa condanna. Egli
pone un divario
profondo tra la facoltà
e il
suo prodotto. Logica,
ideologia, psicologia (egli
dice) non si distinguon
menomamente dalla biologia
quando siano avvisato
come funzioni; ma, guardate
nei lor prodotti,
se ne differenziano
in infinito. Parimente il
linguaggio, come facoltà,
è faccenda biologica;
ed ha la sua
ragione in una
delle circonvoluzioni anteriori
del tessuto cerebrale,
secondochè ci assicuran
oggi gli sperimenti
fisiologici: ma, come
grammatica, se ne discosta
per grand* intervallo,
o nou ci
ha che veder
niente con la biologia.
Che cosa rispondere?
Rispondiamo, troppo antica
e troppo vera esser
oggimai la sentenza
aristotelica, che tra
la natura della
causa e quella dell'
effetto non possa
esserci divario essenxiaie.
Or negli esempi quassù
arrecati il divario
essenziale e* è:
gli st>essi positivisti
non ardiscono dubitarne.
Come dunque spiegarlo
cotesto divario? È
egli possibile spiegarlo senza
riconoscer la differenza
fra le due
scienze non solo quant' a’ prodotti psicologici,
ma anche quant*alle
facoltà? Como funziono il
linguaggio non appartiene
egli anche al
quadrumane? Ora in forza
di che cosa
riesce tanto profondamente
diverso il risultato
nel bimane che ha
pur comune col
quadrumane la funzione?
Si dirà in
forza dell' unione, del
numero, dell* attrito
nella specie, nella
società? Ma non vivono
in società anche
alcune famiglie di
quadrumani? Eppure quella funzione non
ha dato, e
mai non darà
il risultato che
pur dovrebbe! Àncora: se
il prodotto fosse
tant^ diverso dalla
facoltà solo per
ragion dell' associazione e
del contatto, che
cosa ne verrebbe?
Che 1* uomo
sarebbe fornito di qualità
e doti essenziali
non per so
stesso, cioè non
perchè individuo, ma per
altri e da
altri, cioè perchè
membro della società.
Or tutti sanno che
la £eicoltà della
parola, cosi intimamente
annodata col pensiero, non
e dote accidentale ìn& eÈsenziffova;i^«i!l; \iytxaiy
to xvpiov in
fvTf>f;i^sta jctc. (Id.
Eod.) È Vachu in
aetu degli Aristotelici
del Risorgimento segnaci
deir indirizzo medio, per
esempio ^del Gontarini,
come aTrertimmo. RàTAiBSOX,
Métaplu d'Aritt.,.
psicologica. Lo spirito
è essenzialmente processo,
è generazione, ma non
trasformazione. Non va
dalla parte al tutto, come
avviene delle combinazioni
meccaniche; ma dal tutto
al tutto, dal
tutto potenziale al
tutto attuale, dal di
dentro al di
fuori, da una
sintesi originaria e confusa,
ad una sintesi
analizzata. Voglio dire che il
processo psicologico s'inaugura
non già con
questa o cotesta facoltà,
anzi con tutte
le facoltà. Le
quali perciò non sono
funzioni determinate e
specificate sin dalla loro
origine, ma convengon
tutte nell'essere altrettante potenze, e,
come tali, formano
unica potenza originaria, eh' è
conato essenziale, sforzo
incessante.* Che cosa sia
questo conato, si
vedrà nell' altro
capitolo. Qui dobbiamo considerar
le facoltà psicologiche come ce le presenta
il fatto, cioè
come una moltiplicità
di funzioni. Che cos'è
la facoltà psicologica?
È un passaggio dalla potenza
all' atto. Ella
ci esprime la
pronta necessità di fare,
di determinarsi, d'
attuarsi; e quindi vuol
dire facilità, prontezza,
solerzia, agevolezza di fare.'
Or la facoltà intanto
significa pronta e
spontcmea solerzia di fare,
in quanto fa
il proprio obbietto;
in quanto si fa
come funzione; in
quanto si pone
come [Anche in ciò
la psicologia somiglia
alla fisiologia, ma
non tì si confonde.
L’organogenia s' inaugura, meglio
che con uno,
con tutti gli organi
ad un
tempo. Per esempio
i centri primitiTi
multipli del sistema nervoso, che
la microscopia ci
pone sott* occhio,
chiarisce e conferma quest' assunto.
Cfr. Vulpian,
Physìologie gfn. et
comp. du syaL
nere. LhittS, SyH. New. cerebro-spinale. Glkibbrrg,
Intinto e Libero
cwbitrio trad, del Langillotti,
Nap. Oonatum uni menti
attrihuimu»f quce libero
arbitrio prcedita pottH BUB8TARB.... eoque
pacto potett motitm
subsistrre et stare
in conato [De Univ.).
Ne* corpi e*
è moto, secondo
il concetto cosmologico del Vico,
ma nell* animo e
è moto e
eoncUo: o meglio,
il moto qui assumendo
natura di conato
è moto del
moto, e quindi
è aetw in
actu. Expedita seu
expromtn f'iciendi solertia
(De Antiquisn, TtaU
Sap.^ . Facoltà suona
anche proprietà, ma
proprietà cosciente: distinzione confermataci dal
comun linguaggio che
attribuisce la proprietà alle cose,
ma predica dell*
nomo \h facoltà.
Vedi le belle
riflessioni dello JouFPRoy in
proposito {^filang. Phil.,
ed. Bruxelles attività: FacuUaùes
sunt eorum, quce
fadmus. Ecco il
concetto psicologico piìi
originale di VICO (si veda). Il
germe di questo concetto è schiettamente aristotelico; ed è
la chiave ond' egli,
anticipando la moderna
psicologia, preveniva il Fichte,
e insieme ne
correggeva V esagerazione. Dunque la
facoltà posta come
funzione psicologica che fa
sé stessa in
quanto fa il
proprio obbietto, è
il ' passo d'oro
del Libro Metafisico.
Ad esso rispondono altri due
che troviamo nel
Diritto Universale e
nella Scienza Nuova; e
tutt'e tre riescono
a comporre l'organismo del processo
psicologico. Tale organismo,
infatti, parmi racchiuso in
queste due sentenze:
!• che r uomo
è innanzi tutto
SensOy appresso Immaginazione e quindi
Ragione: 2*» che
l'uomo è un
Potere, un Volere e
un Conoscere potenzialmente infinito. ÀRlST. De an.
DoTe
stanno, a mo*
d'esempio, i colori,
i sapori, gli odori,
il tatto? Se il
senso è facoltà,
ne segue che
tu in sostanza
hai a far
i colori nel vedere,
tu i sapori
nel guastare, tu
i suoni nelP
udire, tn gli
odori nelr annusare,
tu stesso il
freddo e '1
caldo \iel toccare.
Nam si «enatu
facultates sunt, videndo
colore», sapores gustando,
sono» nudiendo, tangendo frigida et
calida rerum facimua.
{De Antiquisa) Parimenti
con le immagini e
con le rappresentazioni la
yirtù fantastica partorisce
il proprio obbietto, e
si fa; di
modo che scegliendo
il meglio di
natura ed elevandolo a
valore di tipo,
a questo vien
conformando V opera
d* arte. De medio lectam
{formam) ttupra fidem
extoUunt, et ad
eam auos heroaa con/ormant. (Ibi, 2.)
E la memoria,
potenza che rifa
e penetra so
medesima, non potrebbe rifarsi
e penetrarsi ove
innanzi non si
fosse fatta; ne quindi
può esser quella
magra e sterile
ritentiva di che
ci parlano i sensisti.
L' intelletto è facoltà
anche lui, perchè
col determinarsi viene a
geminarsi nel giudizio,
e perciò vede;
e vede, perchè
occhio dell' intelletto è
il giudizio: Judicium
eat oculus intellectu;
né potrebbe intellettivamente vedere, se
non intendesse; nò
intendere, ove anch'agli,
al solito, non facesse
il proprio obbietto.
Intellectus verna
faeultaa est, quo quum quid
intelligimua, id verum
facimua, . In tutto
questo il Vico ormeggia
Aristotele. Per es.
la visione, secondo
lo Stagirita, è
Vatto dd colore; l'udito
è V aUo
del auono. (Ravaisson
Metaph, d^ Ariat.,
Aeist. De An.)
Il primo di
questi due principii
è evidentemente aristotelico,
perchè dall* ou^SvitTiq al
voù^, com' è
noto, ricorrono parecchi
gradi e sfumature componenti tutte
un unico processo:
^ója, ^àvTacr|ua, se
V Intelligenee^ Lauoel,
Probi, de V Atne, Litthé, Revue de
Phil. Potit. Consulta anche
le op. «it.
di VuLPiAN e di
Lhuts. dell' immaginazione, cioè
all' intendimento, nonché
il passaggio dall'intendimento alla
ragione? Fra il
termine sensato dell' intuizione
e '1 fantasma
e' è un
abisso. Un abisso tra
il fantasma^ tra
il fantasma anche
salito ad universale poetico^
ed il concetto.
Un abisso ancora fra
il concetto, e la
nozione, l' idea, V
universale propriamente
detto. Bisogna credere,
perciò, che dall' un gruppo all'altro
di funzioni psichiche
non esista continuità, ma transito;
non passaggio immediato,
ma intervallo. Or bene,
come, altro che
per miracolo, l' una facoltà potrebbe
trasformarsi nell'altra? Non
è dunque la facoltà
che si trasforma
e diventa; ma
è lo spirito che
si forma, che
si determina nel
multiplo e mediante il
multiplo delle facoltà.
Laonde attraverso e al
disotto a questa
multiplicità di funzioni,
è mestieri supporre una
facoltà madre che,
come facoltà deUe
facoltà compia i diversi
passaggi e intervalli,
e sia come
il principio dinamico dell'organismo psicologico.
Ma di questo faremo
parola nel prossimo
capitolo dove ricercheremo la genesi
del processo psicologico.
Seguitiamo. Quel che s'è
dettò del processo
conoscitivo, dicasi pure del
processo operativo e
pratico dell' organisriio psicologico. Una medesima
legge governa tanto
la genesi del conoscere,
quanto quella dell'operare.
I diversi gradi e
momenti del processo
operativo rispondono a' diversi gradi e
momenti del processo
conoscitivo. L'operare
infatti è determinato
dal conoscere per necessità
tutta psicologica. Come dunque
potrebbe non riprodurre
la medesima legge? Il
processo pratico suppone
il teoretico, stantechò
la funzione yolitiva,
alla quale si
riferisce ogn' altra facoltà
d'ordine operativo, sia funzione
essenzialmente secondaria. Accenneremo
qui i diversi
passag^ di questo processo
secondo i tre
gruppi (no««ey oeU«,^oMe)
additatici dal Vico; ma
ci ristringeremo a
notarne i difTerenti
gradi seguendo l'ordine ascensi vo, tuituraU
e, per cosi
dire, cronologico. L a)
Istinto fisiolooigo. Risponde
alla Sensazione; anzi è la sensazione
stessa, ma sotto
l'aspetto riflesso, attivo,
comecché incosciente. In esso
quindi si ripeton
le medesime condizioni,
non altro essendo fuorché unità
incosciente e confusa
fra Vagente e'I
motivo dell'azione. Additato così
con fuggevoli tocchi
il doppio aspetto onde
risulta il processo
psicologico, potremo intendere ormai quella
dottrina del nostro
filosofo a cui
più di una volta
venimmo alludendo nelP
abbozzar la storia della
Scienza Nuova: dico
la dottrina del
Vero e del Certo,
che ha riscontro
con V altra
della Bagione e ddVAidorità, 11
vero è produzione
di Ragione; il
certo è produzione d^ Autorità,^
Ma come nelP
ordine conosci[Istinto uitano
(il poste del
Vico nel sao
primo grado empirico). Si
ripeton le condizioni
della Percezione sensata.
I due termini qui
cominciano a distingaersi;
ma VigUnto non
è por anche
desiderio. L'istinto anche qui
è immohile, è
cieco, e pnr
nonostante è umano.
Ed è umano principalmente perchò
non può rimanere
istinto^ ma dehb*
esser superato dal desiderio,
dee diventar desiderio.
e) Dbsidebio. ~
Risponde alla Rappresentazione, e n' è l’attività.
Il motivo dell*
azione è determinato,
particolare. Quindi fra
questo motivo e r
agente havvi necessità
empirica, immediatezza. d) Passignk. Risponde ai primi gradi
deirimmaginazione, e, come questa,
è mobile e
varia; e perciò
è meno indeterminata
che non sia il
desiderio. Il Desiderio
è uno,' la
Passione ha più
forme. L'obbietto che la
determina non è il particolare,
e neanche il
generale. Appartiene al-r
individuo considerato non
come individuo, ma
com' elemento di
società. Segna dunque un
passaggio; il passaggio
dal desiderio al
libero arbitrio. II. e)
LiBRRo ARBITRIO. L*
obbietto è generale,
astratto; perciò è più
mobile della Passione,
e quindi costituisce
il passaggio dalla
necessità empirica alla necessità razionale (libertà
volgarmente intesa). Risponde alla
Immaginazione imitatrice e
riproduttiice eh* è
tuttora schiava della natura;
al modo istesso
che il libero
arbitrio è dominato
da un motivo tuttora eteronomo.)
Dbtkrminazionk (passaggio del
libero arbitrio alla
Libertà).Risponde, più che
all'Immaginazione (combinatrice), alle
varie forme dell' Intendimento. Varietà
d* obbietti. g) SuK
DIVBRSR POBMB {contrarietàf
contraddizione j dezione). Anche
qui ha luogo
un processo come
neU* Intendimento. L*
elezion razionale non ò
più libero arbitrio,
ma Libertà. ) Libertà. È
determinata dalla Ragione:
perciò importa la necessità
razionale. Libertà quindi
è dovere appunto
perchè è ragione. Ma
può tornare ad
una delle tre
forme d'arbitrio, stantechè
la necessità, ond'è signoreggiata, sia
necessità morale. ») Personalità.
È l’Autorità che
si converte con la Ragione.
È il risultato del
processo psicologico, e
rappresenta il circolo
delle facoltà perchò le
suppone tutte, e
le contiene in
atto. 1& dunque
la circonferenza, cioè rio
pienOf attuale. Qual
n*è il centro?
(Vedi nel Gap.
seg.) * n concetto
à^ÀtUorità è una
delle idee cardinali
dell'opera sul Piritto UniversaJle. Noi' qui
ne parliamo per
incidenza; perchè questa tivo
è mestieri che
il vero si
converta col fatto,
così nelr ordine
pratico il certo
fa d'uopo che
si converta col vero.
In altre parole,
se il processo
teoretico guardato
psicologicamente è una
conversione del vero
col fatto; il processo
operativo, al contrario,
guardato storicamente, è una
conversione del certo
col vero. La
relazione che Vico pone
tra il vero e
'1 Certo, somiglia quella che
nell'Aristotelismo tiene la
forma verso la materia,
ma considerata nel
processo isterico. Risponde altresì alla
relazione eh' egli
medesimo scorge tra la
filologia e la
filosofia. La filologia
porge i placiti
dell' umano arbitrio (placita
humani arbitri); la
filosofia indaga i principii
necessari di natura
(necessaria naturcey Perciò][aiferma. La Filosofia
contempla la Ragione onde
viene la Scienza
del Vero: la
Filologia osserva l’Autorità deW
umano Arbitrio onde
vien la Coscienza del
Certo.^n Or la
Ragione, producendo il dottrina
dovendo esser considerata
principalmente sotto T aspetto
istorico (nel che sta
tutto il suo
pregio e la
sua norità), dovrà
quindi formare oggetto d' interpretazione e
dì studio nella
Sociologia. Qui dobbiamo avvertire solamente
che, quantunque i
siguiiìcati della parola
Autorità pel Vico sian
diversi (Autorità polìtica,
religiosa, monastica, incononiica, civile e
simili) nullameno tutte
le specie d'autorità,
chi interpreti bene la
sua mente, hanno
d' aver per fondamento
originario queir An^ontò alla quale,
propter rerum novitateìn^
ei volle dare
un titolo nuovo,
e V appellò AUCTOttlTAS NATURALIS,
ACCTOEITAS ì>tATURMj[De Univ.
Jur., XCI). PerciÒ la
definisce: Humana: natura:
proprietae. Perciò non
dubita chiamarla divina. Perciò
la designa come
T unità vivente
delle tre funzioni costituenti l' ordine
pratico psicologico: noBsCf
velie, posse. Perciò, finalmente,
la dice Suitas;
e la Suitas
nell'uomo vale, per
lui, ciò che in
Dio VAseitas. Vedremo
altrove esser questa
una dottrina originale onde
l'autore della Scienza
Nuova prevenne la
moderna filosofia del Diritto.
Del che niuno
de' critici di
cui parlammo ha
avuto sentore, tranne il
Carmignani e l'Amari;
ma l'uno, come
dicemmo, ne parla superficialmente, e
l'altro in senso
tutto cattolico e
tradizionale. De Constantia Jurispr.,
Proem., Sc. Nuova, Si
noti qui, a
maggiore schiarimento del metodo
vichiano, che la
Filosofia è quella
che contempla, e la
Filologia quella che
ossava. Secondo il nostro
linguaggio, quella deduce, e
questa induce. Or
la Scienza Nuova
non fa propriamente
l'una cosa, né l' altra.
Essa pone in
opera entrambe cotoste
funzioni, e le couipenctra in una terza
che dicemmo essere
il ma),àstoro eduttivo. vero^ costituisce
il processo della
coscienza; in mentre che
r Autorità, producendo il
certo e legittimandosi nella ragione,
forma il processo
dell'autocoscienza, e
partorisce il concetto
della personalità (Proprietas
sui; Suikis). Sotto l'aspetto
isterico, perciò, l'Autorità
è il libero arbitrio
che diventa libertà,
e quindi Ragione: sotto l'aspetto
psicologico è lo
stesso libero arbitrio già
divenuto ragione. Ond' è che
come il certo
non è il vero
ma una parte
del vero così
V Autorità non è
Ragione, ma è
partecipe di ragione. Che
cosa è da concludere
da tutto ciò?
Che il processo
pratico, riguardato
psicologicamente, comincia là
ove finisce il
teoretico. Questo, infatti, s' inaugura
col senso, e,
sempre più ascendendo, si
risolve nella ragione.
Quello, invece, move dalla
ragione avvisata come
semplice colioscere, e,
transitando pel volere, finisce nel
potere; ma nel
potere divenuto già attività
concreta, piena, reale,
vivente, stantechè il libero
volere importi la
ragione. Che se tra
conoscere ed operare,
fra coscienza e
autocoscienza, 0 (per usare
il linguaggio del
nostro filosofo) tra Ragione
e Autorità, fra
il Vero e
il Certo e
tra filosofia e filologia
havvi un processo;
è necessaria, è
inevitabile una conversione fra'
due termini. Dunque
1' Autorità devesi poter
elevare a dignità
di Ragione; al
modo istesso che la
ragione operativa debbe
aver coscienza di sé
medesima anche come
ragion conoscitiva. Or che
è ella
mai cotest' Autorità
convertitasi in ragione
se non l'autocoscienza? E
non è appunto
quest'Autorità autocoscente quella che,
assolvendo l' uno e l'
altro pro' Ut
autem VBRUM constai
RATiONE, ita criltuu
nititur auotoritate, vd noHra
$en»uum quat dicitur
aUTO^i'a, vel aìtorum
dicti», qua in
tpeei^e dicitur AUOTORlTAS, cx
quorum alterutra naicitur
PRRSCASIO. Sed ipta
auctoRITA8 e«t ^ar»
^rwofrfam RATiONis. {De Univ.
Jur.y Proloq.) Vedi
le diverse applicazioni del
Vero e del
Certo. Il primo scolare
del Vico. Emanuele
Dani, come arrertimmo,
fin dal secolo passato colse
giusto in questa
dottrina del suo
maestro, massime quant* al
valore e alla
relazione de' suddetti
concetti. (Tedi Saggio
di Oiuriprndenza
Unirrr^aU, ed. cit.,
p. CVIII). cesso, costituisce
l'essere veramente umano
(universale)? E che cos'
è l' ente umano,
che cos' è
VHumaniiaSj per cui l'individuo
è davvero individuo,
subbietto veracemente universale, fuorché
la personalità? E che cos'è la
persona se non
queir unità vivente
e operante del triphce
diritto originario (tutèla^
dominio e libertà)
nella quale s' incarna e s'
impersona la triplice
funzione del Potere, del
Volere e del
Conoscere?* Col concetto su
la relazione fra
il processo conoscitivo e
'1 processo operativo
dell'organismo psicologico Vico non
solo previene l' esigenza
Kantiana del doppio ordine
di ragione, ma,
che più monta,
la supera. La previene
distinguendo la Ragion
pura (Batio) dalla Ragion
pratica (Autoritas). E
dovea distinguerla, perchè i
due processi conoscitivo
e pratico, tuttoché
formanti unico organismo, hanno,
come s' è visto,
origine, natura, e andamento
diverso. La supera
poi, in quanto che
scorge la conversione
(ripetiamolo) non pur
fra l'una e l'altra
ragione, ma eziandio
nell'una e nell'altra guardate ciascuna
in sé stessa.
Come processo conoscitivo la Ragione
dee convertirsi con sé stessa;
e non potrebbe, ove
non divenisse anche
Autorità. Come processo pratico l'autorità
non potrebbe neanch' ella
convertirsi con sé medesima,
s' ella stessa
non divenisse Ragione. Li
altre parole: il
conoscere non potrebb' esser vero conoscere,
ove non fosse
un processo, una
conversione de' tre gruppi
di funzioni teoretiche innanzi discorse. L'operare
non sarebbe vero
operare, se anch'egli
non fosse una
conversione de' tre
gruppi delle funzioni operative.
Finalmente il processo
conoscitivo De Univ.
Jur. Di qui nasce
il concetto del gitu
e della libertà
secondo le dottrino
Yichiane, come altrove
mostreremo. Ma già i
lettori prevedono qnal
uso noi saremo
per fare di
cotesta dottrina nelle questioni
polìtiche, giuridiche, religiose
e pedagogiche. Posto il
concetto àdV Auctoritcu naturalU^
e dell’Autorità in
generale come particeptf RaHonUy
cioè come facoltà
che devesi convertire
con la Ragione, ognuno
saprà argomentare qual
valore giuridico abbian
per noi r autorità
politica e 1’autorità
religiosa nelle teoriche
sociologiche. e'1 processo operativo
non sarebbero tali,
ove non fossero essi
stessi una conversione
tra se medesimi.
Così il circolo è
compiuto; e così
rimane sbandita ogni
maniera di dualismo e
di formalismo nel
regno della psicologia. Or la
mancanza di processo
è precisamente il
tarlo che rode le
dottrine del Kant. Posto
il noumeno come un'incognita, posta
la conoscenza com'una
specie di combaciamento meccanico
anziché come processo
dinamico del fatto con
l'idea e della
materia con la
forma; non poteva non chiudersi ogni
via per intendere
il fenomeno, e salvarsi
dal cadere in
quella specie di
scetticismo metafisico del quale
altrove toccammo (p.
238). Senza esempio nella
storia della filosofia
egli dimostra la necessità di
certe condizioni superiori
all' esperienza nel fatto
del conoscere. Ecco
la massima sua
gloria. Ma non perviene
a spiegar cotesto
fatto, perchè non
giunge a risolvere il
dualismo tra la sensibilità e l'
intelletto col discoprirne il germe comune
eh' egli stesso
)ion dubita chiamare sconosciuto.
D'altra parte, dal
disegno della Critica della
Ragion Pura egli
trae quello della Critica
della Ragiofi Pratica,
Nell'una move dal
senso, e, attraverso l' intendimento, giugne
alla ragione. Nelr
altra tiene un cammino
opposto, perchè dal
concetto di libertà scende
nelle facoltà inferiori.
Or 1' errore non
istà, certo, in
questo cammino, in
questo circolo; ma piuttosto
nell' aver interrotto
cotesto circolo. Donde avrebbe
dovuto partire nell'
organar 1' edifizio
della Ragion Pratica ?
Precisamente da quel
punto ove' pon termine
la Ragion Pura,
Egli invece fa
un salto; salto mortale; perchè
voltando le spalle
alla ragion pura
(né poteva altrimenti), si
basa nel concetto
di libera causalità.* Ov' è
dunque il processo
fra l' un ordine
e l' altro? Ov' è
r unità, r
organismo del circolo
psicologico? Nella
distinzione Kantiana e'
è del vero.
Ed è che la
Ragion Pura è
facoltà passiva in
quanto ha per Kant,
Crit, de la
Raiaon Aire, Tissot. >
Idem, Crit. de
la Maieon Pratique, termine il
fenomeno, tuttoché s'
addimostri attiva nel concepire
e disporre e
costruir questo fenomeno
mediante quella mirabile tela
delle categorie. La Ragion pratica, al
contrario, è profondamente
attiva, stanteche con
r atto del
puro volere ella
ponga il noumeno^ Se
non che il
grand' uomo non
vide che né
la Ragion pratica è
assolutamente attiva, né
la Ragion pura è
assolutamente passiva. Il
conoscere, certo, serba
carattere di passività; non
altrimenti che V
operare ha carattere d'
attività. Ma sono
tali in modo
relativo. Sono tali, cioè,
in quanto T ordine
pratico sopravviene a compiere
il teoretico, non
già nel senso
che nel secondo abbiasi a
conseguire ciò eh' è
riescito impossibile nel primo,
vo'dir la* posizione
del noumeno. Che
cos'è infatti cotesto noumeno
nell'ordine pratico? Perchè
la Ragion pratica s'
ha da porre
qual puro volere,
cioè com'un fatto a
priori? Insomma, che
cos'è questo rolere
che vuole sé
stesso? A tal grave
quesito il Criticismo
non risponde, checché ne
abbia detto poco
fa uno della
scuola della Morale
Indipendente che in ciò
crede poter ormeggiare
il filosofo prussiano. Che
anzi, se la
legge morale procede
dalla libertà come volontà
indipendente e superiore
a qualsivoglia motivo, cioè
come autonomia che
trascenda ogni eteronomia; è
da confessare che
un principio siffatto
è condizione ni tutto
subbiettiva, e quindi
sorgente mutabile appunto perchè
assolutamente libera. Un
atto assofuto di volere, il
volere come volere,
io non l'intendo. Non intendo
il voglio perchè
voglio^ giusto perchè non
capisco un atto
che sia razionale
e insieme scisso e
quasi staccato dalla
ragion pura. Brevemente:
non intendo una Ragion
pratica che non
sappia né possa convertirsi con
la Ragion teoretica.''
Se la radice
del [Kant, Orìt, de
la liaison Pure,
Orit, de la
Raiaon Pratique, Secondo
Kant la Ragion
pura, oltr'esser fornita
dell’uao tpeculiiivoy ha
eziandio un tntereaae
pratico; il quale consiste
semplicemente dovere sta nel
sapere; la volontà
di sua natura
sarà sempre una funzione
secondaria, non mai
primaria: si che, ove
nel processo istorico
si svolga da
sé, in tal
caso ella si determina
non già come
libertà, ma come
potere, come desiderio, come
passione, come libero
arbitrio. Laonde se il
filosofo prussiano sente
la necessità d' un reale
nel suo formalismo
critico, cotesta necessità
per lui non può
racchiudere il vero
concetto del dovere,
perchè importa una tendenza
cieca. Non è
dunque un atto
etico veramente detto, ma
un bisogno assolutamente
empirico. Dal che si
vede agevolmente non
essere al tutto
vero ciò che aflFermano
due serie di
critici rispetto alla
natura de' due ordini
di ragioni poste
dal Criticismo. Alcuni credono esserci
contradizione perchè, mentre
Ja Ragion pura è
indirizzata solamente (tuttoché con
artifizio formale) a regolare
V esperiènza, la
Ragion pratica, invece, è
destinata a ricostruire,
a costituire; e
costruisce mercè la posizione
del noumeno, del
libero volere, reintegrando siffattamente i
postulati distrutti nell'ordine
teoretico. Altri pensano, fra
quali Spaventa, che
la contraddizione non istia
già fra le due Ragioni,
ma in ciascuna d'esse. Per
noi è vera
l'una e l'altra
sentenza, ma in questo
senso; che la
contraddizione del Criticismo
non istà, come abbiam
detto, nel porre
due sfere diverse
di ragioni; due ordini
di processi psicologici,
ma si nel non
aver risoluto nessun
de' due. La
contraddizione esiste non pure
in ciascuna delle
due sfere, ma
anche tra l'una e
l'altra ad un
tempo; con la
differenza, che nell' un
caso eli' è essenziale,
dovechè nell'altro è
secondaria. Togliete quella, e
avrete insieme levato
questa. Togliete il dualismo
e '1 formalismo
nella Ragion pura, avrete
parimente riparato al
formalismo e al
dualismo della Ragion pratica.
Perciò sommettete a
processo nel determinaref non
già ne) eogtituire
la Ragion pratica.
La Ragion pura
pratica »i eoHituiace
da «2. Ecco
il grave difetto
del kantismo nell’ordine morale. FU,
di Kant e «uà relaxione
coUa FU, /tal.,
Torino, Puna e
1' altra, e avrete
schivata la contraddizione; e invece
delle Idee sulla Storia
Universale idee che
paion come disorganate, avrete
l'organismo della Scienza Nuova.Or la
contraddizione, che per
tre divers^e maniere offende il criticismo, potrà
essere tolta unicamente quando dalla
dualità, onde non
si potè liberare
il Kant, sappiasi risalire
all' unità sua.
Qual sia questa
radicale unità da cui
move, ed alla
quale ritoma il
processo psicologico, diremo fra
poco. Torniamo a Vico. La
Ragion pratica, l'Autorità,
VAuctoritas naturalis^ che per
lui costituisce la
base del processo
pratico in tutt'e tre
i momenti in
che questo si
svolge, non è già
un primo
staccato da un
altro primo al
tutto formale, ma è un secondo
che si converte
con un primo^
e per tale conversione
formano entrambi, anziché
dualità irresoluta, unidualUà, Per
l'Autore della Scienza
Nuova la ragione, in
quanto ragione, è
una non due,^
Non due perciò le
sorgive onde rampollano
i ragionamenti; bensì
Il significato della
storia per Kant
si riduce a
questo. Come gli uomini
si son costituiti
in società per
ischivar la guerra,
cosi tutt* i popoli
tendono a stabilirsi
in federazione universale
{Idée de eeque
pourrait ètre Vhiètoire
universelle dana le»
vuee d^n eitoyen
du monde). La P
sentenza è un
errore degno degli
Hobbesiaui: la 2"
è un'utopia la quale
partorisce 1’altra della
Pctce universnlcf e V altra
ancora d* una Chiena
filoeofica il cui
fine dovrebb' esser
quello di sorvegliare
alla morale del genere
umano (Vedi nella
Relig, dana lee
lim. de la
raiwn). Sennonché è impossibile
spiegar la stona
col porne V
origino in una
condizione accidentale, in una
necessità euipirica qual'
è appunto la
guerra. II fatto isterico può
essere spiegato col
risalire alle leggi
psicologiche, e scoprirne il
processo. Or poteva
egli, il Kant,
prefiggersi tal fine
s* ei non
seppe levare il dissidio
fra le due
Ragioni e mostrarne
la conversione V Da ciò anche
dipende quel proporre,
air attuazione del
progresso, mezzi affatto artiflziali com'è
la federazione universale,
la chiesa filosofica,
e simili. «
Con lo apiegarai
delle umane idee^
i fatti, i
diritti e le
cose umane si andaron
sempre più dirozzando,
prima dalla acrupoloaità
delle auperatìzioni, poi
dalla aolennità degli
atti legittimi e
dalle angustie delle
parole, finalmente da ogni
eorpìdenxa; per ridursi
al loro puro
e vero principio che
è loro propria
aoatanza. Or qual è
questa aoatanza propria,
qual è questo principio
vero e puro
àe^ fatti e de'
diritti umani^ eh'
è dire dell' ordine
pratico? È la
aoatanza umana, la
noatra volontà determinata dalla noatra
mente con la
Forza del Vrbo
che ai chiama
Coscienza. {Prima Se. Nuova) due
le maniere del
ragionare. Di fatto,
se lo spirito
in quant' è conoscere
(Batio) produce il
vero e dà
la scienza; e in
quant' è operare
(Auctoritds) produce il
certo e cosi esplica
e conferma la
prima, ovvero la
prenunzia e Y anticipa
; ne
viene che tra
Y ordine teoretico
e Y ordine pratico una
conversione è necessaria.
In che risiede r
intima natura della
volontà? Intelletto e
volontà, nelr ordine
psicologico spontaneo, hanno
radice comune: per cui
se r atto
del volere non
è propriamente atto d' intendere, e
nondimeno lo sforzo
d' intendere: è lo stesso
conoscere, ma in
quanto si realizza
come Ragione universale, come
operare umano, autonomo,
razionale. La ragione dunque
è facoltà di
conversione per eccellenza ;
e quindi lo
spirito dee conformarsi
al naturale ordin delle
cose. E che
è mai il
naturale ordin delle
cose? È la Datura,
l'essenza, il valore,
l' essere stesso delle
cose.* Ora, conformarsi all'essere
delle cose, non
vuol dire convertirsi con
lui, diventar lui?
Col concetto d' ordine adunque il
Vico determina la
natura non del
solo conoscere ne del
solo operare, ma la natura
d' entrambi; cioè della Ragione
vivente e concreta;
della Ragione comune, universale, imiana.
La quale, supponendo
già il concetto d'ordine,
cioè dire supponendo
il processo Qpnoscitivo, importa
anche il processo
operativo come risultato necessario
dell' essenza umana.
Con/ormatìo eum ipso
ordine rerum e$t
et dicitur batio.
{De Univ, Jur.^ Proem.j )
Questa con/ormatio mentis
suppone già il
processo conoscitÌTO, e
quindi il criterio
della Convernone del
vero col fatto.
Ella dunque è risultamento
delle funzioni teoretiche,
e insieme principio
delle funzioni pratiche. È
la sostanza umana
determinata con la
Forza del Vero. Rosmini nella
FU. del Diritto fa
la critica del concetto
d* ordine com'
è inteso dal
Vico. Il Finetti
area fatto lo stesso
fin dal secolo
scorso nelle sue
polemiche col Dnni
e col Concinna. {De
Prineip. Jur. ) Ma
né V uno
nò 1* altro s*è
accorto come la facoltà,
che per Vico
dee conformarsi air
ordine naturale, non
sia il puro conoscere
e neanche il
solo operare; cioè
non la Ratio
e nemmanco VAuetoritas, ma
la Ragione per
eccellenza, la Ragione
in quant' è risultato finale e
quindi princìpio del
doppio processo psicologico.
£ la ragione,
insomma, in quanto è
conversione essenziale con
la natura, con
la storia, con lo
Stato, col supremo
suo fine, e
della quale il
Duni dice che
dove Concludiamo quant' al
processo pratico. La
ragion pratica non contraddice
alla teoretica. Intanto
eli' è pratica, in quanto
è comando; ma
è comando della
ragione fondata nel concetto
del fine razionale,
che vuol dire d' un
fine il quale
iraponesi come legge,
e perciò come imperativo.
Cotesto fine imperante,
manifestato o imposto dalla
ragione (e tutto
ciò per noi
è ragion pratica), inevitabilmente importa
la necessità etica,
il cui soggetto è
la volontà: ond'
è che tra
la volontà e il
suo fine, eh'
è appunto il
bene morale, òorre
una sintesi necessaria. Che
se l' imperativo per
Kant è la
stessa volontà in quanto
è libera da
ogni movente particolare e
d'ogni particolare interesse;
anche per noi
cotesto imperativo è il
volere libero da
ogni qualunque motivo, meno
da quello che
scende dalla ragione,
o per mezzo della
ragione; ma di
quella ragione pura
o conoscitiva la quale,
essendo il vero
convertentesi col fatto,
intende e legittima il
fenomeno. Fra lei e’1
noumeno non esiste un
abisso, com' è
pur troppo pel
Criticismo. E in
questo senso non ha
torto Hegel d'affermare che
libertà è ragione, e
ragione è libertà.
Il motivo dell'
azione, infatti, è intrinsecato
con la ragione;
scaturisce non già dall'
estemo, come incontra
nelle azioni di
natura meccanica, ma dall' intemo.
L'agente dunque è
razionalmente libero; e però
è liberamente necessario.
Il perchè se una
sintesi necessaria annoda
il volere col
suo fine, è pur
mestieri che la
volontà si converta
con la ragione, e
produca la virtù.
Così nella sfera
pratica, non diversamente che
nella teoretica, il
criterio è sempre il
medesimo: la conversione
del vero col
fatto, eh' è dire
della legge con
la volontà. E
poiché la legge neir
ordine etico partorisce
il dovere, e
la volontà nelr
ordine giuridico produce
il diritto; perciò accade
che la Morale, nella
dottrina del nostro
filosofo, deve stare al
Diritto cosi come
il vero sta
al fatto, come
la Ra-non c'^
uniformaziont,, non e'?
ragione, (Vedi noi
Saggio di Giuritprw denzn Umvermle^
.> gione air Autorità.
Sono due sfere
di fatti diversi;
due ordini di scienze
differenti per origine,
e per applicazione. Il Diritto
non iscaturisce dalla
Morale, ne tampoco la morale puo emerger
dal Diritto. Se
cosi fosse, l'una di
queste scienze annullerebbe
l'altra, assorbendola. Esse dunque
non s'identificano, ma si convertono.* Tal si
è, come rapidamente
l'abbiamo descritto, l'organismo
psicologico ne' suoi
elementi e nella
sua natura. Ma quest'
organismo può e
debb' esser considerato
riguardo a due soggetti,
che sono l'individuo
e la specie, cioè
dire psicologicamente e
storicamente. Nell'individuo
ci è
dato studiarlo, come
chi dicesse, nella
condizione statica, cioè nel
suo equilibrio, nella
sua compiutezza, a cagione
delle mutue relazioni
onde i due
processi richiamansi a
vicenda. Psicologicamente, infatti,
il pensiero inaugura, determina
e compie il
processo pratico. Lo inaugura
come senso in
quanto eccita il
potere: lo determina come
rappresentazione,
immaginazione, intendimento
che sveglia e
sprona il volere:
lo compie, finalmente, come
ragione, la quale
costituisce l'essenza stessa della
libertà. La Ragione
dunque è l'atto,
la forma dell'Autorità; come
l'Autorità è la
potenza e la materia
della Ragione. Io
voglio ed opero
perchè conosco: né
per altro potrò
conoscere se non
perchè debbo operare. La
ragion del volere
pone sua radice
nel conoscere ; come
la ragione e
'1 fine del
conoscere altro potrebb'
esser che Y
operare. Chi vuol
conoscere per conoscere è
un mezz' uomo.
E la scienza
per la scienza
è frase ch'io non
intendo, come non
la intendeva nemmeno Aristotele.^ I
due processi, adunque,
ne' quali si sdoppia
e determina l' organismo
psicologico nell' individuo, s' importano a
vicenda, e tutt'
insieme compon• Sotto
il rapporto psicolosrico
può dirsi, come
più d*una volta
arverte il nostro
filosofo, che ex
Rottone Auctontas ipm
orta ett. (De Univ. Jur.) *
Rayaisson, Em, 9ur la Mitaph.
ec. gono un sol
circolo. In questo
circolo per 1'
appunto sta l'autogenesi dello
spirito. Al contrario nella
storia, che vuol
dire nella specie avvisata come
un individuo attraverso
il tempo, l'organismo psicologico ci è dato
considerarlo quasi in via
di formazione, cioè
sotto il rapporto
dinamico, e perciò nelle
condizioni del movimento.
Avviene infatti' in
quest'ordin di cose
quel che la
scuola di Lamarck
pensa del REGNO ZOOLOGICO. Nell'organismo compiuto,
nel mammifero, ci è
tutta la scala
zoologica, ma in
atto; al modo istesso
che nelle differenti
specie d'organismi inferiori abbiamo
l'organismo perfetto, ma
come squadernato nella successione
seriale de' diversi
momenti del suo sviluppo.
Se questa dottrina,
secondochè altrove diremo, non
è al tutto
vera in ordine
alla storia naturale, è
verissima nella storia
umana. La condizione statica non
può verificarsi nell'
ordine de' fatti, massime de' fatti
storici. Nel regno
della realtà, anziché quiete ed
equilibrio, tutto è
moto incessante, sviluppo, attrito, disequilibrio
perpetuo: onde la
Statica sociale de' Sociologisti
non è che
un' astrazione del
pensiero. Il processo psicologico
adunque, avvisato staticamente,
è tipo, è realtà
compiuta, alla quale
c'innalziamo scrutando la natura
dell'individuo, investigando le
leggi della psicologia. Un
processo psicologico in
via di formazione non è
altrimenti Statica, ma
Dinamica. Ora il
processo psicologico è r
atto, il tipo
del processo isterico;
e quindi vana impresa
è il pretendere
d' imprimer ÌForma di scienza
alla storia, senza
porvi a fondamento
immediato la psicologia. La
storia non fa
che ripeter la psicologia; ma al modo
che la circonferenza
ripete il centro. Che
è mai la
circonferenza fuorché lo
stesso centro considerato, direbbe
il Gioberti, fuori
di sé? Tal è
la specie rispetto
all’individuo; tal si
é pure la
storia di fronte alla
psicologia.* Ciò che
nell' una si
compie * Vedi le
belle riflessioni del
Noubisson in proposito.
(La nature humainef Ess.
de Fsycol. appliquée,
Paris) attaraverso lunghi secoli,
nell' altra, cioè
nell' individuo, s' assolve attraverso
una serie d' anni
e di differenti
età. E ciò che
sono i secoli
per la storia
e gli anni
e le diverse età
per l' individuo, sono
per la coscienza
attuale que' diversi momenti
necessari aftinché ella
possa recare in atto
la doppia fimzione
del conoscere e dell'
operare. Ma per quante
sian le differenze,
la legge è
sempre una; non essendo
possibile che le
note essenziali alla specie
manchino ai membri,
manchino agli elementi
di essa, ciò è
dire agP individui.*
Perciò nella storia
tanto il processo teoretico
quanto il processo
pratico s'inaugura cod come
nell' individuo. U
senso, lo vedremo
in altro luogo, sale
a ragione attraverso
le funzioni intermedie dell'immaginazione e
dell'intendimento. Il
potere, l'istinto (il
che verificheremo nella
sociologia) assume valore di
Ubertà mercè la
successione delle moltiplici forme
cui soggiaccion le
passioni e le
determinazioni del libero arbitrio,
e siffattamente crea
il Diritto e lo
Stato. Così la
storia è una
correzione lenta ma incessante,
ma progressiva di due forze
che mai non posano,
Autorità e Rag^ne. La molla occulta
del[Ce qui 9e
paage dan» Vévolvtion
4e Vindividu est
la tacine de
ce qui se passe
dans VévoìuHon de
Vétte eoUectii*. (Littbé, PatoUs
de Phil. Posit.) Ognan
vede che questo
principio non è,
come ci dicono
i Positivisti di Francia,
una loro invenzione
peregrina. È uno
de* concetti fondamentali della
Scienza Nuova; ed è insieme
la correzione del Comtismo,
per la ragione
più volte rammentata
che la psicologia pel Vico
non iscatnrìsce dalla
storia, ma è
anzi la storia,
cioè la scienza istorica quella
che dee tórre
a modello, a
criterio la psicologia. *
Tutte le opere
del Vico sono
una dimostrazione continua
di quésto concetto. Lasciando
delle facoltà d*
ordine conoscitivo, basta meditare le
diverse forme attraverso
cui procede VAutotità,
per vedere come davvero
ella sia potenzialmente ragione.
Vi è progresso,
per dime un esempio,
fra le tre
forme d* autorità
monasHcOf economica e
eivUe (De Univ. Jut.);
e vi ò
progresso nella storia
dell* autorità considerata nelle
diverso maniere del
reggimento politico {Ptima
Se, Nuova Sec. Se.
Nuova) Scoprire la conversione
dell' Autotità con
la Ragione, è
una delle sue principali esigenze,
e quindi uno
de' precipui aspetti
della Scienza Nuova. r
umano progredire, infatti,
sta nella faticosa
conversione d' entrambe.
Perchè sé la
storia è la
vita del genere umano,* il
processo di questa
vita, lo svolgimento
di quest'organismo altro non
potrà essere fuorché
il ridursi di quella
dualità a valore
d' unità. Il processo
istorico adunque non fa
che ripetere, ma
sotto forme sempre diverse, il
processo psicologico: talché
se la psicologia, come ha
detto il Michelet,
é quasi la
storia in miniatura, cioè la
storia come raccolta,
adunata e quasi
concentrata in un sol
punto; la storia
alla sua volta,
secondo l'osservazione altrove accennata
del Cattaneo, altro
non sarà che la
psicologia stessa in
più vaste proporzioni,
e sotto aspetti molteplici
e svariatissimi. Ma
quel punto, quel centro
(ripetiamo la figura),
vai tutta la
circonferenza; vai più che
la circonferenza. Se
la psicologia infatti nasce
dalla storia, chi
vorrà dire che
la prima non possa
essere altro fuorché
una semplice appendice della seconda?
La psicologia è
superiore alla storia, come
il presente è
superiore al passato.
E le leggi psichiche sono
anteriori a quelle
del fatto istorico,
al modo istesso che
il criterio e
la norma, in
generale, sono anteriori alla
materia interpretata e
giudicata.' Perciò dice che
il suo libro
è anche nn».
JUotoJia deW autorità
{Sec. Se. Nuova) atta
a ridurre a
leggi certe V
umano arbitrio di ma
natura incertÌ9»imo. * Vita
generila humani Hiètoria
est, [De Univ.
Jur.) * Il Taine
dice benissimo dove
osserva che la
pttyeologìt «« à
ehaque départentent de l’hintoire
humaine ce que
l^i physiologie generai^
e»t h la phyaiologie partictdiire.
de ehaque esplce
ou doAèe animale.
{De Vlntelligence, Pref.)
Che oggi la
psicolog^ia debba esser
condizione essenziale alla scienza
del fatto storico,
ninno è che
ne dubiti. Ma la
questióne ò ben
altra, e di
ben altro valore
che non crede
il Taine. Come s' ha
da considerar la
psicologia rispetto alla
storia, e perciò r individuo rispetto
alla specie'? Ecco il
punto! Predicarci la
necessità della psicologia nella
indagine del fatto
storico è un
bel nulla, se
innanzi tratto non si
stabilisca qual relazione
corra fra le
due scienze. Mi
spiego subito. Se Io
svolgersi delle concezioni
religiose, delle creazioni
artistiche e letterarie e
delle scoperte scientifiche
in un dato
periodo istorico e presso
un dato popolo
non sono in
realtà altro che un’applicazione, un caso
particolare di quelle
medesime leggi che in
ogn'istante regolano lo svolgimento psicologico
di ciascun nomo;
brevemente, se il
fatto storico H nostro
filosofo non pure
colse, ma dimostrò
la relazione tra r
uno e l’altro
ordin di fatti,
e fece quel che
non giunsero a fare i
nostri platonici e
aristotelici del
Rinascimento; ciò che
non fece tutto
il Cartesianismo; ciò che
dopo di lui
non seppe fare
il Criticismo in ordine
alla storia; ciò
che non han
fatto, né sanno fare
i Positivisti e
gli Idealisti assoluti;
i quali trascendono il
positivo perchè disconoscono
la difficile arte de'
confini nella scienza
del mondo e della
storia. Alla sua mente
lampeggiò il vero
concetto dell' ente umano:
il concetìo àeW
individuo universale vivente, concreto, reale;
e sotto doppia
forma venne applicando il
suo massimo criterio
della conversione del
vero col foHo nel conoscere, e
del certo col
vero nell' operare. Recò in
atto quindi non
una, ma due
grandi leve, la psicologia
da una parte,
e la critica
de' fatti storici
dall'altra; la filosofia
e la filologia;
e perciò un
a priori di natura
puramente psicologica, e
un a posteriori
indagato pazientemente con oculata
osservazione: e così
gettando le basi del
vero metodo storico
razionalmente positivo, riesci a
comporre la scienza
dello spirito. Però
Storia e Psicologia non
sono due cose,
ma una. Esse
formano la vera scienza
dello spirito, quando
sian portate ad un
fiato, com' egli
dice con significantissima frase.
Ecco il grande valore
della Sdensfa Nuova,
per quanti possano essere i suoi difetti
nella forma, nel
disegno, nelle conclusioni, nelle applicazioni.
Lo dichiara egli
stesso: il mio saggio
è wrxR filosofia
deW umanità. Perchè filosofia?
non è
che un'applicazione delle
lejrgi psicologiche: ne
viene che nella psicologìa solamente
possiamo ritrovare il
criterio, il principio,
la teorica da applicare
nella intorpretaziono del
fatto isterico. Dnnqne?
Danque (mi par chiaro)
la psicologia è
anteriore, e superiore
alla storia. Or io
non so
davvero come siffatta
conseguenza possa accordarsi
co'princìpii di Taine,
specie con quello
ond'ei ci dichiara,
che il fatto
della coscienza non è
altro che vm
fantamna metajinco! Il
problema storico è problema
psicologico: lo sappiamo
anche noi da
un secolo e mezzo a questa
parte. Quel che
non sappiamo è
il modo col
quale il valoroso estetico francese
potrà giugnere a
risolvere cotesto problema
col suo Positivismo. perchè ne
inve^iga le coffionV
Or le cagioni
immediate e positive del
processo istorico, non
s'hann' a radicar tutte
nel processo psicologico,
eh' è, dire
nella natura umana? Volere investigar
le ragioni della
storia nonché i principii
della sociologia invocando
la dicdeUica immanente détta
Idea come fan
gli Hegeliani, ovvero r
opera della Provvidenza
immediata come fanno
Ontologisti e Teologisti;
è uscir dalla
Storia, dalla natura umana,
dalla psicologia; ed
è rendere il
processo storico un processo
affatto meccanico e
arbitrario. Un principio estrinseco e
superiore che non
emerga dalle viscere stesse della
storia, ma che
alla storia si
sovrapponga e s'imponga, che
cosa dee produrre?
Da una parte,
meccanismo, e arbitrio dall'altra.
Ed è anche
un uscir dalla storia,
dalla psicologia e
dalla natura umana,
queir invocare i soU
fatti siccome leggi
empiriche riferendole a cagioni
tutte estrinseche, tutte
mutabiU tutte acddentaU,
come sono il
clima, la razza,
l'educazione e cento e
mille condizioni esteriori
e secondarie di cui ci
parlano i positivisti e i filosofi
dell’avvenire. Il fondamento razionale
positivo del processo
istorico dunque è l'organismo
psicologico, ma ravvisato
come processo. Questa
precisamente è l' esigenza
più legittima, la condizione
più salda del
metodo istorico che
scaturisca dalle opere, dalle
dottrine, dalla mente
del Vico. Metodo isterico
è anch'esso metodo
genetico, metodo eduttivo. E
metodo genetico vuol
dir metodo essenzialmente psicologico. Ne
segue perciò che la
legge isterica delle tre
età -divina, eroica,
umana), pone sua ra[Ved. Prim,
Se Nuav.y Le
tre/any o stati
del Positvismo francese
non sono che un fatto, una
legge empirica, non la ragione,
non il principio
delia storia. Lo confessa
lo stesso Littré;
il quale perciò
avendo visto la
necessità di correggere e
compiere anche in
questo il maestro,
alle tre fasi
del Comte sostitoisce
le cinque forme
di civiltà calcate
sopra altrettante facoltà
psicologiche. (Vedi A. Comte
et la Phil,
Pont.) Cosi il
Littré ritoma a VICO,
cioè al concetto
psicologico, quantunque sbagli
nella scelta della strada. dice non
già in un
fatto parHccHare quale
sarebbe il nascere, il
crescere ed il
perire dell'individuo, come
vedemmo pretendere VERA, ma sì
neljo stesso organismo, nello
stesso circolo delle
funzioni psicologiche. Ciò che
dunque è processo
teoretico e pratico deUe
facoltà e quindi
conversione del vero
col fatto e del
certo col vero
nell' individuo; nella
specie, nella comunanza civile, assume
forma e valore
d' organismo e di processo
isterico. Ecco perchè
nello svolgimento della storia
e delle diverse
civiltà, lo stato,
la fase, o
(secondo il linguaggio del
Vico) V età
divina ritrova sua
ragione intima, immediata, nel
predominio ed esplicazione
deUe due funzioni elementari,
empiriche e naturali,
che sono il Senso
ed il Potere.
La fase eroica per
contrario, è l’incarnazione del volere e
dell' Immaginazione. E,
finalmente la fase umana
è V attuazione
e quindi il
trionfo e la signoria
della Ragione spiegata,
la quale neU'
ordine della vita civile,
politica e sociale
si traduce nel trionfo
della libertà. La
storia dunque è
un organismo come la
psicologia; e quindi
le leggi psicologiche
sono il criterio interpretativo principale
del fatto isterico. Questo è
il vero concetto
della VoUcer Psycólogie
per VA. della Scienza
Nuova. Dove sta
il difficile? Appunto nel
far cotesti interpretazione; appunto
nelr applicare le
leggi psicologiche alla
storia. In tale applicazione occorre
schivare (come vedremo
in Sociologia) que' due
gravissimi errori ne'
quali rompono Hegeliani e
Positivisti: cioè l'universalismo nel
comporre la filosofia della
civiltà, e il
particolarismo e '1 determinismo nel
fissarne le leggi.
Due perciò sono
le condizioni razionali per
la scienza della
storia: V applicare al
fatto isterico le
leggi psicologiche; ma
applicarle, non già all'
umanità, come fanno
i seguaci di
Hegel, bensì a' popoli,
alle schiatte, alle
tradizioni: 2 tener conto
delle mille cagioni
estrinseche ed irraziouaU
che in modi infinitamente
diversi e molteplici
turbano lo svolgimento della
storia; ond' emerge la
necessità, ripe* tiamolo, della
psicologia e della
crìtica storica nello stabilire i
principii deUa filosofia
dello spirito. Or cotesto
metodo, oltreché nelle
dottrine metafisiche, anche nelle
teorie storiche e
sociologiche risulta
logicamente, come vedremo,
dallMndirizzo medio dell'Aristotelismo rappresentatoci, ne'
tempi moderni, dalla Sdenta
Nuova. Nella Scienza
Nuova, e perciò
nel metodo isterico e
psicologico del Vico,
abbiamo la condanna più
severa e la
confutazione di fatto
degli estremi indirizzi aristotelici
rinnovatisi in questo
secolo per opera dell'
Hegelianismo e del
Positivismo nel regno degli
studi storici e
sociologici. Ma qual è
la genesi e quindi la
teleologia del processo psicologico? That
is the question! Re la genesi e
teleologia psicologica. Lo spirito
ha le sue
leggi come la
natura; ed è anch'
egli un organismo
come la natura.
Perciò dapprima è Sintesi
iniziale, come si
disse, poi Analisi,
poi Sintesi finale. Spencer direbbe
che l' organismo psicologico procede dall'
omogeneo indeterminato, all'
eterogeneo; e
dall'eterogeneo (avrebbe dovuto
aggiungere;, fa ritomo all'
omogeneo, ma all'
omogeneo determinato e universale. Fin
qui abbiamo studiato
la psicologia nel fatto.
Movendo da una
dualità empirica, cioè
dal senso che iniziando
il processo teoretico
s' eleva a dignità
d'intelletto, e A^X potere
che preludendo al
processo pratico assume valore
di libera volontà,
abbiamo sorpreso l'organismo psicologico nel
momento stesso dello
sviluppo, dell'analisi,
dell'eterogeneità, della diflFerenza e
moltiplicità delle sue
funzioni. Or è d'
uopo rimontare all'origine psicologica. È
d' uopo ricercar
la cellula madre
di quest'organismo. È d'uopo
investigare il centro
di questo cìroolo, la
sintesi origìiiaxia di
quest'analisi che a noi
porge la
coscienza. La genesi dello
spirito vuol esser
guardata in tre modi,
sotto tre forme,
per tre fini
diversi: psicologicamente,
logicamente, ideologicamente. La
Psicologia studia lo spirito,
ma in quanto
è un multiplo
di funzioni, d’operazioni, di
facoltà. La Logica studia
lo spirito, ne ricerca le
funzioni psicologiche, ma
in quanto producono, generano, partoriscono. L' Ideologia, finalmente,
studia anch' essa lo
spirito, ne indaga
le funzioni psicologiche, ma guardandole
ne' lor prodotti
generali La Logica
dunque siede in mezzo
all' una e
all' altra scienza.
Ella studia non altro
che relazioni: studia
le relazioni fra
la causa e l'effetto,
le attinenze tra la forza
e le sue
produzioni, e quindi raccoglie
leggi universali, attinenze
necessarie, poiché se lo
spirito si differenzia
appo gl'individui per attività
ed energia di
potenza e per
moltiplicità di risultati, non differisce
menomamente per le
leggi alle quali dee
soggiacere ciascun individuo.
La Logica è
universale, obbiettiva; e quindi
indipendente dal soggetto,
non altrimenti che la
matematica. Or queste
tre scienze che r
analisi immoderata delle
scuole ha ridotto
a frantumi, non sono
che tre aspetti
d'un medesimo subbietto:
d'un subbietto, cioè, avvisato
P come forza
e potenza: come atto
e risultato; finalmente
come potenza in
quanto diventa atto, e
però come relazione
dell' un termine verso l'altro.
Psicologia, dunque. Logica
e Ideologia dovranno condurci
ad una medesima
conseguenza nel problema su
la gencHi psicologica. Nel processo
psicologico dicemmo esserci
un primo ed un
ultimo atto. Questo
primo e quest'ultimo
atto, anziché facoltà, come
pretendon gU Spiritualisti, anziché semplici condizioni
psicologiche riducibili alla
fin fine alle funzioni
biologiche, come ci
predicano i Positivisti,* sono invece
facoltà delle facoltà.
E son tali
per[Per esempio Mill [cf.
Grice, “More Grice to The Mill”] {La
PhU, de Hamilton,
trad. CazeUes). H.
Taink (2>« VintelUgence). che runa
d' esse è originaria,
e V altra
è complementare; perchè la
prima è potenza,
e la seconda
è atto: perchè,
in somma, quella è T Io
in quant' è
coscienza primitiva, e questa
è V Io in quant'
è pienezza di
personalità, auto-coscienza.
Or è
mestieri ammettere che
la coscienza, in quant' è
facoltà détte facoltà,
esista dapprima come potenza
originaria; preesista com’energia
irreducibile; preceda come atto
che sia tutto,
e nulla; e
vaglia quindi a costituir
la natura stessa
di quell'ente che
nella scala zoologica diciamo
ente umano, E
innanzi tratto, s'egli
è vero che le fimzioni
psicologiche convengon tutte
nell'essere un conato di
natura essenzialmente teleologica,
è d'uopo che, attraverso
a tutte e
in fondo a
ciascuna, si occulti un
atto rudimentale, radicale,
comune, essenzialmente
generatore, contenente universale
e indeterminato del doppio
processo psicologico teoretico
e pratico. D' altra parte, se
il fatto ci
addita una dualità
empirica, concreta ed elementare,
cioè il senso
e il potere;
ne viene che queste
due facoltà, sia
che le si
guardino nel loro obbietto
e natura, sia
che nel fine
cui sono indirizzate, ci rappresentino
due opposti, ci
esprimon due contrari; e,
come tali, abbisognano
d'un soggetto comune
in cui (secondo l'esigenza
dell'Aristotelismo) elle sussistano originariamente. La
duaUtà empirica e,
per così dirla, sensata, ci
rimena infatti $ui
una dualità superiore
e trascendente, la quale
a sua volta
non può non essere
altresì unità, unità
confusa, unidualità anteriore,
e della quale possiamo
dire ciò che
Aristotele afferma delle parti
avvisate in riguardo
al tutto. Se
la parte potenzialmente e cronologicamente precede
il tutto; attualmente e
logicamente il tutto
dee preceder la
parte.* ^Xou xai >f
uX>i TT^c ouVtac"
Jtar' «vT«Xj;^tiav 5'
u^7«/oov 5«aXxtBivroi y(/.p x«t*
£vTi>JX«*av «(T']at. (Met.)
Ecco la ragiono (sia
detto di passata)
onde la Psicologia
differisce in immenso
dalla Zoopsicologia, checché ne
dicano il Darwin,
V Agassiz, il
Vogt ed altrettali. Neir ordino
zoopsicologico la dualità
empirica del »etuo
e dell' i»Hnto esiste; ed
è unità confusa,
è unidualità: ma
riman sempre tale,
sempre Questo tutto originario,
quest' unità la
quale anche come primigenia
è numero, cioè
unìdualità e però
facoltà déHe facóUà, è
ciò che con
antica ma significativa
parola il Vico suole
appellar mente, mens.^ Alla
medesima conseguenza ci
conduce la logica
e r ideologia. Rammentiamoci
della dottrina su
la conoscenza. Se neir
ordine del conoscere
il fatto è
il dato, il fenomeno,
ciò eh' è
posto, la cieca
percezione; insomma, ciò che
non può esser
conosciuto di per
sé stesso: il vero,
per conta'ario, è l’elemento
ideale, astratto, vuoto, formale, a
priori; ma a
priori in quant'
origina immediate dal seno
stesso del pensiero.
In che sta,
dunque, il nello
stato potenziale: mentre
neir ordine psicologico, cioè
umano, ella diventa atto,
numero, e quindi
il Senso e
il Potere vi
assumono anche valore di
sentimento e di
coscienza. Se dunque
è così, chi
vorrà credere che quella
dualità sia puramente
animale come nella
Zoopsìcologia ? Se fosse
tale, non dovrehhe
restar sempre la
medesima, come incontra nel
soargetto zoopsicologico? Dunque (la
conseguenza parmi chiara)
quella dualità nell’ente umano
deve importare qual
cos'altro che non
sia puro Senso, né
puro Istinto. * Quel
che latinamente egli
chiama men« cmimi
è essenzialmente pensiero; e
pensare per lui
è manifestare sé
a sé medesimo:
Mens cogitando se extbet
{De AsUiqHÌ9.). Or la mente
è principio unico
di tutte le facoltà:
principium unum Men»;
e I’occhio di
lei é appunto
la ragione: eujw oculua
Ratio {De Univ.
Proem.). Dunque ciò
eh' è di
là e dentro e
dietro a quest'
occhio eh' é
la Ragione, é
appunto la MenU;
la quale perciò è
anteriore a tutti
i gradi, a
tutti i momenti
del processo conoscitivo. Se non
che lo spirito,
in quant'ò menUf
vede anch'essa; altrimenti come si
farebbe a dirla
mente? Ma allora
soltanto ella disceme,
allora soltanto é oechiof
e perciò era
visione, quando diventa
ragione epiegata, e quindi
processo teoretico. Per intender
meglio il significato
della mente, ricordiamoci del
»ene%u intemtu, del
eennu eui, della
eoecienta, cwn-eeientia, di cui
egli parla in
più luoghi delle
sue scritture. In
ispecie è da riflettere
quando afferma, la coscienza
essere insieme univereale
e particolare; e il
senso intimo, individuaUt
e insieme comune,
fi da riflettere
dove accenna ad una
facoltà naturale e
epontanea ond' é
fornita la eomuiune natura degli
uomini. È da
riflettere, finalmente, e
specialmente, ove parla di
certi giudizi istintivi
eh' egli chiama
giudizi fatti sknza
bifles8I0NK. (Vedi Prim.
e See. Se
Nuow% passim.) Or
di sotto a
questo linguaggio esce chiara
una conseguenza; la
necessità, cioè, di
riconoscere come, attraverso a
tutte le diiferenti
forme psicologiche, esista
un punto centrale onde
s' irradiano e dove
si riconducon tutte
le funzioni dello
spirito. Quest'esigenza
psicologica nel Vico
parmi evidente per
ciò che s* è
detto, e
per ciò che
ancora diremo. conoscere? Nella
conversione de' due elementi.
Intendere è legere; e
legere è cdligere
dementa rei, cioè
coUigere il vario sensato,
il fatto. Questo fatto
dunque vien raccolto e
innalzato a dignità
di vero e
quindi ad unità,
appunto quando la mente,
generando sé stessa,
conosca insieme la guisa
onéPtma cosa è
fatta. Or in
cotesta genesi hawi
un intimo vincolo per
cui V eiFetto
è anche causa,
e la causa eflFetto; ed
è questa quella
tal funzione eduttiva
onde la ragione, annodando
cause con cause,
e però convertendo il vero
col fatto e
viceversa, rintraccia il
medio termine, e fa
la scienza. Se
intanto il conoscere è
un atto di
sintesi ond'il vero
è forma, predicato, categoria, ma
non per anche
attributo e però cognizione, mentre
il fatto è
materia e parvenza
fenomenale; ne segue, esser
davvero una grande
scoperta della moderna psicologia
quella fatta dal
Kant e legittimata in gran
parte dal Rosmini,
ma presentita dal nostro
filosofo; che, cioè,
pensare sia essenzialmente giudicare.* Che
cos' è infatti
il giudizio fuorché
il predicato assumente forma
evalore d'attributo? Dunque, anziché nel
cogliere il puro
vero, o nell'apprendere il puro
fatto il giudizio
risiede nel concetto.
Ma che è egli
mai il concetto
salvochè la conversione
del vero col fatto,
considerati questi com' elementi
essenziali nella sfera dell'intendimento? Ora, tornando
al proposito, comecché il
vero e '1
fatto, convertendosi, generino il
concetto e quindi
il giudizio, e
col giudizio facKant,
Orit. de la
Raùon Pure. Log,
Tra»cend., BosMiin, Nuo, Sagg,
L' atto del conoscere
ò m'rtò di
vedere il tutto
di eitueheduna omo, e
dì vederlo tutto
ineieme^ ehi tanto
propriamente tuona intblliobri,
e allora veramente ueiam
Tintblletto. (Vedi Lett.
al Sotta.) È
agevole scorgere, por tutto
ciò che abbiamo
detto qui e
altrove, quanto in Vico sia
chiara Tesigeriza kantiana deirunirà
eintetica detTappereezione, non
che quella della
percezione intellettiva Rosminiana,
e meglio ancora (per
qaèl che diremo),
V altra del
Sentimento fondamentale. Ma in
grazia del suo
criterio, al solito,
si può riuscire
a schivare il
tubbiettiviemo e il formaliemo
dell'uno e delPaltro
filosofo adoperando il
metodo deduttivo. cian possibile ad
un tempo la
coscienza e l'esperienza; nuUamanco, a
somiglianza delle funzioni
ond' essi rampollano, restan sempre
una dualità, ma
dualità originaria;
stantechè non potendo
T uno emerger
dalP altro, né r
altro dalF uno,
debbano coesistere entrambi
nella coscienza. Se non
che, una dualità
originaria non è
forse un assurdo? Senza
dubbio, un assurdo.
Dunque è necessaria certa unità
iniziale, intima, primigenia,
appo cui 1 vero
e il fatto
sussistano germinalmente come in
grembo ad una
sintesi confusa. Alla medesima
conclusione potrebbe giugnere
chi pigliasse a guardar
Y intero processo
logico, cioè le funzioni
teoretiche tanto nel
lor movimento, quanto
ne' lor risultati. Percezione,
Giudizio e Sillogismo
son tre gradi, tre
momenti, tre forme
distinte d'una medesima
funzione eh' è la Mente.^
Nella percezione la
Mente si manifesta come unità
immediata appo cui
oggetto e soggetto
sian tuttora confasi. Nel
giudizio, invece, predomina
l'analisi, la differenza; perchè
i termini standovi
fra loro di
fronte l'un r altro
e quasi irresoluti,
avviene che la mente debbasi
palesare come dualità.
Ma poiché il
giudizio importa
necessariamente un ritorno
sopra sé stesso,
e questo ritomo appunto
costituisce il sillogismo;
accade che in questo
ritomo, nel sillogismo,
la mente si
palesi come unità e
dualità in atto,
come triplicità attuale, come
mente spiegai'a. Or se l’organismo logico
e l'ideo-logico son anch'essi
un processo non
altrimenti che l'organismo psicologico;
se il risultato
finale di cotesto processo, la
funzione terminativa di
cotest' organismo è • €
Tre» mentit operationes:
Pkroiptio, JUDIOIDM, Batiooinatio.
Tribua artilM diriguntvr:
Topica, Critioa, Mbthooo.
{De AntiquUe.? aavT6)v,
Met.). E s'aggira
poi attorno alla seconda,
cioè al senso
e all' esperienza,
perchè dee verificar
la prima, cioè dove
inverare il principio,
o, eh' è
il medesimo, dee
convertire il vero col
fatto^ il voù;
potenziale con l'esperienza.
Perciò il voù;
attuale è la conversione per
antonomasia, massime quando
assuma valore di
Ragione, Perciò stesso la
scienza, diciamolo anche
una volta, non
può essere un magistero
deduttivo, nettampoco un
artifizio meramente induttivo. *
e Metaphtfatei enim
claritat eadem eat
numero ae illa
lueÌ9 quam non nin
per opaca cogno»eimu».
Si enim in
clathratam fenestram qua
lucem in aedee tuimittitf
intente ac diu
intueari»; deinde in
eorpue omnino opacum aciem
oculorum eonpertae; non
lucem «ed lucida
ckuhra tibi videre
videaria. Ad hoc imitar
metaphtfeieum verum illustre
c«(, nullo fink
ooNOL0Drr(TR, NTTLLA FORMA disorrnitur;
quia est infìnitìim
omnium formorum principium: phy9Ìea mtnt
opaca, nempe formata
et finita in
quibu» metaphyeid veri
lumen videmue (De Antiquie) Come
si vede, anche
in ciò il
Vico non fa che
inverare l' Aristotelismo. Che
in Aristotele infatti
ci sia il concetto
del Noùc
potenziale come noi l'
intendiamo, e però
anziché passivo, come parrebbe,
sia fornito anch'
egli d' attività stantechò
possieda un oggetto somigliante
alla luce che
fa essere in
atto i colori,
si può vedere dalla
seguente sentenza: xa
la mente in potenua
d'Aristotele, 2** V
ettere ideale di SERBATI;
ma levando 1
difetti che certo non
mancano nelle loro
dottrine. Difetto d'Aristotele,
come avvertimmo, ò la
mente che vien
difuora. Difetto del
Bosmini, poi, è
V immobilità originarla e
la presenza non
legittimata del suo
Ente poetibile dinanzi
alla mente. Anche per
noi la mente
vien di fuori;
ma questo di
fuori è la
natura in generale. È
un di fuori
nel senso eh'
ella serba intimi
vincoli con la natura
e col sensibile,
e sorge per
virtù propria, ma
col mezzo del
sensibile. Tal si è
l'interpretazione che potremmo
dare a questa
celebre frase aristotelica, nò
ci mancherebbero testi
in proposito per
confermarla; tanto la natura
non può essere
intelligibile in quant'
ò semplice realtà, ma
in quant' è potenza
attuosa, conato, processo, divenire.
Or in che
maniera potrebb' esser tutte queste
cose ove non
includesse una legge,
un ritmo, una misura,
una forma di
moto, un moto
ordinato? Che s'ella è
per sé stessa
intelligibile in quanto
che esplicandosi mostra sé
medesima e si fa intendere;
evidentemente non potrebbe fai-si
intendere ove non
importasse tre condizioni, ciò
è dire un
principio, un mezzo, ed
un fine. Se
dunque la natura
è potenza attuosa
e quindi per sé
stessa intelligibile, ha
da essere altresì))otenzialmente intelligente. E sarà intelligente
attuale ove quelle tre
condizioni siano insieme
compenetrate in unità: quando,
cioè, il principio
sia soggetto, il
fine oggetto, il mezzo
relazione. Che cos'è dunque
lo spirito nell'atto
suo radicale, nel suo
momento originario? È
soggetto, oggetto e
relazione: pensante, pensato e
pensiero. Però l' intima sua
struttura è insieme
dualità e unità, difi'erenza
e medesimezza, e
quindi, come si disse,
triplicità; ma triplicità
sotto forma di
sintesi iniziale e confusa.
Ne segue perciò
che l' intuito, la mente,
il NoJ; potenziale
altro non possa
essere, per noi, fuorché
il momento istesso
in che la
natura diventa pensiero; il
momento per cui
l'anima attinge forma e
sostanza d'intelletto. Ora il primo
pensiero non potrebb' esser
triplicità, non potrebb'
esser sintesi primitiva, quando
non fosse l’intelligibile divenuto
altresì intelligente. Dunque la
Mente è la natura
incarnatasi come individuo; l'intuito
è l'individuo che, trascendendo sé
medesimo, assume valore di
coscienza. più che interpretazione
somigliante ne dettero
alcuni aristotelici del
Rinascimento, fra cai meritano
d* esser menzionati PORZIO e ZABARELLA
come quelli che
considoramno la luce
intelligibile quasi di8»eminata
tuHle /arme materiali^ e
Dio come influente
sa V irUdletto
potnbihf non in quanto
intéUigente, ma solo
in quanto intelligibile. (Vedi SERBATI, Peieol,, Ddle
Sentenze de' FU
Rinnooam.) Possiamo dire perciò
che cotesto Noù?
potenziale ci renda immagine
della testa di
Giano. Con una
delle sue facce ccrtesto
Giano guarda al processo
della sostanza; guarda alla
natura in quanto
piglia valore d'individuo: dovechè con
l'altra inaugura, geminandosi,
il processo psicologico, del
quale son due
forme essenziali il
processo sociologico, e il
processo storico. Se
non che, lasciando per
ora del processo
della storia e
della sociologia, importa notare come
dalla costituzione primitiva
del pensiero, secondochè noi
l'abbiamo designata, emergano, fra
le altre, alcune
conseguenze risguardanti l'essere
individuale, l'origine e'I
fine dell'anima. lUfacciamoci dalla prima. La
triplicità originaria, o,
eh' è il
medesimo, il secreto vincolo fra
oggetto e soggetto,
costituisce la radice prima
della individualità, e
però il fondamento cardinale della
libera determinazione. Se
infatti il N^uc potenziale è due cose
e non una,
cioè mente e
luce, ne segue che in quant'è
niente è soggetto;
e come soggetto non
può non esser reale,
moltiplioe, diverso, individuale: in quant'è
luce, poi, è
oggetto; e come
oggetto deve serbar carattere indeterminato, comune,
universale. Ora il concetto
di persona risale
appunto al connubio
di questi due elementi
primitivi. E invero,
come mai l' individuo potrebb' esser individuo
se non fosse
oggetto, fornito perciò della
nota d'universalità? E
come, d'altra parte, potrebb' esser davvero
universale ove non fosse
nello stesso tempo
un soggetto concreto,
vivente, particolare? Il particolare
è il fatto;
e al pari del
fatto e' sarà
vero, quando assuma
valore universale, non ismettendo
d'esser particolare. Similmente
l'universale è il vero;
e al pari
del vero sarà
un fatto, quando rivesta,
anche come universale,
natura di particolare. La conversione
del particolare e
del generale non può
farsi che nell'origine
stessa del pensiero. Or se
tutto ciò è
indubitato, come potranno
salvarsi dall'errore più esiziale
all'umano consorzio, eh' è
l'annuilamento del vero
concetto di persona,
tutte quelle diverse famiglie di
filosofi che altrove
riducemmo ai due indirizzi
estremi dell’Aristotelismo?
Gli aristotelici empirici e
naturalisti e positivisti,
infatti, distruggon la personalità
perchè negano il
Nou; potenziale come
diverso dal senso; perchè
lo riducono al
senso. Ma la
distruggono altred gP iperpsicologisti antichi
e moderni, cioè gli
Averroisti e gli
Hegeliani: i primi
perchè separando i due
elementi credono il
soggetto abbia a
partecipare deir oggetto posto
fuori e sopra dell'individuo; i
secondi perchè fanno assorbir
l'individuo entro a
quell'oceano immobile e sconfinato,
ch'essi addimandano Spirito
Universale. La quale affinità
di risultati non
avrebbe a recar meraviglia,
chiunque sappia come
la dottrina dell'in^eZZ^^
agente, e l'altra
non meno speciosa dello
Spirito Vniversàlej rappresentino, sotto forme
diverse di speculazione, l’iper-psicologismo aristotelico. Da questa
prima conseguenza poi
nasce una seconda
di massimo rilievo. Posto
il Noù; potenziale
non già come passivo,
anzi come fornito
originariamente d'attività
spontanea in quanto
che nella sua
nativa indeterminatezza è pur
determinato da un
oggetto; si riesce
a schivare così quell'errore
supremo a cui
rompono, per vie
diverse, i suddetti filosofi
seguaci de' due opposti
indirizzi aristotelici, e che
riflette i destini
dell'anima e dell'umana
personalità. Se infatti nella
mente, nel NoJc
potenziale risiede la ragione
della individualità e
quindi la radice prima
della personalità, ne
segue che lo
spirito, essendo coscienza originaria
e quindi soggetto
superiore all'organismo, non può, tuttoché
sgorgato dall'organismo, finire così
come finisce la
funzione organica. Se
l'organismo, come dicemmo, è
numero che diventa
unità, o meglio, unione d'indole
dinamica, è chiaro
com'ei non possa altrimenti
finire, salvo che
disgregandosi e trasformandosi. Il suo
fine è semplice ritomo;
è ritomo propriamente detto: il
suo progresso è
regresso nel significato di monotono
rifacimento. Per contrario
lo spìrito è unità
e numero sin
dal momento ìstesso
eh' egli è pensiero.
Dunque non può
altrimenti finire fuorché attuandosi vie
piii e compiendosi
come individuo, come coscienza, anziché
annullandosi come tale
per vivere in grembo
all' universale d' una
vita che non
é vita. Il suo
finire non significa
ritornare, ma persistere.
11 suo progredire non è
regredire, ma incessante
determinarsi. Non è insomma un
monotono rifarsi, un
ripetersi come la specie:
é uà perpetuo
farsi: un perpetuo
rinnovellarsi dell' individuo in
sé, e per
sé medesimo. Che
sia così, ce ne fa capaci
l’essenza stessa del
finito, delle forze, della
natura. Perché, davvero, se
la natura é
conato essenziale, non verrebbe
evidentemente a contraddire
a sé medesima ov'
ella non superasse
il senso e,
trascendendo il fantasma, non
se ne distaccasse
rendendosene indipendente?^ *
A questa maniera
di prora intende
accennare Platone dove
afferma che r immortalità
non è nò
un eato di
cui saremmo felici
ore ci toccasse, nò
una aperanM della
quale è pur
bollo lusio^^are noi
medesimi: x3c).oV 7a/9 o'
xtv'Tuvoc, X3tì jr^vj
rà roiavra tò^mp
ffTroé^scv eaurù. {Fed.^ ed.
Stallbanm) Che se
altri ci chiedesse
notizia su la
pecnliàr forma della nostra
esistenza sovramondana e
sul modo con
che il NoJ; attuale
sarà unito coll’assoluto, noi
risponderemmo francamente di non
ne saper nulla.
WpoaithOfW razionalmente
poA/etVo, in siffatta
quistione in che consiste?
Consiste in ciò;
che il Noù;
attuale, in quanto
pienezza di coscienza e
di personalità, finisco
di necessità neir
Assoluto, cioò finisce col
non finire; e
quindi il soggetto
j>of«»ùifmeiUe tn/ìntro,
qual si è appunto
lo spirito, non
può finire come finiscon gli
altri soggetti finiti,
i quali finiscono appunto perchò non
sono propriamente aoggeui.
Orda cotesto pentivo si
dipartono tanto coloro
che nella soluzione
di siffatto problema
ci vogliono dar troppo,
quanto quegli altri
che finiscono col
non darci nulla addirittura. Escon dal
positivo razionale o
fecondo, per cadere
nel dommatico tradizionale,
i Teologistt col
loro inferno, paradiso,
purgatorio, eternità delle pene,
e che so
io. Escon parimenti
da questo positivo,
per cadere neira priorinno
dommatico e sistematico
e nel Nullismo,
gli Hegeliani con la
teoria dell* individuo
accidentef fenomenico e
pataeggiero, £d escono finalmente
dal positivo gli
stessi Positivisti per
cadere nel negativo, sia
che dicano col
Littré esser davvero
impossibile indovinar nulla intomo
a siffatto problema,
sia che affehnìno
col Feuerback di
saperne ogni cosa quando
sia risoluto co*
principii dello schietto
materialismo. 31a sopra questo
tema ci rifaremo
altrove. Qui ci
basti d'aver accennato ad
una maniera non
troppo usata di
provare la immanenza
necessaria della personalità come
coscienza individuale.
Questo quant'al destino
dell'anima umana. Che cosa
potrà dir la
filosofia positiva nuant' all' origine sua? Tutto
nell'ordine psicologico move
dal senso; ma nulla
non può nascere
per ragion del
senso. Se lo spirito
è essenzialmente pensare
e giudicare, e
quindi, come s' è detto,
luce metafisica, intuito,
mente e però triplicità; ne conseguita
ch'ei nasce a
sé stesso, ch'ei genera
sé stesso come
pensiero. Ecco il
vero significato dell'innatismo,
dell'idee innate, dell'
innate facoltà. Questa conclusione,
circa l' origine psicologica, contraddice, al solito,
tanto al Materialismo
che non sa elevarsi
più oltre delle
pure leggi meccaniche,
quanto a quell'astratto e
nebuloso Spiritualismo che,
incapace di scendere nel
regno de' fatti,
non sa penetrare
nell' esperienza, ed alimentarsene. Però
la filosofia positiva,
nel problema su l' origine
del soggetto psicologico,
non vuole, non può
accettare il principio
della trasformazione della materia
come pretendon gli
aristotelici empirici
rappresentati oggidì dagli
Hegeliani di parte
sinistra; e non può
del pari accettare
il principio (pur
ridotto a forma squisitamente
razionale e metafisica)
d'una creazione estrinseca, immediata,
superiore, secondoché stimano, il
tomista, il teologist^,
l' averroista, il neoplatonico, r ontologista.
Dottrine ipotetiche entrambe,
elle non sanno reggere
al martello della
critica. La prima riesce
insufficiente a spiegare
il fatto del
penciero: la seconda torna
inutile a legittimarne
la natura. Tra il
senso e l’intelligenza ci
ha intimo nesso ;
ma ci ha da
essere pure indipendenza
e diversità. Anche qui
si verifica ciò
che ha luogo
attraverso a tutti
i differenti gradi della
scala de' sommi generi
cui si riducon le
forze di natura:
si verifica, vo'dire,
quella doppia legge che
altrove appellammo della
continuità ideale^ o degl'
intervalli reali, Havvi
continuità perchè, posto
il senso, posta la
natura, è possibile,
anzi è necessario l'intelletto: si che può
dirsi che dall'uno
scaturisca l'altro. Ma ci
è pure intervalli,
perocché se l'intelletto germina dal
senso, o meglio
nel senso, non
per questo potrà esser
lecito confonderlo col
senso. Ci spiegheremo brevemente. Dicemmo come
l'esigenza massima, il
principio che qualifica l’Aristotelismo sia
quello che si
riferisce alla relazione tra
la potenza e
Tatto. Gli Aristotelici
empirici (per esempio gli
Hegeliani di parte
sinistra), ci dicon che
la potenza diventa
atto; e, applicando
siffatto pnncipio alla
psicologia col fine
di determinare l' attinenza fra l'anima
e '1 corpo,
affermano che l'anima
debba rampollare dal corpo
in forza della
leggQ del diventare. Che cos'
è per essi
il diventare? È
il to 7$ vo?
tolto in significato al
tutto empìrico e
sperimentale; il quale perciò
vuol dire trasformazione, generazione,
ripetizione e quindi passaggio
incessante (attraverso infinito
numero di forme) d'un
soggetto identico, d'un
fondamento universale ma concreto
e sensato, qual
è appunto la Materia.^ Gli Aristotelici
iperpsicologisti poi (fra'
quali sono d'annoverarsi gli
Hegeliani di destra),
ci dicono an'
È questa la
teorica propugnata, come
altrove toccammo, da*
moderni Materialisti
tedeschi. Essa, com'
è noto, è
rappresentata dal Feuerbach,
è divulgata e sostenuta
con incredìbile superficialità dal
Di' BUchner (Foror ei Matth-e,
trad. Gamper, Leipzig
Science et Nature
etc trad. Delandre, Paris), ed
è applicata dal
Moleschott alle scienze
fisiologiche. Ho appellato Arùtoteliei
empirici questi moderni
materialisti usciti dal fianco
sinistro doirHegelianismo, perchè
davvero considerati st>orlcamente e* non
fanno che svolgere l’indirizzo naturale
deirAristotelismo. Bel qual fatto
hanno coscienza essi
medesimi, segnatamente il
Moleschott, il più ingegnoso
fra tutti, quando
afferma che Vunion
de laphilosophie et
de la acience ne
e^eH rialieée qu'une
foie don» ArÌ9tote,
{La Oirculation de la
Vie, Paris) Ora
s'intende agevolmente comò
pel Moleschott questo connubio
della Filosofia con la Scienza
nella mente dello
Staglrita si compiesse tutto
a scapito della
metafisica. Aristotele, egli
dice, è conoscitore delle .opere
d* arte, degli
uomini e degli
animali [Ibi). Evidentemente il dotto
fisiologo riconosce in
Aristotele l'autore d'una Rettorica,
d' una
Storia degli animali,
e degli otto
libri su la
Politica. Ma perchè dimenticar r
autore della Ptieologia,
della iSi'HoywKca, dell' £Wea
e segnatamente della Metafisica
t Non è vero dunque
che l’Aristotelismo de' Positivisti,
do' Materialisti e
degli Hegeliani di
sinistra è addirittura
falso, erroneo, mutilato storicamente
o teoreticamente V ch'essi
che ìsl potenza diventa
atto; ma il
loro diventai^e, anziché grossolana
ed empirica trasformazione, è, per
cosi dire, un' addizione
ideale, cioè posizione
e contrapposizione,
determinazione, individuazione progressiva,
ma d' un soggetto unico,
universale, intimo, trascendente, assoluto, eh' è
appunto l' Idea.^ Ora
il soggetto del diventare,
tanto per l'empirismo
quanto per l'iperpsicologismo aristotelico,
cioè tanto per la sinistra
quanto per la destra
hegeliana, è sempre
uno, sempre identico a
sé stesso, chiamisi
Idea, chiamisi Materia.
Ecco dunque la ragione
per cui ne'
risultati, massime nella soluzione del
problema psicologico, le due scuole
s' accordano a meraviglia. Di
fatto, l'anima per
gli uni na^e dalla
materia, è materia,
e finisce nella
materia: per gli altri
nasce in virtù
dell' idea, è l'
idea, e
finisce nell'Idea. Qual è
dunque il fine
supremo dell'anima? Non altro
che un ritomo,
un estinguersi nell'
Idea, o nella Materia: ecco
tutto. L'intima parentela
tra il Positivismo e l’Hegelianismo non
potrebb' esser più
evidente I Seguaci dell'
indirizzo medio dell'
Aristotelismo, a noi pare
che l' interpretazione legittima
della sentenza aristotelica in discorso
non sia questa,
che cioè la
potenza diventi atto; ma
quest' altra, che
la potenza passi
ad essere atto. Se non fosse
così, tutto affogherebbe
sotto il pesante domma
dell'identità assoluta, né
vi sarebbe differenza di
contenuto fra le
cose in generale,
e nemmanco fra
il senso e
l'intelletto in particolare.
Or se questo fosse,
anziché progresso avremmo
processo; e ' La
materia e la
forma, la pot&Ma
e V atto,
la forma e
il contenuto, non ooetitHÌacono
altro che due
momenti deWIdea, (Hbgsl,
Log., Vedi anche
neir Introd. di VERA)
L’Idea perciò s’occulta eeaenxialmenu
in entrambo i momenti; con
questo semplice divario, che
nell* atto essa è piìi
determinata, più individuata,
più enudeata (direbbe con
parola significantissima Vittorio. Imbriaui) di
quel che non sia
nella materia e
nella potenza. Dunque,
io concludo, la
difTerenia non istà
nel quali, ma
nel qoaktvm; e
perciò diventare non
altro Tale, a dir
proprio, che traeformanL
Ecco il punto
di coincidenza de*
due estremi indirizzi aristotelici;
ed è pur
quello nel quale
per logica necessità debbono consentire
(checché se ne
dica) la destra
e la sinistra
Hegeliana. quindi monotonia, eterno
e indefinito cangiamento
di forme. Tutto quindi
si ridurrebbe ad
un meccanismo materiale, ovvero
ad un meccanismo
ideale; e leggo universale del
mondo sarebbe o
la necessità empirica
e fisiologica, ovvero la
necessità dialettica: fatalismo
cieco nell' un caso
come nelF altro.
Invece l' essenza del
processo cosmico per noi,
come vedremo, sta
nel canato secondo eh'
è inteso dal
Vico. Ma come
il conato potrebb' esser conato
ove non includesse
l' intervallo, la diversità vera,
cioè la diversità
di contenuto? Conato è
passaggio nello stretto
senso della parola
(irjìpytx otTf)>?;); è transito,
non trasformazione; eduzione
(edu* dio entis ad
a4ium) ma eduzione
intrinseca, e quindi conversione del
fatto ìid vero,
cioè dire conversione della potenza
nell’atto, creazione intima,
creazione spontanea. La potenza
dunque recasi ad
atto non in quant'
è potenza, ma
in quanto cessa
d' esser potenza, e
passa ad esser
atto; cioè in
quanVè potenza feconda. E come potrebb' esser feconda
(tò ^warov), ove non
fosse privajsfione («rrf/jvjTc;)?» Or
tutto ciò, come sarebb'
egli possibile senza
la doppia condizione
della continuità ideale e
dell'intervallo reale?
Torniamo all' assunto.
L' intelletto nasce dal
senso: è vero. Ma
forse che nascere
vài risultare? Se
così fosse, r intelletto
non essendo altro
che un risultato,
starebbe rispetto al senso
così oomQ precisamente
nella storta del chimico
sta un sale
rispetto agli elementi
onde risulta, cioè all'
acido e alla
base. Or questo
(chi noi ' Questo
è il senso
che noi diamo
al principio aristotelico
della pn«astone. {Metaph.)
Anziché principio negativo^
la pr«ea«ira posto
oggimai nella sua
massima evidenza sopratutto
da Rosmini. A niuuo
è lecito dubitare
della necessità d’una
forma oggettiva originaria nella sfera
de* fatti psicologici.
Con salde ragioni
il Kant ha
dimostrato, contr*ogni
maniera d'empirismo psicologico,
che lo spirito
intanto pensa in quanto
giudica; e più
ancora Rosmini ha
posto in chiaro che
lo spirito giudica
appunto perchè è
toggeito e oggetto
insiememente. Vedi Nuo. Saggio
passim. Rinnowm, Psicologia,
Introd, alla FU.)
I difetti della
teorica Rosminiana li
accenneremo in quest'altro
capitolo. Qui osserviamo
che in tale dottrina
il filosofo italiano
si ricollega con AQUINO (si veda), e, chi
volesse andare più
in su, anche
con Alessandro Afrodiséo,
e quindi con Aristotele. Nello
Stagirita infatti ò
chiaro questo principio:
NotjtvÌ ^i in iTÌpcK.
do. Ma nemmanco
è presupposta al
corpo, come dice
lo stesso Platone, 0
piovutagli addosso dal
di fuori e
dall'alto in certo mese
e in certo
momento della vita
intrauterina, come affermano tomisti
e teologi, senza
dirci ne come
né perchè: e tanto
meno potrebb* esser venuta
fuora e venir fuora
qual risultamento di
leggi meccaniche e
fisiologiche. L'anima è creata;
o, per dir
meglio, l'anima crea sé
medesima per una
legge profondamente dinamica che
si confonde e
compenetra con l' essenza
stessa della natura e
del finito. Perciò
alla domanda, se fra
l'anima e '1 corpo
come fra il
sentire e l'intendere
oi è salti ed
abissi, rispondiamo subito
che sì; ma
tosto aggiungiamo, che, a
colmare cotesti abissi
e varcare cotesti salti,
né la psicologia
positiva ha punto
bisogno d' invocar l’atto immediato
d' un deus ex
machina, né r ideobgia
ha mestieri d'
un a priori
che, dardeggiando all' anima
il raggio dell'
intelligibile sovramondano, svegli
ed ecciti in
essa la virtù
dell' intelletto. Questo,
e solamente questo,
noi potevamo dire
'quant' alla genesi e
quant' alla teleologia
dell' anima umana, puntellandoci unicamente
su la natura dell'
atto essenziale, dell'
atto radicale onde
vuol esser costituito il
pensiero. La psicologia
non sarebbe famMndoèi bel
bello diventa miracolosamente intelletto,
ignorando cosi o facendo
le Tlste d'ignorare
gli studi profondi
e le parti
accettabili deUa psicologia Rosminiana; sì
serva pure: noi
non istaremo a
perderci ranno e sapone.
Ma non sarà
certamente villania il
dover dire di lui
con Aristotele: uoeo;
yixp f^fw o
toiowtoc y, toéoùtoc
'A^ril davvero positiva, non
sarebbe razionalmente positiva, quand' ella
presumesse di risolvere
diffinitivamente, donimaticamente, sistematicamente questi
due problemi, che non
senza ragione Leibnitz
appellò terribili. Ella deve
saper contraddire a
due estremi opposti
e contrari. Da una
parte dee contraddire
allo Spiritualismo e al materialismo; dall'altra
al positivismo. Dee
contraddire al volgare
spiritualista e al
materialista, perchè
entrambi pretendono, tuttoché
per vie e
risultati assai diversi, d'aver
risoluto in maniera
invincibile cotesto doppio problema,
mentre nel fatto
l'un d'essi disconosce il
valore intimo, l'autonomìa
dell'anima, e l'altro finisce
per impugnanie perfino
l'esistenza. Deve poi contraddire
al Positivismo, perchè
questo, al solito, non
volendo sapere di
siffatti problemi, ne
dichiara impossibile tal soluzione,
e quindi inutile
il parlarne. Il filosofo
seriamente positivo può
fare qualcosa di più
che non
sappia il Positivista.
Ma confessa di
non saper giugnere fin
dove, con volo
icario e fatale,
sanno spingersi materialisti e
spiritualisti, empirici e
tradizionalisti, hegeliani
di destra ed
hegeliani di sinistra,
mistici e ontologisti. I
principìi della psicologia
positiva che abbiamo interpretato
nell' autore della
Sdenza Nuova ci possono
far capaci di
determinare siffattamente la genesi
e la teleologia
dello spìrito, da
chiuder l'adito allo scetticismo
e al nullismo.
Il che non
dovrebb' esser poco, anzi
dovrebb' essere moltissimo,
agli occhi almeno di
coloro che modestamente
sanno e voglion
riconoscere i confini del
pensiero umano. Abbiam visto
come la genesi
del processo psicologico sia essenzialmente genesi
teleologica. Ella dunque
ci vieta d'essere scettici
per sistema, ci
vieta d'esser nuUisti
circa il sapere metafisico.
Se il mondo
della natura e
quello dello spirito, come
altrove toccammo, sono
processo e conversione, stantechè
il primo sia
numero che volge ad
unità e il
secondo unità che,
in sé medesima
attuandosi, divien numero; anche l’assoluto, serbando
medesimezza di legge, ha da esser
non altro che
conversione, processo,
mediazione. È dunque
possibile che la
mente penetri in qualche
maniera nel regno
delle realtà metafisiche. Ma se
la legge è
comune, sarà pur
tale il contenuto? Agli occhi
del modesto indagatore
del vero la metafisica
è la scienza
de' confini. Or
questi confini appunto ignorano tanto
i Neoplatonici quanto
i Neoaristotelici per opposite
ragioni. Di fatto anche
qui, e sopratutto
qui, navighiamo fra Scilla
e Gariddi: siamo
fra que'due soliti
estremi, come si disse,
in che travagliasi
'1 pensiero filosofico
fino da' tempi in cui
sovraneggiarono i due
grsmà'' istitutorì déW uman genere,
come il vivente
filosofo berlinese non dubita
chiamare Platone ed
Aristotele.' Qual è,
in generale, l'esigenza e
quindi '1 distintivo
de' Platonici e del Neoplatonismo
di tutte l'età
nell'afifermar l'assoluto? È il
propugnare la conoscenza
immediata e primitiva dell' obbietto
metafisico, qualunque ne
sia 1' ampiezza, il
grado, il valore
dell'intùito. Qual è,
invece, l'esigenza degli Aristotelici
e del Neoaristotelismo? È il
* 1|I0HIL«T, Metaph,
d'ArUL. mantenere la mediatezza
del conoscere metafisico,
ovvero menomarla cosi da
renderla inefficace, e
talora persino affatto negativa.' I
metodi de' Neoplatonici nelP
attinger l'assoluto ' In
armonia con le
idee accennate già
nel Gap. Ili
di questo secondo libro
sa la storia
generalo del pensiero
filosofico, noi togliamo
in sig^nificato largo le
parole Neo-platonismo e Neo-aristotelismo. In
esse comprendiamo più e
differenti scuole di
filosoft. E quindi
non sono soltanto
filosofi Neoplatonici gli
Alestandrini o quelli
àeXht scuola Toscana «
od altri simili tra' filosofi
cristiani. Filosofo neoplatonico è
chi, pur modificando
il Platonismo, ne
sorbi, come notammo, due
esigenze, di cui 1’una ò
p9Ìeologtea e 1’altra
è tnetaJUica. La prima
consiste nel porre
un* attinenza primitiTa,
e quindi una
connessione originaria Tra la
mente e l'obbietto metafisico. Secondo
tal criterio, fra* neoplatonici
andrebbero annoverati parecchi
filosofi arabeggianti, avvegnaché per ragione
isterica ei risalgano,
come toccammo, allo
Stagirita. La seconda esigenza
poi risiede nel
riguardar le idee siccome
entità aottanxialmente eaemplatrici;
il che costituisce
davvero il distintivo del
Platonismo in generale.
Or le diverse
famiglie o varietà di
platonici e di
neoplatonici possono esser
coordinate, nella storia della
filosofia, secondochè queste
due posizioni si
presentano più o meno
modificate. Per iVeoameoCetùn
poi intendiamo qne'filosofi
che contraddicono, in generale,
ali* anzidetta esigenza
psicologica e metafisica.
E poiché il Platonismo, come
dicemmo e come
avverte il Barthélemy
Saint-Hilaire {Phif9.
d*ÀrÌ9t., Pref.), si
riproduco e si
trasforma in Aristotele
non pure quanto alla
filosofia ma eziandio
quanto ad ogni
altra sfera di
scibile, cosi noli' Aristotelismo
è d’uopo saper
rintracciare i germi
del triplice indirizzo speculativo
da noi altrove
accennato, massime deirindirìzzo
mediof nel quale unicamente
è possibile rinvenir
la correzione del
Platonismo e dell’Aristotelismo.
Ripetiamolo anche qui:
tutta la storia
del pensiero filosofico occidentale
consiste nelJo svolgimento
fecondo e svariatissimo di questi
tre indirizzi; ciò
ò dire nella
lotta perenne delle
due estreme posizioni, e
nel trionfo lento
e faticoso, ma
immancabile, della posizione mediana. Se
questo è vero,
ne segue (almeno
per chi serbi
alcuna fiducia nel progresso
della ragion filosofica)
che se nessun
filosofo oggi può
dirsi od essere un
puro platonico od
un puro aristotelico,
tutti invece dobbiamo essere e
dirci neoplatonici, o
neoarìstotelici, ovvero seguaci
del terzo indirizzo; il
quale, sia storicamente,
sia teoricamente, vien
fuora tostochè sian dati i due
primi. Noi non
possiamo intrattenerci sopra
questa materia e corredar
di prove isteriche
tale assunto, essondo
ben altro il compito
del nostro lavoro.
Ma riteniamo per
sicuro che una
storia particolare 0 generale
della nostra scienza,
la quale non
sia condotta con silEatti
criteri, altro alla
fin fine non
potrà esser che
un lavoro d* intarsio,
come tanti se
ne vedono, ovvero
un arbitrio sistematico,
dommatico e fftntastico
dairnn capo ali*
altro. (Vedi tutto
ciò che abbiamo discorso a
tal proposito ( potranno
differir nella forma
più o manoo
arbitraria con che ci
è data la
dottrina delP immediatezza.
Ma tutti ci palesan
lo stesso difetto:
l'esser dommatici, Tesser sistematici; poiché
tutti trascendon T esigenza
d'un positivo e fecondo
psicologismo. L'
esagerazione di cotesto indirizzo è
rappresentato da chi
presume conseguir la notizia
dell' assoluto con
la ragione, ma
con la ragione che
si lasci guidar
dalla fede, e
sorreggere dal sentimento. Con siffatta
maniera di speculazione
noi non ci abbiamo
che vedere. Essa
ci rappresenta quella
posizione metafisica che altrove
appellammo DommcUismo
empirico. Dobbiamo dunque
rifiutarla. E dobbiamo rifiutarla, sia
perchè in sostanza
ella riesce a negar
la speculazione trascendente,
ùa perchè s'oppone alle
condizioni più elementari
della scienza Le altre
forme di Neoplatonismo
afferman l'immediatezza
dell' oggetto metafisico
ponendo l' intùito, ma l'
intùito che legittima sé
stesso in quanto
che, assumendo virtù riflessa, diventa
ragione. Secondo tale
indirizzo appunto è venuta
svolgendosi la speculazione
italiana nel moderno periodo della
nostra filosofia. Talché
noi dovendo, come richiede
l'indole stessa del
nostro lavoro, tener
conto non pur della
ragion teoretica, ma
eziandio della ragione isterica, verremo
accennando alla dottrina
di Rosmini, Gioberti e
Mamiani, che ne
sono i più
legittimi rappresentanti.
Rifacciamoci dal primo
come quegli che per
ragion cronologica e
per valore di
speculazione va innanzi a
tutti. A SERBATI s' é
voluto dar titolo
d' idealista piatonico. *
Con egual ragione
altri potrebbe dargli
titolo di realista aristotelico.
Il Roveretano corregge
davvero il neoplatonismo nella
ricerca psicologica; ma
v' è un
punto vitale nel quale,
come si vedrà,
ei si palesa
più che ne*
È un titolo
in gran parte
sbagliato. Quelle eh'
ei dice propriamente idee per
lui sono eeemplari
delV eetenxa inteUigibiUf
non' già eeemplatrici per «è
medeeime, {ArieU E«p.
ed eeam,, Pref.)
Come dunque ò
idealista platonico ?
platonico. Con ingegno
potentemente analitico, temprata alla
severa speculazione d' Aristotele
e dell’Aquinate egli ha
dimostrato ciò che in modo
assai vago eran venuti
affermando gli aristotelici
su la necessità
d^ una forma oggettiva
nella mente. Ma
egli non si
contenta dell'essere in quanto
essere: lo dichiara
altresì immobile, immutabile,
obbiettivo, inalterabile, se^nplice,
uno, immescibile, infinito^ necessario,
insussistente, ideale} Ecco il
puntello ond' egli
s' augura di spiccare
il volo inverso ali
Assoluto. Ma innanzi
tutto guardiamo tale
dottrina sotto il rispetto
psicologico eh' è appuntò
il tema precipuo del
presente capitolo. Col porre
l'Essere come oggetto
primitivo della mente, e
col dichiararlo fornito
del carattere d' universalità, il Rosmini
taglia i nervi,
come dicemmo, ad
ogni maniera di sensismo,
e nel medesimo
tempo corregge il
Criticismo: lo corregge non
già mondandolo (com'
ei si vanta) della
magagna della subbiettività
di cui non sa neppur liberare sé
medesimo, bensì dimostrando
quant* inutile fardello sia
quella moltitudine di
categorie originarie ond' il Kantismo
si distingue fra' moderni
sistemi di filosofia. Ecco
ciò che forma
l'onore della psicologia rosminiana. *
Ma qual è
il suo difetto?
È il non
aver indagato fino alla
più fonda radice
quel eh' egli
stesso appella il minimum
della cognizione; e
quindi l'aver fatto pesare
su l'obbietto originario
un ingombro di note
e d'attributi cotanto
copioso, da fargli
smarrire affatto il carattere
dell' originarietà. E, davvero,
cotest' oggetto è egli
ideale? Dunque è già beli'
e determinato. Ór come
un obbietto determinato
potrà esercitare fun-[PAGANINI mostra 1’affinità
fra SERBATI od AQUINO
quant'alla teorica del
lume intellettivo. {Sagg.
9opra «an Tomm, éC
Aquino e t7
Roeminif Pisa) Vedi Rinnovam.
Ptieologia, Nuo. Sagg. SPAVENTA ha
pasto in sodo
questo gran merito
del filosofo italiano di
fronte al Criticismo
nel prezioso opuscolo
altrove citato so la
' FUo9ofia di
Kant e la
tua relazione con
la FUotoJia Italiana,
Torino. 2Ìoni di Primo
psicologico? Non verremmo
cosi a turbare e
confonder l'ordine primitivo
della conoscenza col riflesso?
Dunque Y essere
ideale nell'organismo della psiche,
anziché Primo psicologico,
sarà il Primo
logico. Quanto poi air
attributo della infinità,
egli ha ragione dove
aflerma con san
Tommaso, la natura
del soggetto dover partecipare
a quella dell'oggetto:
e quindi se a
questo appartiene il
carattere della infinità,
non si vede perchè
non debba appartenere
anche a quello.
Or s' egli è cosi,
è dunque infinito
il pensiero? Lasciamo
agli hegehani cotesta
innocua pretensione finché
non ce n'
abbiau dato valide e
serie dimostrazioni."
Se, inoltre, cotal
forma innata è
immobile, immutabile,
immescibUe e inalteràbile,
perciò non le
sarà dato moversi di
per sé stessa.
Ella si move
bensì, ella diventa, ma
in virtù d' una
determinazione, in forza
d' un' oppliccunone. Chi
recherà ad atto
cotest' applicazione? La
[SPAVENTA ha ragione:
« V errore
di SERBATI non ì
il fare ddV eteere
come eeeere il
primo eeientijico o
logico, ma di
fame jil primo peiedogieo: non
U primo pensabile,
ma il primo
eonoeeibUe, » (Le
prime categorie della Log,
di Hegel, negli
Aui dtUa B,
Accad, di Nap.) SERBATI stesso
prevede questa grave
difficoltà, e tenta
rispondere in più modi
riparando al solito
arsenale delle distinzioni;
ma questa volta con
assai poca fortuna.
{Peieologia) In altre
opere, e anche nel
Nuo, Sag., avea
chiamato infinito il
pensiero, non però
eotto tuui gli aepeUi.
Ma un inAnito
di cotesta foggia
chi vorrà accettarlo? La creduta
infinità dell* oggetto
primitivo non ò
infinità, ma indeterminatezza, E di
fatto la nota
epeeijicante della Ittee
metaJUiea^ secondo la sentenza
di VICO (si veda) altrove riferita
è appunto la
indeterminatezza, la
potenzialità, ma la
potenzialità non vuota
e subbiettiva de’ AQUINISTI AQUINO e de*
Peripatetici, bensì piena,
feconda, oggettiva, essendo
nella sua essenza un
eonato. Or se
questo ò il
carattere dell* oggetto,
e se la
natura del soggetto ha da rispondere
a quella della
sua forma, ne
seguita che alreggette
indeterminato dee far
riscontro una facoltà
d*indol6 somigliante. Ma che
cos*ò un pensiero
indeterminato nel suo
oggetto salvo che un
essere potenzialmente infinito,
un subbietto che
tendit ad infinitum,
come lo deRnisce lo
stesso VICO? Dunque
1* indeterminatezza è il
carattere precipuo della luce
metafieiea, tuttoché in so stessa
ella sia determinata
In quanto che non
cessa, ripetiamo, d’essere
un oggetto; mentre
che la potenzialità feconda
è il carattere
del pensiero inteso
come soggetto. S. 2Ì ragione.
Or bene, la
ragione non vi
potrebb' essere mossa tranne
che da sé
stessa, ovvero dal
senso. Dal senso, no;
che saremmo sempre
impigliati in una
forma più 0 meno
schietta di sensismo,
dal quale indirizzo
il filosofo di Rovereto
rifugge ad ogni
patto. Dunque da sé
stessa. Ma, si
può chiedere: muovesi
ella da sé in
quant' è
soggetto, ovvero in
quant' é oggetto?
In quant' è soggetto,
no. Un soggetto
spoglio di forma
è una pò* tenza
vuota; è la
pura potentia, la
purafaeultas degli
scolastici: e come
tale riesce incapace
d'esercitar funzione di Primo
psicologico. Movesi dunque
siccome oggetto; movesi in
quant' è luce fnetafisica.
Or come si
potrà movere s' ella é
immobile, immutabile, immescibUe,
iikiZterabile? Da ultimo,
il difetto che
in tale indagine
egli ha comune con
parecchi altri aristotelici,
e pel quale
vuol esser segnalato come
neoplatonico, risguarda l' origine di
cotesta forma ideale.
Donde mai cotal
luce? Piove dall' alto,
0 piuttosto rampolla
dal basso? Non
dall'alto, non dall'
assoluto in maniera
diretta, egli risponde;
nettampoco dal basso,
cioè dall'esperienza. Rosmini
qui ha ragione: nessuno,
crediamo, vorrà fargliene
carico. Donde e come,
dunque, ella viene?
' • Vedi Antropologia. Sistema
FUotofieo, p. 82. '
Bisogna confessare che
nel punto più
vitale delle sae
dottrine, eh* è Torigine dell*
obbietto primitiro della
monte, questo filosofo
fu sempre titubante anche
ne* suoi lavori
postumi. In alcune
opere evidentemente 8* accosta
a san Tommaso,
dove dice, per
esempio, che Tessere
ideale è un cotal
raggio ddla divinità,
il quale noi
tftdremmo in modo
ineffabile identijì earai
con etaa quando
ci si potesse
disvelare la divina
e$»enMa. (Atto. Sagg., vol.
II.) Altrove ritiene
che la forma
intellettiva non ci
abbia che vedere con
Dio; e •
dove pur ci fosse un*
attinenza, difficilmente (egli sogin»?"®) ci
salveremmo dal panteismo.
{FU. dd Diritto,
voi. II, p.
195.) E con tutfaO
questo el non
dubita alTermare, additando
la nota scappatoia della distinzione
tra forma reale
e forma idecUe,
che Dio si comunica
al pensiero idealmeìUe,
non già realmente
! Ma che
cosa ò mai, e
come avviene cotesta
eomunieagione ideale f
Che 8*ella è
possibile, come, in tal
caso, potrete salvarvi
dal panteismo ideale?
Il Rosmini parla chiaro
(Teoeojia, su la
Partecipazione del divino
nella inteUigmza) ove dice
che 1* essere
iniziale della mente
e 1* estere
divino sono addirittura identici.
Dunque non v*
è scampo: o
egli non riesce
a salvarsi dal panteismo,
ovvero deve attribuire
all' obbietto della
mente la 11 Rosmini
crede potere attinger
la notizia dell'
assoluto ponendo in opera
alcuni espedienti, per
esempio il processo d' dimincunone, d' intcgrcmone e
slmili. Ma sopra qual
fondamento si basano
cotesti processi? Appunto sul
concetto dell'Essere ideale.
Da cotesto concetto egli
stima possibile trar
gli elementi a
comporre quello dell' obbietto
metafisico. Perciò dagli
attributi dell' ente ideale
vuol concludere a
quelli dell' essere
in sé: perciò dal
simile vuol procedere
al simile. Or cotesto
è un
processo senza processo:
è un processo
apparente, illusorio, perchè dal
simile non si
procede al simile, ma
si è nel
simile. D' altra parte,
per isquisiti che si
voglian supporre i
metodi eh' egli
adopera a tal proposito, mai
non avverrà che
gli attributi dell'
ente ideale possano porgere
quelli del reale.
In che maniera convertir le
note d'assolutezza, d'universalità e d'infinità,
che son proprie
dell'uno, con quelle
dell'altro? E dove e
come poi andare
a ripescar l'attributo della realtà?
Checché se ne
dica, a tale
domanda ei non risponde,
o ricasca nel
ginepraio delle viete
argomentazioni scolastiche.
E mentre crede
compiere o correggere il
celebrato argomento di
sant'Anselmo, non s' accorge il
grand' uomo come
restino tuttora incrollabili le gravi
difficoltà affacciate dal
Criticismo. Pur non ostante
egli reputa negativa
l' idea di Dio.
Or come negativa se
ci avete saputo
disasconder tante peregrinità a
questo riguardo? E
s'ella é davvero
negativa, non siamo già
nel Positivismo? E
se non é
assolutamente negativa,
perchè non è
tale? perché non
può esser tale? nota
della realtà alla
maniera del Gioberti.
In altra opera
postuma {Ari9t, Etp, ed
etam,) le titubanze
non iscemano; perchò
quantunque modifichi in alcune
parti la sua
dottrina l’essere nondimeno ^W si
prosenta sempre come
ideale^ e crede
confermar la propria
sentenza con r autorità d'Aristotele.
Dalla prima ali* ultima
opera del Rosmini, dunque, il
problema su la
conoscenza s’aggira sempre
nelP equivoco tra il
Primo pticologieo 6
il Primo logico;
ne qnindi crediamo
che l’Idealismo Rosminiano
siasi di mano
in mano accostato
air Ontologismo del Gioberti,
come pensa il
eh. FERRI (Est. tur
VHist. de la
Phil. en Italie) La
guisa ond^ il
Boveretano crede poter
penetrare nel mondo metafisico
non sarebbe, a
parlar proprio, un processo,
una mediazione. Nessuna
conversione sarà mai possibile
fra due termini
simili appunto perchè
fra questi, ripetiamo, non
è possibile un
intervallo. £ dato
ci sia cotesto intervallo,
è poi necessaria
una continuità ideale; la
quale, unzichè per
comunicazione dell' oggetto,
com’egli pensa, avviene
per eduzione per
parte del soggetto. Né
è maraviglia eh' ei non
abbia visto tali
necessità, chiunque pensi come
la filosofia di SERBATI partecipa a
quel difetto che,
come altrove notammo,
è il verme pia
micidiale che roda
il kantismo. Tutto
in lui sembra immobile,
freddo, sterile come
il suo ente
ideale. Psicologia,
ideologia, cosmologia, storia,
diritto, politica e religione,
nel loro insieme,
paion quasi altrettanti organi, anziché
un organismo, perocché
uiun soffio vitale imprima
forza e movimento
a tutte queste
membra. A lui, in
somma, fa difetto
l’esigenza del processo. Eppure air
A. del Nuovo
Saggio non sarebbe
mancato il fondamento positivo
sopra cui avrebbe
potuto innalzar r edifizio
della psicologia, e
apparecchiare cori la soluzione
d'alcuni problemi cosmologici.
Avrebbe avuto una gran
chiave nella sua
teorica sai Sentimento fondametìicde, intomo
a cui nessuno,
dopo Aristotele, ha saputo
discorrere con eguale
acume e accuratezza,
come saggiamente osserva il
Ferri.^ Ma neanche
in questo ei potè
pervenire a disascondere
quel secreto vincolo
che in seno all'unità
primigenia del Noù;
potenziale annoda [Però Gioberti
non a torto
rassomigliò ad uno
ttaUauUe il sistema Rosminiano. La
forma stessa del
suo iugesrno mostra
cotal difetto. Kcco perchè
non gli fa
dato cogliere, come
accennammo il valore
del metodo Tichiano.
Ecco perchè altra
lllosoila della storia agli
occhi suoi non
dovrebb* esser possìbile,
fuorché quella d*
Agostino, del Bossuet, dello
Schlegel, del De
Maistre. Non altro
concetto sociologico, salro che
quello della società
divina naitirale. Non
altra cosmologia che quella
del Tomismo. Non
altra fisiologia e
patologia, tranne che quella
de* Tocchi vitalisti. . la visione
ideale, la percezione
empirica, nonché il
sentimento fondamentale.' I
difetti del Rosmini
prese a correggere GIOBERTI; ma die
neir esagerazione. In
maniera invitta egli
mostrò la fallacia della
posizione dell' ente
ideale, ma cadde
nell’arbitrario anche lui
quando ingolfossi nel
mare magno del suo
intùito. Se infatti
havvi dottrina psicologica
la quale più spiccatamente
contraddica al criterio
della conversione, e quindi
all' esigenza metodica
aristotelica della Sdema Nuova,
è appunto quella
del Neoplatonismo che con
entusiasmo senza pari,
con ingegno mirabile
e con vena fecondissma
di speculazione egli
prese ad innovare fra
noi con anima ITALICAMENTE
generosa. A nessun italo
oggi potrebb’esser lecito
disconoscere i grandi meriti
del filosofo subalpino:
a nessuno i benefizi
grandissimi che in
età assai triste
sepp' egli operar nella
mente e nell'animo
di tutti con
le sue scritture. '
fi noto come
per SERBATI sia U
tentimeruo intimo e
perfettamente uno che uniece
la eeneitività e
V intelletto. {Nuov.
Sagg. ; Ariet.). Ma in
che maniera poi
accordare questa sentenza con
quell’altra ove dice,
la ragione eeeer
quella che unieee il
eentibile e V
intelligibile f {Pncologia). L* anità
de* due elementi
qui sarebbe posteriore,
mentre sarebbe ante^ riore
la dualità, e
quindi, come dualità
primitiva, inconcepibile. Il che
ci è
confermato da lui
stesso dove afferma,
la vitione ideale
non aver relazione di
torta con la
percezione empirica, {Antropologiaf C.
VILI). Ora a me
pare che il
Sentimento fondamentale avrebbe
potuto porgrersi a lui
come base d* una dottrina
psicologica razionalmente positiva,
quando avesse pigliato a
considerarla come unità
Iniziale, come sintesi
originaria del doppio elemento
della conoscenza: il
che non apparisce
in alcun luogo delle
sue scritture. Che
cos*è, infatti, il
Sentimento fondamentale f te
V atto onde
V anima vivifica
il corpo, {Antropohf.), Or bene,
checché se ne
possa dire, cotesta
evidentemente è psicologia neoplatonica, e
però tutt' altro che
positiva. Invece per
noi il Senso fondamentale ha
natura di conato,
e quindi rappresenta,
anzi incarna il momento
in che la
vita, la ^uvauc;
biologica, superando so
medesima, passa ad assumere
anche valore di
pensiero. In altre
parole: l'anima pel Rosmini
è energia primordiale,
ò una originariamente (Ibi,
e. IX); ma è
una come anima,
non già come
anima e corpo,
come vita e pensiero.
E con
questo difetto, eh
egli ha comune
co' platonici e
con sant'Agostino come v^emmo, contraddice evidentemente all'indirizzo medio
arittoulico secondochè noi
lo intendiamo. Ma chi
è oggimai che
vorrà propugnare sul
serio la sua teorica
psicologica tuttoché sia
da accogliere e svolgere
non pochi principii
della sua Protologia?
^ Fra le molte
e gravi obbiezioni
mosse contro V ontologismo
giobertiano, noi ci
restringeremo a ripetere quella semplicissima
affacciata poco fa
contro il Rosmini, e
che con assai
più ragione s' attaglia
a GIOBERTI. Come oggetto primitivo
del pensiero, la
formula dell' Etite creante
è un oggetto
determinato, sia che
si tolga a considerar
la natura de'
suoi membri, sia
che la specie di
relazione che li
rannoda in organismo.
In che maniera dunque
può essere inizio,
principio della genesi psicologica? Anziché
il minimum del
pensabile, qui s' avrebbe il
maximum del conoscibile.
Or s' egli é
così, la scienza, io
chiedo, sarà ella
generazione, conversione,
eduzione, o non
più veramente copia,
imitazione, ritratto d' un vero
che non ci
appartiene? La posizione dell'Intuito giobertiano
è dunque arbitraria,
ipotetica, oscurissima, come primo
d'ogn' altri ebbe
a mostrare lo stesso
SERBATI. Perciò la formula non
può essere riguardata, secondochè
pretendon gli ontologisti,
come sorgente d' ogni
scienza, criterio d'
ogni scibile, fondamento d'
ogni dimostrazione, come
Primo ed Ultimo
del pensiero. Il Nov;
degl’ontologisti italiani è
la vecchia dottrina dell'
Intelleito agente^ ma
passata attraversò la scolastica, e
ricorretta dal pensiero
filosofico cristiano. È r
IntelligibiHtà, la VerUà
di sant'Agostino, ma
determinata, concreta,
reale. È la
Reminiscenza platonica, ma fatta
viva, presente, parlante
al pensiero. Egli
dun* Ved. il
nostro opusc. Introduzione
allo ttttdio delle
acìenxe naturali e ttoriche,
Firenze, Celiini, Ved. GIOBERTI
e il Panteismo,
Lucca. Dopo il GIOBERTI di SPAVENTA è
impossibile difendere l’intuito
del filosofo di
Torino: se ne
persuadano gli ontologisti.
Noi accettiamo la sua
critica: ma chi
?orrà accettar le
conseguenze eh «i
ne trae, o la
relazioni eh' egli
pone fra Io
Ctisiologismo, in generale,
o l’Idealismo assoluto?
Anche qnant*al concetto
creativo della /Vo(o/o^ fra
Tuno e r altro
sbtema, come avvertimmo,
corre un abisso.
' « que è
r esagerazione del
Platonismo. È un
iperpsicologismo avente il
suo primo puntello
nel catechismo, né può
quindi essere accettata
dalla ragion filosofica
positiva.* Sennonché gli ontologisti
si fan forti,
come accennammo, della celebre
sentenza vichiana su la rispondenza fra r
ordine logico e Y ordine
ontologico." Il nostro filosofo
non parla d' ordine
logico e ontologico, ma sì d'
un Primo
logico, e d' un
Primo Vero Me[Qui
abbiamo inteso accenDare
alla dottrina deir
Intuito come ci è
data nelle prime
opere di GIOBERTI. Ognuno sa
che nelle scritture
pòstnme egli Tiene
talora a modificarla
sì che s*
accosta a SERBATI, o meglio,
ad AQUINO. Per esempio,
dice: {De Univ,
Jur. Da questo lemma
è agevole argomentare che Dio
è Primo, sia
che tu lo
consideri come essente,
sia che come conoscente. Qui
non v* ha
luogo ad interpretazioni. Ma
vi è il
lemma VII che dice: Itaque
Primum Verum Methaphysieum
et Primum Verum
Lo ' gicum, unum idemque
esse. Qui la
critica interpretativa è
necessaria, perchè qui la
contraddizione con l' insieme
delle altre sue
dottrine è pur troppo
evidente. Se la
rispondenza cai allude
il nostro fosse
da interpretarsi come pretendono
ontologisti e nooplatonici,
olla contraddirebbe alla dottrina
del conoscere e del metodo;
la quale in
siffatte ambiguità dee prevalere
nel pensiero del
critico, come quella
che costituisce propriamente l’originalità
di VICO. Se dunque
in forza del
suo criterio la scienza
debb’esser frutto d’uno
s?olgimonto riflesso e
di ricerca e di
critica essenzialmente eduttiva,
parmi evidente come
il rapporto fra r
ordine delle cose e quello
delle idee, anziché
di corrispondenza originaria e
di parallelismo primitivo,
abbia da essere
invece di rispondenza derivata, e
di parallelismo riflesso.
In una parola:
cotesto parallelismo,cotesta equazione,
non è un
principio, è un
risultato. Nel che 11
fliosofo di Napoli,
com* era da
sospettare, interpreta ed
invera il beninteso Aristotelismo, perchè
è lo stesso
Aristotele quegli che
osserva come la radice
di tutti gli
errori de' Platonici sia
per l'appunto la
confusione dell'ordine
logico con l'ordine
dell'essere, e però
delle causo reali
dell'essere, con lo
cause formali della
scienza: KW ou
TtdvroL o€a tu \6yù»
zjporepoiy xaì tVì
oÙTc'a vipÓTspx^ {Metaph.). tafisico, considerandoli entrambi
come unum idemque. Siamo dunque
nel panteismo? ovvero
in una dottrina neoplatonica? Intendiamoci.
Qual debba essere
per lui il Primo
psicologico, s' è visto. Or
quali han da
essere, in armonia
con le sue dottrine
psicologiche, il primo logico
e '1 Primo ontologico? Il Primo
logico sarà, né
vi cape dubbio,
un principio mediato, risultante,
secondario, cioè posteriore
al Primo psicologico. Se
infatti il processo
della psiche s' attua
ingradandosi in pili
gruppi di facoltà
componenti fra loro un
organismo; e se
il processo conoscitivo importa
una serio di
leggi atte a
governare le diveree funzioni,
che vuol dire
le facoltà stesse
avvisate in relazione co'
loro prodotti (rappresentazioni, fantasmi, concetti, nozioni,
idee, giudizi ec.);
avviene che come, data
una funzione, è
già beli' e
dato logicamente il suo
prodotto e quinci
una serie di
leggi che ne
regga lo^'svolgimento; così, posto
il Primo psicologico,
non potrebbe a verun
patto mancare il
Primo logico. Ora se
il Primo
psicologico è V
essere indeterminato, eh'
è dire il Nov;
potenziale, in quant' è
luce metafisica; quale
sarà il Primo logico?
Non altro che l’essere
nella sua prima determinazione riflessa: l'essere in quanto ideale;
il quale perciò suppone,
sotto il riguardo
cronologico, il sensato reale,
il fatto; stantechè
il senso, come
toccammo, resti incluso nel
circolo psicologico. L'ente
ideale adunque è un
primo: qui ha
ragione SERBATI. Ma è
anche un
ultimo; uUimo psicologico,
e primo logico. Al qual proposito
giova notare che
ove il Roveretano avesse riguardato a questa maniera 1' Ente possibile, non sarebbe
caduto nell'aperta contraddizione di
considerar l'essere come ideale^
e come immobile
ad un tempo; stantechè
se in quanto
è luce metafisica,
cioè in quanto originario
ei non può non
essere indeterminato, come ideale
invece è mobilissimo,
essendo già beli'
e determinato, e come
tale ci esprime
lo stesso moto
della facoltà, la facoltà
in quanto è
funzione. Quale sarà intanto
il Primum Verum Metaphysicum? Posto il primo
logico e quindi
'1 processo della
logica e r orditura
de' concetti, il
lavoro speculativo della mente
non può ad
altro pervenire fuorché
ad uno di questi
due risultati: o
air essere indeterminato
riflesso qual è, per
esempio, l’indeterminato secondo
eh' è
posto dall’Hegelianismo
quasi chiave di
volta dell'edifìzio dialettico;
ovvero all' essere
determinato mercè Tartifizio
del metodo compositivo
sintetico, d' integrcurìone;
voglio dire, all'essere
pieno, all'essere fornito
delle note più eminenti o
delle primalità cui
sappia poggiare il pensiero
speculativo soccorso dall'esperienza. Ora il
Primo vero metafisico
al quale accenna Vico
non può esser l' ente
indeterminato inteso come
luce metafisica, perchè questa,
essendo essenzialmente indeterminata, cioè indeterminata per
necessità di natura
in quant'è oggetto primitivo della
mente, è quindi
un Primo psicologico
anrichè metafisico. Non
può esser neanco
l' Indeterminato così detto dialettico
al quale, come
voglion gli Hegeliani, per un'
assclida e subitaifiea
astrandone si levi
la mente e vi
si estingua, e
in grazia di
siffatta estinzione scoppi la
prima scintilla dialettica.
E non può
essere, sia perchè cotesto
Indeterminato contraddirebbe al
con* cetto che il
Vico ci porge
dell'assoluto, sia perchè, frutto d'un
lavoro onninamente astrattivo,
manca necessariamente d'ogni condizione
d'obbiettiva e metafisica sussistenza. Se
dunque non è l'
indeterminato né come luce
metafisica né come
posto dall'astrazione, che eoe'
altro sarà fuorché
l' ente concepito come
determinato nelle sue primalità
essenziali, l’ente trascendente,
il Nosse-Velle-Posse infinUum?
Sennonché, per metafisico che
sia cotesto essere, ninno vorrà
dirlo reale. Donde trarre
siffatta determinazione? Forse
da un intuito primigenio? Ipotesi! Dal
regno de' fatti e
della ' Il Primo
Hegeliano, dice Spaventa,
ò queUo che
non ha altra
denominanione che di
non averne alcuna,
{Ddle prime Categ.
della Log. di
Hegti, Hbqil, Log., trad. VERA) esperienza? Impresa
vana! Dalle viscere
dello stesso pensiero per
astrazione assolila e
subitanea? Illusione! D'
altra parte, tuttoché
entità ideale, non
per questo sarà lecito
credere che il
Primo metatìsico abbia
da essere assolutamente astratto,
poiché come determinato, cioè come
concepito e costruito
dalla mente, è pur
mestieri eh' e'
risponda ad una
realtà. Egli dunque
è metafisico ma non
per questo può
cessare d'essere identico al primo
logico. Perchè? Perchè
da questo appunto lo
trae la virtù
speculativa. Vico dunque ha
ragione: il primum verum metaphysicum
è unum idemque col primum logicum, giusto
perchè il pensiero vien
costruendo l'uno mediante
l'altro. Brevemente: egli è
metafisico, perchè ha
valore obbiettivo; ed è
poi unum idemque con
l' essere logico e
però col Primo psicologico,
perchè non è,
a dir proprio,
una realtà, quantunque per
necessità metafisica abbia
un riferimento alla realtà.
Ma qui si
può chiedere: dunque il
Primo metafisico non
sarà egli né
assolutamente reale, né assolutamente
ideale, né obbiettivo,
né subbiettivo? Precisamente
così. Non è
l'una cosa né
l'altra, ma è r
una e l' altra
insieme, stantechè sia
potenzialmente infinito. E poiché
come infinito potenziale
non è perfetta conversione
di sé con
sé medesimo, però
fugge, quasi diremmo, sé
stesso. EgU è,
in somma, un
essenzial conato; e
come tale non
può non riferirsi
necessariamente ad una realtà,
e in questo
senso possiede natura metafisica. Dico
necessaria tale oggettività,
perchè il Primo metafisico,
quando sia determinato
dal pensiero speculativo, non
è altro che la stessa
triplicità psicologica, ma riguardata
nella sua universalità.
Che cos'è mai cotesta
triplicità universale? È
mentalità in sé, è
dialettica in sé,
è oggettività in
sé. Ella dunque non
può esser considerata
nell' individuo, ma
fuori dell' individuo, in
un soggetto appo
cui le primalità
dell' essere si convertano
e compenetrino: il
che è davvero impossibile nell'
individuo, come quello
che non è il
pensiero (voùc) ma
la facoltà del
pensiero (vouc ^wa^ust) secondo la
sentenza aristotelica. Se il Primo metafisico, inoltre, fosse
indeterminato, non avrebbe
alcun opposto, quantunque serbasse
distinzione come oggetto di
pensiero. Al contrario éoncepito
come determinato, e' tosto
diventa obbiettivo ; e
così da Primo
vero metafisico assume virtù
di Principio metafisico.
Or che cos' è
questo principio metafisico?
Che cos'è la
realtà alla quale ei
si riferisce? È
l'Assoluto: ma l'Assoluto
che è davvero assoluto,
come appresso mostreremo. ÀR1ST., De
An.t li, iv.
Cfr. anche la
Metaph. Secondo
l'interpretazione che noi
qui abbiam dato alla
sentenza del Vico 8i può dire
che il Primo
Metafisico, essendo il
vero in attinenza col
realtf sia il fatto,
cioè il fatto
del pensiero speculativo,
il fatto della scienza
che convertesi col
Vero assoluto, il
quale, come vedremo,
è il primo fatto
per eccellenza. Accade
perciò che il
Primum Verum Metaphysicum debba riguardarsi
come anello di
congiunzione fra la
Logica e la Metafisica;
ond'ò che fra
queste due scienze,
anziché esserci quella
mediazione Hegeliana la quale
in sostanza ò
una compenetrazione assoluta, ci
è invece conversione;
e la conversione
esprime non già
identità nella difTerenza, ma
identità e insieme
differenza. Vi è,
in altro parole, medesimezza di
legge, di forma,
e qnìndi continuità
ideale; ma ci
è pure differenza, differenza
essenziale, differenza di
contenuto, e però
intervallo retde. Ecco perchè
il Vico, svecchiando
un principio aristotelico,
afferma: « Qìullo eh*
è metafisico in
quanto contempla le
co»e per tutti
i generi delV
eteere, la steesa
è la logica
in qwanto considera
le cose jìer
tutti i generi di
eignificarle. Questa
relazione fra la
Logica e la
Metafisica fu dal nostro
filosofo incarnata sotto
forma simbolica nella
IHpiniura ; e nell'
Introduzione alla Scienza
Nuova la venne
determinando nel concetto
del M(»ndo DILLE Menti
r di Dio.
Menti pensiero spirito,
e perciò Psicologìa
Logica e Ideologia, come
vedemmo, formano tutt*un
processo. Un processo ha
da essere anche l’Assoluto. Ma
le Menti e
Dio formano anch'
essi un processo, un
organismo, un Mondo:
in quanto che
fra que'duo termini ci
ha da essere
conversione. Questo tutto organico
lo dicemmo proceeto ideale
per parte del
primo termine, cioè
delle Menti, nel
senso che ha da
essere mediazione razionale,
conoscitiva. Perciò Primo
vero metafineo e Principio
metafinco. Logica e
Metafisica, Menti e
Dio, compongono un Mondo;
un Mondo superiore
a quello della
Natura nonché a quello
dello Spirito, inteso
questo come sviluppo
isterico, come storia che
è Vita Humani
Qeneri, Dal tutt' insieme
quindi si vede
come il suo Primo
Vero metafisico non
sia nient' affatto
una vuotaggine, un’entità formale e
puramente astratta. È la sua
luce metafieica^ non
già indeterminata, anzi determinata
mediante sé stessa;
determinata mediante il processo
eduttlTO. È il risultato estremo
del Noùc attuale
e Veniamo al vivente
rappresentante del Neoplatonismo in ITALIA.
L'illustre ROVERE ha visto
la necessità d'imprimere novella
forma e rigor
logico alla dottrina platonica della
conoscenza, modificando la
teorica di GIOBERTI, e correggendo
quella del Rosmim'.
A spiegare perciò l'elemento
universale del pensiero
ei si raccomanda alla
solita àncora di
salvezza, l'Intuito del l'Assoluto, ma
con l’interposmone delle
idee; le quali
per lui somiglierebbero quasi
ad altrettanti spiragli
ond'alla mente lampeggia la
Divinità. Tutto ciò,
del resto, non toglie
eh' egli abbia
da ammettere doppio
ordin di conoscenze, percezioni
e intellezioni, assai
diverse fra loro e
pur fra loro
collegate per via
di rappresentansia. Ma non
potendo intrattenerci a
riassumer le ragioni
sopra cui si regge
cotal dottrina, ci
ristringiamo a far
poche osservazioni
guardandola segnatamente sotto
l'aspetto psicologico. Due ne
sembrano i difetti
principali: l’nvocare
l'intuito dell'Assoluto nello
spiegar l'elemento universale della
conoscenza; 2** non
dimostrare per che mai
ragioni l' ordine delle
percezioni abbia a
rispondere a quello delle
intellezioni. Se ne l'intellezione, come
vuole il Mamiani,
può rampollare in modo
alcuno dalla percezione,
uè questa ci ha
che vedere con
quella tuttoché entrambe
devano esser congiunte in
armonia; la dottrina
psicologica del rifleASo; epilogo
della scienza psicolo^^ica,
e però Defìnwione
e Principio della Metafisica.
Or la luce
in quant’è oggetto
del Noù; potenziale
no! la dicemmo metafitioa
perchè, quantunque superiore
al sensOf è
nondimeno po9ta da natura,
ò originaria, e
quindi essenzialmente obbiettiva. La conclusione
dunque parmi chiara:
Primo pticologico, Primo
logico' e Primo vero
metaJUioo non sono
tre entità ruote
e formali, giuochetti d'astrazione, indovinelli
da algthritiij come
direbbe lo stesso
Vico, ma sono tre
anelli d’una medesima
catena, tre momenti
dinamici d* una medesima
energia essenzialmente obbiettiva.
Questa (per concludere
contro i Neoplatonici ontologisti)
parmi V interpretazione più
acconcia del rapportoche
il filosofo di
Napoli pone fra
il /Vìnto logico
e’1 Primo vero metafisico, e
quindi fra l’ordine
logico e l’ordine
ontologico. Ogn' altra non riescirebbe
a salvarlo dalle
contraddizioni col proprio
metodo, e tanto meno
poi dalle incongruenze
con la ragion
filosofica positiva.
Pesarese parrebbe, come
ad altri è
parsa, una specie d'alcliimia. Per
quanto diverse, le
percezioni e le
intellezioni hann'a
convergere si da
appuntarsi quasi due
raggi in un centro
comune, cKè V unità
sostaiìzUàe dello spirito. Or
non è questo
precisamente ciò che
da ventidue secoli va
chiedendo il pensiero
filosofico: come mai,
cioè, se diverse, elle
compongono fra loro
unità? Abbiamo un intùito
di qua, e
un intùito di
là: la percezione
che avvertendo un termine
estriìiseco lo apprende
siccome forza, e la
visione, l'intùito ideale^
che con T interposizione delle idee
coglie l'Assoluto. Non
siamo già in
una forma di dualismo
psicologico che fu ed è
sempre la pietra d^nciampo d'ogni
fatta platonici? Non
abbiamo qui sott' occhio
Y etemo e
gravissimo difetto del
Neoplatonismo, la mancanza di
processo? Oltre l’alchimia (col
dovuto rispetto al
grand' uomo) qui
veggiamo una macchina a
doppio retaggio: senso
e concetti, esperienza e
luce divina, fatti
e Assoluto splendente cui lo
spirito inerisce con
marginale adesione, e
per via di contatto
spiìituale. Chi fa
tutto ciò? Come
avviene tutto ciò? L'illustre
di Pesaro ci
dice e ripete
a sazietà, che fra
l'ordine delle intellezioni
e quello delle percezioni ci
ha corrdaeione ordinata
e continua, rispondenza puntualissima^ squisitissima
armonia. E sta bene:
chi non è
scettico sistematico non
penerà gran fatto a
riconoscere e sentire
cotesta e ben
altre armonie. Ma quel
che ignoriamo, e pur vorremmo
sapere, è appunto il
motivo di cotesta
squisita rispondenza. Or questo
motivo, non ci
è, o almeno
è impresa non
molto agevole rinvenirla nelle
Confessioni d*un metafisico
Perocché s'io ho da
coglier l'Assoluto mercè
l'idee, o, meglio, se
è l’Assoluto quegli
che ha da
comunicarmele Mamiaki, Con/ftioni
d'un mttaJUieOf Idem,
eo: € come avvenga
che ad una
data pereenone rieponda
una daUx idea?
non già graziosamente, anzi
inevitabilmente, quale ne sarà
la conseguenza? Sarà
che la ragione
onde questa 0 cotesta
percezione ha da
rispondere a quella
o quell'altra intellezione,
in altro non si potrà
occultare fuorché in un
vieto occasionalismo, od
in una vieta
e grossolana armonia prestabilita.
Non v'è scampo. No'
parecchi cangiamenti cai
è andata sogrgetta
la mente del Mamiani, sol
una dottrina è
rimasta immutata nelle
sue scrìttnre, e
della quale ei si
loda più d*
una volta. È
la dottrina su
la percezione, che il
nostro egregio amico
prof. Ferri dichiara
bellissima. Bellissima sarà: ma
è altrettanto salda?
Forse che Ano SERBATI con r acuta
lama della sua
crìtica non la
ridusse a polvere
nel suo Rinnovamento f Intendiamoci
bene. La percezione
del Mamiani non è senso,
e nemmanco, a dir
proprio, giudizio. Che
cos*ò dunque? È
e im intuire V
atto involto nella
8en9axione die congiugne
in uno due
termini^ oggetto eentiio e
avvertito come fortOy
e soggetto tentenìe.
» {Oonfeasionif ; Meditazioni
Carte»). Or bene,
che è egli
mai cotesto intuire? Quar
è la natura
intima di quest'atto?
È difficile averne risposta
ben determinata. L'animn,
dice il Mamiani
più d*una volta, è
dotata d^una veduta
it^eriore di ti
medeaimaj e questa
interior veduta è quasi
occhio mentalcf pupilla
spirituale, anteriore al
fatto della percezione. Che
cos* è, di
grazia, cotest oeeAio, cotesta
pupilla, cotesta veduta interiore
f È forse
un giudizio? No,
risponde: che alla funziono giudicativa
devq andare innanzi
la percezione. {Confeenoni).
Che cos*ò dunque?
Per quanto altri
voglia andar ricercando no' copiosi
volumi di questo
Neoplatonico, mai non
gli verrà fatto ripescarne
risposta. Ora a
noi pare che
tal veduta interiore
di si altro non
possa essere tranne
che un ritorcersi,
un geminarsi primitivo, e
perciò un insieme
d'oggetto e di
soggetto, una triplicità
iniziale, uu giudizio. Sarà
giudizio sui generis;
sarà giudino fcUto
stnxa riflessione come direbbe
il Vico; ma,
in sostanza, ò
giudizio. Se dunque
è tale, non importa
un oggetto? Or
quale sarà l'oggetto
dell' infmor veduta, cioò
la luce di queir
occhio, dì quella
pupilla t V
Ente possibile no,
certo: e il Mamiani
con dialettica stringente
e per quattro
differenti capi s' accinge a
far minare dalle
fondamenta la teorica
rosminiana, e in
parte vi riesce. Che
cosa dunque sarà?
A quel che
ne pare, neanche qui
egli risponde. E,
checché possa dirne,
certa cosa è
che so l'anima è
davvero dotata d'una
interna veduta (la
quale perciò è logicamente
anteriore alla percezione),
a spiegar questa
non si può
prescindere da quella. Se
la cosa infatti
non procedesse così,
in che maniera la
percezione verrebbe capace
di trascendere i
limiti del puro
sensato ? Brevemente: l' Io
non percepisce, V
Io non avverte
un termine esteriore siccome /orsa, senza
eh' e' /)ereept«ca e avverta
so medesimo. Or che
cos' ò
il percepire sé
stesso, tranne che
un atto giudicativo
? Dunque anteriormente al
fatto della percezione
(com' ei la
intende), ci ha da
Se non
che, la più
fresca novità delle
Confessioni è r intuizione
dell'Assoluto; quindi la
invitta prova che ne
scende, secondo ROVERE (si veda) Mamiani, su
l'esistenza di Dio; quindi
la salda costituzione
a priori della
Metafisica. Innanzi tutto: se
cotesta intuizione non
è altro fuorché una
semplice contiguità, un'
adesion marginale del pensiero
con l'Assoluto, non
è chi in
essa non sappia ravvisare quel
toccamento spirituale de*
Yecchi Neoplatonici,
dottrina rinverdita, quindici
anni avanti '1 Pesarese,
dall'illustre neoplatonico Pomari.
Vero è che la
sentenza la quale
a tal proposito
risulterebbe dall'insieme delle
sue dottrine potrebb' esser questa:
che il suo intùito
non sia già
un atto originario,
potenziale, essenziale, bensì tutt'
un ordine d' intuizioni
per quante potrann' esser le
idee attraverso alle
quali avvien che traspaia
l' Assoluto. Or s' egli
è così (né
sappiamo dir davvero s' e'
sia così), perché
aflFermare più d'una
volta, esser necessaria, inevitabile
uxìl intuizione perenne
e immediata délV Etite
sortitaci da natura
e dalla essenza
dd nostro spirito? *
Se l' intuizione dell'Assoluto
é un atto essenziale, come
potrebbe non esser
primitivo? E s' egli é
primitivo, non è a reputarsi
anteriore logicamente alla percezione?
In sostanza, se l’Assoluto
é quegli che ^presenta
al pensiero, e'
s'ha a mostrare
fino dal primo atto
della mente; la
quale perciò sarà
mente, sarà penessere
qualcos'altro che ne
sìa la vital
condizione. Evidentemente r acuta
pupilla speculativa del
Pesarese non s’è
profondata nolla natura di
siffatta condizione. E
puro con quest*
alchimia e' non
dubita credere d* avere
una buona volta
composto in armonia
1* antica lotta
fra Platonismo ed Aristotelismo
! ' ROVERE dice: « balena
con evidenza V
intuito cT una
poeitiva, immota ed universale
realtà^,, indeterminata e
inqualiJiiMta e perciò
oeeura e non deecrivibile,
> {Meditaz, Carte».)
Non è egli
cotesto V ohbiette
intelligibile colto dall*
intùito, nulla interpoeita
creatura, di che parlano,
per esempio, i
seguaci di sant*
Agostino, e, fra
questi, il Fornarì?
(Ved. VelV Armonia
Univ.). Meditai, Cartee, Questa
sentenza, come ò
chiaro, è in aperta
contraddizione con quell'altra
onde il Mamiani
afferma e ripete, nulla
non v'esser nolla
sua dottrina d'innato,
nulla di primitivo. Vedi Riep,
al eig, dott,
Akt», Brentazzoli, Bologna] siero, solo
in grazia di chi le
sta dinanzi. Ora
se il yero, metafisico o
no che sia,
non è fatto
dalla mente, ma da
essa ricevuto, evidentemente
il Neoplatonismo di ROVERE viene a
contraddire alla dottrina
psicologica del Vico, rompe
contro alle severe
obbiezioni mosse al Gioberti,
e massimamente soggiace
a quella grave
difficoltà che Aristotele oppose
al suo gran
maestro circa la
inu* tilità deir esperienza
e de' fatti
e delle percezioni,
posto che il vero
e l'universale, in che risiede
propriamente la scienza, debba
ne' suoi principii derivarci
dall'alto e dal di
fuori, meglio che
dal didentro/ Se non
che, ingegno elegantissimo
e ricco di
vena poetica, questo filosofo
spesso indovina. Talora
infatti sembra non esser
l'Assoluto quegli che
determina e significa se
medesimo nelle idee;
bensì la mente
stessa la quale, generando cotesto
idee, determina idealmente,
esprime e significa l' Assoluto :
tanto che non
sarebbe altrimenti lo splendor
divino che penetrando
quasi attraverso gli esilissimi spiragli
delle idee ne
promoverebbe l'intùito, ma la
stessa virtù riflessa
ne verrebbe argomentando r esistenza
e la natura
per necessità eduttiva. Ora
solo * AbisTm M«iaph.y
Mamianì potrebbe dire:
il mio intiiito sta
in ciò, che
ogn* idea, avendo
a significare per
propria natura un
obbietto, debba importare un'
enistenza etema, ed
una $peciaU determinazione ddVente aMolìtto e
infinito. Accettiamo anche questa
posizione. Che cosa
ne Terrà? Poiché gli
obbietti tignijiecuiei dallo
idee non potranno
esser altro salvo cho
determinazioni ad intra
o determinazioni ad
extra delr assoluto,
sorge la necessità
di spiegare se
1* intuito s*
appunterà verso le une,
meglio che verso
le altre. Stando
alla dottrina della
maboinalb ADS8I0NR e del
toecawtento epirituale, V
intuito, non essendo
un atto penetrativo, coglierebbe le
seconde anzi che le prime:
e quindi, innanzi
ogni altra determinazione dell*
assoluto, dovrebbe afferrar
quella dell* atto creativo. Or se questo
è vero, parmi
evidente come la
dottrina del Mamiani su
la conoscenza non
si discosti neppur
d*un apice, quanValla sostanza, dalla
dottrina di Gioberti,
il quale non
ha mai preteso
che il suo intùito
abbia da essere
un atto penetrativo.
Ma il termine
esterno, il sensato (egli
dirà) si ha
per via di
percenone, Ad un acuto
Qiobortiano qui non
tornerebbe guari difAcile
cogliere l’autore delle Oonfe99ioni
in aperta contradizione
con so medesimo. Nelle Con/e99Ìoni
è sempre T
Assoluto quegli che
s'affaccia ed eccita e
promovo lo spirito
al pensiero, e
solo in qualche
luogo (per per cotesta
via egli avrebbe
potuto correggere il
Gioberti, e riconoscere insieme
la parte di
vero che è
pur nelle dottrine Rosminiane.
Solo per cotesta
via avrebb'egli inverato il
Platonismo, e dischiuso
fra noi un
periodo novello di speculazione
feconda, razionale, positiva
e, che più rileva,
conseguente alla storia
della scienza. E solo
per cotesta via
non sarebbe incappato
nella incoerenza di porre
l'assoluto come uiroOt^tc, e
in un'ora medesima dichiararlo
oggetto d'intùito. Perocché
se con l'analisi delle
idee ci è
dato risalire per
logica necessità fino a
cotesta uttotsjc;, a me pare
che una dottrina psicologica 0
ideologica, la quale
invochi '1 sussidio
d'un intuito, sia un
fuor d'opera addirittura.
Con ciò stesso avrebbe corretto il valor
rappresentativo delle idee, eh'
è r altra
originalità cui pretende
il Neoplatonismo di ROVERE. Quale
attinenza è mai
fra l'idea e
l'ideato? Non quella di
somiglianza come han
creduto balordamente i Malebranchiani, egli
risponde; ma si
quella d'una vera e
propria significazione. Eccolo
dunque anche qui, senza
addarsene, alla famigerata
wa/jo^ix platonica tanto invocata
da Gioberti nella
sua prima maniera
di filosofare. Nel che il Pesarese,
anziché progredire, è rimasto
molto indietro all'
autore della Protólogia
nella quale, com' é
noto, il concetto
della piOiSi; rivelasi
improntato d'una forma novella,
e, fino a
certo segno, originale. Ma
lasciando stare del
regresso e dello
scadimento notevolissimo che nella
specuhizione italiana ci
segnano le Confessioni d' un metafisico ove
si ponga a
riscontro lo dottrine del ROVERE
(si veda) Mamiani coll’ultima forma
cui s' era levato
r ingegno potentissimo
del Gioberti, è
bene qui accennare un'ultima
osservazione su l' attinenza
che il pesarese pone
fra le intellezioni
e il loro
obbietto) fa trasparire
la nuora tendenza
cni allodiamo. Ma
noU* opuscolo dì
risposta ni BONATELLI (si veda) (Bologna) questa tendenza è pid chiara, tuttoché
manifestata foggevolmente e forse
Inconsapevolmente. Dico inconsapevolmente perchè
nelle Meditazioni rinnovate e*
ricasca nella solita
presenaialità, nella tolita
marginale ndenone^ come ci
attestano le sentenze
qna dietro riferite. Le
idee importano il
divino, egli dice;
poiché non sono fuorché
altrettanti simboli, altrettante
significazioni dell'
Assoluto. Se questo
è vero ne
segue che, in quanto
simboli e segni,
elle non avran
valore infino a che
cotesti simboli non
siano intesi e
interpretati. Macome la
mente potrà giugnere
ad intendere e
interpretare siffatti segni? Mercé
l'ordine delle percezioni. Or bene,
se l' idea non
basta a significar
sé medesima né a
farsi intendere da
sé, evidentemente per
noi ell'é come un
chiaror confuso, vago,
indeterminato, insignificante,
e quindi al
tutto inutile alla
scienza. D' altra parte, se l'
ordin delle percezioni
é di sua natura
cosiffattamente limitato da
essere incapace a
darci r universale, non
potrà non riescire
anch' egli d'ingombro inutile alla
mente. Si dirà
di poter superare
il fenomeno e attinger
la scienza mercé
il connubio dell'ordine percettivo con
l'intellettivo? Questo é per l'appuntò ciò
che pretende il
Mamiani. Ma, se
eoa fosse, non
vedremmo ad assomigliare il
regno della scienza
e delle idee a
quello di natura
e delle fisiche
efficienze, ove se a
due cavalli non
vien fatto di
tirarsi dietro un
carro vi potranno benissimo
riescir quattro? Mamiani
afferma non dimostra la
platonica 7ra/)0Tc«: afferma,
non dimostra la platonica
xotvwvèa. E per
tutta dimostrazione ci
annuns^ia che l'idea
é significativa, perché?
perché havvi un obbietto
nel quale debb'
ella necessariamente terminare.Or
in che modo
legittima egli cotesto
obbietto? Lo legittima, come
s' é visto,
dichiarandolo presente^ ponendolo presente! Questo
é proprio il
nocciolo magagnato del Neoplatonismo. La
preserunalUà dell'Assoluto è un'ipotesi,
un'affermazione arbitraria: ecco
tutto.Corte dottrine di ROVERE
ci ricacciano addirittura
fra i Plotino, i
Proclo e gli
Ammonio, appo cai
facilmente troverebbe riscontro
il sno concetto del Bene.
E chi pigliasse
poi a rovistare
attentamente nelle antiche scuole,
per esempio nel
vecchio e anonimo
autore della Teologia (Rayaibson), potrebbe
ritrovar più che
un germe della dottrina
sn \*influxu$ divintu
che neir Arabismo
e anche nella
Sco[Concludiamo. Noi abbiam
dovuto fare una
critica rapidissima del Neoplatonismo
italiano considerandolo
segnatamente sotto l'aspetto
psicologico, perchè i tre
filosofi di cui
abbiamo toccato ci
rappresentano le posizioni più
serie, le forme
principali ond'il Platonismo crede attinger
l'obbietto metafisico. Rosmini
è il meno dommatico, il
meno arbitrario, il
piii positivo e
quindi il meno platonico
fra tutt' i
platonici. Egli pecca
nel porre l' essere della
mente come ideale;
e lo sbaglio
di siffatta posizione vale
a spiegarci le
contraddizioni in cui spesso
ha inciampato nella
psicologia, nonché le
gravi manchevolezze nel suo
disegno ontologico su le tre forme
dell' Essere. Assai
piii di SERBATI pecca GIOBERTI
nella dottrina psicologica affermando
l'essere come reale
e, che più monta,
come recde determinato.
Non meno di GIOBERTI
e di SERBATI pecca ROVERE ponendo cotesto reale come
infinito in se, e come
presente al pensiero mercè l' interposizione delle
idee. Si direbbe
dunque che il Neoplatonismo
italiano, in questi
tre filosofi, abbia progredito su
la via dell'
a priorismo e
dell' iperpsicologismo. Essi
han dato tre
passi, ma indietreggiando sempre più;
perchè con l'esagerare
l'esigenza platonica han trascurato
l' esigenza aristotelica, tuttoché
ciascun d' essi abbia
creduto d' aver impresso
oggimai un accordo definitivo fra'
sistemi de' due
vecchi filosofi. L'ultimo segnatamente, il
Mamiani, mostra d'aver
progredito assai più di SERBATI e di GIOBERTI in questa
via. Sotto certi rispetti,
infatti, il Neoplatonismo
del Pesarese par che
confini col Teologismo:
talora anzi vi
si confonde, chiunque ripensi
a quelle cinque
differenti maniere (oltre la
sesta della comunione
ideale ond' abbiamo parlato) mercè cui
egli stima debbansi
attuare gV influssi
divini. E Dio che
crea l' anima, e
la fa esistere.
Ma è anche
Dio che le fa
intendere presentandosi a lei attraverso
le idee. È Dio
che le fa
ammirare il bello,
e incarnarlo. È
Dio che lastica tien
luogo del processut.Vedi lo
stesso Rayaisson. Vachebot, Hi8t,
critique de VÉcole
d'^Alexandrie, T. II,
iv.) le fa operare
il bene e
la virtù. Che
più altro? È
Dio perfino che, disponendola
ineffabilmente, la eccita,
la trae all'adorazione. È
proprio il regno
di Dio su
questa nostra terra 1
E Y illustre
Mamiani potrebbe oggi
ripetere le pietose e
calde parole del
Malebranche: 0 Dieu! exaucez ma
prière, après que
vous Vaurez formée
en mai! Capitolo Ottavo, continua lo
stesso argomento. {Critica del
NeoarigtoteUsmo), Notammo
come il principio
del conoscere metafisico immediato ponga
radice, per dirla
con le parole di Hegel,
nel rapporto d' un
nesso primitivo ed
essenziale fra il pensiero
e T Assoluto, fra
il soggetto e
T oggetto/ Àbbiam
visto come il
Neoplatonismo italiano moderno propugni questa
connessione sotto tre
forme più o
manco razionali; e come
abbia quindi a
tornare assai difficile al
Rosmini, e molto
più al Gioberti
e al Mamiani,
li potersi difender dair
accusa di panteismo
ideale. Gli estremi si
toccano anche qui.
Con la teorica
dell' intuizione e deir
immediatezza i nostri
Neoplatonici riescono,
checché se ne
dica, a' risultati
cui perviene la
dottrina della mediazimie propugnata
dagli altri nostri
viventi filosofi, seguaci caldissimi
dell'Idealismo germanico.
Dicemmo qual sia
la doppia esigenza
onde il Neo-platonismo si divaria
dal Neo-aristotelismo quant'al
conoscere metafisico. Per la natura
istessa di questa doppia
esigenza avviene che,
come nel primo, cosi
pure nel secondo
indirizzo sono possibili
più forme, più maniere,
più metodi, sia
che si tolga
di mira il modo
con che si
crede poter attinger
l'assoluto, sia che il
risultato ultimo a
cui si potrà
giugnere. Non « Hegel,
Log. volendo tener conto
di quella vieta
e volgar maniera di
mediatezza che, quantunque
sotto aspetti differenti, fa sempre
un salto mortale
quando presuma levarsi dall'effetto alla
causa e dal
dato alla condizione
del dato; possiamo ridurre
a due le
forme più generali
e comprensive di tal
mediazione. Esse, al
solito, risalgono a que'
due estremi in che dicemmo
sdoppiarsi r Aristotelismo: perchè
anche nella quistione
metafisica il primo di
cotest' indirizzi ci
è oggi rappresentato
dal Positivismo e dal
Materialismo; l'uno affermando,
nulla mai non potersi
conoscer di metafisico,
e l'altro innalzando a
dignità d' assoluto
la stessa materia,
senza legittimarne
menomamente il concetto.
Il secondo poi vuol
essei^e anch' egli avvisato
sotto doppio rispetto, potendo assumere
due forme che,
per due differenti ragioni, rivestano
entrambe carattere iperpsicologico. Si può
infatti mantener la
posizione d' un.
immediato irradiamento per virtù
d'un principio superiore,
generale e comune e s'
ha uq
indirizzo averroistico; il
quale, benché storicamente sìa
come un virgulto
sbocciato nel giardino dell'Aristotelismo, può
siffattamente svolgersi e grandeggiare, come
nel fatto è
avvenuto, da toccarsi
e talora confondersi col
Neoplatonismo. Ma, d'altra
parte, può assumere forma
squisita di scienza,
e s' ha, come ne'
tempi moderni, una
delle tre maniere
dell'Idealismo germanico
appellate subbiettiva, obbiettiva,
assoluta. Sennonché è da
notare come fra tutt'i
sistemi quello dell'assoluta identità
serbi '1 distintivo
d'esser naturalismo e ipei-psicologismo insieme,
e racchiudere, co'
molti pregi, i moltissimi
difetti dell'uno e
dell'altro indirizzo. In metafisica
l'Hegeliano è iperpsicologista. Perocché quantunque non
attinga l' assoluto per
opera d' un intuito e
d'un'immediata visione più
o meno spiccatamente neoplatonica, dice
e crede mostrare
di poterlo cogliere quasi d'assalto,
come toccammo, cioè
per stibitanea ed assoluta
astraeione dd pensiero
puro. Dice e
crede mostrare di poter
dedurre a tìl di logica
la dialettica che per
lui costituisce la
chiave di volta
d' ogni scibile e d' ogni
ordine di realtà..
Anch' egli dunque
trascende; e però anch' egli
vizia l'esigenza d'un
positivo e severo psicologismo. Ma,
oltreché iperpsicologista, l'Hegeliano è
anche naturalista. Checche
se ne dica,
la sua logica obbiettiva, la
dialettica intrinsecata e
compenetrata con la stessa
metafisica, non è
altro alla fin
delle fini che imitazione e
ripetizione della stessa
natura, delle stesse leggi
di natura, tuttoché
ridotte al grado
più universale e squisito
di trasparenza ideale,
pura, assoluta, per cui
la forma costituisce
lo stesso contenuto,
e viceversa. Il perché
se l'Idealismo assoluto,
come altrove notammo, è
stato detto con
felice espressione esser l’àlgebra dd naturalisino, con
altrettanta verità può
dirsi essere un' algebra
della psicologia, del
pensiero e delle
idee; tanto che ci
sarà lecito designar
come indovinello d'algebristi (direbbe Vico) quell'assoluto che
gli Hegeliani con miracolo
non mai visto
fanno venir fuora
dalle nebbiose alture della
dialettica. Possiamo dunque
affermare che Positivisti e
Idealisti assoluti oggi
rappresentino gli estremi indirizzi
dell' Aristotelismo. E
queste due forme neoaristoteliche, tuttoché
fra Joro si
differenzino toto cedo nel
metodo e nel
concetto della scienza,
nuUameno si toccano ne'
risultati, massime in
quello risguardante il valore
e '1 destino
dell' umana personalità. Chi tien
conto della necessità
d* ìndole tutta
fisiologica ed empirica secondochò è
intesa da' positivisti
e da* niaterìalisti, e
della necessità tntta dialettica
ideale assoluta com'è
concepita dagli Hegeliani,
tosto 8* accorgerà d' un*
altr’ attinenza fra queste
due tendenze della
moderna speculazione. Il dinamismo
noli* essere, nelle
cose, nella scienza
e nella storia, sparisce
cosi per 1*
una come pet
1* altra dottrina.
Meccanismo ideale, come dicemmo,
e meccanismo fisiologico
e materiale: necessità logica e formale, e
necessità empirica e
meccanica; ecco tutto.
Oggi dunque potremmo affermare
dell'una e dell'altra
scuola ciò che
Aristotele diceva de'
pittagorìci e de' platonici: 'A).Xa
yiyovi roì fiscBrifixrcx. To?c
vvv >j ^tXoao^ia
{Metaph.) Cosi Hegeliani
e Positivisti, come avvertimmo
nella Introduxione, tuttoché
movano da due
punti Uh loro interamente
diversi ed opposti,
riescono pur nullamanco
fid una medesima legge. E
come al Platonismo
primitivo tenne dietro
la scuola di Rifacciamoci da' Positivisti, i
quali, ove discoiTono intorno al
problema del conoscere
metafisico, non mostrano quella serietà
scientifica della quale
non pertanto vanno lodati
quando parlano de'
principi! metodici da applicarsi
alle scienze. Quant'
al problema d'una
realtà metafisica e' non sofirono
d'esser messi in
un fascio con gli
scettici sistematici e
co' nullisti; e,
davvero, non han torto. I
Positivisti infatti ci
parlano d' un
Inconoscibile. Dunque essi confessano
V esistenza d' un
obbietto trascendente. Ma come
legittimano cotest' obbietto? Come
ne determinano l'idea tosto
che ne parlano?
I Positivisti francesi ne
discorrono, ci piace
ripetere anche qui la
frase, come d' un
oceano immenso doni
la daire vision est
amsi salutaire que
formidable.* I Positivisti
inglesi poi ci porgono
un concetto più
determinato di cotesto Deus
àbsconditus, àicenàoìo potenza,
forzc^ di cui
V universo è simbolo
e manifestazione} Il positivista
francese qui, com'
è evidente, s' addimostra pili positivo,
0 meglio, più
negativo dell'inglese, e quindi
più timido, più
circospetto, più scettico
di di Speusippu cbe
radiò addirittara il
numero ideale (yortroc,
sc^yjtcxo;) sostitueodoTì il nunioro
sensibile appunto perchè
queir idea come
astratta e generale parevale
cosa inutile (Arist.
Metaph,, Rataibbon, i!^>eu9ippe); parimente
oggi Positivisti e
Materialisti, in luogo
dell* /iea, pongono' II Fatto
e la Materia;
e cosi mentre
negano V Idealismo
assoluto, mostrano d'arer con
osso doppia ed
intima relazione, una
storica e l'altra teoretica. La
storia del pensiero
filosofico progredisce, non
v'ha dubbio: ma anche
nel progredire si
ripete. Ecco qua
-una prova, chi
vuol vederla. E.
LiTTBi, A, Comte
et la Phil.
Poeit. Per quanto negativo, nullameno
questo concetto del
Littré su V
Assoluto è una
correzione deir idea del
Orand' Eetere intorno
alla quale con
tanta vuotaggine avea finito
per arzigogolare Comte. Spencer, Firft
Prìnci^ee^ Alcune idee
di questo scrittore su
V obbietto metafisico
superano quelle di
St. Hill. L’Autore del
Sietema di Logica
parla del soprannaturale, come
notammo in altro luogo,
da schietto formalista,
senza poterlo quindi
legittimare in altra guisa
che per empirica
credenza. (Ved. A,
Comte et Le
Potitivitme) La relatività del
eonoecere per lui
non è, a
dir proprio, quella
di Spencer, e neanche
quella de* Positivisti
francesi. Vedi il
novero eh* egli
stesso fa de’diversi modi
con che può
intendersi la relatività
della conoscenza nella PhiL
de Hamilton, ed.
cit. e. I. fronte
alla scienza: ma
le contraddizioni in che restano entrambi avviluppati
son le medesime.
Anch' essi infatti, i
Positivisti, obbediscono e
rendono omaggio al bisogno
speculativo che punge
ed eccita continuo
il pensiero filosofico, stantgchè
non solo riconoscono
la realtà d' un oggetto
trascendente, ma lo
determinano, lo pongono, lo
specificano in qualche
modo. Che cos'è,
per esempio, l'Inconoscibile onde
ci parla l'illustre
Spencer? È il fondo
occulto delle religioni,
e insieme l'estremo termine a
cui riescono le
scienze. Le religioni pongono tale
obbietto per virtù
d'istinto: le scienze
lo subiscon per legge
del proprio svolgimento.
Tra fede e
ragione, perciò, non v'è
antagonismo: l'Inconoscibile n'è l'
obbietto comune. Conciliarle dunque è
possibile, tosto che s'abbia
diffinito le idee
madri onde scienze
e religioni sono inviluppate.
E poiché le
une in sostanza
Aon fanno che riconoscere
ciò che le
altre contengono ed
esplicano istintivamente, ne segue
che lo spirito
umano' per mezzo della
scienza perviene là
ond' egli stesso
era partito con la
fede, cioè all'Inconoscibile. Il pensiero
del filosofo inglese
è chiaro e
spiccato, ma non altrettanto
vero. Innanzi tutto:
perchè le religioni e
molto più le
scienze non potranno
pervenire a render conoscibile
in alcun modo
l' Inconoscibile di cui pur
confessate la realtà?
Forse che tale
impossibilità, ripetiamolo,
non contraddice apertamente
all'attività critica del vostro
pensiero speculativo, alla
stessa esigenza del vostro
metodo critico e
positivo? Non dubitate affermarlo esistente
cotesto Inconoscibile. Giungete anzi
a determinarlo come
forza di cui l’universo è
manifestojsnone. Or bene
perchè non dare
un altro passo? Perchè
non ispecificar l'attinenza
eh' è tra l'Inconoscibile e '1
conoscibile? In altre
parole, domandiamo: col porre
i termini, non
siete già nella
necessità logica di mostrarci
in qualche maniera
la relazione di
essi, dirci quale attinenza
interceda per avventura
tra la forjsfa e
la sua manifestazione, quale
sia il vincolo
che annoda insieme la
potenza e l'universo
onde quella potenza è
simboleggiata? Brevemente: siete
qui in una forma
di panteismo, o
di teismo? Il
Positivista non risponde; e
pur dovrebbe: dovrebbe
se davvero amasse mostrarsi ed
esser positivo. Inoltre, l'Inconoscibile onde
move la fede,
e Finconoscibile cui
giugno la scienza,
dice lo Spencer, sono una cosa.
Ma perchè? Perchè
col prodotto confondere due facoltà
fra loro diverse?
L'Inconoscibile della fede incontra
un limite invalicabile
in questa o
cotesta intuizione
particolare in cui
l'Assoluto è compreso
dal sentimento religioso appo
un dato popolo,
e presso una
data civiltà. L'
Inconoscibile delle scienze,
invece, è l' inconoscibile di ragione;
e, come tale,
non può restare
perpetuamente indeterminato,
pel solito motivo
che, ove rimanesse cosi
necessariamente, l' indagine positiva
annullerebbe sé stossa; e
annullerebbe sé stessa
perchè r esigenza critica
non sarebbe altrimenti
un' esigenza invitta, naturale,
un irresistibile e
crescente bisogno
speculativo. Ora se
il contenuto della
fede è condizionato ad una
forma speciale; se per la
natura stessa della funzione
psicologica ond' ei
rampolla riman chiuso e
quasi cristallizzato nella
particolarità d'un sentimento: perchè, domandiamo,
voler condannare alla medesima
sorte l’Inconoscibile delle scienze?
Perchè così inesorabilmente pretendere
di segnare i
confini alla ragione ponendo
limiti all' attività
del pensiero speculativo, eh' è pur
la forza più
libera dell'universo? Non è
anch' ella, cotesta,
una forma di
dommatismo? 11 PositiTÌsto dirà:
tosto che voi
pigliate a determinare
Vlitcono9cihile, siete già
beli e uscito dalla
scienaa^ e cadrete
nella metafisica. verissimo: questo
accade, e questo
appunto deve accadere.
Altrove mostrammo come ciascuna
scienza, come tutte
le scienze, riescano
inefftcaci nel tentare
la soluzione di
certi problemi, segnatamente
nel determinare il concetto dell’Assoluto. Il
Positivista che è
tutto scienza e solamente
scienza, da una
parte ha paura
della speculazione, mentre dall* altra
sente il bisogno
di determinare in
qualche modo cotesto assoluto, e
lo determina, per
esempio, alla maniera
di Spencer o del [Concludiamo quant'
a’ Positivisti. Il Positivismo
gallico rispetto al
conoscere metafisico ci
dà un Immenso indeterminato; un
Incondizionato reale, il positivismo inglese poi, facendo un
altro passo, determina
vie più cotesta ignota realtà,
e giugne ad
affermare che le
forze, la materia, il
movimento, la vita e l'universo
non siano fuorché simboli
e rappresentazioni. Altre affermazioni d'altre maniere
di Positivismo che
pongano T assoluto senza penetrar
nel regno della
metafisica^ io non
conosco;ne, a dir
vero, sono possibili.* Littré con
offesa apertissima della
logica. Ora, chi
non voglia offendere non
pur la logica
ma neanche il
hnon senso, e
insieme salvarsi dalla contraddizione, dove
altro può penetrare,
uscendo dal regno
delle «ctetue, fuorché in
quello della tiietajUiea^
ma della metafìsica
intesa non già
come scienza/>rtma, anzi ultimaf
Determinare in qualche
modo la Potenza
di cui r universo
è manifestazione; specificaro
questo Immento formidàbile
e pvr •alutare oltre
cui non sa
penetrar rocchio dello
Scienze ma della
cai realtà nessuno che
abbia mente sana
potrà dubitare; cotesta
impresa, diciamo, non è
né impossibile nò
puerile, altro che
per gli animi
volgari, incuranti e stupidi.
La relatività nel
conoscere non ò
muro di bronzo; non
è oceano assolutamente
sconftnato. Il conoscere metafìsico
è possibile; ma ò possibile
come aesolato e come relativo
insiememente. È a«eolutOf
nel senso che
salva il pensiero
dal nullismo metafìsico;
ed è relativoj
nel senso che
non istringe la
mente entro la
rigida catena d* una
formola sistematica. Se
intanto ò vero,
come dice Spencer, che
tra V Inconoscibile delle religioni
e V Inconoscibile delle
scienze non esiste
antagonismOy no viene
che, fra gli
altri fini, la
speculazione metafisica debba
pre» figgersi anche questo:
trasformare la fede,
interpretar la credenza,
porre a nodo il
germe delFidea che
pure si s
voi ve attraverso
le produzioni mitiche, superare il
sentimento riducendo l'immaginazione a
ragione secondochò richiede
il processo psicologico,
e siffattamente porgere
guarentigie sperimentali all'inveramento della
scienza mercè le
applicazioni storiche in
generale. In questa rapida
critica su la
tendenza metafisica del
Positivismo non abbiamo tenuto
conto dell' Umanismo
di FRANCHI, e del
suo Dio
ddV Umanità che
nega il Dio
detta Bibbia {Razionalismo
del popolo, Ginevra), e
neanche del Fatto
della vita, àeW
Istinto ài cui parla
FERRARI {Filosofia della
Hivol.), perchè non
ci paion concetti scrii, né
degni di critica
seria. Quando s' è
detto che il
Dio Umanità^ che la
Vita della storia
con tutte le
sue leggi non
sono che due
fatti i quali perciò
abbisognan d'una spiegazione,
s'è detto tutto.
Ora a cotesta
qualsiasi spiegazione non
sanno e non
vogliono accostarsi questi due
arditissimi scrittori per
paura della metafisica;
e però non
sono positivisti, L' uno è
critico, non Criticista,
com' egli pretenderebbe
giacOr bene, la
filosofia positiva, la
speculazione razionalmente
positiva, accetta, deve
accettar l' una e
V altra posizione de'
Positivisti inglesi e
francesi, perchè ci rappresentano
entrambe uno sforzo
di metafisica, perchè sono
entrambe un preludio
alla metafisica. Se
non che esse sono
una metafisica incosciente,
una metafisica negativa, perchè sentono
ma non soddisfano
l'esigenza speculativa. Come dunque
soddisfare all'esigenza davvero
positiva nella speculazione
trascendente? Evidentemente
bisognerà appagarla superando
il negativo, superando quel
sazievole non so,
quel non mi
preme sapere quel non si può sapere
che ad ogn'
istante e con incredibile noia
ci ripetono i Positivisti,
ma nel medesimo tempo restare
nel positivo. E
qual è il
positivo in metafisica? Lo
dicemmo già, e
lo ripetiamo: schivare gli
estremi; perocché il
nemico mortale della
positività metafisica son le
colonne d'Ercole del
tutto sapere, e del
nulla sapere metafisico. Se quindi
la vera filosofia positiva
ha da accettare
quel che il
Positivismo ci dà e
nel medesimo tempo
superarlo in forza dello
stesso metodo positivo,
deve accogliere l' esistenza che il
crìticista, il vero
Kantiano affinchè sia
tale, dehb' esser
tutto d*un pezzo, dero
accettare anche i
sommi pronunziati della
Ragion Pratica, Ausonio dunque
è un puro
critico, un critico
sottile, è il
doctor mbtilissimwi de* dì
nostri, abile scaltri
mai a trovare
il pel neir
uovo neMibri altrui, ma
non così nel
dare una dottrina,
una teorica propria,
fosse pur la
teorica del giudizio. FERRARI
invece è
scettico sistematico
meravig^lioso nell’accatastare
erudizione come nel
distrugger sistemi, ma
nullista in metafisica al
pari d’Ausonio. Costoro
perciò son fuori
d’ogni forma di platonismo e d'ogni
forma d'Aristotelismo; e se ne
vantano; e se
ne gloriano: e si
sortano pure! Ma non sono
fuori della storia,
chi sappia che
cosa voglia dire storia
della scienza e
della filosofia. FRANCHI e FERRARI hanno esercitato fra
noi quella funzione,
parte benefica e
parte malefica, che
viene esercitando lo scetticismo
in certi dati
periodi storici; funzione
al tutto negativa, ma
necessaria. Ma la storia
dovrebbe insegnar loro due
cose: che il
l)Ì80gno speculativo è
uu gran fatto,
e che la
possibiltà d' una metafisica positiva
non è un
sogno. A questi
critici e scettici,
di cui fra noi
oggi non è
penuria, opponiamo un
dilemma invincibile do) BERTINI
su la
possibilità di rintracciare
un principio metafisico.
(Ved. La\ FU, Greca
prima di Socrate,
esposiz, storicocritica) d' un*
ignota realtà in quanto è Potenza e virtù
dell' universo, ma legittimarla.
Così il metodo
positivo, assumendo valor critico
e razionale, non
più sarà l'esagerazione d'uno de' due
estremi indirizzi dell'Aristotelismo, ne
contraddirà'altrimenti alla sua
posizione media, anzi
varrà a confermarla, ad
inverarla, ad esplicarla
sempre più.* L'opposto indirizzo
del Neoaristotelismo dicemmo esser
THegelianismo. L'Hegeliano
si oppone al
Neoplatonico, perchè non accetta
veruna sorta d' immediatezza nel conoscere
metafisico. Si oppone
al Positivista e ad
ogni maniera d' empirismo,
perchè non può
accoglier la nozione d'
un assoluto portoci
dalla coscienza volgare, empirica o
dommatica ch'ella sia.
Qui egli ha
pienamente ragione. Ma qual
è la sua
via? Qual è il suo metodo? Dov'egli
mira? L'abbiamo detto: l'Hegeliano riconosce l' assoluto,
ma lo riconosce
ponendolo, facendolo;e lo
legittima per necessità
tutta dialettica. Lo pone
e lo fa
non perchè ci
è, anzi perchè
ci ha da essere;
e per ciò
nessuno potrà dire
eh' e' ci
sia prima che il
pensiero s'accinga a
farlo. Di qui
una conclusione
singolarissima: Tutto ciò
che esiste, è
anteriore a quello per
cui virtù solamente
egU è possibile
e reale! Ma non
anticipiamo. Che cos' è
dunque l'assoluto per
i neoaristotelici
iperpsicologisti? Là risposta
non è sì
facile per noi quant'
avrebbe da essere
per loro. L' Assoluto è
il Tutto: è l'
assoluta e immanente
relazione: è la relazione
della relazione: lo
Spirito. E così pure
?a in forno
T affermazione del Littbì:
c qui e»t
mitapKyne»«n, iCe»tpa9 po9ÌiivÌ9U;
qui ett positiwtefn'ett pa$
métaphyiieien (Princip, de
Phil. Ponit. par
A. Comte, Préf.
d^un ditdple) Noa
senza ragione un
nostro acutissimo hegeliano
(Dr Mris, Dopo
la r^aureOf voi. I.)
chiama Hegel V
ArÌ9ioule moderno. Ma
qual ò proprio
V Aristotole rappresentato
dal filosofo di
Stoccarda V Ecco il
punto! U nostro valoroso e
carissimo professore, questo
Oariholdi deW Hegdianimno come
altrove r abbiamo chiamato,
non ammette che
un solo Aristotele,
il suo Aristotele! 'L'assoluto, dice
un fodol ripetitore
di Hegel, non
è questo o quello,
r identità o
la differenza, ma
il tutto nella
differenza e neil' unità tua, E
il conoscere assoluto
poi sta nel
porre i termini,
nel mostrar Sennonché, in
cotest' assoluta relazione,
in cotesto centro eh' è
anche circonferenza, è
pur d'uopo cominciare. Da qual
parte rifarci? Qual
è il Primo?
Eccoci nel cuore dell' Hegelianismo: nella
più alta e
nascosa fortezza dove già da un
pezzo la breccia
è stata ajiertaper
opera degli stessi
tedeschi, massime dal
Trendelenburg. All'assoluto, essi
dicono, si perviene
solo per medicunone. Ma»
cotesto lavoro di
mediazione, come s'inaugura e
perchè? A siffatto
processo va innanzi un
momento d' assóltUa e
subitanea astrazione} Col subitaneo
astrarre il puro
pensiero pone. Che cosa?
Pone Vinse, l'Essere,
o meglio l'Indeterminato. L'indeterminato non
è soggetto né
oggetto; non è pensante
né pensato: ma
è qualcosa oltre
cui non si può
andare, e senza
cui nulla non
sarà mai possibile,
e mercè cui tutto
sarà attuabile: l' idea
assoluta, l' etema nozione {der
ewige Begriff.y Ecco
Vàbsólute Prius, il Vero
primo, e però
il vero Fatto.* La
prima osservazione che
qui sorge spontanea
è la seguente. Cotesto
Indeterminato è cosiffatto,
che non si può
nemmanco pensare: perocché
ove accanto a
lui fosse come s*
oppongano fra loro,
e come e perchè, opposti,
si concilino. (Vkba, Introd, alla
Log. di ffegel).
~ 1/ assoluto, dico
un altro Hegeliano, non è Tldea,
non la Natura,
non lo Spirito,
ma è VldeaNatura-t^rito; la
rdoMÌone dtlla relaztotie;
VindifferenMa differenxiata
indifferentemente (Spaventa, Le»,
di FU.) Il
vero abeolute Priue
è 1* attività, il
pensiero, lo spirito:
non TEnte che
come puro essere
è PremppoHo cominciamento; ma
il Ponente, vero
Principio, che ò
lo Spirito. FiL.
di GIOBERTI. SPAVENTA ne
chiarisce il pensiero
cosi: Io mi
levo aU^eeeere per una
riaoluMtone immediata f per
un'auoluta a$trazione. {Le
Categ. della Log, di
ffegd). Hrgbl, Log,
voi. I, Jntrod.
L* Indeterminato per SPAVENTA
è il È
proprio uno scherzo,
un indovinello da
algebristi ! Dunque, mi
si chiederà, nel
^an sistema è
egli ripudiato V
elemento della differenza? Tutt*
altro. 611 Hegeliani
anzi in ogni
lor libro, in
ciascuna lor pagina s*
affannano a mostrare
e giustificar co*
fatti cotesta legge tanto
necessaria air organamento
della dialettica. Ma
quanto i Gesuiti non
s’arrapinano anch^essi a
parlarci di libertà
di pensiero e
di coscienza? K pure
chi non sa
come la libertà
vera per costoro
sia la schiavitù
al Sillabo e al
Domma, per cui
la ragione è
libera solo in
quanto è assorbita dalla fede?
Tal si è il diverso
per gli Hegeliani:
un fuor d*
opera. E* ne parlan
sempre, ma alla
fin delle fini
poi si trovano
ingoiati nelr identico.
L'alterità che scorge
Hegel nel suo
pensierpuro è (ripeto
la sua frase) ineffabile
e assolviamente vuota.
Or una differenza
assolutamente vuota non è
forse indifferenza, cioè
non differenza, identità,
vuotaggine addirittura? E dato
ci sia cotesta
differenza, sarà ella
di natura metafisica, o
non piuttosto logica?
E una differenza
non metafisica, domanderò, sarà
ella vera differenza
o non più
veramente semplice distinzione? Ecco la
ragione per cui
l'Idealismo assoluto non
può riescire a dimostrare
l'oggettività della conoscenza,
e salvarsi dal
pretto formalismo ond' è
tutto magagnato. Che se poi
la gran pretensione
sta nel volerci dare
la scienza assoluta,
e 'sarebbe d'uopo, ripeto,
che la logica, proprio come
logica, fosse la
metafisica; talché col
far l'una si farebbe
anche l'
altra, e così
potrebb' esser risoluto
l' arduo problema dell' oggettività. Invece
il più valoroso
de’nostri Hegeliani come
rispond'egli a questo
proposito? Se n'esce
pel rotto della
cuffia dicendo. Tale oggettività
non d un
problema logico: la
logica ami la
presuppone, (SPAVENTA) La
presuppone? Mi par
di sognare! Se dunque
è così, la
conseguenza chiara come
il sole, almeno
per noi imbarbogiti sempre più
nella vecchia logica
aristotelica, sarà questa: che
la logica, grande
o piccola che
sia, subbiettiva od
obbiettiva che si voglia,
non sarà e
mai non potrà
esser quella che
ci si vuol
dare ad intendere, la
chiave, cioè, del
grand' edlfizio, il
fondamento a priori
dell'enciclopedia, la vera
metafisica del conoscere.
Nò qui vale
invocar la Fenomenologia qual
propedeutica atta a
dimostrare 1’oggettività, come fa' lo
stesso Spaventa. Cotesta
invocazione anzi è una ragione
di più per dichiarar
la logica degli
hegeliani una tela
di ragno. Perchè
se la Fenomonalogia
ha da esser
la propedeutica necessaria
della Logica, il processo
a priori
e assoluto nel
costruire la scienza
diventerà una parola
[LIB. H. della nuova
loj^ica, s' è provato
a schiacciarlo. Ci è riescito?
Un vizio magagna
tutta la logica
hegeliana, dice anch' egli; ed è vizio
d'origine, in quanto
che pone radice nelle
viscere stesse del
momento astratto, e propriamente
nel concetto dell'Indeterminato. L'Indeterminato è un
equivalente comune dell'
Essere e del Non-essere, dell'Idea
e del pensiero,
dell'astratto e dell'ASTRAENTE. Di fatto,
che cosa mai
sono cotesto Essere e
cotesto Non-essere? Ei son cosa
indeterminata; ma non sono
lo stesso Indeterminato. Se
fossero, la difiFerenza tornerebbe davvero
impossibile (difetto radicale dell'Idealismo obbiettivo
dello Schelling), perchè
avrebbe a sgorgare dall'identità. Che
se non fossero
la stessa cosa, tornerebbe
impossibile il contrario,
cioè l'identità. Essere e
Non-essere, dunque, sono
un medesimo, è vero,
ma solo in
quanto indeterminati, non
già in quanto indifferenti.
Essere e Nulla
sono lo stesso,
ma non come essere e Nulla.
Una prima osservazione
potrebb' esser questa. Se tra
r Essere e'1
Nulla havvi identità
e diiferenza; idenYuota
di senso, an
a priori che
non è a
priori, e perciò
un* ironia, come dlcovamo
poco fa. Ancora: se
la Logica in
cotesto processo a
priori ha da pretuppoire
la Fenomenologia, ne
segrue che l’una di
queste due scienze non
potrà essere altro
che imitazione, ripetizione,
copia, copia anche ridotta
al grado supremo
di trasparenza ideale,
ma sempre copia deir altra; e
quindi s'intoppa nella
solita conseguenza, che
cioè la conge?natura dialettica hegeliana,
anziché una metafisica,
sarà un pretto formalismo, un
assoluto soggettivismo. Che
se la Logica
prewpponendo necessariamente
la Fenomenologia non
può non essere
altro che una
copia trasparentissima di questa,
non sappiamo dir
davvero che cosa
gli Hegeliani avranno da
opporre al metodo
di certi Teologisti
i quali pigliano a
discorrere della natura
di Dio appoggriandosi nelle
leggi psicologiche,
ricopiandole, ripetendole e
trasportando così la
psicologia nella teologia. Del
resto, sul significato
e sul fine e
sul valore della
Fenomenitlogiat i seguaci
di Hegel, com*è
noto, navigano pur
troppo in opposte correnti neir
interpretar la mente
del maestro. È
d' nopo dunque
che innanzi tutto e s’accordino fra
loro e ci
sappian dire se
la Logica sia davvero
la scienza madre,
la scienza davvero
o priori, ovvero
abbia da presupporre qualcos'altro
dinanzi a sé.
In entrambe i
casi le difficoltà saranno insormontabili. * Spatbmta,
Le prime Categ,
ecc. loc. cit. tità
perchè entrambi indeterminaéi,
e differenza perchè entrambi indifferenti;
io domando: cotesto
indifferente non è già
di per sé
stesso un indeterminato, cioè
non differente, cioè non
determinato? Dìinqne Isl
differenza di cotesto indifferente
è una parola
com' un' altra; un pio desiderio:
perocché, ripetiamolo, se l'indifferente è irrélativo,
sarà per sé
stesso irrazionale, sarà
il nulla, sarà il
nulla addirittura: quel
nulla che, come
dice il Vico, non
può cominciar nulla,
e nulla terminare:
vuotaggine, e voragginel Ora
piuttosto che dirlo
un absclide Prius cotesto
Indeterminato, non vuol
esser anzi ritenuto come
un vero capui
mortuum, incapace a
costituir la scienza perchè
incapace a far
cominciare il pensiero?" Sennonché il
Professore di Napoli,
nel corregger V
Hegelianismo, par che
voglia uccidere il
verme velenoso procacciando mostrare che
il diverso ponga
radice nel Nulla, ma
nel Nulla inteso
non già com' essere
purissimo, astrattissimo,
scioperato, bensì come
astraente, come
NuHa-pensiero il quale,
perciò, non cessa
né può cessare d' esser pensiero.
Or bene, l' illustre
uomo così non risolve,
ma sposta la
grave difficoltà del
Trendelenburg. Egli riesce a
mettere un po'di
calcina alla breccia,
è vero; ma senz'addarsene poi
n' apre un'
altra non meno
fatale della prima, perché
l' intrusione del diverso
è sempre lì duro
a chiedergli ragione
di sé. Infatti,
s'egli considera l'Essere come
un in sé,
e considera come
un in se anch' il
Non-essere; non v'
è nessuna ragione
al mondo perchè non
abbia da riguardare
anche come un
in se il connubio
de' due termini.
Intanto che cosa
fa il dotto filosofo ?
Giusto nel momento
che s' hann' a
decider le sorti della
logica obbiettiva, giusto
nell' istante supremo RÌ9p,
al Oiom, de*
Leti., T, IL. Si
dirà: è indeterminato
anche il vostro
intelli^bile, la {«ce
metafisica del vostro filosofo.
Verissimo, io rispondo:
ma tra il
nostro indeterminato e quello
degli Hegeliani corre
tanto divario, quanto
fra un oggetto posto
da natura, e
quello colto d'oMatto;
fra T oggetto
originario intuito, e r
oggetto afferrato por
risoluzione astrattiva. Veggasi quel
che s*ò discorso
nella sezione in cui
la logica dee
poter rivestire natura
e valore di metafisica, egli
cangia bruscamente posizione,
e invoca il pensiero,
invoca 1' astraente,
invoca l’astrazione, e cosi dileguatasi
a un tratto
V obbiettività, ci
fa divagare nel mondo
delle pure forme,
ed eccoci di
bel nuovo ricacciati e
ravviluppati per entro
alle fitte maglie
della tela di ragno!
Dunque (mi si
chiederà) a voler
penetrare sul serio nel
regno metafisico, nel
mondo delle Menti e
di Dio con
metodo razionalmente positivo,
chg cosa è da
fare? Il da
fare è manifesto:
bisognerà che il connubio
de' due termini,
cioè il divenire,
sia quel medesimo che
sono cotesti suoi
termini, dal cui
annodamento esso dee pullulare.
In altre parole,
bisogna eh' e' sia da
sé, che sia
per sé, che
sia mediante se.
Fa d' uopo, insomma, che
r Essere (ripetiamo
volentieri la bella
frase del Trendelenburg) sia
dialettico, ma dialettico
davvero, non da burla;
dialettico nel verace
significato della parola, e
quindi atto a
moversi da sé
medesimo, anche senza il
vostro pensare, anche
fuori del vostro
pensare. Cosi gli Hegeliani
potrebbero schivare qualvogliasi
intrusione; e così (e
solamente così) potrebbero
conseguir quella che tanto
essi desiderano, la
scienza assoluta. Ma
questo non ha fatto
Hegel; e questo
non ha fatto
Spaventa benché con tanto
acume siasi adoperato
a rammendar lo
strappo micidiale che con
abilità di grande
maestro ha saputo operare il
dottissimo Trendelenburg nella
logica hegeliana. E perciò
il sistema delF
identità assoluta è,
e resterà in perpetuo,
come é stato
appellato nella stessa
Germania, il monismo del
pensiero (monismi^ des
Gedenkes). Abbiam detto che l'
impossibilità di mostrare
il principio della difierenza
nel regno della
logica fa sì che
il passaggio al
mondo della natura
si manifesti arbitrario, illusorio, fallace. L'idea logica,
dice VERA, è la
Idea cieca, l’Idea
senza coscienza né
pensiero, la nuda possibilità:
in somma é
l'Idea, ma non
l'Idea dell' Idea. In
cotesta imperfezione logica
sta proprio la ragione
del passaggio alla
natura, e quindi
la sua legge, e
la sua necessità.*
Dunque, in altre
parole, perchè r inderminato
è indeterminato, perciò
diventa determinato ; perchè
è possibile, perciò
diventa reale; perchè
è privazione, perciò h posizione.
Eccoci alla tt-ostc?
aristotelica. Ma dicemmo che
la privazione non
è negazione, non è
vaga e astratta
indeterminatezza, non è
pretta potenzialità, ma energia,
principio positivo, e
potenza feconda (to' ^uvarov).
Or l’idea dell’Idea di
cui parla VERA, è
qualcosa d'assolutamente potenziale
e d'indeterminato; è una
possibilità logica, il to' ev^e^opevov, non già
il tò ^uvktov,
e quindi, meglio
che principio positivo, è
negazione d'ogni principio.
Come dunque principia e
fa principiare? Come passa
e fa passare?
In-, somma, com'è che
diventa?* * Hegel, Log.,
Introd. n divenirey
osserra il medesimo
traduttore, compie la
a/era ddV E98ere
e del Non-esaerey
e forma ti
passaggio alla sfera
ptù concreta dell' Idea,
dove per novelle
addizioni V Essere
e il Non-essere
diventanoy o meglio son
divenute qualità, quantità, essenza. (Log..) Ma come
fatte, da chi
Jhtte e perchè
fatte coteste novelle
addizioni? Data la sfera
dell* Essere, del
Non-essere e del
Divenire, si passa
tosto e necessariamente alla sfera
concreta del medesimo
e del diverso...
Ma come si
passa? Chi vi dà
il diritto d'affermare
cotal passaggio? Torniamo
a domandarlo: siamo qui
fra* contraddittori, ovvero
fra* contrari? Siamo
fra nn termine posto
ed un altro
opposto, o non
più veramente fra
il puro pensiero
e il soggetto determinatissimo e
vivente che dicesì
naturai Per quanto
si faccia, la sola
relazione logica e
la sola necessità
logica torneran sempre inefficaci, e
però Hegel (secondo
la severa critica
dello Stahl) non
giunge mai ad un
mondo reale. Egli
passa dal puro
pensiero alla Natura
perchè? Perchè l'uno dee
negare sé stesso
ponendo l'altro, l' opposto.
Ora il carattere dell'opposto, della
Natura, non è la realtà,
la sostanzialità, la causalità
(attribuiti già allo
stesso pensiero puro),
ma è la
negazione dell'essere sostanziale,
reale, causale. Che
cosa dunque rimane
alla Natura? La semplice
determinazione del tempo
e dello spazio
(Ved. Enciclop). Or per qual
ragione si dovrà
ammettere che questa
natura estesa e temporanea
debba esistere attualmente,
che, cioè, sia
reale e non
semplicemente pensata come estesa
e temporanea, socondochè
ci accade ne' sogni? L'opposto
del pensiero puro
è la Natura
solo come temporanea ed
estesa: ma per
aver 1' opposizione
forse che non
basta pensarla come tale?
L^ Idealismo oggettivo di
Hegel (conclude lo
Stahl) non è meno
di quello soggettivo
di Fichte un
puro mondo di
sogni: Tunica differenza ì
che vi manca
ehi sogna, »
{FU. del Diritto. A.
quest' ultimo e severo
giudizio dello Stahl
ci piace qui
aggiungere quello d' un
altro Parlando dell'Idealismo
assoluto non possiamo
dispensarci dall' accennar
poche cose, quant' occorre al nostro proposito,
sul suo organamento
generale, e su le
sue relazioni storiche
col Platonismo e
con V Aristotelismo in generale.
Gli Hegeliani riconoscono
che il mondo si
svolge per una
legge interna anziché
per un caso o
per necessità ineluttabile
e geometrica, come
pensano gli Spinozisti ne' tempi
moderni, e come
pensavano gli Epicurei in
antico. L' Hegelianismo racchiude
una grande idea; l'idea
del processo, che
vuol dh-e d'un
fine da conseguire con
pienezza di coscienza,
di libertà, di razionalità.
L'Idealismo assoluto, quindi,
anziché cieco meccanismo e
fatalismo ineluttabile, parrebbe
un essenziale e profondo
e universale dinamismo.
Ma eccoci al punto
1 Al di
là della natura,
ci si dice,
è l' Idea che
per ogni conto è
indeterminata e potenziale:
al di qua
poi ci é lo
Spirito, eh' é l'
Idea dell' Idea.
Ora abbiam visto come
la Natura non
si possa movere
per l' Idea, perchè ninno
potrà mai dare
quel che non
possiede. Tanto meno poi
si potrà movere
per lo Spirito,
perchè lo Spirito
vien posteriore alla natura,
e le si
sovrappone. Ck)me dunque movesi
cotesta Natura? Per
necessità logica. E
quale è il fine,
quale il motivo
ond'é spinta, eccitata,
illuminata? La razionalità. Or
non è ella
cotesta una forma
di fatalismo cieco e
geometrico che, quant'
a' risultati, non
si divaria né pur
d'un apice dallo Spinozismo? Qual
differenaotoreTole scrittore su*
difetti sostanziali deiridealismo
assoluto. « Non 9%
pud leggere Hegel
tenxa chieder9Ì ei
ragioni ttd terio.
Spesso cade ntl fatalismo y
nella personificazione, e,
leggendolo, par d’assistere
alla /ormatone d’una mitologia,
alla genesi di un mondo
che somiglia qtuilo degli
Gnostici, in cui
avviene che le
idee piglino corpo,
marcino^ e subiscano le
piti svariate vicende. (SoBRRERt
M^langes rf* Histoire
religieuse). A proposito
della Logica hegeliana
poi ci sembra
notevole questa sent-enza d*ano
che se ne
intende, e che
per il solito è
temperatissimo ne’suoi giudizi:
Higd n’a pas
renouveU la seience,
comme Venthow situme de
ses disciples Va
parfois prodanU; il
Va dénatwée, malgri
les avertissements de Kant,
et en la
faisant la premiare
des seiences, ou
pour mieux dire la
seuU scienoe, U
Va tuée, (I. Babthìlkmt Saikt-Hilaibie
Logique d^Arisiote, GL,
Pré&ce.) za, infatti, fra
la necessità dialettica
e la necessità
matematica, fra lo Stoico l’
Epicureo lo Spinoziano
e l’Idealista assoluto
fuorché la coscienza,
in quest' ultimo,
della razionalità, eh' è dir la
coscienza e la
trasparente visione di cotesta
superiore, arcana, invincibile,
ineluttabile necessità?^ Quanto
poi alle sue
relazioni storiche, notammo
già come r Hegelianismo
distinguasi da ogni
altro sistema per la«pretensione di
volerli tutti accordare
e tutti compiere e
tutti inverare. E
poiché guardando al
modo generale onde si
suol determinare il
fondamento assoluto delle cose,
tutte quante le
soluzioni metafisiche
possono esser rimenate
ai due indirizzi
del Platonismo e deir
Aristotelismo, così gV
Idealisti assoluti, con la
dottrina delia Idea
e quindi del
metodo dialettico, reputano d'esser finalmente
pervenuti ad accordare
l'esi[Nò Tale che
alcuni fra i
più intelligenti Hegeliani^
stimando dMnterpretar meglio
la mente del
maestro, riguardino i
tre momenti del
processo assoluto, nonché i
tre termini del
gran sillogismo, come
in un sol
momeìUo^ cioè nella loro
immanenza, nell'attuale ed
assoluta relazione, vomire
nella immanenza àeWIdea della
Natura e dello
Spirito dandoci così a
credere che cotesta non
è altrimenti la
metafisica della Idea
immobile e irrigidita, e
neanche della Mente,
e tanto meno
poi dell* Ente,
ma si la metafisica
Tera perchè metafisica
dello spirito. Con l’aggiugnere al concetto
del processo e
del reale divenire
quello dell’immanenza, panni
che le difficoltà, anziché
scemare, crescano. Fra
que*tre momenti e
que*tre termini, infatti, una
relazione caueale è
ineyitabile, essendo verità
troppo antica ed altrettanto
irrepugnabile, che la
catua ì per
la tua e$9enta avanti V
effetto (Twv yàp
fiéd^v^ wv coriv
l5« xt etrj^oirov
xae' o/BOTfjOov, ocva^xacov givat
tÒ zrpórspoy airtov
t«5v /xct' auro. Arist.,
Metapk.). E questo principio
rlbadiscon oggi per
Tia sperimentale tutte le
scienze naturali e
fisiche, mostrando ad
evidenza come la natura
fisica, nello svolgimento
cosmico, preceda alla
comparsa del regno vegetale,
il vegetale (secondo
alcuni) all'animale, e
air animale rumano. Come
dunque persistere a
farci erodere aW immanenza
del ternario f Come
scaldarsi tanto per
darci ad intendere
che V Idea
i insieme Natura e
Spirito e che la
Natura è insieme
Idea e Spirito
f È metafisica positiva cotesta?
o non più
veramente un abuso
di logica nonché
un'ingiuria ai pronunziati più
sicuri della moderna
scienza di natura?
L'opposizione più salda, più
seria, più invitta
all' Idealismo assoluto
la fanno oggi le
discipline sperimentali. R pure gli
Hegeliani non se
ne accorgono! Felicissimi loro! genza
metafisica dell' uno,
con quella dell'altro
sistema. Or è in
questo preteso accordo
eh' ei si
palesano iper-psicologisti per
doppio rispetto. Osservammo
come uno de' massimi
concetti dell' Aristotelismo
sia quello del moto;
fondamento e sintesi
di tutte le
categorie, ou xoivóv.
Metaph. TóSe yy.p
rt tÒ f^soóiievov
>? Si xcvyjaiC}
ov. Phys,, *
Twv a^à^ffwv Z"»
e) xévvjo'cc); oX>)
^%p ri zapi
fVT£(ai (TXSìpi? ÒLV^p7)T0Lt. Melaph.y
' Tal è,
per esempio, il
ciottissimo Felice Raraisson,
il quale, segnatamente nel 2**
yolame dell* opera
che noi più
Tolte abbiamo citato, si
mostra critico assai
poco benigno verso
le teoriche platoniche
nel porre a riscontro
la Dùdettiea e
la Metajitùsa, E
di questo difetto
è stato giustamente ripreso
dagli stessi francesi
fra* quali Janet.
{ÉhuL tur la DialecHque
dant Platon et
dans Hegel, Paris) come
nota lo Zeller,
che le idee
abbiano da esser
lo stesso che i
sensibili; onde poi
la conseguenza su
l'inutilità di ciò che
Aristotele chiama sensibili
etemi, la facilità
di rilevare T assurdo
delle essente separate,^
il rimprovero su la
necessaria vacuità degli
eterni parodigmi, e
la irrisa e, certo,
ridevole mitologia delle
idee come reminiscenze d' un' altra
vita.* Ora il
Platonismo espostoci da
Aristotele arieggia, per più
rispetti, al sistema
dell' assoluta identità: di
guisa che ov'
altri desiderasse elementi per
una severa confutazione
della dottrina hegeliana, dovrebbe intendere
Platone così come
lo intese il
suo celebre discepolo e
come lo stesso
Platone si rivela
talvolta nel Parmenide e
nel Sofista, e
saperne quindi ritrarre gli
assurdi. Anche nel
Platonismo passato per
la trafila dello Stagirita
si può dire
esser la logica
quella che crea il
mondo, essendo la
nozione, il generale,
Punita indeterminata che pone
il multiplo. Fra
il finito e
l'tw/ìnito, fra l' Ente
ed il Non-ente,
fra 1' Uno
e V Altro (rauToi, 5dÌ7spoy)
nou ci ha
chc uu rapporto
di natura logica; sia
che si parli
di fx^juviacc, sia
che di fisOf^ic, ovvero d'una
relazione intima ed
essenziale emergente
"Ere Sol^iisv av
aSiivarov ywpc'c stvae
tìj'v ouT^av xai OH
VI o\J7iOL' wt7«
ctw; «y ac
cosai ovacat t»v
apxyfAOiTta'» oZdOLi
X^P**"^ suv. Metaph, Quanto al
vaJore della critica
Aristotelica cons. lo
Zbllkb {Eapo•inone arittotelica
ecc.). Vedi anche Tbendblbkbubq come intende
i n^ùròc àpt^fAoi
{PleUonU de idei»
et numerie doetrina ex
Ariet. iUtutrata, Lipzia,
Stillbaum, Prolog, in Parmenide di VELIA, ove
tocca dell* esposizione
aristotelica. !. Simon, Étnd.
tur la Théodieée
de Platon et
cT Artet, Cuosiir, note
al Tim. dorè Platone
è difeso dall*
accusa riguardante la causa
finale. Jacqitks,
Thior. dee Idée*
réfutiee par Ariet,
Lkvbano, De la
Critique et Ice
Idéee Platonicienne» par
Ariat. au premier
liv. de la Métaph.
Lrclf.bc, Penniee
de Platon preceduti
da una Hist.
abrégie du plaumieme, Oggimai
dunque le interpretazioni e
la difesa in
favore di Platone sono
tante e così
evidenti, che la
crìtica aristotelica è ridotta
ai suoi
legittimi confini. Molte
obbiezioni Aristotele andò
cercando col lumicino; ma
alcune reggono e
reggeranno contro ogni
forma di Platonismo come
altrove toccammo, e
come vedremo meglio
nel prossimo capitolo. dalla natura
stessa delle idee
secondochè appare nel Parmenide di VELIA. Non
è questo il
luogo per dire
qual possa essere il
significato sincero di
questo celebre dialogo
e quale il metodo
più acconcio onde
vuol essere interpretata la mente
di Platone. Ripetiamo
che per lo
Stagirita, come per
alcuni critici francesi,
sembra che il filosofo
Ateniese rimonti all'
assoluto mercè gli
artifizi dell' astrazione, dispogliando
le cose de'
lor caratteri individuali, risalendo
gradatamente a' rispettivi
prototipi, e giugnendo così
al minimo della
realtà, cioè al generale
che per sé
stesso è cosa
indeterminata e vuota.*Ora,
dare al Platonismo
cotesto valore tornava comodo al
discepolo per meglio
combattere il maestro; ed
era altresì naturale,
atteso che il
metodo adoperato da Aristotele,
anziché iperpsicologico ed
astratto, come dicevamo, si
palesa essenzialmente psicologico,
sperimentale, induttivo
nell'ampio significato di
questa parola, per cui
la sua metafisica
riesciva al massimo
delle realtà eh' è l'Atto
puro. Così ciò
che per questi
interpreti è il minimum
pel malinteso Platonismo,
è il maximum pel
beninteso Aristotelismo. Questo fa
oggi l'idealismo assoluto,
ma il fa con
quella ricchezza d'espedienti,
come giustamente osserva r
illustre traduttore di
Hegel, e con
quella possente vena di
speculazione, che sanno
dar venti e
più secoli di storia
e di profonda
attività filosofica. L' Hegeliano condanna il
metodo aristotelico, lo
dice empirico, e si
studia invece di
seguire e compiere
il metodo dialettico dell'autore del
Parm^enide; ma nel
fatto non fa
che perpetuare la vuota
posizione del Sofista
in quanto che
col TÒ ov di
questo dialogo, che
è precisamente il
suo Indeterminato, e' si
riman sempre nelle
secche della logica. Rayaisson. Vera,
V Hegelianifime tt la
PhUoBopkie. Ma è poi
davvero Y Indeterminato la
posizione del Sofista?
È egli tale forse
r«»«er« che ì
realmente e aaeolvUamejUe : rw
travre^wc ovt«? {Soph.)
L'Idealista assoluto non
riesce al minimum
platonico, è vero: ma
comincia dal minimum
dell'essere, perchè salendo di
slancio, come dicemmo,
air Indeterminato, coglie immediatamente (es
egreift) l'In -sé {dans
ansich) che è Nulla
ed Essere, e
poi con metodo
dialettico e generativo egli viene
sgomitolando, a così
dire, ogni cosa con
ritmo costante, immutabile,
invincibile, matematico,
monotono, per indi
riuscire al medesimo
punto onde era mosso
per l' innanzi. E
con ciò pensa
d'aver conseguito il vantato
accordo fra l’Aristotelismo e
il Platonismo, mentre in
realtà ad altro
non riesce che ad
una forzata compenetrazione e
meschianza del melenso e
indiscerniljile tò cv con quel
Noùc immobile, solitario
e tutto chiuso entro
sé stesso di
cui Aristotele parla nel
XII libro della
Metafisica. L'Hegeliano quindi
é iperpsicologista per doppio
conto. Egli incarna,
esplica logicamente e compie
mirabilmente uno de'
due indirizzi estremi dell'
Aristotelismo, e insieme
interpreta il Platonismo con una
critica che somiglia
non poco a
quella d' Aristotile.
Concludiamo. Abbiam visto
come la forma
di mediazione onde i
Positivisti mostrano d'aver
coscienza dell' Assoluto sia
contraddittoria. Essi protestano
di non saper nulla,
di non poter
nulla sapere di
metafisico; ma nel fatto
confessano un nescio
quid, la realtà
d' un obbietto trascendente.
Lo confessano in
maniera empirica, e si
contraddicono anche qui,
perché, dichiai'andolo Inconoscibile, negano così
l' esigenza più vivace
della ricerca, negano
il metodo positivo,
negano la critica
severa e feconda. Positivisti,
Critici, Scettici o com’altrimenti si chiamino
cotesti filosofi déW
avvenire, non hanno
e non vogliono aver
fede nell' indagine
d' un sapere metafisico. Essi dunque
condannano sé medesimi,
il proprio metodo, la
ragione e la
storia della scienza,
poiché non fanno che
perpetuare un aristotelismo
fiacco, empirico, unilaterale, impotente, negativo. Ad
un opposto resultato riesce il
neoaristotelico
iperpsicolggista.
L'idealista asBolnto dice
di conoscer l'Assoluto,
d'intenderlo nel senso più
stretto di questa
parola, perchè lo
fa solo in pensandolo,
e ripensandolo il
rende a sé
stesso trasparente. Chi conosce
Bram è già
Bram, dice il
filosofo indiano. Chi giugne
a pensar Dio,
l'infinito, ci dicon gl'Hegeliani, egli
è già Dio,
è già l'infinito.
Ma il modo con
che pervengono a
pensarlo, il processo
di mediazione, non è
processo, non procede,
non cammina, ma
sé in sé rigira,
direbbe l'ALIGHIERI, poiché
riman sempre nel mondo
del più puro
pensiero, del subbiettivismo, in
quel letto di Procuste
appellato formalismo logico,
come dell' Hegelianismo dice
un illustre scrittore
vivente di Germania.' Cotesto processo
quindi é una
mediazione bugiarda, perchè non é vera
e legittima conversione. Quell'ombra, dunque,
di dottrina metafisica,
quel vano conato di
conoscenza trascendente che ci porgono
i Positivisti col confessare
la realtà d'unDews
absconditus ci rappresenta una
delle forme costituenti
la prima |)0sùnone
speculativa; la quale
perciò, chi guardi
alla legge istorica aristotelica
secondo cui si
svolve il pensiero filosofico, s'addimostra
tutt' altro che positivo, in
quanto che ci
rappresenta l'esagerazione
del Dommciismo empirico.
La dottrina hegeliana
poi neir attingere a
modo suo l' Assoluto
e nel determinarlo, ci rappresenta
invece la seconda
posizione speculativa, ed è
l'esagerazione del processo
deduttivo, in quanto é dommatismo sistematico
assoluto; e neanche
questo merita nome di
positivo. I Neoaristetelici moderni,
dunque, sia che per
necessità di sentimento
e d' opinione e d'istinto
pongano l' Inconoscibile, sia
che a furia
di speculazione
trascendentale pongano l'Indeterminato come un
absdute Prius, partono
dall'ignoto; partono dall' impensabile. Essi
movono dal buio,
o riescono al buio:
talché rassomigliano a
que' filosofi di
cui parla Aristotele, i
quali fanno nascer
tutte cose dalla
notte: ol * CoLEBBOOKE,
PhiL dea HindotUf
Ess. II. Gbbvihub,
Hìh, du IHx*Neuviéme
SihUe, Paris. fx vuxTo'c
7fvvo3vTic. Perciò i
Neoaristotelici, s' appellinQ
Hegeliani o Positivisti,
meritano, comecché per
ragioni diflFerenti, il titolo
di filosofi della
notte; mentre i Neoplatonici
con le
vantate visioni, intuizioni,
splendori, irradiamenti e influssi
divini, ben ci
figurano i filosofi del
giorno e della
luce. Il positivo nel
conoscere metafisico non
istà nella immediatezza de'
Neoplatonici, e neanche
nella mediazione de' Neoaristotelici. In
che dunque vuol
farsi consistere? Re LA RICERCA
DELL'ASSOLUTO SECONDO LA RAGION
FILOSOFICA POSITIVA, altrove notammo
come l’essere s' incarni
e sostanzii ne'tre
processi, ideale^ naturale,
istoricO'Sociologko: e come il
Vico, a significare
l'indipendenza di ciascuno e
insieme la comune
legislazione, siasi ben
apposto nel chiamarli a
Mondo delie Menti
e di Dio^
Mondo della Natura^ Mondo
dello Spirito. Avvertimmo altresì che
le scienze le
quali studiano lo
spirito in sé stesso
indipendentemente dallo svolgimento
isterico, si adunan tutte
nelle tre discipline
fra loro distinte
eppur connesse in unico
organismo, i cui
tre momenti, per così
esprimerci, sono il primo
psicologico, il primo logico
e’1 primo vero metafisico. Ora il processo ideale è
la dialettica; la
quale volendo essere avvisata
sotto doppio rispetto,
ideologico e metafisico, è
davvero, come l'han
sempre designata i Platonici
ed i neo platonici, una
scala; ma una
scala a doppio congegno;
una scala ascensiva
e discensiva, come direbbero certi
viventi critici francesi
nell' interpretare il
Parmenide di Platone,'
In qnanto ascensiva,
è ideologia; e
V ideologia, se
non avesse alcun
valore dialettico, altro non
sarebbe che una
serie di norme
logiche e un cumulo
di leggi e
d'attinenze onninamente formali. Essa
dunque rappresenta il
processo eduttivo. Questo processo
muove dal Primo
logico, e riesce
al Primo vero metafisico;
e vi riesce
col mezzo delle idee
(ntpi iSé(av) che
sono il medio
per eccellenza, lo strumento
pili acconcio, più
legittimo, e perciò
la prova razionalmente positiva
per potere attinger
la notizia dell'Assoluto. In quanto
poi la dialettica
è discensiva, è metafisica;
ed è metafisica
perchè, giunti, come
accennammo, al sommo della
scala, il Primo
vero metafisico assume valore
di principio metafisico che
è anch'egli .processo
e conversione con sé e
col fuori di sé.
In Vico é abbastanza
chiara l'esigenza di
questo doppio rispetto della
dialettica laddove, nella
simbolica Dipintura della Scienza
Nuova, pone il pensiero
e l'essere come
formanti un organismo,
un sol mondo, il
Mondo delle Menti
e di Dio.
Vedi per es.
Jankt, Étude »ur
la Dicdectìque ecc.,
ed. cit. p. Vaoherot,
HÌ9t. critique de
VÉcole (TAlex.^ NoCTRlsSOir, Expo8Ìtion de la Théorie
pUUonieienne de$ idée»,
PftHs, Simon, HìH. de VÉcole d'Alex. Perchè le
idee tornino fruttuose
han d' avere un
valore dialettico. Cons. a
questo proposito Plat.,
De Rep., Sop}i.\
Abist., Metaph.,
Proclo, Comm, in
Parm. Il metodo
dialettico beninteso risale, secondochò
notammo, a Socrate,
come quegli che trasferi
tale parola dagli
usi della vita
(^ta'kéyt'jBxL^ eonvereare), agli usi
della scienza. Però
dialettica, nel suo
razionale significato,
indica la convenione
della mente, vuoi
con sé medesima,
vuoi con altro.
Vico intende a meraviglia
tale origino istorica,
nonché Tapplicazione speculativa
alla scienza, laddove afferma:
V ordine delle
umane cote i
d* ouervare le
cote SIMILI, prima per
ISPIROASSI, dipoi per
provabr; e ciò
prima con V ESKMPLO che
ti contenta d*
una coea^ finalmente
con V INDUZIONE
che ne ha hi'
eogno di
piò: onde Socrate,
padre di tutte
le eitte de*filo9ofi,
introdueee la Dialettica con l’Induzione che
poi compiè Aristotele
col eillogiemo eJte rum
regge senza un
universale, {Se, Nuo.)
Veggasi quel che
abbiamo discorso quant* al
metodo. Ricordiamoci che per
noi la metafisica
non ò sdema
aeedlmUi, bensì Il nodo
gordiano della filosofia,
e però la
chiave della metafisica, son
le idee. Se il lettore
ha badato al processo
e alla genesi
psicologica che assai
fuggevolmente venimmo
tratteggiando, avrà potuto
indurre qual sia e
qual debba essere,
secondo V esigenza
del filosofare positivo, r
origine e la
natura delle idee.
Coteste idee non sono
entità puramente formali,
né puri concetti dello spirito.
Non sono essente
sparate, almeno quelle intomo
alle quali (come
usava dire GALILEI) possiamo discorrer noi
umanamente; e però
non sono sostanze esteriori, come
Aristotele interpreta i
napaStiyyiotrx del filosofo Ateniese.
Non sono concetti
innalzati ad universalita
determinata ne^ quali
col chiudersi il
circolo dell' essere si
esauriscano ed assolvano
le ragioni delle
cose, com' è per
gl'Idealisti assoluti. Non
sono, a dir
proprio, le cose stesse
nelle assolute lor
qualità. E, finalmente, non sono
quasi altrettanti simboli,
o spiragli attraverso cui si
affaccia al pensiero
l'Assoluto. Le idee
costituìscono il prodotto
del processo psicologico. Elle dunque sono
una fattura di
nostra mente: son
la mente stessa, direbbe Vico,
ma la mente
in quanto è
Magione spiegata. Ecco le
idee umane, sul
cui svolgimento s'imba&a tutto l'edifizio
e tutto il
valore della Scienza
Nuova.* Mcienxa ddP à»9oIìUo
in quanto è
Critica del Vero.
Però accettiamo anche qui
la sentenza che
costituisce, diremmo, la
chiave dell* indiriuMo
medio dell* Aristotelismo. Per
Aristotele la Metafisica
è «ciennadeU^AatolìUo; e questa
scienza dell'Assoluto è
anche logica, logica
in «2, logica
in quanto considera l'essere
»n «è, realmente:
to' sgw ov
xai x^/^'^l^v. {Metaph.): il
che consuona con
la sentenza di
Vico riferita altrove: Quello che è metafiaica
in quanto contempla
le cote per
tutti i generi
delV e»aere, lo
tteseo è la
logica in quanto
considera le coee
per ttUti i
generi di Bignifienrle. Col
pensiero d’Aristotele poi
rinverga il concetto
del suo maestro. Platone, come
ò noto, appella
filosofi quelli a’
quali ò dato
asseguir la notizia di
ciò che è
costante e assoluto
(^cXóaoooc jiasv oc toù àcc xxT«
rauToè wc«i»tw; e;^ovTo;
5«và^«ovi SfxnrtfrOxt. Bep.y). A
prima giunta parrebbe
che nella dottrina
delle idee il
Vico fosse un filosofo
arciplatonico, ma non
è. La dialettica
platonica, intesa in
un certo senso, non
può menomamente prescindere,
come osserva il
Simon, dalla dottrina della reminiscenza:
La euppreseion de la remini»cenee
en peycologie ut la
négation de la
dialectique et de
la tkéorie de»
idée. Ma se le
idee sono il
moto stesso e
lo stesso esultato della energia
psichica, e, come
tali, chiudono il circolo
della natura e
dello spirito, non
però chiudon sé stesse,
anzi dischiudonsi, e
col dischiudersi ci
mostrano di lor natura
un intimo riferimento
all' Assoluto. Se r
uomo, lo spirito,
secondo la nozione
del nostro filosofo, non
è, a dir
proprio, Y infinito
attuale e nemmanco r
attuale finito, ma
una potenzialità infinita,
una potenza che tendU
ad infinitum, ne
seguita che anche, le
idee, sue determinazioni, voglion
esser fomite del doppio
carattere della finità
e della infinità,
sia che le si
considerino nelle intime
lor attinenze organiche,
sia che nella lor
solitaria immanenza. Dunque
l'idea è genm, è
forma metaphysica, e,
come tale, somiglia
alla forma del plasticatore,
anziché a quella
del seme. Ma anche
come genere, anche
come forma metafisica
l' idea è finita e infinita: finita
in ampiezza e
universalità; infinita in perfezione.'
Però tiene del
finito, in quanto
che un' idea non
è l'altra; e
tiene poi dell'infinito, perchè
è). Or la
dottrina psicologica del
Vico, secondo che
noi siamo Tennti interpretandola, contraddice
ad ogni platonica
reminiscenza, ad ogni maniera
d’intùito iperpsicologico; anzi
non mancano luoghi
ne^qaali egli condanni questa
dottrina. (De Univ.j'ur.)
Quanto alla scienza e
alla virtù, dice esser
cose che hisogna
edurle dalla mente
e dairanimo come fa
T ostetrico (De
Coruu PhiL, e.
I). Non è
poi nniraffatto platonica nò
quant’alla natura, né
quant’all’origine delle idee,
perchè le idre, per
lui, non sono
gli eterni veri
(essenze separate ed
esemplatriei)^ ma sono entità
che significano l'assoluto
in quanto si
riferiscono a ]uì
[De Univ.). Non
sono quindi appreso
direttamente, ma fatte.
Vedi, per es., quel
che dice sul
generarsi de* generi
e delle forme
metafisicke, le quali a
nostris pueris primulum
bua spontk «xpZtcantur. E ciò non
pertanto gli hegeliani
V han battezzato
o seguitano a
battezzarlo per platonico sviscerato
! Neil' altro
capitolo vedremo fino a qnal
segno e per qual
ragione egli possa
meritarsi questo titolo. Forma» intelligo
metaphysioas (pice a
physieis ita diversce
sunti « forma plaatm
a forma seminis.
Plastce mim forma
dum ad eam
quid fermatur, manet
idem et semper
formato perfeetlor; forma
seminis, dum quotidie
se esplicai, demutixtur
ae perjicitur magie:
ita ut formfn
pkysicct sint ex formis
metaphysieis formatw {De
Antiq.). Vedremo fra poco qual
valore abbia quest'ultima
sentenza. Genera esse formas,
non amplitudine, sed
perfezione injìnitas.
l'altra e, sotto
certo rispetto, tutte
le altre. La
legge dialettica, dunque, è
la stessa legge
universale dell' essere; legge
di conversione; legge
d'alterità e di
medesimezza. Sennonché cotesta conversione
ideale non è
semplice opposizione, e neanche
compenetrazione, conciossiachè
la ragione dell'un
termine non istia
solamente nell'altro. Il dialettismo
si radica, non
già nelle idee
come opposte fra loro
o come generate,
ma, innanzi tutto,
nel soggetto che le
genera. Un'idea non
è universale perchè
perfetta, ne perfetta perchè
universale. E non
è finita perchè infinita, né
infinita perchè finita.
Questo è l'errore
delle dialettiche a priori
che, levando a
principio l' opposizione per r
opposizione, riescono ad
un pretto meccanismo ideale. Un'
idea è infinita,
o finita, principalmente per sé,
e anche per l'
àUra. Se
dunque la lor
conversione non è equazione,
né semplice opposizione,
ne conseguitano due cose:
V ch'elle non
chiudono il circolo; 2*" eh'
esse importano l' ideato
nella pienezza di sua realtà. Si
vorrà supporre che
anche cotesto ideato
sia un'idea? un'idea madre?
E allora avrà
luogo il medesimo discorso, e
saremo sempre daccapo.
Si vorrà giugnere
all'idea dell'essere mercè
i soliti lambicchi
de' raffinamenti e
assottigliamenti astrattivi? E
avremo la nuvola, non
Giunone! Certo, l' idea
dell' essere non è
come le
altre, finita nell'ampiezza, bensì
infinita, universale; ma è
vuota, è vacua,
né altro è
capace di dare fuorché
yffi'kÒLi evvoiaf. Ella
comprende tutto, ma
non racchiude nulla: è un Primo
logico, non già
un Primo vero metafisico. Dunque
vuol esser determinata;
stanteché debba cessar d' essere
infinita per universalità,
e assumer valore d'idea
infinita per perfezione.
L' ascensione dialettica
perciò è incalzata
dallo stesso principio
della conversione; e la
mente deve posare
in quell'ideato che, a
dir proprio, sia
un ideato dialettico,
ciò è dire conversione piena,
assoluta, vivente, reale.
1 Generi f dice
il Vico, aono
non per univer»alità,
ma per perfezione inJiniH: e
questo eeeere U
brieve e vero
9en§o del lungo
e intricalo F€tnn&' Se r
idea è infinita
non per ampiegm
ma per_perfmone, perciò
non va confusa
col concetto; al
modo nide di Platone;
e questo intendimento
doverti dare alla
famosa Scala ddle Idee
onde i Platonici
pervengono alle perfeUianime
ed eteme (Bisp.
I, al Oiom. De’
Lett.). Quanto al
brieve e vero
senso del Parmenide
toccheremo più giù. Dove poi
Vico dice: Genera
esse formasy non
amj^itudinef sed ptr/ectione
injinitas^ tosto SOggiugne:
et quia injinitas in
uno Deo esse. Come va
intesa questa sentenza?
In quanto le
idee possiedon carattere
dMnfinità e d*
assoluta perfezione, elle
sono in Dio; e
sono in
lui perchè forman
tutte assoluta unità,
e assoluta totalità:
unitotalità. Lo avea
detto GALILEI che non
era un metafisico:
Le idee, perchè inJinitCf sono
una sola ndV
essenza loro e
nella mente divina
(Op., ed. Albóri,
Dial. de* Mass.
Sist,). Ha in
quanto possiedon Tubo e
r altro
carattere, elle si
producono e rìseggon
nello spirito, nel
pensiero; sono il pensiero;
e sono finite
e infinite perchè
tale è, ripetiamo,
la natura stessa dello
spirito, cioè potenzialità
infinita. Ne viene
perciò che, ove le
idee fossero infinite
in atto, non
potrebbero essere altresì
finite. E dove fossero
solamente finite e
puramente universali, sarebbero
forme vuote e astratte,
e però, contraddicendo air
intera dottrina psicologica
del nostro filosofo, cadremmo
nel pretto sensismo.
Or le idee,
le nostre idee,
non sono infinite e
perfette perchè siano
lo stesso Dio
o pertinenze di
Dio, ovvero spiragli ond’ei
s’afikccia al pensiero,
come dice il
Mamiani col suo
linguaggio tinto di certo
color poetico; ma
son tali perchè
tale per T appunto è
il soggetto che
le partorisce; il
quale perciò, mediando
sé stesso come potenziale
infinito, deve per
necessità eduttiva concludere
alla notizia dell’Assoluto. Di
qui nasce che le idee
non possono essere
infinite di fatto, e
ce *1 dice
egli stesso: enim
vero ista genera
nomine tenue infinita, homo enim
ncque nikil est,
ncque omnia. Quare
nee de nihilo
nisi per aliquid
negatum, neo de
infinito, nisi per
negata finita cogitare
potest. Ai enim omnis
triangulus habet angulos
cequales duobus rectis.
Ita bene: sed non
id miìU infinitum
verum, sed quia
habeo trianguli formam
in mentGot imprcssam, cujus
hanc nosco proprietatem,
et cu mihi
est archetypus ceteroruh. Fatta dunque
l’idea, tosto in
essa io riconosco, non
già l’infinito, ma il
carattere della infinità:
hanc proprietotem nosco.
Per questa proprietà
essa diventa un
archetipo, diventa una misura
{archetypus ceterorum); e
come archetipo e
misura ella, per me,
è un assoluto;
e così è
vero, che Vuom
tende a farsi
regola deW universo,che
vuol dire tende
a farsi assoluto.
E qui toma
acconcio il riconfermare quella relazione
che tra le
opere di Vico altrove
procacciammo chiarire. Nella Scienza
Nuova Tuomo è
regola e misura
in tre maniere, secondo
i tre momenti
dello svolgimento isterico;
1° nella fase 0
stato divino, per
credenza e per
sentimento; 2« nella
fase eroica, per arbitrio,
forza, potere, volere;
3 nella fase
umana, per magistero
logico e scienziale, cioè
per la ragione
spiegata,^eT le idee
{idee umane). Ecco dunque
una prova novella
che ci mostra
come la Scienza
Nuova, anziché contraddire al
Libro metafisico, lo
esplichi e lo
legittimi sempreppiù, al modo
istesso che questo
riassume le ragioni
metafisiche di quella. istesso che
l'intendimento, secondochè mostrammo,
non è da confondersi
con la ragione.
Tanto Videa quanto il
concetto sono una
dualità, perchè T una
e l'altro sono conversione, giudizio,
e però medesimezza
e distinzione. Ma la
dualità dell' idea
è l' universalità e
\2l perfezione; dovechè quella
del concetto è l'
estensione e la
comprensione. Nel concetto come
vedemmo, ci è
sempre un'orma del fantasma;
e nell' idea
v' è sempi-e
un' orma del concetto^
cioè il comune,
l'universale. Or chi
dirà che il concetto
abbia carattere d'infinità
solo perchè sia comune
e universale?* Il
circolo, a mo'
d'esempio, in quanto è
universale, è concetto;
ma in qijanto
racchiude la nota essenziale
ond' e' si
discerne da ogn'
altra nozione, è quello
che è; è
perfettissimo; è infinito;
e così lo pensa
Dio come l'uomo. Si
vero id contendane
etse injinitum gentu
(cioè che i
tre angoli d*aii triangolo
rettilineo siano eguali
a due retti,
eh' è l'esempio riferitopoco
fa dallo stesso
Vico), quia ad
eum trianguli archettfputn
accommodari innumeri trianguli
po«8unt, id tibi
habeant per me
licet; nam vocabulum iÌ9
lubens condono, dum
ipti de re
mecum eentiant. Sed
enim perperam loquuntur,
qui decempedam dixerint
injinitam, quod omne
extenaum ad eam normam
metiri poannt, >
{De Antiq.) ' Galileo
nota stupendamente questo
privilegio del pensiero
là dove distingue V
intendere extensive dair
intendere intensivCf confermando
così la dottrina di Vico.
Vintenèive del filosofo
pisano è il
perfettamente^ com* egli stesso
dichiara. Ora v*
ha cognizioni, egli
dice, le quali,
guardate sotto il rispetto
della inteneìtà e
della perfezione, agguagliano
le di-rine neUa
certezza obbiettiva^ perchè
con essa arriviamo
a comprenderne la nec€99Ìtà
sopra la quale
non par che
posta essere sicurezza
maggiore, {Dial. de' Mass.
Sist,j) Gli esempi
co' quali GALILEI procaccia chiarire tale
idea, son tolti
dalla matematica; e
la matematica, anche
per lui, è una
fattura della mente;
e però la
certezza e la
necessità ond'ei parla scaturisce
immediatamente dalle leggi
stesse della psicologia.
So che il Neoplatonico
neanche qui si
darà pace, ed
opporrà la solita
inTitta necessità di
certi yeri che,
vada o Tenga
il pensiero, sono
e saran sempre quello
che sono. A
questa difficoltà ahhiamo
già risposto. Il due e
due fan quattro
(direbbe un neoplatonico
alla Maminni) gli è
un vero assoluto
e necessario, né io posso
pensare il contrario; dunque T*ha
in lui qualcosa
che non m' appartiene; e però,o
è Dio, o è
pertinenza di Dio.
Nient' affatto! Io non
posso pensare il
contrario; ed è yerissimo:
ma perchè non
posso pensarlo? Perchè
non posso contraddirmi; ecco la ragione
immediata. Il regno della
logica non è
il regno Or se
tale è l’organismo
delle idee, è
impossibile che il pensiero partorisca e
generi un'idea laquale sia
infinita così nelF
ampiezza come nella
perfezione. Se potesse, e' già sarebbe
V infinito in
atto. Se potesse, egli, col
farsi, già sarebbe
un fatto. Ma
così non si contraddirebbe? Non annullerebbe
sé stesso anche
qui? La conseguenza, dunque,
parmi chiara: il
pensiero, questo nostro pensiero
con tutto il
suo ^contenuto, non possiede
l' essere, non è
l'essere, non si
compenetra con r essere. Questa invincibile
manchevolezza d' essere, questa insuperabile
impotenza d' essere, come
ci si rivela? quand' è
che ci si
rivela? Precisamente nella
stessa impossibilità d'afferrare e
fermare il pensiero
nell'o/to. Ed è impossibile
poter cogliere e
fermare quest'atto, appunto perchè
lo spirito, pensando,
è già un
atto, è già faUo
(actum). Or se non è
atto, non ci
ha da esser r
atto ? Io
penso l'essere; io
son l'essere: eppure non sono
la realtà dell'essere!
Dunque la stessa
impossibilità a dedurlo come
tale, mi dà
il diritto a
concluderne la realtà. Il che accade
per una ragione
detta e ridetta, che,
cioè. Essere e
Pensiero non sono
l' uno in due
(come direbbe lo Spaventa),
non sono l' identico
nel diverso, ma sono
il due in
wwo, sono piuttosto
il diverso nell’identico. E qui
ci è dato
scorgere sempre più
nettamente V errore degl’intuitisti e
ie^ mediatisti. Cotestoro, come vedemmo,
voglion rintracciare la
ragion dell'assoluto e dell'
infinito nel pensiero,
e ricorrono ad
espedienti opposti e contrari.
Gli uni ci
dicon che la
mente colga immediate l’Assoluto; gli
altri, che lo
faccia. Ora chi dice di
vederlo, per me,
sogna ad occhi
aperti; e senz' addarsene
resta impaniato nel
panteismo. Chi poi dice
di farlo, sogna
anche lui e,
per di più, diverte la doli*
arbitrio. E perchè
poi non posso
contraddirmi? Giusto perchò
lo stesso pensiero è
quello die nel
due e due
fan quattro pone
gl’elementi e le condizioni
del giudizio: le
quali io non
potrei negare, senza
distruggere il mio stesso
pensiero. Se potessi,
ne verrebbe che
io farei, e non
farei: cioè /arci il
nulla t gente con indovineUi
da algebrista, e
finisce per immergersi nel nulla:
talché anniillando cotesto
assoluto, la sua deduzione
riesce davvero ad
\m3i bestemmia. Il neoplatonico
s' affida ad un
intùito; e così
esagera l’impotenza in cui è
il pensiero d' esser l’essere. Il neo-aristotelico
hegeliano, al contrario, s'affida
a sé stesso;
e così esagera la
potenza del suo
pensiero adequandolo all'
essere. Entrambi dunque deducono;
ma l'uno appoggiandosi neh' obbietto
intuito, o nell’Ideato presente al
pensiero; l’altro,movendo dsàll’indeterminato cólto
o posto per astrazione
immediata e subitanea.
Illusione l' immediatezza dell'
uno! illusione e
arzigogolo logico la
mediatezza dell' al trol Non
intùiti, ne posizioni
a priori: non immediatezza,
né mediatezza, ma
conversione, ma processo del
pensiero con l'essere.
Le idee non
sono r Assoluto
significativo, l' ente in
quanto sigtii/ica, in quanto
presenta sé stesso
al pensiero:' ma
é lo stesso pensiero quello che
per sé medesimo
é significativo dell'Assoluto, in
quanto é Bagione
spiegata. Brevemente: se r
idea è mezzo,
eli' è il
pensiero, ma è
il pensiero in quanto
rappresenta l'Ideato, non
già l'Ideato in quanto
s' affaccia al pensiero.
Or qui si
compie nella sua vera
forma la funzione
eduttiva. Parlando della genesi
e classificazione delle
varie discipline dicemmo, le
scienze eduttive ridursi
ad una sola, ed
esser la filosofia.
La filosofia s' intrinseca
con tutte le scienze;
e però é anch'olla
induttiva e deduttiva la
sua parte. Ma
anch'essa é autonoma,
anch'essa è trascendente, e
come tale è
di natura eduttiva;
poiché non cessando d'alimentarsi
de' tesori adunati
dalle altre discipline, nondimeno
sa e può
trovare alimento in sé
stessa, e per
sua propria virtù.
Se le idee
infatti hanno lor fondamento
in natura, nessuna
funzione basterebbe * Hine
adeo impiat euriontatit
notandi, qui Deum
Optimum Maximum a priori
probare ttudeiU: nam
tantundem ettet, quantum
Dei Deum «e /aoere, et
Deum negare, quem
quixrunt. (Vico, De
Antiq.) ROVERE, Lett. al
DoU. BrentoMMoUf 424
DILLA DOTTBiNA ulosoiioa.
[lib. n. a scioglierle
da' viluppi delle
sensate apparenze, ove la
stessa mente non
sapesse pai*torirle. Tra
il fantasma e l'idea,
tra la forma
metafisica e la
fisica^ c\ è quel medesimo intervallo esistente
fra il senso
e la ragione.
Or tuttoché le idee
pongan radice nella
natura e si muovano
in questa, nondimeno
con lieve soccorso
del senso elle possono
esser generate dalla
mente, poiché a
concepir r idea del
circolo, o meglio,
a fissare il
concetto del circolo nella
nota che costituisce
la sua perfezione e
trasformarla in idea
o forma metafisica,
non v' ha mestieri
di prolungati lavori
d'astrazioni e di
generalizzazioni. La mente perciò
nel concepirle fa
altrettanti giudizi
eduttivi. Il giudizio
eduttivo è diverso,
così nella forma come
nel contenuto, dal
giudizio induttivo, e dal
deduttivo. Il suo
carattere specificante dicemmo radicarsi innanzi
tutto nella relazione
de' suoi termini, e
quindi nell' origine
dell' attributo. L' attributo
non è dato dal
fatto; e però
non è sintetico
a posteriori. Non è ricavato
dal soggetto e
applicato al soggetto
stesso come parte del
suo contenuto; e
quindi non è
di natura analitica. Non
è ripetizione del
medesimo soggetto; e quindi
non è identico. Il
giudizio eduttivo serba
in' Se pensare,
come altrove mostrammo,
è giudicare, e
giudicare è un atto
di conversione in
quanto che convertire
è scorger la
medesimezza e la differenza
ad un tempo;
ne viene che
il giudizio è
la sintesi di due
elementi, convertione del
vero col fattOf
sintesi della medesimezza
generica (vero) e della diversità
specifica (fatto). Ora guardando
alla funzione speciale onde
la mente forma concetti e
giudizi, ricavammo esser
tre i sommi generi
a cui essi
potranno rimonarsi, e li appellammo
induttivi, deduttivi,
eduttivi. Questa divisione
è essenziale, perchò
si fonda principalmente nella differenza
del contenuto de’ giudizi, e
perchò dà origine alle
tre funzioni metodiche. Si
fonda dunque su
la dottrina della
conoscenza e della scienza,
e perciò è
razionale e cpmpiuta.
L'atto del giudicare, Infatti, ò
sempre identico nella
sua forma logica,
poiché è sempre una
conversione al pari
del concetto ond' emerge;
ma differisce nel
contenuto, ed ecco r origine
delle tre differenze
di giudizi. Tutte
quelle innumerevoli
distinzioni e classi
e divisioni e
suddivisioni di atti
giudicativi fatte da Aristotele
sino al Kant
e a SERBATI, sono
spartizioni secondarie, le quali
riguardano l' estensione, la
quantità, la relazione,
la forma e l'indole
de' giudizi; ma riescon
tutte incompiute. dole essenzialmente sintetica,
e però sgorga
dallo stesso pensiero per
virtù e necessità
eduttiva. Ma qual
sorta di sintesi è
cotesta? Non è
sintesi a priori
nel senso de' Neoplatonici, perocché
l'obbietto non è dato da nessun
intùito o visione
trascendentale. Non è
sintesi nel senso dell'
Idealismo assoluto e del criticismo, perchè r
obbietto non è
posto per mera
legge dialettica, e neanco
per non so
qual cieca necessità
subbiettiva. Il giudizio
eduttivo è un
vero atto sintetico,
un atto sintetico trascendentale per
eccellenza perchè l'attributo non è nel soggetto,
e nondimeno è
posto dal soggetto. Qual è
l'oggetto di questa
sintesi trascendentale? È appunto
ciò che le
forme metafisiche possiedon
di comune. È ciò
che nel concetto
e nelle determinazioni ideali scopriamo
d' infinito, non già
nell'ampiezza, ma sì nella
perfezione. La funzione eduttiva
dunque è funzione dialettica, dialettica
ascensiva. Perciò eduzione
delle idee non
vuol dir la
pura e semplice
generalizzazione delle
qualità dell'essere: vuol dire
accrescimento dell' essere; vuol
dire concentramento dell'
essere nella [I griudizi
iintetici a priori
di Kant non
sono propriamente apriori, ma
si riducono a
giudizi analitici. Il processo
conoscitivo è, per
dir così, nna
catena, gli estremi della
quale sono due
sintesi, e però
due forme di
conversione; l’una di esse è
originaHay e l'altra
finale. Quella precede,
come si disse,
ogni riflessione, e costituisce
il primo psicologico, l’unidualità primitiva;
la quale, facendo possibile
la formazione de'
concetti mercè il
processo psicologico, toglie queir
apparente petizion di
principio tra la
necessità per cui ogni
giudizio deve importare
il concetto, e
la necessità ondMl concetto debb'
essere un atto
giudicativo. La sintesi
finale poi riesce
al Primo vero metafieico^i]
quale devesi convertire
col Principio metafisico. Avviene perciò
che la sintesi
originaria sia costituita
dal pensiero e dal
suo obbietto che è l’essere in
quanto indeterminato; e però è
sintesi naturale essendo posta
dalla stessa natura. La
sintesi finale per contrario,
ha per oggetto
1’essere determinato ideale,
e determinabile in quanto
reale; e )»er
ciò è sintesi
superiore alla natura essendo prodotta
dallo stesso pensiero.
Queste due sintesi
dunque sono due giudizi
d'indole sintetica, ma
diversissimo n'è il
contenuto; per la ragione
che, se nel
primo d'essi l'obbietto
è posto da
natura, nel secondo è
posto dalla stessa
mente. sua idealità. Or
se tale è
la natura di
questa funzione accade che il
principio ond' ella
è governata non possa
esser quello d' identità,
di repugnanza, di causa
e simili; stantechè
qui non si
tratti di logica
formale la cui materia
è costituita, in
generale, da' giudizi deduttivi, ne
di logica induttiva,
i cui giudizi
riposano sul principio di
causalità e di
sostanza empiricamente
intesi. Se il
fine della logica
formale sta nel fissar
le norme del
ben pensare, e
il fine della
logica induttiva nel porgere
i criteri a
fruttuosamente sperimentare;
è chiaro
esser necessaria una
logica la quale sappia
ritrovare il vero
facendolo, se pure
s' ammette che la metafisica
abbia da essere
una critica del
vero. Ed è chiaro
altresì esser necessario
un principio che sappia
guidarci nel processo di
siffatta critica, il
qual principio è appunto,
come altrove toccammo,
quello della conversione. Or
questa funzione eduttiva,
di natura essenzialmente dialettica, non
va dall'effetto alla
causa, né dalla causa
all' effetto: non
va dalla sostanza
alla determinazione, né dalla
determinazione alla sostanza.
Le idee non sono
effetti, non sono
risultati, né determinazioni dell'Assoluto. Se così
fosse, come sarebbe
possibile il transito dialettico? Il
passaggio dialettico (nopsisi) è
solamente possibile dov'è possibile
medesimezza e differenza; dov'è possibile intervallo
e continuità; dov'è
possibile, insomma,
conversione di termini.
I termini in
quest' ordine di cose,
da una parte,
sono le idea,
la Eagiotie spiegata; dall'
altra sono le
stesse idee, le
stesse forme metafisiche, ma in quanto
concludono nel loro
ideato, neir ideato come
Principio e Mente
reale, nell' ideato che
basti a sé
stesso (ro^izavov), nell'ideato
che nulla suppone, ma
che si pone
(ro ocvuttoOstov). Intanto
la ragione, tuttoché secondo
le leggi altrove
notate del processo psicologibo debba
mover dalla natura
e dal senso, nondimeno, come
tale, è caussa sui (suitas); e l'
effetto di tal cagione
è la scienza,
le idee, le
quali, in quanto
forme metafisiche, si riferiscono
all'Assoluto. E cotesto
Assoluto alla sua volta
è Caussa sui
(Aseitas), ma è
anche cagione del mondo
in quanto è mente;
e l'effetto di tal
cagione è lo
spirito, non già
come Ragione spiegata, come Nove,
come attualità, ma
come virtualità, potenza, materia, natura,
conato. Ora questa
evidentemente è conversione, e
quindi è sintesi
eduttiva. Ed è tale
in quanto procede
da causa a
causa, in quanto concatenando caussas
caussis le annoda e distingue
ad un
tempo, perchè in
realtà le s'immedesimano e si
distinguono anche fra
loro. Il perchè, se
da una parte qui
abbiamo le idee,
le forme metafisiche,
la ragioìie spiegata, la
coscienza, il vero;
mentre dall'altra abbiamo r
Assoluto, r Assoluto
in quanto è
mente, in quanto è
la Mente, in
quanto è il
Fatto per eccellenza;
in una parola, se
da una parte
abbiamo quel che VICO
(si veda) dice le Menti,
e dall'altra Dio:
ne viene che in
questo
Motido delle Menti e di
Dio, in quest’organismo del
pensiero con r essere,
il passaggio dall'
un termine all'
altro non è processo
deduttivo, né tampoco
induttivo, ma è processo
essenzialmente eduttivo, perchè
anche qui ha
luogo la conversione del
vero col fatto,
cioè la conversione
delle Menti con Dio,
della logica con
V ontologia, dell'
ideologia con la metafisica.
Sarà un' alchimia
anche questa ? Potrebbe
stare. Ma chi
ben la consideri,
anziché un'alchimia,
scorgerà in essa
il fondamento della
prova legittima, vera, positiva
intorno all'Assoluto. Le tre
ordinarie maniere d’argomentare
resistenza di Dio
furon ben cento volte
dimostrate deboli, incompiute,
fallaci, per la
solita ragione che, non
racchiudendo processo, mancano
perciò di valore
propriamente dimottratico.
Il cosi detto
argomento ontoìogicOf per
es., qaalanque ne sia la forma
datagli da Anselmo d’AOSTA, Cartesio,
Malebranche, Fénelon, Leibnitz,
Gerdil, SERBATI, GIOBERTI, ROVERE
e simili, non
può concludere alla realtà
assoluta, perchè, comunque
e' si squadri,
ha sempre nn
valore deduttivo. Gli argomenti
poi dettiyì«ico, moralcf
ootmologieOf sono sfomiti
d* ogni rigor di
prova razionale, in
quanto che si
riducono alla forma
induttiva, la quale, in
tal caso, racchiude
nna petizion di
principio. Laonde se la deduzione
move da un /ntùtto, siamo nella
ipotesi; e la
scienza non può accettar
le ipotesi come
principi], tnttochò se
ne possa e
debba giovare È dunque
vero, è verissimo
che l' uomo da
sé e con la
propria mente faccia
Dio. E lo
fa dapprima col
senso, poi con r
immaginazione, da ultimo
con la ragione.
Col senso lo vede
immediatamente nella natura,
lo sente nella natura.
Con l'immaginazione lo
vede attraverso alla natura,
ma lo sente
in sé medesimo.
Con la ragione lungo
il suo processo
come d'altrettanti mezzi.
Se poi muove
da un Indeterminato f siamo
nel formalismo psicologico,
nell* arbitrio logico,
e però si
riesce agi* indovintUi da
algebristi, l’una forma
di deduzione perciò
non dimostra, cbè anzi
invoca appunto l'Assoluto
per dimostrare: T altra
invece dimostra troppo, e
perciò non dimostra
nulla. Dunque l’argomento eduttivo
o della eonveraionef che
noi contrapponiamo a
qualunque forma di
deduzione e d* induzi
one, è prova
legittima, stantechè racchiuda
il vero termine
medio, il vero m«szo
tra il mondo
e l’Assoluto. Il solo
Trendelenburg ha parlato d'
una forma di
prova ch’ei chiama
argomento logico, il
quale potrebbe avere alcun
riscontro col nostro.
Ma non poche
sarebbero le difficoltà nelle quali
intoppa il dotto
tedesco, chi guardi
al concetto del
moto ch’ei pone a capo
delle categorie. Neil*
ordine psicologico noi
moviamo dal vero che
per necessità eduttiva
si converte col
Fatto: e ne
ricaviamo che cotesto FaUo
non è già
moto, anzi pensiero
per eccellenza, mentalità assoluta. Or
bene s* e*
fosse moto, corno
saria possibile una
conversione f E mancando
la possibilità della
conversione, come farà, l’illustre autore delle
Bioerche Logiche, a
salvarsi dal pericolo
d’un vuoto formalismo? Giova qui
rispondere ad un'obbiezione. Si
dirà: cotesto vostro
peregrino argomento, in somma
delle somme, si
riduce ad una
forma d* induzione. Dall' effetto, andate
alla causa; dal
particolare, al generale; dalla determinazione, alla
sostanza; dal finito,
all'infinito. Brevemente,
dal mondo salite
a Dio, sia
che consideriate la
natura, sia che lo spirito, ovvero le
idee. Rispondo: induzione pura o semplice,
'no; ma processo
induttivo: il quale, compiendosi
nel processo eduttivo,
assume quindi valore
d'argomento razionalmente
positivo. Dio, a
parlar proprio, non
è pura sostanza, causa, essere
infinito solitario; nò il mondo
è pura qualità
e determinazione, puro
effetto, puro finito
posto dall'infinito. Se
Dio fosse cagione semplicemente
presa, il mondo
(l'effetto) ne sarebbe
l'atto. Se fosse sostanza,
il mondo ne
sarebbe la modificazione. Chi ci
salverebbe dal panteismo? Se
poi fosse infinito
ut «ie, perchè,
domanderò io, se
basta a so stesso
ha da porre
il finito ?
Dio è tutte
queste cose, infinito,
causa, sostanza e simili,
ma è tale,
perchò principalmente è
idea, pensiero, mentalità. Or
non è anch'
egli mente e
pensiero l’universo? L’argomento della conversione,
dunque, non va dal mondo
a Dio, non
procede dall’effetto alla
causa (ohe non
procederebbe davvero), ma
va, ma procede da
causa a causa
annodandole insieme. E
le annoda, perchò
serbano medesimezza e diversità;
le annoda, perchè
adopra il mezzo
delle idee; le annoda,
perchò educe le
idee, e perchò
queste idee converte
con l’ideato. Un’ultima
osservazione che avrei
dovuto fare già
in altro luogo:
meIo vede nelle
sue stesse idee,
perchè lo fa
come idea; e così
r uomo (ripeto
la bella frase di GIOBERTI) giunge a
rendere a Dio
la pariglia. L'idea
dell'Assoluto ha anch' egli
i suoi annali
ne' diversi momenti
della storia e del
processo psicologico. Ma nel
far cotest'idea, e proprio
quando l'abbiam fatta,
noi somigliamo a
quell'artefice che
s'affatica e suda
e si travaglia
nell' incarnare il tipo che
gli splende dinanzi
alla fantasia, mentre la
stessa natura potrebbe
offrirglielo vivo e
palpitante nella infinita ricchezza
delle sue creazioni.
Novello e arditissimo Prometeo,
il pensiero del
filosofo non abbisogna d' alcuna scintilla:
la scintilla della
vita s' agita già vivissima
nell'opera stessa delle
sue mani. Perocché quando il
pensiero abbia prodotto
l'idea dell'Assoluto, e'
tosto s'accorge d'aver
prodotto quello che
già e' era, quello
che è il
Fatto per eccellenza,
e che non
può esser fatto perchè
di sua essenza
è il Fare,
E così pure
ci accorgiamo di far
Dio con la
scienza e con l'
attività riflessa, solo perchè
è egli innanzi
tutto che fa
noi come potenza, perchè siamo
potenza, perchè siamo
termine del suo
atto. * glio tardi
che mai. GIOBERTI accenna una
sola volta (quant’io
sappia) al metodo eduttivo,
e lo fa
consistere nell* andare
dal particolare al particolare,
dal generale al
generale (Protei). £
precisamente la funzione deduttiva
come la intende,
per esempio, Miìl.
La eduzione di GIOBERTI f com*
ò eTìdente, non
ci ha t;he
vedere con la
nostra. ' Questa precisamente
è la facoltà
della quale, come
dice Cartesio, ci ha
saputo fornire la
stessa natura, e
con la quale
noi, produeendo Videa di
Dio, conosciamo Dio.
(2Ve ossiano forme
dell" infinito, e disponendole
le conosce, e in questa
sua cognizione le fa, e
questa cognizione d' Iddio
è tvMa la
ragione della quale l’uomo
/m una porzione per
la sua parte,
E poiché l'Ente
è assoluta conversione
del Vero col fatto
interno (Generato) e
col Fatto propriamente
detto (Mondo), ne viene
che debb’essere altresì
conversione come pensiero
e come forza, come
Causa e Mente,
appunto percJiì unica
causa quella che
per produrre l’effetXo non%
ha di altra
bisogno; come quella
la quale contiene
dentro di sì gli
elementi delle cose
che produce, e
li dispone, e
sì ne forma
e comprende la
guisa, e comprendendola manda
fuori l’effetto, (Ved. liisp.
al Giom. de' Leu.). Per quanto
questo lingruaggio possa
sembrar vieto e
coperto di muffa scolastica, nullameno
tornerà agevole all'accorto
lettore potervi scorgere come
in germe la
soluzione positiva del
problema metafisico. In
queste tre usate e
abusate parole. Vero, generato e fatto, abbiamo,
per così dire, i tre punti
ne' quali s*
imperna e gira
il processo idealo
che, considerato in se
proprio, costituisce la
dialettica discensiva. Qui
è la sostanza, com' è
noto, e, sto
per dire, il
nocciolo della teorica
cristiana, ma ^levata al
supremo valor razionale
e speculativo oud'è
capace: ed è il
fine (chi ben
consideri la storia
della filosofia cristiana
e non cristiana, ortodossa ed
eterodossa) a cui
par che convergano
insieme e riescano
il Platonismo e l'Aristotelismo nello
differenti loro forme
isteriche. Sennonché si badi
a non pigliar
come ripetizioni vano
certe analogie e
somiglianze di H Vero
dunque è l'essere;
e cotesto essere-vero non sarebbe
tale, ove, anziché
identità sostanziale deiTessere
e del conoscere,
anziché assoluta unità
e assoluto monismo, non
fosse invece un'
essenzial dualità e
^nità, essenzial conversione del
soggetto con l’oggetto, e
quindi medesimezza e differenza
attuale. Qui dunque,
innanzi tutto, il nostro
filosofo corregge Aristotele
come quegli il quale
disconosce una condizione
eh' è l'interna necessità della stessa
natura dell'Assoluto. Lo
Stagirita pronunzia: ecTTtv >j
vó>?o"ec vovìtso; vó/jtc?.
Ma fo^c che l'
eccellenza del pensiero starà
nel pensar solamente
sé come sé,
e non anche sé
come altro? Una Visione
veggente Sé stessa non ^
un atto sterile e solitario? Vedere
non è anche operare? Pensare
non è generare?
Ov'è dunque il
gran linguaggio, che qui
il Vico potrebbe
aver con altri
filosofi. Mi spiego
subito. Per sant'Agostino, per
es., intelligibilità e
realtà si compenetrano insieme, e
danno luogo alla
natura assoluta formando
così il Vero-EnU fVed. SolU?(T«oc
proprio in sé, e
s' avvilirebbe: Tò
9st6xarov Y.ot.1 to'
rifxtwTatov vote, xa/ ou
fAsra^aXXci * «t;;^«t/90v
7à/9 ^ /x£Ta6o>KÌ. Metaph. pensiero aristotelico
della facoltà che
pone il proprio obbietto e
se ne distingue
? E perchè,
mai non applicarlo anche all' Atto,
e soprattutto all'Atto?*
U Essere-Vero dunque è
mestieri che sia
anche Verbo, anche
Fatto intemo, anche Generato.
Che cos'è il generato?
Non è luce metafisica,
non è oggetto
indeterminato e primigenio posto da
natura, come nella
genesi psicologica; ma
è luce e colori,
è oggetto determinatissimo, perchè
è insieme la natura
e ciò che
è sopra alla
natura. È dunque
il diverso, il diverso
dell'identico; al modo
istesso che il vero
è l'identico del
diverso. Perciò è
l'intelligibile che, mentre adequasi
con l' intelligente, se
ne distingue. Perciò è
il pensante che,
convertendosi col pensato,
è pensiero, e quindi
è in sé
medesimo il trinuno.
Se dunque l'Assoluto è
generazione e dinamismo
interiore, per ciò stesso
è Mente: prindpium
unum, Mens. Or
come potrebb' esser mente
senza esser cagione,
attività, energia,e quindi
idea, possibilità, relatività,
infinità, moltiplicità ideale? Ma
se qui il
nostro filosofo corregge
l'Aristotelismo, invera nel medesimo
tempo il Platonismo.
Il Generato del Vico,
in quanto è
termine di generazione
ad intra, è appunto
la benintesa idea
platonica. Cote$ta idea platonica non
è assoluta Unità,
né assoluta Moltiplicità. Ma, si
badi: il difetto
metafisico dell* Aristotelismo
non è tale
che 1* annnlli e
distrugga addirittara, ed
è appunto per
questo che Aristotele non potrà
esser mai in
etemo, né un
idealista assoluto, nò
un positivista, anzi così
egli si presenta
come una confutazione
parlante deir Hegellanismo,
e del Positivismo.
Voglio dire in
sostanza che il
principio metafisico dello Stagirita
non è, propriamente
parlando, erroneo, ma
incompiuto; e però è
tale che corregge
benissimo sé stesso. In che modo?
Se l’Atto ha da
esser davvero quello
che dice Aristotele,
ne viene che,
metafisicamente e
logicamente, è impossibile
un Actu» pwru»
ab^olute. Gli Alessandrini se ne
accorsero; e questo
è precisamente e
principalmente il lor merito
di fronte air
Aristotelismo. La verità
della Scuola d'Alessandria e dell’antico
neoplatonismo sta chiusa
in questo poche
parole: [0,in ptaiix JfiTai Twv
ci^wv xarà to
tv caurw voitjtov
o' vou?. Vod.
Proclo in Parm. Lo stesso
dicasi, come vedremo,
del Platonismo; e così
può affermarsi che
Tesigenza della correzione,
nel concetto metafisico deU'ano o
dell* altro sistema,
sia reciproca. in sè.
Non è l'identico,
ne il diverso.
Non è il
moto, ne la quiete.
È dunque l'una
e l'altra cosa
ad un tempo istesso. È
dunque il tò
E?a/yv>?; senza cui
ella riescirebbe affatto inintelligibile, e
assurda; e quindi
ci significa il Momento*
nel quale è
insieme numero, senza
cessare d'esser altresì unità
essenziale: talché costituendosi centro e
circonferenza ad un
tempo, rende siffattamente possibile l'accordo
de' contrari.* E tale
accordo sarà possibile a
questo sol patto:
che il Momento
sia non pur la
Nó»Ttc vóvjTswc dello
Stagirita, ma eziandio
Mente, e perciò Mente
e Verbo, Vero
e Generato, e
quindi fornito della virtù
onde lo fa
ricco il filosofo
Ateniese.' Così interpretando il to'
E^otéipvvjc (senza confonderlo
col fjura^y.l'kety che sarebbe
confonder la condizione
col condizionato, il Generato
col Fatto), non
verremo a contraddire al contenuto degl’altri dialoghi,
massime al Sofista
ove la natura dell'Assoluto
ci è determinata
come pensiero,^ come mente,
e perciò come
pienezza di vita
e d' assoluta realtà.' FICINO traduce
1* 'E^ai^vvj^ per momentum
indimduum; mii in questa
parola e* è
qualcosa di più,
esprimendoci propriamente l’istantaneo; ed ecco
perchè Platone lo
dice di natura
mirabile e etrana:
^ tUTcc aroTróf tc^.
Partn., 155, E;
157, B. * *AjO
ouv ìttì to'
(xxoTTtìv TOUTO, sv w tÓt'
av ety?, ots
fiSTa^dXktfj Tò TToìov
5vi; To' e^at^vyj?. rò
ydip i^at^vrjc Toeòv^j
ti Jfocxf a^juatvecv wce?
«xatvou ^«TaSaXXov sìq
ixoirspov, ov yxp i'A
ye Tov io-Tavai
sttùtoì in asTa^séXXst,
ou5'«x tkj; kiwitsoì? xtvovfx«v>ic «TI
fj.tr OL^iWti' àW Tn
i5at^v«c auT>j fvtriz
oironóz Ttf iyìndBrirat jExcTa^u
tt^C xiv>jo'««c rt
y.olI «rTOCTEwc, iv
XP^'*^} orjSsvi ouTa, xat
te; TavTvjv 5vì
xai e'x TauT>JC
to rs xtvov'jEXffvov fjitra^oiWsi ini
tò éo-Tavai xa«
tò écTOc «Vi
tÒ xivelo'dae. Kcv^uvsùst. Kat
to ?v 5v7,
etnsp «a"Tv?x/ Te
xat xivjÌTat, /xsTa6a^^oi
av if éy.drtpOL'
fjLÓvwi ydp av
outo? àp^ÒTSjoa Trotot'y»* /xeTa6a).>ov 5'
sfat^vvjf /xsTaéai^ft, xac
ot£. /xsTa€a»e£, ev ou^evt
XP'^'^V *^ ^^^'j
ou5« xtvofT* av
tòts, ou5' àv
^rxirt. (Parm. 156., d.) *
Te 9:; TO
7t7vwTXJCvì5 to yiyvtàTìLsv^^ai fCt.TS
noinuoc I Tra^o;:^ àfifòrspov;
-^ to' asv
7ra3-/?aa to' ^s
5aT£^ov; ì^ ttzvTCCTra^tv
ou5sTg/30v ouJiTfi^ov TOUTwv
^fTaXau/Savsev* (Soph.) ^ ' Té
dai itpò% Atò;;
wc a^>J'9'wc x«vT7Ttv
xat ^w>jv xat
>/'vxiQv xa*
^^óv>70'iv tJ paSi(ùi
7re£j3>jo"ò|txjOa
t« TravTsXw; «?vti
/x>: Ma se r
Idea è il
Generato, e quindi
rispetto al Vero è
il diverso dell'identico
(tò jts^oov), ciò
nondimeno ravvisata in sé
medesima ella è un possibile;
e, in quanto possibile, è
anche il medesimo
d' un altro diveiso. Poiché se
di sua natura
eli' è possibile,
deve importare una moltiplicità
opposta, estrinseca, reale,
determinata; deve
necessariamente importare il
diverso, il quale sia
tale, non solo
di fronte all' ofóro,
cioè rispetto al Generato,
ma anche in
sé stesso (tò
aXXo). E se non
includesse cotesto diverso?
Se non l' includesse, finirebbe d' esser possibile,
e negherebbe sé
stesso. Perciocché un possibile,
il quale non si potesse
mai recare ad
atto, evidentemente sarebbe un
impossibile addirittura, o al
più un
possibile infecondo e
fantastico. Laonde, poiché il generato é
infinita idealità, e
quindi infinita possibilità, però devesi
necessariamente convertire col fatto: é
si converte in
quanto lo fa;
si converte in
quanto lo pone. Il
Vico dunque ha
detto giustissimo: Il
Vero si converte ad
intra col generato,
e ad extra
col fatto. Or che cos'
è mai cotesto
Fatto? È anch'
egli il diverso dell'
identico, il diverso
del generato; ma é
il diverso in sé
proprio (tò a).Xo),
il mondo. Poiché
quantunque il fatto e
il generato sono
moltiplicità, nonpertanto l'uno
é, moltiplicità reale,
e 1’altro ideale;
talché se la
prima si 7r«/oetvac, innari K^v
aiiro ^>j5s (ppovelv
ùWoi (rtfj.'^òv zat
oiytov voùv oux f
§e twv 7r/)afg&)v xa^'
coìpidrMv xac à.'k'kri'Koìv
xotvwvta navrot^^v yavTa^ópsva no'kXd
yatvff^at Ixa^Tov. Qui
pare che r idea
8i divida, si
rompa, si spezzi
nella moltiplicità fenomenalef
e costituisca il positivo
del fenomoDO, ma
nella forma inadoquatadeir estensione: e siamo
quasi all'idea hegeliana
che passa ad
tsaer natura, che si
contrappone nella natura,
che jiiventa natura.
Perciò la metessi
de* platonici mostra sempre
un carattere di
passività anzichò di
attività, appunto perchè viene
di su, mentre
dovrebbe partire di
gii, ed estrinsecarsi per opera
e virtù del
Fatto in quanto
è infinita potenzialità.
Questo carattere passivo della
metessi platonica si
scorge anche, e
non dovrebbe, nel Parmenide di VELIA: tÒ
elvat ^Wo 7t
eTTtv ri p.:'0s5'C
ouTicz; ^era ^povoìj 70Ù
Tra/oovTOff. La metessi
dunque spiegherebbe troppo; perchè il
nesso tra l'idea
e la cosa
verrebbe ad esser
cotanto immediato, da non
farci discernere fra 1'
una e
l'altra nessun divario
essenziale; e così avremmo l’identità come
essenziale, e la
diversità come fenomenale. Or se
l'Assolato, perchè davvero
sia tale, ha
da ossero innanzi
tutto una conversione di sé con
sé stesso, deve
risultare indivisibile e
imparabile nella sua stessa
moltiplicità infinita: e
se il mondo
ha da essere
anche lui una conversione
di so con
sé, ne segue
ch'egli debb' essere essenziale moltij^icità, moltiplicità
in sé, diversità
in sé; tanto
che l'unità progressiva, che in
lui si agita
e vive e
spicca sempre più
ne' diversi gradi della
realtà cosmica, sia
ben altra cosa
dell'unità che dimora
in seno all'assoluto. Dunque
il vero che si
converte col fatto, cioè
(per parlare il linguaggio
degli ontologisti) l' infinito
che pone il
finito è anche
finito, ma non si
confonde per vorun
modo con lui.
E non può,
per queste duo semplicissime ragioni: perchè, se
cosi fosse, ne'
due termini avremmo una
ripetizione sostanziale inutile,
e quindi potremmo
cancellar l'uno o l'altro
addirittura, e così
finirebbe per aver
ragione il panteista; e perchè un infinito
avrebbe a partorire-,
produrre o porre
un altro infinito,
e cosi negherebbe sé
medesimo. D'altra parte,
se il fatto
devesi convertire con sé
medesimo facendosi vero, cioè
facendosi infinito essendo
potenMialità in/inUaf non
per questo si
potrà credere eh'
ei si possa
identificar con lui, per
le due ragioni
detto poco fa.
Dunque stiamo contenti
al quia ! né
identità oMolutaf nò
aseotuta diversità, ma
conversione. E però
le idee platoniche non
sono da intendersi
né come 7ra/9a^u7/xaTa, né
come vov}^KTa, secondo che
vogliono due schiere
d'interpreti. Se fosse
così ne verrebbe, nel
primo caso, che
Vid^a dovrobb' esser
presente alla cosa
in maniera, che questa,
tanto nella sostanza,
quanto nel movimento,
tanto nella materia, quanto
nella forma, dipenderebbe
onninamente dalla prima, ed
altro non sarebbe fuorché
una semplice sua
copia; e allora non
avremmo bisogno d'un Dio
artefice, non del SnfAioxjp'yoi
del Timeo, non
del deus ex
macchina dall'ontologista, né della
magna Idea degli
Hegeliani. Nel secondo
caso poi r idea
sarebbe un termine
del soggetto, ma
un termine, dirò
così, meramente soggettivo: somiglierebbe quindi,
anzi 8areb))e addirittura pretare in
modo razionale e
positivo l' intuizione religiosa del
Ternario cristiano. La cognizione
immediata e divinativa,
in questo e in
ogn' altr' ordine
di conoscenze, previene,
come V ombra la
persona, i portati
della speculazione metafisica. Così prima
ancora che la
Scuola d' Alessandria
si profondasse nelle ardite
e vaporose elucubrazioni
su la triplice ipostasi
Plotiniana, il mistero
della Trinità alberga di
già nella coscienza
popolare siccome oggetto d' intuizione, e
cominciava a rivestir
forma e valore dommatico mercè
la Riflessione teologica.
L' assoluto è uno e
trino; è trinuno:
e noi ormai
lo sappiamo.* Ma è
egli un trino
ipostatico? E qual
n'è l'essenza? L'assoluto importa
tre ipostasi: ecco
il mistero, ed ecco
la fede.^ Quanto a
determinarne l' essenza, la speculazione
occidentale, anche sotto
forma di speculazione teologica, non
poteva non interpretare
le divinazioni altrettanto spontanee
quanto ricche e
feconde della coscienza orientale
essenzialmente religiosa, con
l'inV inteìligìbile del
Dio aristotelico, con l’intelllgrente formerebbe
identità essenziale; e allora
le idee non
sarebbero essenzialmente relative
quali appunto sono richieste
dall' economia del sistema
platonico, e T
esigenza vera e giusta
della metafisica platonica
sparirebbe. Dunque cotesto
idee plaioniche come s'hanno
da intendere? Le
idee platoniche sono
T'Egac^v;? stesso, ma concepito
come essenzialmente relativo
&\VaUro, ma iiValtro
non già come tò trspoif
puro, assoluto, bensì
come 70 ìrspov
in quanto abbia un
riferimento necessario al
rò àWo, A
questa maniera non
è altrimenti vero che,
accettando le idee
platoniche, debbasi accettare
altresì la dottrina dell' avajtzvYiTcCt come
han detto certi
critici moderni: e neanche
si è costretti
ad accettarla> nelle
forme nuove ond'
è stata presentata da'
moderni neoplatonici, dal
Malebranche fino al
Mamiani. « SiMOX, ffitt.
de l’Ecole d'Alex. Il
tre è il
numero che assolve
tutte le condizioni
della perfeziono, ed è
perciò che tutto
è definito del
tre: to' Tràv
y.(xt to Travra
rof; TùtTiTt (fìptfTTat (Arist.
De Coelo). Vedi
le belle riflessioni di GIOBERTI sulla
Trinità considerata razionalmente
{FU, della Rivelaz..,
XVIII) e di ROSSI (Regno
di Dio naturale,
ecc. li Studi
di Zocehif) ' Prendiamo
la parola tpostcm
nel significato:' istiano
non già nel senso
neoplatonico e alessandrino. dirizzo, al
solito, dell' Aristotelismo e del Platonismo. Il peripatetico
nominalista ripone la
divina realtà ed essenza
nelle triplicità di
persone, e riguarda
l' unità come un puro
nome. Tre sostanze
indipendenti e separate, ma
congiunte in unità
mentale. Perchè congiunte? Perchè fomite
d' egual potere, d' egual
volere, d' egual conoscere. Il
realista platonico, per
contrario, vuol far consistere l'essenza
divina nella realtà
in quanto è unità
determinantesi nella triplicità
di persone. Agli occhi
del primo, dunque,
l' Assoluto è il tre in uno: agli occhi del
secondo è l’uno in
tre: ecco la
lotta interna della riflessione
teologica del medioevo. Ora
giusto perchè questa riflessione
è di natura
teologica e dommatica, avviene eh'
ella non supera,
non può superare
il sentimento, né trascender
l'intuizione, né solvere
il mistero, né disimpacciarsi dall'aperta
contraddizione. Laonde
Nominalisti e Realisti
vecchi nuovi, avvegnaché
discordi nella maniera di
determinare l' essenza del
Ternario cristiano, non sanno
rimuoversi d'una linea
dall'insegnamento dommatico
su l' unità assoluta
nella separazione delle
tre persone. Se il
ternario cristiano, in
quanto germina dall'intuizione rehgiosa, è come
l'immagine anticipata della ragione, in
esso deve acchiudersi
un vero che
la ragion filosofica dee
saper disvelare, correggere
e legittimare. Questo vero
non risguarda già
l'unità nella triplicità ipostatica: riguarda
il trinuno assoluto,
l'assoluta triplicità
considerata, come abbiamo
toccato, nella medesimezza di subbietto. Perocché l' unità
di sostanza mai non
tornerà conciliabile con la pluralità di persone; e se
così non fosse,
il panteista avrebbe
già trionfato nel regno
della scienza, né
io davvero so
dirmi che cosa mai
potrà rispondere il
sottile teologo all'arguto
hegeliano, il quale pretende
precisamente questo: che
la diversità delle persone
non dimostri nuli'
affatto la pluralità delle sostanze.
Il perché pigliando
alla lettera il domma
della Trinità, la
teologia cattolica non si
salva dal precipitare
nel tenebroso vuoto
dell' assoluta identità. Il contenuto
del ternario cristiano
adunque ci significa le
tre primalità del conoscere, del
volere e del potere, ma
nella relazione del vero
che, convertendosi con sé
medesimo, diventa generato, e,
come generato, come verbo, è infinita
idealità e possibilità
del Fatto. Interpretandolo così
accade che l'intuizione
religiosa, generatasi per leggi
inerenti allo stesso processo psicologico, rinverghi col
concetto metafisico a
cui può elevarsi la
ragion filosofica positiva;
e quindi può
dirsi che, come la
religione è il
preludio naturale e
necessario alla filosofia, di
pari modo la speculazione
metafisica sia la interpretazione critica
e Tinveramento delle intuizioni spontanee
e comuni della
coscienza religiosa. Il cristianesimo è
la religion razionale
per eccellenza, e con
essa oggi chiudesi il
corso e ricorso
delle creazioni propriamente mitologiche
e delle grandi
rivelazioni e divinazioni religiose.
Ed è razionale
perchè è in
sé medesima processo, e
svolgimento. Che se
anch' ella come tutte
le manifestazioni della
storia é un
processo, é mestieri applicare
ad essa la
universal legge storica
e sociologica della Scienza.
Guardata infatti nella
sua storia ideale, anche
la religione é
innanzi tutto divinay indi
eroica, appresso umana.
E giugne ad
essere umana quando la
forma siasi potuta
elevare a cotal
grado di trasparenza, che
il simbolo palesi
da sé medesimo l'idea, e
il mito siasi
venuto elaborando così
che rac[Non poco
8* illudono perciò
quo' filosofi ohe, come
il Cusano fra
gli antichi e il
Rosmini fra i
moderni, si sforzano
d'applicare a Dio
il concetto delle categorie
col fine di
spiegarsi in qualche
maniera il mistero
della Trinità. Io potrò
intendere il Cardinal
di Cusa dove
mi dice che
Unitcu, Iditas e Identità
siano quasi i
tre momenti dialettici
interiori dell’assolato. R potrei
forse intendere il
Roto retano quand'ersi
studia mostrarmi che Realtìk^
Jdeaìità e Moralità
sieno le tre
forme in che
si determina l'essere. Ma
come intenderli quando
il primo d'essi
afferma che Vvnità è
il Padre, Vegtiaglian Ma il
Figlio e la
connessione lo Spirito,
e quando il secondo
applica alle tre
persone quelle sue
tre sparute /orm« ontologiche
f chiuda un vero
metafisi(X) o morale
che sia. Or
se è tale il
valore del sentimento
religioso nello svolgimento isterico della
civil società, perchè
dirlo morbo della mente,
fiacchezza della coscienza
volgare, abberrazione della fantasia?
Se dunque la
ragion filosofica vorrà attingere anche
qui forma razionalmente
positiva, ella vi potrà
giugnere a questo
sol patto; che
il concetto metafisico ond'
è capace, non
abbia a contraddire
in modo assoluto ai
portati della coscienza
religiosa. £ se la
religione dal canto
suo vorrà essere
anch' ella positiva e
razionale e perciò
rispettabile e santa,
potrà essere tale a
questo sol patto;
che sappia porgersi
alla ragion filosofica siccome
riprova e guarentigia,
tuttoché di natura istintiva
ed empirica, ai
pronunziati della
speculazione metafisica. Anche
qui regna la
gran legge del concorso
di forze combinate,
e del loro
corrispondersi tanto
necessario alla eccellenza
del risultato. E in
tal caso
religione e filosofia,
serbando entrambe valor positivo e
medesimezza di contenuto,
formeranno un criterio al
cui lume potrà
esser giudicata ogn' altra filosofia e
religione. Una critica
religiosa che si
diparta da questo principio,
sarà critica infeconda
ed erudita, com' è
quella de' Teologisti
cattolici, ovvero critica
esiziale e sistematica com'
è quella de'
mitologi hegeliani. Tal si
è precisamente il
nostro concetto metafisico rispetto al
ternario cristiano, che
è il mistero
piii comprensivo cui abbia
saputo elevarsi la
coscienza religiosa. L'uno è
correzione dell'altro, al
modo istesso che
questo è, per così
dire, guarentigia sperimentale
del primo.' * Qui
abbiamo dovuto accennare
solamente al simbolo
della Trinità, ma nella
Sociologia mostreremo di
proposito come la
dottrina del Vico su
la natura ed
origine del mito
in generale, sia
fondata anch'ella nelle
leggri del processo psicologico,
e quindi racchiuda
il concetto e la necessità
della interpretazione morale nell'ordine
delle intuizioni religiose,
e mitologiche; deHa qual
necessità il Kant,
dopo Vico, ebbe
assai chiara coscienza {Rdig, daiu
le» lini, de
In raiton). Ora
ciò che qui
preme osservare questo: s^
col concetto metafisico
del nostro filosofo
si può acconciamente interpretare il
simbolo del ternario
cristiano, ne scendono
due Concludiamo. Se è
vero che la
metafisica è scienza non
assoluta ma dall'
assoluto, stantechè sia
possibile attinger notizia razionalmente
positiva circa il
fondaconseguenze: P che
il Libro Metafisico f
nel quale troviamo
depositato il germe del
concetto riguardante il
procesto ideale, sia
intimamente collegato con la
Seiema Nuova, appo
cui la teorica
sul mito (superiore sotto più
riguardi, come vedremo,
a quella de*
mitologi e filologi
Tiventi), non è che
un' applicazione della
sua dottrina psicologica,
della quale noi ahbiamo
svolto i tratti
principali: che interpretando
col suo concetto metafisico il
simbolo cristiano, in
generale, e, in
particolare, quello del ternario,
si viene a
contraddire in modo
serio e positivo
al panteismo. Anche per gli
Hegeliani il mistero
della Trinità, come
ogn' altro mistero, shnboleggia una
verità filosofica. (Heobl,
Phil. de VEaprit,
ItUrod. del Vera); nel
che siamo perfettamente
d'accordo. Ma l'interpretazione alla quale
costoro sottopongon la
simbolica religiosa, anziché
legittimare in qualche maniera
la credenza elevandola
a significato filosofico,
l'annullano addirittura,
perchè la rendono
assai più inintelligìbile e
paradossastica ch'ella stessa
non sia come
credenza. Idea, Natura
e Spirito: Padre, Figlio
e Spirito Santo!
Ma che cosa
ci ha che
veder la Natura? Non
è egli questo
precisamente ìl vecchio
concetto degli Alessandrini,
di Plotino, che pretende ritrovare nel
Parmenide di VELIA le tre
famigerate ipostasi dell' Unità,
del Multiplo, e dell’Unità-multiplo, riponendo
quest'ultimo appunto
nell'anima e nella
natura V (Enn., tBoulliet). L' interpretazione davvero
potitiva e non
già fantastica del
contenuto religioso, non deve
e non può
contraddire al simbolo
(almeno per quel tanto
che esso contiene
di filosofico), perchè
contraddirebbe alla stessa ragione. Or
quest' elemento di
verità, contenuto germinalmente
nel simbolo cristiano, riguarda
per appunto il
ternario considerato in
sé; riguarda il ternario
assoluto, il ternario
com'è richiesto dall'esigenza metafisica positiva,
e non già
il ternario trasportato
anche nel processo della natura,
e nello svolgimento
della storia. Questa
enorme confusione fanno i
Teologi, e la
fanno anche gli
Hegeliani con la lor teorica
e critica della simbolica
cristiana. Che cos'
è il Dio che eeende
nella natura? Che cos'è
il Figlio che
si parte dal
Padre per umanar»if
Che cosa mai sono
il popolo eletto,
i profeti, gl'ispirati,
il mondo latino-cristiano? E che
cos' è la
Idea che dall'
astratta mansione dialettica
scende anch' ella e
passa mediandosi nella
natura e penetra
nella storia? Che
cosa sono \6 funzioni
storiche speciali de'
popoli privilegiati, àQ*
privilegiati personaggiy del
mondo cristiano-germanico? L' Hegolianismo è
davvero una contraffazione del
più grossolano Cattolicismo!
ò una mitologia
anche lui! E quanti
punti di contatto
anche in questo,
e specialmente in questo,
con la
dottrina sociologica dei
Comtiani! VERA ha detto
bene: il positivismo i
una contraffazione dell’Hegelianismo. E
noi alla nostra volta
crediamo dir benissimo
(col permesso dell'
illustre traduttore) che r
Hegolianismo è una
contraffazione evidente del cattolicismo. Ma
di ciò basti: ce ne rifnrorao
altrove più riposatamente. mento e
la ragion delle
cose; se è
vero, d'altra parte, che
il significato esteriore
della storia della
filosofia occidentale sta nella
lotta fra il platonismo
e l’aristotelismo, mentre il
significato interno ed
essenziale di essi risiede
nella correzione vicendevole
de' due estremi indirizzi aristotelici
in quanto concorrono
al trionfo dell'indirizzo medio: ne viene che
nel concetto del processo
ideale e
nella relazione de'
tre termini costituenti la dialettica
discensiva che abbiamo
sin qui rapidamente interpretata nel
nostro filosofo, trovasi
non pure il risultato
e insieme l' inveramento delle
tre posizioni unicamente possibili
in metafisica delle
quali altrove toccammo, ma l'
inveramento altresì della doppia
esigenza deU'ùZga platonica
e della categoria aristotelica. Trovasi
la correzione, come
ci sarà dato meglio
vedere fra poco,
del Dio platonico
previdente e provvidente, e
dell' immobile Dio
aristotelico che nulla vede,
nulla prevede e niente provvede
nel mondo. E per
tutto ciò troviamo
l'accordo fra il
principio della medesimezza che prevale
nel padre della
Dialettica, e'I principio della
diversità che predomina
nel padre della Metafisica. Cìotesto
accordo per noi
è vero accordo, è vera
conciliazione, appunto perchè,
come dicemmo, è vera
correzione: correzione dell'Idea,
dell'essenza che, pur sparata,
dovrebb' esser l' essenza della
cosa: correzione dell' Ji^o il
quale, non ostante
l'assoluta immobilità sua, dee
muovere il mondo
come causa finale. Quest'accordo e
questa correzione trovano lor
saldo fondamento nel criterio
della Conversione, elevato
a dignità di Pilicipio
metafisico. E questo medesimo
principio metafisico può
e deve assumer natura,
come si disse,
di principio speculativo, di norma,
di criterio essenzialmente isterico,
universale e comprensivo, a
poter saggiare e
acconciamente ponderare la verità
delle soluzioni che
intomo al problema metafisico han
dato le diverse
scuole, e le
differenti filosofie. Se ci
fosse dato fermarci
in siffatti riscontri storici, non
sarebbe guari difficile
mostrare come in esso
trovi correzione, per
dir qualche esempio,
1’Alessandrinismo; il cui rappresentante, Plotino,
interpretando erroneamente
il metodo dialettico
di Parmmide di VELIA e
abusando dell' Unità
parmenidea, non potè
coglier la ragione del
vincolo che insieme
annoda i suoi
differenti generi del sensibile,
co' suoi generi dell'intelligibile, e siffattamente
sfumò nell'iperpsicologismo platonico pur
credendo d' inverare l' Aristotelismo. Questo vincolo e
questo passaggio non
potè scorgere l'ingegno profondo d'Erigena con
l'ardito concetto della
yuVic e con le
quattro diverse maniere onde
per lui s'attua la
Natura; poiché giunto
all'assoluta essenza, com'è noto,
ei se ne
ritrasse invocando in
sussidio la teologia rivelata. Né il
Cusano, per citare
un esempio del rinascimento,
tuttoché con mirabile
acume giugnesse a cogliere
il concetto àéìT alteritcLS
e delle determinazioni dell'Assoluto, bastò
a dedurre acconciamente
e necessariamente
l'attinenza verace onde
il mondo è
a Dio congiunto,' e
anche lui finì
con intender l'atto
creativo al modo che
è posto dalla
coscienza religiosa. Tanto meno
l'arditissimo BRUNO puo
imbroccare nel segno,
con la dottrina de'
tre intelletti, quant' all'attinenza tra
l'intelletto divino e l'intelletto
che tutto fa;
e quindi sfumò in
quel suo naturalismo
che potrebbe dirsi
un aristotelismo cui manchi
il concetto dell'Atto
in sé. Né il
Campanella giunse ad
applicare in maniera
dialettica le sue tre
primajità psicologiche all'
Assoluto,' come il Vanini
non superò guari
la dottrina della
natura e della forma
de' peripatetici. Nello Spinoza
poi, meglio che dialettica,
ci è meccanica
e geometria; poiché
il concetto della sostanza
unica' è negazione
della tripli* Simon,
BUt. Haubiau, PhU.
Sool. ' Nio. DB Cusa, DicU.
cU Pot§e9t. * Bbono,
Dial., De Prine.j
oc. Camparblla, MetapKt SpurosA,
£th.t I, n.
U, cita e d'
ogni processo intimo
e dinamico nelP
Assoluto; onde il pensiero,
che è uno
de' due modi universali della sostanza,
riesce, con evidente
assurdo, molto piii che
non sia la
medesima sostanza. In
opposizione alla sostanza spinoziana
sta la monade
del Leibnitz. Ma se
nel concetto monadologico
del filosofo di
Lipsia vi è una
divinazione originale che
la scienza moderna
è venuta semprepiii confermando,
voglio dire il
concetto dinamico, niun vincolo
razionale e dialettico
esiste tra la gran
Monade e T
universo delle monadi,
come altrove dicemmo.' E
per toccare finalmente
de' moderni, niuno, tranne gli
adepti, vorrà creder
sul serio che
Hegel col suo ternario
assoluto ci abbia
dato un concetto
metafisico positivo. Egli anzi
ha cancellato aftatto
il concetto della conversione
ad intra^ riducendo
siffattamente il dinamismo ideale
ad un ideale
meccanismo; talché il processo
geometrico della Sostanza
spinoziana avrebbe più d' un' attinenza col
processo formale e
dialettico dell'Idea
hegeliana. Alla vera
nozione del processo ideale non
sono pervenuti poi né GIOBERTI,
né SERBATI. Il principio
ctisologico del primo
è senza dubbio un
processo, come vedremo
fra poco: ma,
appunto perchè processo, non
dovrà supporre forse
un altro processo
anteriore, e superiore? La
dialettica giobertiana é
Una dialettica a metà;
e il creatore
del filosofo subalpino
è troppo accosto al
suo concreatore, alla
sua iitBì^ic^ al
suo Intelligihile relativo
che, coni' egli
dice, è l' Idea
redw^ata, V Idea per soìiificata; talché
potendovisi facilmente confondere, non poteva
àgli hegeliani riescir
guari difficile tirarlo all'
Idealismo assoluto.' Il
Rosmini finalmente, col concetto
dell' ente iniziale
e comunissimo determi[Vedi
ciò che abbiamo
discorso del Leibnitz
e se^. Gioberti, FU,
ddla Rivdaz. Al GIOBERTI
manca e deve
mancare, come vedremo
fra poco, il
vero concetto della dialettica;
e Io confessa
egli medesimo là
dove si prova a
distinguere una dialettica
interiore, ed una
dialettica esterna (Protologia)
nantesi nelle tre
forme dialettiche, non
è giunto, e non
poteva giugnere neanch'
egli a sciogliere
e poi rilegare il
vero nodo dialettico. Com'è possibile
un processo fra quelle
sue tre forme?
Com'è possibile la
distinzione categorica reale del suo
essere? Le cose discorse
ci menano a
due conclusioni quanto chiare, altrettanto irrepugnabili: P L'assoluto
è il vero che si
converte ad intra
col generato, e ad
extra col Fatto: dunque
la posizione del
Fatto è razionalmente, liberamente necessaria:
2 U Fatto
è V aUrOj
è il diverso: ed
è tale per
doppio rispetto; come
termine ^05^0, cioè come fatto semplicemente
detto, e come fatto che si
fa; come sostanza
e come causa: dunque
il fatto è estemo al
Generato, è indipendente
da lui, non
come termine posto, bensì
come Fatto che
s'invera, come Fatto che
si converte con
sé stesso e
perciò nel vero; insomma come
sorgente perenne d'attività.
Diciamolo in altre parole.
Dio crea il
mondo in quanto
lo pone; e il
mondo, in quanto
è posto come
fatto, si crea.
11 mondo, adunque, appunto
perchè ha natura
di Fatto, appunto perchè
ha natura di
altro sotto gemino
aspetto, è insieme posizione
e creazione. È
posizione, in quanto è
termine di conversione
con l’altro, ciò è
dire con Dio: ed
è creazione, in quanto
è subbietto di
conversione con sé e per sé
medesimo. Perciò se
il Fatto non
è creato ma è
postOy ne viene
eh' egli ha
da essere il
vero pònente, il
vero creante sé
medesimo. SERBATI, Teotojia. La
parola ponzione è
brutta, io Io
veggo; ma qui
non saprei come dire
dÌTersamento per non
restare avviluppato negli
equivoci ed esagerazioDi
in che sono
caduti gli ontologisti
con l’uso ed abaso
deUa parolA Il mondo
nel processo cosmico
ci si presenta
sotto tre aspetti. Riguardato
come Fatto, egli
è in Dio.
Riguardato qual fatto che
s'invera e converte
con sé stesso, è
fuori di Dio.
E, finalmente, considerato
qual Fatto che si
converte col vero
nel regno della
storia e della
psicologia, non si può
dir propriamente eh'
e' sia fuori
di Dio né in
Dio, ma Dio
è in lui:
é in lui
nel senso che il
mondo è
pensiero, scienza. Ecco
la correzione e insieme
l'accordo del dualismo e del panteismo.
Non vi
é unica ed assoluta
sostanza: né vi
sono due sostanze poste
empiricamente. Vi è
bensì una dualità formante unità:
vi é due
sostanze formanti organismo. ertaMÌ4me. Nel
g^reco non ini
pare ci sia
una voce che
possa rendere il concetto:
anzi non
ci può essere^
chi consideri come
al pensiero ellenico
manchi r idea alla
quale accenniamo. Tra l’Atto
puro e la
dateria prima deir
Aristotelismo non ci è
vincolo nel signifioato
di potìnofu; ma
t* è solamente relazione di
finalità, perchò VAtto
non pone, ma
attrae; e attrae
la materia in quanto
essa è jiotoiua,
cioò in quanto
è opi^i; e
però in quanto
nelle cose Tiene inserito il
deeiderio con perpetua
in/ueion% che è 1’interpretazione
erronea de’vecchi aristotelici e antiaristotelici (Rjlvaisbok,
Metaph, ec. Neanche
nel Platonismo ci
è V idea
della posizione, e quindi
nò pur la
parola che vi
risponda; essendo noto
come pel filosofo d’Atene
la materia sia
anche eterna e
al tutto indipendente
dall'ùlea, cioè un'assoluta
recettività, iimeno intendendo
Platone come si fa
d'ordinario: nò poi
la fii9t^i^ e
la yLl^junii come
toccammo, bastano ad esprimerci
il concetto della
conversione. Il pensiero ellenico dunque non pervenne
a determinar nettamente
l'attinenza (originaria, non
finale) tra l'indeterminato e
l'Idea, tra l’infinito e
il finito, tra la forma
e l'Atto; e quindi
non riusd, com'ò
noto, a superare
il dualismo. Ora trascendere il
Dualismo è uno degli
aspetti e però
uno de' fini
della lotta fra il platonismo e l’aristotelismo. L'alessandrinismo tentò
superarlo, ma evaporò nel
concetto dell' identità
assoluta: e però
neanche presso gli Alessandrini sarebbe
facile trovare nò
il concetto, nò
la parola che
significhi '1 vincolo
originario tra il
mondo e Dio.
Gli Hegeliani usano anch'essi, fra
le altre non
meno brutte, la
parola poeizione, che
anzi costituisce il lor
pane quotidiano. Ma
per l' Hegelianismo poeizione
vale determinazione,
medùizione, compenetrazione; e
perciò, checché ne
dicano, esprime un rapporto di
natura, per cosi
dire, meccanica e
formale. La nostra posizione è
diversa dalle loro quanto il
nostro generato dalla loro Idea;
quanto la nostra
convereione dalla loro
contrappoeizione^ negazione, med̀tzione
e che so io. fe inutile
avvertire che le
parole bara, asa,
vasàb della letteratura ebraica,
esprimon tutt'altro concetto di
quello che noi intendiamo significare
con la parola
poeizione. Quest'organismo è vita,
non è morte fqueet'
organismo è profondo dinamismo,
non è meccanismo.
Ed è vita e
dinamismo, perchè non
è monismo assoluto;
non è monismo inintelligibile, assurdo,
esiziale alla scienza
come alla civil società. E
qui ci corre
il debito di
rendere giustizia alla mente
straordinaria di GIOBERTI, e correggere
nel medesimo tempo la
sua formola ctisologica.
Anch' egli è tal pasta
d' ingegno che si
svolge e s' allarga
e s' invera e si
corregge; ma non
per questo si
contraddice. La novità della protologia non
istà nel concetto
del creare inteso come
divenire, secondochè vorrebbe
Spaventa. Se così fosse,
egli, in verità,
non avrebbe detto nulla
di nuovo; come
nulla di nuovo
disse nella Introdu' jrìone col
rinverdire la vecchia
idea della creazione.
La novità .vera, la
nuova esigenza del
filosofo subalpino sta nel
concetto della concreojgione, com'
ei suol dire;
della cancrecunone intesa non
già come fxsOf5«;
dell'Idea verso il mondo
e rispetto al
mondo, ma si
del mondo verso r Idea,
e rispetto all'Idea. Perciò l'ontologismo
giobertiano va corretto;
va fatto più
conseguente con sé
stesso: e, scambio
della celebre formola
dell' Ente creante l' Esistentey è
forza porre la
formola metafisica di Vico nella
quale è racchiuso
quel vero e
compiuto dialettismo che r
ardente scrittore del primato anda
sempre cercando con ansia
febbrile, e non
trovò mai: cioè
il vero che, convertendosi
ad intra ed generato
si converte anche ad
extra col fatto.
La sua formola
teleologica, poi, vuol essere
anch' ella corretta; e
invece d'aflFermare che l’esistente
ritoma alV ente
(prima maniera), o che l’esistente
concrea Venie concreando
se stesso j è
d'uopo dire che il
Fatto si
converte nel vero e col vero, e
perciò si crea, e
perciò si fa
divino. Il concetto ctisolo^'oo
di GIOBERTI della prima
maniera (e dico marnerà
per dir forma
nello stiluppo, non
già diversità di
contenuto nella sua dottrina,
come Terrebbero gli Hegeliani),
sta nel presentar
V atto creatiro
siccome prodaconte T
esistenza in quanto
la individua. Nella
IntroMi si chiederà:
la seconda forinola,
la formola cosmologica esprimente il
vero concetto della
creazione, cioè il Fatto
che si converte
nel vero, esiste ella in
Vico? ' Esiste, io
rispondo, per chi
la sappia ritrovare,
e dedurre; e dedurla
e trovarla è
negozio agevolissimo. Come
la si deduce? Considerando
con accuratezza la
sua formola metafisica. Quando
egli pone il fatto
siccome termine di duzione
il creare suona,
a dir proprio,
individuare. Che cosa
in£atti ò r individuo ?
È l’dea pasMta dalla
potenza alTaUo. Qui t;*
ò dol neoplatonismo, e
anche buona doso
di panteismo. Della
prima maniera altresì è
queir afTermare con
tanta sazietà che l’uno
crea ti mi«ltiplof
e che ii
tntdtiplo ritoma aU^tmo:
concetti yaghi, indeterminati
ed erronei che ci
fanno pensare a
Proclo e a
Plotino. Se il GIOBERTI fosse rimasto
qui, non sarebbe
stato ingegno potente
ed essenzialmente correttivo di
sé medesimo. Non
sarebbe stato ingegno
progressivo, fecondo ed esplicativo.
Ma se nella protologia fosse
giunto al concetto
del divenire, più che
esplicarsi e si
sarebbe data la
zappa su' piedi; si
sarebbe codtradetto: sarebbe
passato dal bianco
al nero, dal
no al sì,
da Dio alla
Idea, e siffattamente sarebbesi
mostrato ingegno leggiero,
pensatore sghengo e anche
un pò vanesio. Era
egli tale T
ingegno del GIOBERTI?
Lo dica chi può!
Dunque l' A. della
Protologia, se per
nostro conforto fosse
vissuto, non sarebbe divenuto
Hegeliano; anzi avrebbe inaugurato
novello periodo filosofico in
Italia conforme all'indole
di nostra mente;
ciò che non ha
fatto, e
non poteva faro MAMIANI.
FERRI ha
detto benissimo: la teconda
JUoaofia del GIOBERTI {che
racchiude non già
un nuovo 9Ì9tema,
eibbene uno epirito
nuovo)^ inaugura un
altro periodo, la
cui aorte i
rieeronta al futuro (Hist.).
E davvero, se
fosse vissuto, ci
avrebbe dato un Btnnovn mento
filosofico, al modo
stesso che ci
dìo il rinnovamento civile col
quale inaugura la nuova
ITALIA, e del
quale Cavour, dovremmo
esserne ormai convinti, non
fece che attuare
il programma. Ciò
non pertanto anche nella protologia si
scopre l'uomo vecchio,
VintuitUta, e però
il neoplatonico schietto. Non
dubita affermare, per
esempio, che Videa
pone il finito, e
8i COMUNICA): che
le idee formino
in Dio una
gela, la quale 9Ì
«quaderna e pa^aa
dalV as9oluto ed
relativo merde V
atto della creazione:
che l’infinito attuale e l’infinito
potenziale, anziché due
cote, formino una sol
cosa, ma sotto
doppio aspetto: e
che l'infinito potenziale
non è né
il finito né 1’infinito,
ma la
sintesi di essi,
non {scorgendo il
grand' uomo come
finitò, e infinità potenziale
non siano già
due cose, ma
due aspetti d*un
medesimo subbit'tto, ciò è dire il fatto
in quanto è
alterità verso il
Generato, e verso se stesso. Or
le contraddizioni da cui bisogna
salvare il Gioberti nella sua seconda maniera
di filosofare sono
queste, non quelle
che ci veggon gli
Hegeliani. E bisogna
salvamelo appunto, per
liberarlo dalle tracce d’iper-psicologismo, di neo-platonismo, di
alessandrinismo, d'arabismo
e d' hegelianismo che
pure contiene. conversione col
Generato, cioè il
Fatto come Fatto,
come posto; con ciò
stesso ei ci
dà questo Fatto
come subbietto che
essenzialmente si converte
con sé medesimo; cioè come
creante sé, come
autogenito, come conato,
E come poi ritrovarla
cotesta formola? La
ritrova chi abbia occhi
in fronte; cioè
leggendo la Scienza
Nuova. La quale è
per l'appunto un'applicazione di
essa, ma è
un'applicazione al mondo de' fatti
umani, eh' è dire
d'ima parte, d'un genere,
del sommo genere
del Fatto. Che cos'è
il Certo che
diventa Vero? Che
cos'è V Autorità che a
grado a grado
assume forma e
valore di Ragione? Che
cos' è la
Filologia che diventa
Filosofia? Che cos'è la
storia, l' uomo, lo
spirito che dalla
fase divina passa alla
fase eroica, e
dall'eroica all'wwana. Che cos'è
il pensiero, la Mente
che è Senso
poi Immaginaeione e poi
Ragione? Taluno potrebbe
dire: di cotesta
formola Vico non fece
applicazione al mondo
della natura. Neanche questo
è vero. E
non vero, i)erchè
non solamente quest' applicazione
ci è dato
dedurla, al solito, dal
suo principio metafisico,
ma, che più
rileva, ei n' ha
lasciate tracce visibilissime, germi
assai fecondi ne'
suoi principii cosmologici,
come vedremo appresso. Torniamo al proposito. Dato alla creazione il significato
e il valore
che noi diciamo, ne
vengon fuora parecchie
conseguenze le quali verremo
accennando man mano.
La creazione non
è, per parte di
Dio, né una
deduzione, per dir
così, né un' induzione.
Per dedurre il
mondo, egli dovrebbe
cavarlo da sé: assurdo
grossolano. Per indurlo,
poi, dovrebbe cavarlo da una materia
preesistente, ovvero dal
nulla. Una materia preesistente
senz' alcuna idea,
un ricettacolo
indeterminato, come lo
concepisce il Platonismo, riesce inintelligibile, e ci lascerebbe
in pieno dualismo. Dal
nulla come tale,
nel che sta
il concetto balordo
dal pietoso credente, tanto
meno. Si dirà
esserci la potenza Vedi a questo proposito
quel ohe abbiamo
discorso nel Cap. V
del Ub.
U. infinita attuale? Benissimo:
quest'Atto ha da
esser Oenerato; e,
in quanto è
Generato, pone il
fatto, educe il
fatto per necessità razionale,
e quindi per
legge di conversione. Se dunque
lo educe per
necessità intima e
razionale, veggiamo scaturire
una seconda conseguenza,
ed à che un
mondo particolare, contingente
e d' ogni parte
finito e mutabile e
scorrevole, senz' altra
necessità fuorché quella d'
un beneplacito divino,
contraddice apertamente alla ragion
filosofica positiva, nonché
ai risultati sicuri
della moderna scienza fisica,
geologica, cosmologica, astronomica. Se il
mondo, anche in
sé medesimo, é
una conversione di sé
con sé stesso,
non può non
esser necessario nella sua
esplicazione e nelle
sue leggi, appunto
perché essendo termine di
conversione d'una causa
eh' é mente, debb'
essere anche lui
causa, mente, razionalità.
U mondo, in somma,
é posto razionalmente. Dunque
Tatto col quale Dio
pone cotesto mondo
é liberamente necessario, e necessariamente libero. Dicemmo qual
relazione corra fra
libertà e ragioue. Se
Tatto volitivo guardato
nella sna radice, secondo
la legge del
processo psicologico, non è
altro in generale
che uno «/orso
(Tintenderef cotesto sforzo, che
in noi ò
impedito perchè essenzial
conato, nelP Assolato
non può aver luogo,
e quindi è
speditissimo. £cco il
fondamento della necessità della creazione.
Ma la sapienza
infinita! si dirà:
chi ne misura
gli abissi? Lasciamo gli
abissi: qui la faccenda
è chiara, perchè
ce ne porge
guarentigia la psicologia: gli
abissi ci sono,
pur troppo, ma
non qui; e qui
ci sono,
perchè ce Than messi
l’ignoranza, il pregiudizio
e l’immaginazione. Nò si
creda che togliendo
a Dio la
libertà (anche quella
a n«oem(ate natura), ella
rimanga distrutta altresì
nell’uomo. Innanzi tutto
non è vero che
si tolga a
Dio U libertà;
anzi gli si
dà la libertà
vera, dal momento
ohe si concepisce come
vera e compiuta
ragione. L’uomo è
^rt»eep«rous. Non v'è dunque destino: il
destino è la
natura e la
ragione; e appunto perchè il
destino è natura,
perciò è lungi
d'esser cieca necessità. Tutto
quindi è provvidenza
nella mente di VICO (si veda), perchè
tutto è creazione,
attività intima, profonda, spontanea si
nel mondo fisico,
e rì nel
morale; né senza ragione
volle metterla in
cima alle sue
discor verter La provvidenza
agli occhi suoi
apre e chiude il
circolo della scienza,
non meno che
il processo della Storia.
Ella perciò è
innanzi tutto naturale
e divina, appresso eroica,
da ultimo umana.
La provvidenza umana è
la stessa ragione,
la quale non
può non essere libertà: essa
dunque importa pienezza
di responsabilità. La provvidenza
è il primo
de' tre grandi
principii, 0 sensi
comuni dell’umanità: ed
è altresì l'ultimo corollario della
mente del filosofo. La
Provvidenza dunque è principio
e fine della
storia umana, al
modo istesso eh' è
dedica e conclusione
della Scienza Nuova.
E anche quest*
altra: ab ipta
rerum humatuxrum natura.
(De Oon$t, Philel ) Il
coDCotto di Vico
è concetto aristotelico;
e così infatti
1* Afrodìsio interpretava
la neceasìtà Jinea e
naturale d'Aristotele. (Ved. NooBI8S0N,
De la UberU
et du Haaard,
E$8a% sur Alexandre
d'Aphrodina» ec. Paris) Ved. Tavola delle Diteoverte
nella Prima Seien»a
Nuowu * Perciò chiama
il soo libro
una teologia civile
e ragionata della Prowedema divina
(Sec. Se. Nao.);
e più d' ana
volta si dà
Tanto d'aver prodotto una
nuova dimostrazione, una
dimostrazione di fatto ittorieo circa
V esistenza di
Dio. Che cor'
ò questa dimoetratione
di fatto ietoricot t!
la provvidenza in
quanto è Fatto,
in quanto è
creazione. et il Fatto
che si converte
con so stesso,
e mostra quel
che è, quel
che contiene, quel che
debb' essere; e così,
mostrando sé stesso,
mostra anche Dio. Perciò
la provvidenza non
ò Dio che
si mostra, Dio
che interviene; ma ò il mondo
delle nazioni che
attuandosi, che creandosi
e edébrando così la
propria ìvatwra, si
mostra sensatamente, e
si manifesta come
termine di conversione. Indi
è che la
provvidenza per lui
non può essere un
argomento induttivo dimostrante
l'esistenza di Dio,
appunto perchè ella nel
mondo, anziché effetto,
ò una causa.
Questa sua dimostrazione di /atto ietorico,
dunque, è una
forma dì eduzione,
non già di semplice
induzione: col che
confermiamo anche una
volta la natura
del metodo vichiano. Ora
se questo è
il significato (significato
davvero nuovo e originale)
del concetto della prowidenaa n^U'
A. della Scienza
Nuova, n concetto ctisologìco
inteso al modo
che noi lo
interpretiamo nel nostro filosofo,
si presenta come
il risaltato del mondo
moderno. È la
vita stessa della
scienza moderna: è il
gran secreto della
filosofia positiva: ed è
l'esigenza massima della
Sdenea Nuova. Chi
non Faccetta, deve negare
il presente, dee
dare una smentita alla
storia; e sarà
condannato a indietreggiare sino
al medio evo, per
non dir già
sino alla Grecia. La
formola cosmologica del nostro
filosofo corregge e
trascende, anche in questo,
il neoplatonismo italiano
moderno, ponendo non è a merarigliare
s*egli in ciò
sia stato franteso
e interpretato assai male,
come vedemmo, da
certi saoi critici.
Jannelli e il primo
ad osserrare che
nella Scienza Nuova
tale concetto può intendersi
in dne sensi;
e l’acato archeologo napoletano
non s’ingannata. Talora infatti
sembra che la provvidenza, per Vico,
abbia a consistere solamente
nell’azione di Dio.
È la provvidenza, per
dirne un esempio, che
eccita Atejo Capitone
e Lahtone; il
primo nella gdoèa
e tenace cuttodia de^
vecchi diritti, e il secondo
nel propugnare interprc tOMioni tempre
nuove affindii la
romana ffiurieprudenMa potetèc
evtdgerai. {De Univ, Jur,).
La provvidenza egli
invoca per iepiegare la
rapida e univereale
comporta del Cristianesimo
merco la civiltà
romana; la quale perciò
altro scopo non
avrebbe avuto nel
mondo, fuorché quello di
schiuder la via
ali* idea cristiana. Or
tutto ciò contraddice ali*
esigenza del suo
metodo, ed è
in aperta opposizione con la
sua dottrina metafisica.
Lo stesso religiosissimo Jannelli,
il quale del resto
non avea nò
punto né poco
subodorato il valore
della filosofia del suo
maestro, non dubita
affermare, che se
per prowidenxa nella
Scienza Nuova •»* vuole
intendere eolo V
axione di Dio
eugli uomini, Mora
non pare che n
faccia altro che
una lemone di
teologia poco neeeeearia
ai Cattolici, ami ai
Crietiani e a
tutti gli eneeri
ragionevoli. Provvidenza
dunque, per VICO (si veda), vuol
dire natura. Provvedere
è fare, è
creare, ò attuare. Dunque è
incessante e vivace
conversione del fatto nel vero.
Per lui quindi è prowidenxa l’itetnto, laddove,
parlando dell* origine della
parola 2ex, dice che
gli uccelli nidificano
pretto le fonti.
{De Vniv. Jur.)
provvidenza il pudore,
onde procede la
frugalità, la temperanza, la giuttÌMia,
e simili {De
Contt. Juritpr., I[I). È
provvidenza la storia della
poesia, e le
false religioni. E
provvidenza la forma monosillabica delle
lingue. È provvidenza
lo teoppiar de’
primi tumulti deUe plebi
nella terza età
del tempo oscuro. È per
provvidenza {rebut iptit dietantibut)
che le religioni
cominciano a venire
in dispregio. È prorvìdenn
{rebut iptit dietantibut), l’origine dell’arte della guerra
e della pace.
fe provvidenza che
le Centi Minori apprendano dalle
Centi Maggiori; ed
è provvidenza la
templieità e naturalcMM
Oud*ò condotto il corto ddC
umanità (Sec Se.
Nuo.). a nudo le magagne
del concetto creativo
del Teologismo, nonché dell' Hegelianiamo e del Positivismo:
che vuol dire, al
solito, corregge i
due estremi del
filosofare, iperpsicologismo ed
empirismo. Di fatto
che cos' è
per l' Hegeliano la creazione?
È l’identico in
guanto si differendo. Dunque non
è vera creazione,
svolgimento, processo; ma ripetizione
ritmica e, come
dire, inquadrata sovra un
medesimo fondo che
è la Idea.
Pel Positivista il moto,
la vita e l'
essere delle cose
non è che
trasformazione di forze, o
di materia; trasformazione fisica, meccanica, biologica; determinismo
affatto meccanico, affatto accidentale,
affatto cieco. Dunque
anche per lui la
creazione è ripetizione
monotona d'un identico subietto. Con la
formola cosmologica del
nostro filosofo, inoltre, si
giugne a conciliare
le esigenze legittime
del teismo e del panteismo su
la natura del
mondo. Nel Panteismo vi
è un'affermazione giusta
e ragionevole; ma vi
è pure
una negazione iriragionevole, erronea
ed esiziale. L' affermazione risguarda
lo svolgimento d' un
principio interno e divino
nel mondo, e
nella natura. La
negazione poi riguarda un'efficienza
sovramondana, che come intelletto amore
e potenza ponga
il mondo e la natura, e
sia presente al
mondo e alla
natura. Il Teismo grossolano
e volgare contraddice
al Panteismo col
porre l'efficienza
sovramondana; ma non
sa intendere per
nulla il divino della
natura; non capisce
il divino anche
nel mondo. L'affermazione del
Panteismo è l'esigenza
dell'Oriente, e, in parte,
dell'Occidente; della scuole
jonica, eleatica, pitagorea, stoica,
alessandrina; poi delle
grandi intelligenze
d'.Erigena, di BRUNO, dello
Spinoza; ed è anche
l' esigenza dell'hegelianismo. L' affermazione poi del
Teismo beninteso, è
principalmente un portato
della speculazione
occidentale, perchè è l’esigenza
profonda della metafisica platonica,
e della metafisica
aristotelica. Panteismo e Teismo,
dunque, oggi sono
di fronte; perchè essendo pervenuti
entrambi al più
alto grado di
speculazione, ci porgono
due forinole nette,
chiare, spiccate: V essere, il non-essere e
il divenire, da
una parte. Il vero, il generato e
il fatto, dall'
altra. Or l’affermazione, r esigenza
ragionevole del panteismo è
inclusa nella formula cosmologica
di Vico, e, che più importa, vi
è anche corretta.
L'affermazione e l'esigenza
ragionevole del teismo, poi, trova
correzione e inveramento nella
formola metafisica dello
stesso filosofo. Quant'alla parte negativa,
cotesti sistemi sono
da ripudiarsi entrambi. Se
il teismo ignora il
vero concetto di
natura e però disconosce il divino e perciò stesso
disconosce la creazione autonoma
del mondo; il
Panteismo, alla sua volta,
disconosce la vera
natura di Dio,
e perciò disconosce la
vera natura dell'
uomo, e cosi
viene a distruggere la grandezza
e l' eccellenza dell’umana
personalità. Se intanto la
creazione è un
processo, cioè dire
il fatto che si
converte nel vero, si
può domandare: in che
maniera s' attua cotesto
processo? In altre
parole: come avviene che
la creazione diventa
provvidenza? Il modo con
che s' attua
la creazione potrà
dircelo solamente l’esperienza:
ce lo potran
dire le scienze
di natura, e le
discipline istoriche in
generale. Ma anche nella
soluzione del problema
cosmologica sbagliano, tanto quelli
che tutto vogliono
indurre, quanto quegli altri
che tutto pretendono dedurre.
Oggi non è
permessa una dottrinacosmologica empirica;
e tanto meno è permessa una
cosmologia che, fabbricata
a priori, si
rimane campata a mezz'aria.
La filosofia cosmologica
potrà attinger valore positivo
e razionale ad
un sol patto;
che, cioè, il pronunziato generale
ch'ella potrà fornire
alle scienze le quali
si travagliano intorno
alla ricerca delle
leggi da Mill appellate
empiriche, sia del
pari, o possa essere,
il risultato complessivo
e finale delle
scienze stesGiastissime qaiodi
le parole d*aii
valoroso sorltlore moderno. (Tttt ùonire le
panthéitme que tou»
eeux qui retUM
^i>rit de la
vrai grandéur de l’homme
doivent »e riunir
et eombattre (Tooqukvillk, De la
VemoeraHe, Paris) se. La metafisica
positiva altro non sa darci,
salvo che la legge
della conversione come
principio della essenzial costituzione del fatto. Quant’al
modo poi, ella
non sa, ella non
può assegnar né
regole ritmiche, né
tricotomie a priori di
nessuna sorta. Che se anche
qui per avventura è
possibile un accordo e una
rispondenza tra la speculazione del
filosofo e l’osservazione induttiva
e deduttiva dello scienziato,
in verità non si cerca
di meglio. In cosiiFatto
accordo si avrà
la guarentigia più sicura
dell' ottimo indirizzo
cosi dell' una
come dell' altra sfera
di scibile. Se il
Fatto à il
diverso, non solo
considerato qual termine di
conversione col generato,
ma anche avvisato in
sé stesso, avviene
che, nel convertirsi
con sé medesimo, e' debba manifestare
varietà di momenti
e passaggi e transiti, e
quindi intervalli e
tjontinuità nell’esplicazione delle
sue forze. Vuol essere
insomma, ripetiamolo, un vero processo, che
è dire svolgimento, conversione, creazione,
anziché una serie
di semplici trasformazioni e d'
increscevoli rimutamenti di
forma. Vuol esser quindi
un passaggio incessante
ed essenzialmente dinamico dalla
potenza all'atto, dall'omogeneo all'eterogeneo, per
usare anche qui
la frase di Spencer, dall'indeterminato al
determinato, e però
dal genere alla specie,
e dalla specie
all' individuo, per
finire nell' individuo capace d'essere
o di rappresentare
insieme nella sua virtù
il genere e
la specie. Tre
sono i sommi generi del processo cosmico;
e altrettante le
fermate o, per così
dire, i momenti
dell'attività creatrice. Tre sono
dunque i processi
speciali e differenti
attraverso a cui il
Fatto si fa,
e che potremo
appellare fisico, orgor nicOf
e storico-sociologico od
umano; e tre
sono quindi gli anelli
della gran catena;
Forza, Vita e
Pensiero. Fra questi tre processi
ci ha differenza
e medesimezza, e però
intervalli e continuità:
ma né questa
continuità è di natura
materiale, né quell'
intervallo é un
semphce passaggio alla maniera
che lo intendevano
e lo intendono,
come notammo, gli
aristotelici empirici, ed
i moderni materialisti. Fra il
processo fisico e il processo
organico, per esempio,
ci è continuità
ideale, e quindi intervallo
reale; stantechè non
sia la Forza che
diventi Vita, né
la Vita che
diventi Pensiero, ma è
la forza che
passa ad esser
vita, e la
vita pensiero. E nel
pensiero compenetrandosi non
già sovrapponendosi od assomandosi
le prime, abbiamo
nel medesimo tempo r
attuazione della forza,
e della vita.
Il passaggio quindi, come
accennammo, non è
semplice trasformazione, ma è
transito, è passaggio
nello stretto senso
della parola (iyipyetò: aTi>>i;), eduzione
(eductio entìs ad
actum)y e perciò creazione.
Se intanto nel
passaggio vi ha
intervallo, cotesto
intervallo non è
egli davvero un
salto che fa la
natura? L'intervallo superato
dalla stessa natura è
precisamente la conversione
del fatto nel vero;
è r energia creativa;
è il vero
passaggio dal nulla
all' essere, dalla potenza
all' atto: ed
ecco il significato
della creazione ex nihilo.
Dunque l'intervallo per
noi non è (come
altrove toccammo) quel
che per gli
antichi era i) diastema
e il cenon;
negazione, vuoto, nulla.
È anzi pienezza d'essere,
attuosità vivace, conato
(to Juvarov), perocché ci
rappresenta il momento
in cui la
continuità ideale tende a
diventar reale. Ai
due capi della
catena poi vedemmo esserci
due intervalli; psicologico
l' uno, e metafisico l' altro.
U primo dicemmo
potersi superare mercé la
dialettica ascensiva, poiché
qui il fatto, già convertitosi con
sé medesimo e
perciò divenuto forza vita
e pensiero, si converte
quinci col vero, eh'
é dire col primum verum metaphysicum:
mentre il secondo é
superato dall'essere stesso
con la dialettica
discensiva, secondochè ci addimostrano
la formola metafisica
e la formola cosmologica
di Vico. Queste sono le
due leggi universali, o
meglio, le due condizioni dell'attività
creatrice di natura.
In virtù di esse
é possibile una
scienza cosmologica razionalmente positiva, poiché
in esse sta
il nodo di
que' dibattati e YÌtali
problemi su la
generazione, su la
genesi spontanea, su l'origine
delle specie. Né
il Platonismo, né l’Aristotelismo, né
alcuna dottrina che
risalga a queste due
sorgenti, ci potranno
dar mai questa
doppia legge. Nell'uno fa
difetto il concetto del
processo; nell'altro questo processo,
ripetiamolo, è passaggio
empirico> meccanico,
generativo, ovvero logico
e formale.' Ammessa quindi
la legge dell'
intervallo nell’attività
creativa di natura,
verremo capaci di
correggere il vieto concetto
cosmogonico del teologismo
e dell'empirismo. Il vecchio naturalista
contro il teologista
pronunzia, che natura non
fadt saltum. A
salvare il deus machina il
teologo risponde, che
natura fadt sattum; e
questi salti per
lui sono altrettanti
atti immediati del Demiurgo.
Ora la verità
non istà dall'
una, né dall' altra
parte. Naturalisti, sperimentalisti, deterministi, positivisti hanno
ragione a non
credere ai salti; ma
non ha torto
il teologo se
dice che la
natura procede per creazioni
ed atti creativi
diversi. Il positivo qui dove
sta? Neil' accettar
l' una e l' altra
affermazione, e correggerle entrambe.
La natura, certo,
non fa salti; non
v'essendo ragione perché
ella non proceda continua nella
ricchezza e fecondità
delle sue produzioni Ma
eccoci al punto
1. Questa continuità (continuità materiale, fisica,
sensata) ha luogo
entro la sfera. Ma
anche in questa
dottrina Aristotele potrebb
essere difeso, chi lo
interpretasse benignamente. Se
pel Platonismo il divenire
e il generarsi, ha
luogo per l’essenza, per l'
idea che
attua la cosa
e la scorge e
la determina; per Aristotele, al
contrarlo, l’indeterminato procede
al tUterminato qucdUativo per
sua propria energia.
Fra i molti
passi che potrei addurre
mi contento di
questo che si
legge nella Metaph.: Uòrtpov
ouv iv^i tic
(Ttfatpa uxpot. raqSi
Xf oixiu vK^pct TOtc
oXcvdouC} i 01» J*
av aoTf iytyvexoy
ti ovtwc tJv,
róSt ri; àXXa tÒ
Toióv^c vrifjLaivtiy róSt
Sé xai (upurixivov
oux tf(r7(v, àWà trotcì
xac' 7evvà ex
totJ^s rotov^s •
xat orav 7«vv>30i7,
Ìt^i ro$t rotòvBt. È nna
prova di più, come si
vede, della possibilità
di rintracciare e dimostrare
nell'Aristotelismo, anche in
siflbtta ricerca, r indirizzo
medio della speculazione filosofica
contro gì* interpreti
empirici e contro gì*
iperpsicologisti che il
generarsi delle cose
in Aristotele traggono
in due e
contrarie sentenze opposite. d'una specie,
d'un genere, d'un
ordine, anziché nel passaggio
dall'uno all'altro. Se
così non fosse,
la natura non sarebbe
guari natura, non
sarebbe creazione, sibbene ripetizione
sazievolmente monotona d' individui. E non
meno ragione ha il teologo
o il neoplatonico
che sia, nel pretender
che la natura
proceda a salti;
ma non ha niente
ragione a predicarci essere il demiurgo, proprio lui,
quegli che la fa saltare.
È ella stessa,
è la stessa potente
e feconda natura
che si muove.
E si muove per
qualcosa che non
sopraggiugne dal di
fuora, anzi sgorga dal
di dentro. Cosi, e
solamente così, è
possibile l' autogenesi del mondo.
Chi non sia
disposto ad accettarla,
romperà senza rimedio contro
Scilla, o Cariddi; che
vuol dire contro uno
de' due soliti
estremi. Come intanto s'inaugura,
come si svolge
e come si assolve
egli il Processo
cosmico? Delu attività creativa ne'
diversi momenti del
processo cosmico, se l’attività
creatrice di natura è
una Conversione del
FaUo nel vero, ella
non può esplicarsi altrimenti
che per gradi,
per momenti diversi, e
quindi per intervalli
e per continuità ideale.
Il processo cosmico, dunque,
è universale. Ed è
universale principalmente
perchè, secondo la
frase di BRUNO, racchiude in
sé, quasi circolo
più ampio altri
piccoli circoH, il triplice processo Fisico,
Organico e Sociologico.
Così la legge che
governa il tutto
come le parti
è sempre la stessa:
è la gran
legge del trasformarsi
e del rintegrarsi
perpetuo, progressivo, incessante
delle forze universali e
comuni di natura.
Perciò è il
numero che [lIB.
H. sempre più volge
ad unità; è l’indeterminato, l’omogeneo, l'indefinito (tò
uopiiTòv) che procede
al determinato, all' eterogeneo,
al perfetto (tò
TsXitov).* Se tale dunque
è la natura
di quest' universal
movimento che dispiegasi nel tempo,
in che maniera
potrebb' esser un incessante
cangiar di forme
e di fenomeni?
Se cosi fosse, quest'universo sarebb'
egli un cosmos o non
più veramente un increscevole
ed eterna monotonia
d'apparenze fenomenali,
ovvero un caos?
La legge del processo cosmico dunque è legge
di creazione; è
legge di coixyersione, anziché
di semplice trasformazione. Col processo fisico si
genera la forza;
e la forza
è subbietto omogeneo, sintesi
confusa, numero e
unità generale, unitotalità vaga
e indeterminata. Cotesto
Processo fisico si sdoppia
nel Processo organico
nel quale si genera
la vita; e la
vita è numero,
eterogeneità essenziale, essenzial
dualità (vegetale e
zoologica). Nel processo
istorico-sociologico,
finalmente, si genera
lo spirito, il
pensiero; ed è un
ritomo all' unità,
ma come triplicità.
La forza quindi si
converte nella vita,
come la vita
si converte nel pensiero.
Unità, dualità, dualunità:
Forza, Vita e
Pensiero. Ecco il processo cosmico,
ed è sempre
il Fatto che si
converte nel Vero,
perocché è sempre
il conato, il medesimo,
che si
fa diverso per
intervallo. Come intanto. È
il vecchio principio
per cui si
distingue l’indirizzo medio aristotelico nella dottrina
su le forze
fisiche, organiche e
organizzate: *H $i fxJffi^
ffivyet tÒ aTrci^ov
* to fiiv
yoip anstpov otTtlsq,
Si «vece «s(
K^Ttt TsXoc (I>e
(7en. an.). E
più chiaramente ancora: 'Aft
yàp €v Tw
efslivii vppxst xo
upOTspov {De An.).
La scienza moderna non
ha fatto e
non fa che
confermare questo principio aristotelico; ed
è quel medesimo
pronunziato che lo
Spencer considera siccome chiave del
processo cosmico. Ma
avvertimmo già l’aspetta manchevole delle dottrine
del r illustre scrittore
inglese; che, cioè,
se il processo cosmico è
davvero una creazione,
è forza che
nella sua natura altro
non possa essere
che uua teleologia, un processo essenzialmente
teleologico, a partire dall'etere, dalla
materia nebulare indeterminata, e scendere
giù giù fino
all'atto estremo, alla
forza che diciamo
pensiero. Questo dato vitalissimo
manca allo Spencer
nonché ai Positivisti e, come
vedremo, a' naturalisti
Darwiniani. E pure, chi
ben rifletta, è un
concetto essenzialmente poeitioo^
perchè è un
fatto. rivelasi la prima
conversione del fatto?
In altre parole:
in qual modo
s' inaugura l' attuosità creativa
dell'universo? La natura
comincia con Tesser
conato. Ella dunque comincia come
sintesi iniziale e
confusa: ella s' inaugura come
materia metafisica (Vico, De
Antiqui^.). La nuiteria metafisica alla
qaale più voite
accenna confasimente Vico e
che SERBATI, come
toccammo, non interpreta
convenevolmente,ò neir ordine
cosmico e naturale ciò che nell'
ordine psicologico ò la
luce tnetaJUica. Nel
passaggio, nell’intervallo in
generale, ha luogo nn
novello conato, eh' è
il momento creativo,
il parto {a/orno
impedito) della natura; e
quindi racchiude qualcosa
d’intimo, d* universale,
di metafisico, d'iperfisico, di soprassensibile. Ecco
perchè talora in Vico nonv' ha divario nelle parole conato, momentOf t/orto
impedito, luce meta/i»
nea^mcUeria metaJÌ9Ìca,virtue^vi», dvvxfJLi^y
«vT«).ffXJeav, e simili.
Però è facile incontrarvi
qualche sentenza di
questo tenore: Lux
metaphyeica §eu eduetio virtutum
in actue conatu
gignitur. Perciò se si
vuole interpretare a
dovere la sua
mente, il valore
della parola conato, nella
quale pone radice
la novità della
cosmologia vichiana e leibniziana, è
questo : che il
conato per lui
sia il principio
concreto, reale, vivente della
natura: che sia
perciò relazione la
qual comprenda e
annodi in organismo vivente
i tre processi,
e per cui
risulti come la
molla secreta deir intero
Proceeeo eoemólogico, È la relazione
concreta, e reale
del fatto col Vero;
cioè del Fatto
che, in quanto
divereo in sé,
diventa Vero. In una
parola, è la
eoetanxa della natura,
come fra poco
vedremo, e perciò
è Vdpx^ xivKj Tcwc
d'Aristotele (AfetopA) ma corretto
profondamente, e però trasfigurato
e legittimato, stantechè
non sia altrimenti
un principio di movimento
ipercosmìco, ma nn
principio essenzialmente eoemico, essenzialmente naturale;
e perciò è
lo stesso movimento
che, in quant'
è motOf si rivela
come autogenito. GIOBERTI che ha un
senso isterico divinativo tutto
suo nel saper
cogliere in certe
sentenze l'aspetto originale d’una dottrina,
non dubitò scrivere
che la teorica
de' punti e
del i eoncUo di
Vico ì il
perno del tuo
eietema; aggiungendo che
per questa parte egli
è arietotelico e
platonico ad un
tempo (Protol.). Che la dottrina
del conato sia
il perno della
sua cosmologia, nessun
dubbio; ma la cosmologia non è la
sua metafisica. È dunque il
perno, è la
molla della sua formola
eoemoloffica, non già
della sua formola
metafiica: il perno di
questa seconda è
ben altro. Che poi
in questo egli
sia aristotelico e
platonico insieme, è vero;
ma è tale
in quanto corregge,
trasforma e compie
i due vecchi filosofi, e
perciò in quanto
li accorda. Nel platonismo il
concetto del conato, al
modo che è
inteso da Vico, non
ci è, e
non ci può
essere, come si può
ricavare da tutti
que' luoghi ne'
quali siamo venuti
accennando rapidamente a quel
sistema. Può esserci,
e vi è
di fatto in
Aristotele, ma confuso e
indeterminato cosi che
non si lascia
riconoscere facilmente. Al qual
proposito mi sia
qui lecita nn*
osservazione isterica. Ma se
la natura comincia
con l’esser conato,
appunto perchè conato ella
dev' esser riguardata
sotto doppio QualcQDo potrebbe
confondere questo conato
del filosofo napoletano con la
monade leibniziana, o,
pegfifio, con 1*
?pe$(? aristotelica. Lasciamo della prima
perchò ne dicemmo
qualcosa in altro
luog^o. Qnant'al secondo osserro
che tra Voptl^ii
dello Stagirita e
il conato àe\
nostro filosofo, ci è
profondo divario. Accennammo
già qualcosa riguardo
alr aspetto esagerato della
«aiMo y!iMi2« d'Aristotele.
L'ó^e^cc certamente è designato
da lui qual
moto 9pontaneo; e basti
per tutti questo
passo: Kcvftrac yoLp to'
xivouufvov t? òpiysrat^
xat 17 xévTio'c;
rtc opsl^ti t»spytia. {De
Xn,)! Ma ò
poi veramente tale,
voglio dire essenzialmente spontaneo
cotest’opegi^ d'Aristotele? Non
sarebbe più tosto un
residuo del maestro
passato nella mente
dello scolare ? Aristotele,
avvertimmo, rompe la
terie predara in
due modi; con 1'
intdllgibUe venuto di
/uorOf BvpstOiv, e con
la causa finale, cioè,
col dender€tb%le [70 òptxTÒv
xat to' voutÓv).
Luce per ribtelligenza, dunque, e
calore per la
volontà vengon d'altronde;
e però chi
determina tanto il peneiero,
quanto la tendenna,
è il pensiero
divino. {Eih, Eud.). Ora
dunque 1* opeHc'c
per Aristotele non
può esser davvero
spontaneo, se no si
contraddice. E tant*è
vero che la
natura per lui
non ò propriamente attiva per
so, che non
mancò, fk'a' vecchi
aristotelici, chi pigliasse a
dimostrare come in
Aristotele, in forza
del suo medesimo
sistema, debba aver luogo
la causa efficiente. Se Dio
infatti ò canea finale^ per
ciò stesso ha
da essere anche
canea efficiente; tanto
pareva ad Ammonio (il
primo a dare tale
interpretazione) che Aristotele
dovesse mettersi in accordo
con Platone (Yed. Rayaisson). Dunque l’ops^i^ noir
Aristotelismo ò ?^e^cc
non per essenza
propria, ma in grazia
d’un determinante estrinseco,
d’un’infiuenza eeteriore; la quale
influenza non essendo
stata chiarita nettamente
nella sua natura dal
filosofo di Stagira,
ha fatto e
fa si che
molti i quali
si studiano d* interpretarlo
benignamente, credano d'aver
buono in mano
per assumerne le difese,
e fino a
certo punto riescono
ad aver ragione.
Sennonché il vero concetto
dell'o^sHcc, che in
parte risponda al
conato di Vico e
rappresenti perciò r indirixMo
medio in siffatta
quistione, sarebbe da
riporre piuttosto nella nozione
di svipyna aTf>>i:, la
quale è appunto
attiva per sé, ò
attiva per virtù
propria, essendo ciò
che esiste in
potenza, ma in quanto
s'avvia all'atto; e
s'avvia per sé
medesima, non per
un altro; s'avvia e
procede per propria
essenza: 'O^óc ttQ
ouTiav {Metaph.) In
altre parole è
ciò che, imperfetto,
non ha il
fine in so stesso,
e quindi lo
cerca. E lo
corca non perchè
ne sia attratto
(platonismo 0 aristotelismo platonico),
ma k1 perchè
ne ha bisogno.
E se lo cerca
e ne abbisogna,
vuol dire che
questo fine non
potrà essere un'illusione addirittura. Perciò
Aristotele determina il
concetto del moto cosi:
Twv apy.^£Mv eiv
«tt/ taipoc ov^sjMca
tjXoc, àWà t«v tapi
To TsXo;. {Metapk.).
Ci slam voluti
intrattenere un momento su
questo particolare non
solo per chiarire
il concetto di
Vico sul conato ma
anche por mostrare l’attinenza ch'esso
ha col concetto
del rispetto. Anche del
Primo cosmologico possiamo
dire qael che dicemmo
del Primo psicologico:
egli è una
testa di Giano; ha
due facce. Il
conato adunque è
due cose, non una:
è punto e
momento (cf«7ft*i^ v) materia
e moto, estensione e
forza: ma e
punto e momento di
natura metafisica che vuol
dir di natura
potenziale, virtuale,
soprassensibile, semplice, indivisa,
universale. In altre parole,
il conato e
attuosità concreta e
reale; ma non è,
a dir proprio,
né moto, né
estensione, bensì virtii
di moversi, e d'estendersi: e come virtù,
come potenziaUtà, esso in
generale é un
soggetto identico. Punctum et momentum
unum sunt, e
quindi é nel
medesimo tempo numero e
unità, dualità e
unità, polarità originaria,
e perciò é unitotalità
originaria, concreta, universale.
Ora il conato in
quanto é punto,
materia, cioè in
quant' é soggetto potenziale,
recettivo, indeterminato, omogeneo, indefinito e
indefinibile, é il ro Ssrspov;
è la wa/xcc
come pura capacità; in
somma é il fatto
semplicemente detto; il fatto in
quanto è termine
di conversione dialettica
coi Grenerato. Al contrario,
in quanto é
momento, ciò é dire
materia e moto,
estensione e forza,
to' Strtpov e to'
notilo e però
to warov, é il fatto in
quanto è termine di
conversione cosmologica; è il fatto in quanto
é conversione di sé
con sé stesso;
e quindi é
sostanza semplice, sostanza universale,
sostanza indivisibile in sé,
ma divisa nelle
cose che sostiene.
Brevemente: il conato, guardato
come puro fatto, cioè
come termine posto, é
potenza in potenza,
come direbbe Aristotele (^uvfltfii; ^uvot^n);
guardato invece come
termine che si pone,
come soggetto che
si fa, egli,
per dirla con le
significantissime parole di
Vico, é for/pa
che si fa
dentro moto aristotelico, il
quale, inteso a
doTere, nono tale
quale d’ordinario Tiene interpretato
dagli hegeliani. £ ci siamo
trattenuti anche perchè quest'ultimi non
abbiano a pigliare
il concetto del
conato per Vopt^i^ giacché nel
conato del nostro
filosofo non ci
è necessità dialettiche,
nò relaiioui di finalità
come neiriperpsicologismo aristotelico
fecchio e nuOTo. Il
conato del Vico
non è propriamente
VEatcre, nettampoco il NoH-ctnrc;
dunque non sarà nemmanco
U Divenire: ecco
tetto. di sè medesima:
perchè? precisamente perchè
SFORZARSI È UN CONVERTIRSI
IN SÈ STESSO;
0 perciò è sostanza
che si sforsa
a mandar fuori
le cose. Che
il ùonato nel
concetto vlchiano sìa
la sostanza delle
cose e costituisca perciò
il nerbo della
sna formola cosmologica,
si pnò rìcaYare
agevolmente da queste
sentenze. Che cos*è
la sostanza? Sattanza, in
genertf d ciò
eke »ta 9otto
e 90$tiene la
eoaa; indivitibile indivisa nelle cote
eh* ella fottiene,
e $oUo le
dìvite cote, quantunqtu
disuguali, vi §ta egualmente,
(Risp. al Giom.
de Lett,). Questa
deflnizione non ha che
vedere con la
definizione spinoziana: id
quod existit a te et per
«e. Sono
entrambe definizioni nominali,
e però vere
o falso flnchò
non se ne faccia
applicazione. Dal modo
con che applicolla
Spinoza, venne fuora il
suo panteismo acosmico
geometrizzato, con quella
lunga sequela d* assurdi
che ognuna conosce.
Vico 1’applica al fatto
in quanto si fa vero,
non già al vero
che si converte
col generato; e perciò
riesce a schivare ogni
maniera di panteismo.
Infatti egli dice:
Quello che i moto
ne* corpi particolari,
neiVunivereo moto non
è; perchè V universo
non ha con ehi
altro possa mutar
vicinanze. Dunque è una
forza OHB fa DRNTBO
DI sà MBDESiifo:
questo in s^
stesso sforzarsi, ì
uno in sa
strsso convertirsi. Ciò non
pud eseere del
corpo, perchè ciascuna
parte del corpo avrebbe
a rivoltarsi contro
di sè medesima.
Onde questo sarebbe
tanto, quanto le parti
dd corpo si
replicassero. Dunque, dico
io, IL CONATO non
è dd OORPO, ma
deU* UNI Visse
del corpo. Tutto
ciò è chiarito
e confermato da quest'
altra sentenza; Virtus
est extensi, e
perciò prior extenso
est, soUicet inextensa. {De
Antiq.). E spiegando altrove
il valore di
quest* ultimo concetto,
dice: Io mi
servo eie* vocaboli di
virth e di potetaa
appunto come se ne
servono i meeeaniei,
appo i quali
sono voci oelebratissime: con questo
perciò di vario;
cA' essi (parla
de’ Cartesiani seguaci
detta dottrina meccanica) V
attaccano ai corpi
particolari, ed io
dico esser dote
propria e sola dell*
universo. (Risp. al
Oiom. De’ LeU.),
E tornando al
suo concetto gradito del
conato, dice plh
aperto: Nel mondo
vero e reale
vi ha un che
invisibile che produce
tutte le cose.
Ancora: Uno è lo
sforzo delC universo,
prrob2 dell* univrrbo:
ed è l’indivisibile centro
cui non è lecito
trovare nell’universo (esteso),
e cAe dentro
le linee deUa
sua direzione tutti i
disuguali pesi sostenendo
con egual forza,
tutte le partieo' lari
cose sostiene insiememente
ed aggira. Questa
è la sostanza
che si SFORZA mandar
fuori le cose. È
impossibile commentare queste
sentenze. Ci vorrebbe
un capitolo per parola;
e alla fin
fine poi non
riesciremmo che ad
una freddura, ad una
ripetizione fiacca e
sbiadita. Bisogna dunque
farle soggetto di
meditazione severa, tramutarsele
in sangue, e
col loro sussidio
interrogare! fenomeni e le
leggi del mondo
sensibile. Posti intanto
questi principi!
cosmologici, ecco alcune
norme metodiche per
la filosofia della
natura e delle scienze
naturali: In fisica
si trattano le
cose per termini
di eorpo t di
moto; in m^afisioa
trcUtar si debbono
per qudli di
sostanza e di
conato, E come U
moto non è
altro realmente che
eorpo, cosi il
conato altro realmsnU non
sia che sostanza,
L’ altro domma metodico
riSe questo è
il cardine della
cosmologia del nostro
filosofo, le conseguenze e
le applicazioni che
se ne traggono riescono supremamente
feconde, positive, originali
in tutte quante le
sfere delle scienze
di natura, dalP
astronomia alla fisiologia, dalla
meccanica celeste alla
zoologia e alla zoopsicologia. Noi
non possiamo intrattenerci
in queste applicazioni, e
ce ne duole.
Ci ristringeremo ad
accennarne qualcuna, e rilevarne
l’aspetto originale; e innanzi
tutto quella risguardante
la dottrina del
Cronotopo. Se la sostanza
cosmica è una,
indivisibile e divisa nelle
cose a cui
sta sotto egualmente
per diseguali che queste
siano, i modi
essenziali e primigenii
in che ella si
determina, sono lo
spazio e il
tempo puri: punto
e momentOj virtus extendendi
e virtus movendi.
Sennonché la virtii d' estendersi, logicamente,
va innanzi alla
virtù del moversi, al
contrario di ciò
che pensa il
Gioberti; poiché, al solito,
se il Fatto
come diverso in
sé vuol essere un
processo autonomo, avviene
che la prima
forma di conversione, la
prima individuazione cosmica,
debb' essere il punto
che divien momento;
debb' esser la virtù d'estendersi
che si gemina,
e assume valore
di virtù motrice. Perciò
la sostanza in
quant' è virtus
extendendi, inquant'é pura
capacità, è V
altro, è il
diverso, è il fatto
come posto, e
però è lo
spazio infinito, la cui
prima determinazione è
ciò che domandasi
etere da’moderni. In quanto
poi è virtus
movendi, cioè atto,
diverso gniardante lo stadio
delle leggi fisiche
ò questo: L’unica
ipoteti (cioè finzione speculativa) per la qwd
dalla MetaJUica ndla
Fisica discenda giammai ti
po99a, netto le
matematiche; e che
il punto geometrico
eia una SOMIOLIANZA
del metafieicOf dot
della sostanza; e ch’ ella
aia coea che
veramente t, ed i
indivisibile; che ci
dà e sostiene
distesi uguali con
egual /orza: perche per
le dimostnxzioni del
Galilei ed altre
piene di meraviglittf le disuguaglianze quanto
si vogliono grandi,
ritirandoci al lor
principio indivisibile, cioì ai
puntiy tutte si
perdono e si
confondono. (Ibi, 174),
ti appena bisogno d*
avvertire che con la sua
dottrina cosmologica ei non fa che
interpretare ed elevare
ad altezza metafisica
positiva V esigenza
del metodo Galileiano. Nelle
lor relazioni ideali
Galileo e Vico
si richiamano a vicenda.
(Ved. il nostro
Disc. DanU, Galileo
e Vico, Firenze,
Celliul). L'esistenza dell’etere od
abaro (come con
ragione vuol chiamarlo il
nostro valoroso e
valente Colonnello Pozzolinì)
che per i
fisici è una in
$èj 0 Fatto
ohe si fa,
la sostanza è
il cominciamento originario, autogenito
della natura, e
perciò indipendente da Dio.
Ed è affatto
indipendente da Dio
nel suo svolgimento, e
però nelle sue
leg{2p, appunto perchè, come
fu mostrato, Dio
pone il mondo
non già come attuale,
anzi come potenziale.
Perchè dunque il
punto diventa momento? Per
necessità della propria
essenza: vo' dire perchè
è diverso in
se; perchè è
sformarsi che è uno
in sé stesso
convertirsi. Se adunque
come materia il conato
è confusione, impenetrabilità, pura
capacità; come virtù di
moversi, invece, è
cominciamento d' ordine,
inizio di cosmos
finteli' atomo, nelP
esteso metafisico il quale,
essendo medesimezza e
differenza in atto, rappresenta
perciò la prima
dualità in cui
forza e materia formano
un medesimo subbietto. ipoteti della
quale non possono
in yenin modo
prescindere, nella fonnola cosmologica di
Vico, invece, assume
valore di teti. Essi
non sanno dir che
cosa sia quest'eeere.
Noi sanno oggi
e noi potranno
saper mai: perchè? Per la
semplice ragione ch*ei
trascende la mente: e la
trascende in quanto che
riguarda un’attinenza della sostanza come
potta, non già della
sostanza come causa,
come forza. Perciò
riguardando il dato della
creazione, ne Tiene
che, por intendere
questo dato in
qualche maniera, bisognerà filosofare;
e per filosofare
in modo serio
e positivo e
razionale bisogna ricorrere alla
formoUi cosmologica del nostro
filosofo. Non V’è scampo:
o questa formola,
oppure il concetto inintelligibile, grossolano e
balordo d*una materia
concepita qual ricettacolo
assoluto e generativo d’ogni
cosa : eh' è
propriamente (chiedo perdono
a tutti i materialisti e
meccanicisti vecchi e
nuovi) un concetto
da cretini! Dunque il
cronotopo non è,
come pretendono i
Leibniziani, la successione e
coesistenza di punti
e di momenti;
teorica al tutto
empirica la quale non
ispiega nulla di
nulla, perchè non
addita la ragione della
coesistenza. Non si
può dir nemmeno
pertinenza deir Assoluto
in quanto ì l’Idea ad
extr(h Videa come
potnbUità infinita (GIOBERTI,
ProtoU, Sagg. Ili); ì°
perchè non s'intende
che cosa mai
sia codest'Idea ad extra;
2 perchè s*ella
è pottihilità infinita, come tale
appartiene al Fatto, il
quale in quanto
conato è precisamente
un' infinita po$9ÌbilitiL
Non è poi relazione
tra U finito
e l’infinito (FoRNABi,
DeW Arm. Univ.
DiaL I) perchè, se così
fosse, dovendo i
termini partecipare alla
natura della relazione, ci
avrebbe a essere
spazio e tempo
anche nell' infinito! Finalmente non è
la prima e
immediata esistenza detta
Idea (SPAVENTA, Mem, mi
Tempo e tulio
Spazio, negli Atti
dell' Accad. di
Nap.), perchè l’Idea è incapace
di rivestire spazialità
e temporalità per le
ragioni altrove accennate. Dunque che cos'è
cotesto cronotopo? È
precisamente il conato;
Abbiamo detto che l’atomo
è l' esteso metafisico. Esso dunque
è la compenetrazione del
punto, e del
momento: è il
punto divenuto momento;
è la virtù
d' estendersi che s' estende in
quanto si move.
Neil' atomo perciò, neir
esteso metafisico, trova
pienissima applicazione il pronunziato
del Vico: ptmctum
et mofnentum unum sunt
In altre parole:
che cos' è l’atomo? È l’ estrema realtà (non
astrazione) cui possa
poggiar la mente. Dunque
è la prima
realtà onde move
la natura. Anche in
seno all'atomo quindi
si dee verificare
ciò che i
fisici oggi riconoscono in
molti fenomeni; il
principio della polarità. L'esteso
metafisico è un'essenzial
dualità; è forza e
materia in atto;
è la determmazione
originaria, autonoma della doppia
virtii estensiva e
motrice. Dunque è la
prima conversione del fatto,
in quanto il fatto
è un subbietto
diverso in sé.
Perciò è il
primo momento della creazione
propriamente detta: il momento
solenne in cui
la forza, nascendo
nella materia (non dalla
materia), si crea.' ma
il conato in
qnanto ò polarità
essenziale, essenzial dualità.
È la sostanza stessa
del mondo in
quanto ha una
doppia faccia: estensione e
forza; wirhu extendendif
e virtù» movendi.
Ora se il
conato è un
subietto essenzialmente
duplo^ essenzialmente polare, ì moderni fisici
non possono, non debbono menomamente
ripudiarne il concetto,
che anzi accettandolo, giungerebbero
a spiegare più
d' una loro
ipotesi. Chi dunque dice
fona, dice ereazione:
ecco il rero
dinamismo, il dinamismo positi?o.
Perciò erra tanto
il materialista grossolano
quando afferma ch/D la forza
naaea dalla materia,
o ne sia
una pura e semplice
determinazione; qnanto il
dinamista puro (Hibn,
Cotuiquence» phil. et mHaph. de
la Thirmodinamique, Paris) che
pretende concepire la fona
anteriore alla materia! La forza Don
nasce dalla materia,
o per la materia.
La forza si
pone, e perciò
si crea nella
materia. Il suo
nascere è creare nel
Tero senso della
parola; è uscire
ex nihilo, E
qual è il
nulla f Il nulla
del filosofo cattolico, no:
cotesto nuUa ò
impossibile, perchè ò inconcepibile. Dunque
è la materia,
ma la materia
considerata come puro Fatto,
come pura capaciti,
come possibilità. Platone
la diceya ricettacolo, e diceva
benissimo. Dov'errava? Errava
gravemente nel determinare il modo
con che nel
contenente sorga il contenuto. È precisamente l’errore
del materialista moderno. La
forza, dice questi, suppone
la materia. Certamente! ma
non ò pnra
e semplice trae/ormanane
o modiJicoMione o qualità
di materia. La
materia in qnanto
diventa forza è
conato: e perciò (ripetiamolo) ò
intervallo già superato;
ò atto propriamente
detto, e Se intanto
l'atomo è an'essenzial
dualità, in esso è
l'esigenza dell'altro atomo, delle
molecole, del corpo,
dell'organismo atomico. Ma ecco
tosto nn dilemma:
o l'atomo è semplice,
o è composto.
È egli semplice?
Dunque non può dare
il composto. È
egli composto? Dunque richiede il
semplice. Dilemma seriissimo,
davvero. L'atomo non è
l'una cosa ne
l'altra; o, più
veramente,, è r una
cosa e l' altra
insieme. Se l'atomo,
è conato, momento in
cui la materia
e la forza
si compenetrano; come dirlo
semplice? come dirlo
composto? Pertanto se l' atomo
è conato, perciò
racchiude l' esigenza degli altri
atomi. Dunque? dunque
l'atomo non ha figura
in quanto è
un esteso metafisico,
ma ha figura
in quanto si marita
e si converte
con altro atomo:
la figura è un
risultato. Or se l'
atomo è
virtii d' estensione che si
attudij avviene che,
come tale, e' debba
essere attrazione: e s'egli
è virtii di
moversi in atto,
avviene altre che, come
tale, e'debb'esser moto
essenzialmente rotatorio} Se dunque
1' atomo in
quanto conato è insieme identico e
diverso, perciò è
in sé, e
fuori di se;
è per sé, e
anche per l’altro; abbisogna
dell' altro. Per
questa comune proprietà gli
atomi ci rendon
quasi immagine delle idee
platoniche, la cui
vita sta nell'
essere essenqaindi è
atto naovo, atto
creatÌTo. Eccoci al
miracolo! sento grridarmi. Precisamente al
miracolo: ma gli
è nn miracolo
essensialmente naturale,
unlversaie, necessario; e per
consegnenza non ò
miracolo. Se dunoue
VeaUto metafinco è la
forza in quanto
si genera nella
mcUeriiif ne viene
cne VaUnno ha da
essere tutt* altro che
inerte. Anzi è
la materia, è l’etere,
è l’abaro, è quel quid
nebulare primitivo che,
da unità indeterminata, passa
ad essere anche forza,
profonda energìa in
cui e per
cui sMnaugura il
Prooeeeo fieieo. Se così
non fosse, io
domando, come farebbe
il chimico ad
intender le leggi deir
affinità? E se
così non fosse,
la moderna dottrina
delTatonicità non andrebbe
in fumo? ' Questo
è il moro etemo
e continuo dell’Aristotelismo, cagione
d'ogni moto, il quale
perciò non può
non ettere un
moto circolare nello
epaxio {Phye,, Vili, ix),
e come tale
è moto naturale
d'un elemento eempliee
du non ha contrari
{De Cod., I,
li). Al motore motto bisogna
sostituire il conato. E il
moto circolare non
avente contrari bisogna
darlo all’essenza stessa dell’atomo,
dell’eeteeo metafisico. Ecco una
delle correzioni vitali della
cosmologia aristotelica richieste
logicamente daU' indirimco
medio. zialmente relative. L' atomo
qaiadì, in quanto
è medesimezza, è attrazione;
in quanto è
medesimezza e diversità, è
rotazione e circolarità.
Dunque può dare
origine al moto per
induzione e rivoluzione,
che à moto secondario e
derivato. Or questa
legge si verifica
in una lunga serie
di fenomeni; luce,
elettrico, calorico, magnetico.' Si verifica
ne' grandi coi*pi
dell' universo. Perchè non
dovrà verificarsi altresì,
e principalmente, in
seno alla stessa vita
intima degli atomi?
Attrazione e rotazione, dunque, riduconsi
ad un sol
fatto primitivo, universale, assoluto. Il conato
è moto essenzialmente rotatorio ;
e quindi è
la sorgente prima
d' ogni e qualunque forma di
moto. La legge
di rotazione perciò
è legge universale; ed
è la sostanza
stessa cosi delle
grandi, come delle piccole
masse: Questo in se stesso
sforearsiy è uno in se stesso
convertirsi.* Le conseguenze di
questa dottrina cosmologica
sono evidenti, originali, modernissime. n vuoto
è un assurdo;
perchè è un
assurdo il nulla.' Esiste dunque l’universo infinito;
ed è tale
non come mondi, ben^i
come conato, come
sostanza universale
determìnantesi ne' due
attributi essenziali della
spazialità e temporaneità pure.
È un assurdo
il moto comunicato, perchè è un assurdo
che la forza
si rompa, si scinda,
si divida: senza
dir già che, se è
vero che la forza debb'essere anche
materia, la comuniccmone
del moto importerebbe la compenetrazione e
insieme la inerzia
degli atomi, ciò che
costituisce un doppio
assurdo. È uYi '
Ved. a questo
proposito la bella
Mem. di POZZOLINI (si veda) {Indumone delU forte
finche, Bologna), Baudrimoni,
Atomologie e le tre Memorie
eu la atrtUtura
cUi* Corpi. (Bordeaux) *
Ved. la Mem.
su la Legge
univeraale di rotazione
del nostro amico prof.
Bàrbera, della quale
accettiamo in gran
parte la dottrina
perchè ci sembra un'applicazione rigorosa
de*principii cosmologici di
Vico. Di BARBERA merita
esser letto il
discorso stupendo sul
Newton e la
Filoeofia Naturale (Napoli). La memoria poco
fa citata di POZZOLINI,
come questi due saggi
del BARBERA, sono
i primi segui
d' una riforma seria
delle scienze astronomiche e
della filosofia naturale
in Italia. Abibt.,
PAy«., Tiii. assurdo che
il moto universale
cominci e finisca,
poiché è un assurdo
che il mondo,
che è pur
egli necessario come termine
di conversione dialettica
abbia principio e fine.
È un assurdo
un impulso primitivo
impresso da Dio alla
materia, ciò che è l’esigenza illegittima
del fiacco Peripatetismo, dell'Aristotelismo platoneggiante: perciò assurda
e gratuitamente ipotetica
la base nella quale
s'appoggia la teorica
newtoniana sull’origine del moto. È
un assurdo che la materia
diventata forza, ciò è dire l’atomo,
tomi ad esser
pura materia; perciò assurdo che la forza
cessi d'esser quella
che è nella
sua essenza, e che
si sperda, che
decresca, o si
menomi in qual si
voglia modo. Sono
dunque un assurdo,
sono indovinelli da algebrisH
quei conti e
racconti di certi facili
calcolatori matematici che,
come il teologista
e il millenario, segnano
già ne' secoli
futuri la fine
e lo spegnimento della terra.
Ne' loro problemi essi
dimenticano che la forza
è creazione: e
dimenticano troppo facilmente, che creare
vuol non dire
annullamento. Il conato adunque,
è il vero
motore immobile e
mobilissimo dell'universo; è l'universo
stesso in quanto
è infinita potenzialità; è l’àpxrì xcv)ic
intrinsecato, essenziato con
l'universo stesso. Come tale
l'universo procede di numero
in numero (secondo
la frase del Bruno)
svolgendosi come mondi
nelle successioni, e perciò
è infinito nel
tempo; e come
tale anche l'universo, come il
pensiero nel formarsi
il concetto dell'Assoluto, rende a
Dio la pariglia. Cosi il principio cosmo' LìtìQUB,
Le premier moteur
et la nature
dame le tyetòme
tTArietote Paris. V. a questo proposito
con che assennatezza crìtica
il Barthélemy Saint-HUaire dÌMOm
su la Cosmologia
aristotelica (PAyttgiM trad,
en /rangaie et
aceompagnie dCune paraphraee
et de note»
perpetueUe», Paris, Introd. V. L)
Cosi resta lesrittimato
il concetto su V Universo
e su lo
Spaaio del filosofo nolano.
Egli pone Io
spazio come infinito
e però infinito
anche l’universo che è
nello spazio [DeW
Infinito Univereo e
Mondi, DinL I.) L’unverso certamente ò
inAnito, ma, ripetiamo,
ò tale in
quanto è eonaio;
e così pure
lo spazio. Perciò
Mondo, Universo, Spazio ec.,
sono infiniti nella successione,
che tuoI dire
nella lor potenzialità. logico, o
meglio, il Primo
cosmologico di VICO (si veda), in
mentre che corregge la
vecchia cosmologia de'
Platonici e degli Aristotelici,
condanna ad un
tempo quella de’ neo-aristotelici empirici e
degl' iperpsicologisti, legittimando r esigenza
de' meccanici e
de' dinamisti, de'
Cartesiani e de'Leibniziani,
che vuol
dire della materia
e della forza. I
moderni cosmologi avran
fatto moltissimo quando avranno ridotto
ogni fenomeno ad
un ultimo fenomeno. Essi così
dimostreranno, o meglio,
verificheranno la vecchia divinazione
aristotelica. Ma si dovrà
arrestar qui la cosmologia
razionalmente positiva? No, certo. U suo grande
problema sta nel
dimostrare (e dimostrare non vai
mostrare) come quest'ultimo e irreducibile
e universal fenomeno, sia
precisamente la sostanza
stessa delle cose, la
vita stessa degli
esseri, la vita
dell'universo che Vico rassomiglia
ad una fiumana
onde sgorga acqua sempre
nuova e perenne:
H(BC est vita rerum,
fluminis nempe istar
quod idem videtur,
et semper alia
atque alia aqua
profluit} Se il Processo
fisico s' inaugura col
conato in quanto è
un esteso metafisico
e risolvesi con
l'estrinsecazione della
forza nel seno
stesso della materia;
ne viene che tal
debba essere altresì
il corpo nella
sua sostanza; È inutile
mostrare come il
concetto del nostro
filosofo sul Conato
sia una correzione del
conato leibniziano. Mostrammo
già raffiniti tra
Leibnltz e Vico.
Con la dottrina
del conato questi
filosofi ci rappresentano
entrambi r indirizzo medio
dell* Aristotelismo negli
studi cosmologici. Ma
il nostro supera
quel di Lipsia,
perchè il suo
conato è essenzialmente un e«(e«o
reale, metafisico, non
già fenomenico, ed
apparente. Questo concetto manca
assolutamente nella monadologia, Gens,
il LoYR {Essai
sur l’identité de»
agentt qui produigent
ec., Paris) Obovr {Correlation
de» force» phi/9Ìque§,
trad. Moigno). E.
Saiqry {E8»ai»nrVunité de»
phenomène» nature!», Patìs)
A. Sroohi
{Unità ddle forze
fiticke ec. Roma),
Dr BoocHRPORif [Du
principe generale de la
PhU. naturale,
Paris). A. Obuyrb
{Principe de PhU, Phyeiqtte ec.) "
De Antiqui»». Gom* è
evidente, è il
concotto fisico dell*
indirizzo medio
aristotelico: La vita
universale della natura
non conosce riposo, nò
morte: Kac toOto
flèOxvarov xac an'auTrov
xinapytt roi^ ouTtv^ otov
^a)>j Ttc ouffa
toì; fxivtt ^uvio-tùtc
notvtv. Phy»., Vili,
i. S. 8f forza attuata;
monodinafnia; e però
sorgente perenne di forze
fisiche, meccaniche, chimiche,
dinamiche. L'atomo è sfornito
di centro, perchè
è centro egli
stesso. Il corpo lo
possiede cotesto centro;
ma è di
natura ideale, e
perciò rende immagine dell'
universo stellare nel
quale il centro non
è in alcun
luogo, e pure
è dappertutto, il
moto nel corpo è
monotono; è un’etema
produzione di forza; e
questa forza non
è, a dir
proprio, LA VITA (cf. Grice,
“Philosophy of Life”). Però è un conato
onde l’analisi delle forze
omogenee e de’ comuni agenti di
natura tende ad
elevarsi alla sintesi;
ed è lo
sforzo del numero
che volge ad
unità. Or la necessità
di questo conato
non importa egli
un altro intervallo? Il
centro dunque si
manifesta nel vegetabile, e
s' inaugura il mondo
degli organismi. Posto
il Processo fisico, la
forza, nata già
nella materia, qui
nasce in sé stessa,
qui rinasce, qui
si rinnova, e
qui è vita.
Ma neanche il vegetabile,
a dir giusto,
possiede un centro reale.
Dunque il vegetabile non è vita,
bensì passaggio, e
quindi strumento di vita. Il processo fisico
perciò trae seco
il processo geologico; e
la genesi della
forza importa la genesi
della terra. Il
processo geogenico alla
sua volta importa il
Processo organico (vegetale
e animale) e quindi
il processo paleontologico, entro
cui si vengono accumulando e
sovrapponendosi cento e
mille faune e flore. Dalla roccia cristallina non istratificata e non fossilifera alle
più recenti produzioni
geologiche; dal jeriodo antizoico al
post-pliocene e all' attuale,
rivelasi tutto un processo
di forza. È
il Fatto che
si fa come forza,
ma in quanto è altresì
conato alla vita. Dall’epoca eotoica
nella qaale s’annunzia
la prima aara vitale, e molto
più dair epoca
paleozoica alla oenozoiea
e da questa
all’età potiUrxtarifi (quaternaria), accade
che col processo
fisico e g^logico
si marita il processo
paleontologico, e così
ci si manifesta
la continuità della
vita attraverso le
forme organiche passate
o presenti. Or
se tutto ò
processo e conversione e
perciò successione costante
di fatti regrolati
da lejrgi necessarie ed
immutabili, ne viene
che i cataclismi,
riferiti a cagioni ipercosmiche,
contraddicono evidentemente alla
ragion filosofica positiva, nò l’ha interpretazione benigna
ed ingegnosa della
critica teologica che sappia
legittimare la cronologia
mosaica ed il
racconto biblico. Ma a
Ma come
avviene egli il
passaggio del Processo
fisico air organico, e
quindi il passaggio della forza
alla vita? Avviene per
legge di conversione;
la quale perciò,
supponendo r intervallo, importa
la differenza. S'invocano, al
solito, anelli intermedi
nel r^no vegetabile.
Ma forse che il
vegetabile rappresenta il
transito eflFettivo tra il
minerale e l' animale? SMnvocf
no analogie esteriori
fra certi minerali e
certe piante. Ma forse
che accanto alle analogie
non sorgono diflFerenze
profonde? S' invoca la eterogenesi,
e se ne traggono disparate illazioni
secondo il sistema che
si vuol propugnare,
come se la
generazione spontanea possa soggiacere a
dimostrazione noi non ci
ò permesso intrattenerci
intomo a questa
particolarità. Solamente ci preme
d’aTfertire che il
concetto del procetio^
nella Geologia e nella storia naturale,
forma oggi l’onore di Lyell
e Darwin. Ma se la Scienza
Nuova ò
la dimostrazione, o, per lo meno, l’esigenza del processo
isterico, in essa è racchiusa
la verità della
moderna geologia e zoologia.
Quando Vico dice che
i fllosoA prima
di lui avefaii ricercato Dio,
la scienza, il
divino nel mondo
della natura e
non per ancho in quello
della storia, ei s'
ingannava. La vera
scienza di natura, in
generale, sta nel conoscere
principalmente due cose: i il
doppio processo geogenico e
organico (paleo-zoologico), in
modo affatto sperimentale; 2* nell’annodarli entrambi
in guisa razionale
col processo isterico. Or la
scienza di natura
condotta a questa
maniera è posteriore a
lui, essendo nata e cresciuta
principalmente sotto gli
occhi de' due dotti inglesi
poco fa mentovati,
mentr' ei non
faceva che inaugurarla
prevenendone i grandi risultati.
E questi insigni
risultati preveniva non già
producendo scoperte geologiche,
zoologiche e paleontologiche, ma incarnando
i^el processo de’ fatti
umani l’esigenza del
metodo isterico, e gettando
i germi
d’una dottrina cosmologica nella
quale è racchiusa la
necessità del processo
universale, e, iu
questo, la necessità del
triplice svolgimento fisico,
organico e storico. I
vecchi naturalisti pretendeno
rintracciare argomenti in
favore della continuità reale
fra questi due
processi, notando la
struttura mirabUe e squisita,
per es., deirArragonite cotanto
affine a quella
d’uno de’ più elementari vegetabili;
come se nel
cristallo la composizione semplice,
uniforme, immobile cosi nel
tutto come nelle
parti e senza
centri ne’ suoi nuclei ed
elementi, avesse che vedere col
composto organico più
rudimentale! Il fatto della
eterogenesi è tuttora
un’ipoUsi, e probabilmente
resterà sempre tale nel
campo della osservazione,
ma è ten
nella mente del filosofo.
Gl’eterogenisti s'affaticano a dimostrare
coi fatto ciò
che già di per
so stesso ò
fatto! La genesi
spontanea, appunto perchè
tale, non è un fenomeno
di trasformazione d’indole
meccanica della /orna alla
vita: essa importa
già un transito,
e quindi un intervallo.
Come Per la medesima
legge avviene il
passaggio dal vegetabile all’animale. È
vecchio il pregiudizio
per cui si è
creduto che Tun
ordine d'esseri si
congiunga all'altro col
digradarsi del processo
superiore, e col
perfezionarsi deU' inferiore.
Il pesce si congiugne con l' anfibio; gl’anelli zoologici
inferiori s’annodano co’ vegetabili superiori, e
simili immaginazioni.
Oggimai è d' uopo raccomandarci alla
paleontologia, e alla
geologia. Queste scienze ci
additano un processo
quasi parallelo ne' due ordini in che viene
sdoppiandosi la vita
sin dalle sue origini
primitive. Il processo organico
dunque non può danque
potrà esser possibile
in tal caso
una prova sperimentale
seria e irrepugnabile? Ti sono
parecchi sperimenti, io
lo so. Ma
come fatti? Quante e
quali cautele sono
state adoperate? La questione
della genesi spontanea ò
mal posta. E
poiché il naturalista
non ò in
grado di porla diversamente di
quel che fa,
sarà quindi necessario
abbandonarne la soluzione ad
altro metodo, ad
altra maniera d’investigazione. In
somma è una questione
essenzialmente filosofica: si
diano pace i
travagliati seguaci del Pasteur
e del Poullet!
Neir epoca
j9aZ«oltKeaapparÌ8con le grittogame
superiori: indi, nell' epoca
nuéoUtica le piante
conifere: appresso, nell’età
oenoUtica le fanerogame;
e, finalmente, nelP
età antropolUica, o
meglio pott-terxiarta, si manifesta
la flora attuale.
Ecco qui un
processo nella flora
primitiva. Il medesimo reggiamo
nello svolgimento della
fauna. Co* più
modesti tipi vegetabili s’accompagnano i più
bassi tipi zoologici
negli strati inferiori che
ci rappresentano l'età
originaria; e, nella medesima
epoca negli strati superiori veggiamo
lu prime forme
di pesci, accanto
alle quali appariscon le
grittogame. Con le
conifere appaiono i
rettili; e negli
strati superiori additatici dal periodo eenolitico, appariscon gl’uccelli.
Ai rettili ed
agli uccelli, dappresso alle
fanerogame teugon dietro
e si manifestano
le forme inferiori de’ mammiferi; e
negli strati superiori
del perìodo terziario
si rivelano le primo
tracce del regno umano. Alla flora
attuale poi s’accompagrna l’attuale FAUNA. Il
processo riesce evidente
anche qui, e il
riscontro ne'caratteri generali, nella
flsonomia e nell’insieme
delle relazioni geografiche e
biologiche, toma evidentissimo. Vegetabile e Animale,
dunque, sono due correnti, per
cosi dirle, che
movon da una medesima sorgente. Elle
si rassomiglian nella
semplicità ed omogeneità
delle forme primitive; e
tal riscontro è
più spiccato in
ragione che il
panteologista ascende verso
il centro comune. Sennonché il
processo nella serie zoologica è
assai più compatto
e variato; lo
svolgersi è più
rapido, e l'attuarsi di
questo svolgimento è più intricato
quanto più ci
accostiamo alle recenti formazioni.
Tal è, per
es., lo sviluppo
che ci palesano
gl’articolati e i vertebrati,
a differenza del
modo con che
si vanno svolgendo le
classi de’vermi, de’
molluschi, de’ celenterati, degli
echinodermt non esser di
natura essenzialmente polare.
Il vegetabile e l’animale
ci rappresentano incarnata
la legge universale della dualità;
la quale movendo
dalF unità sintetica
iniziale e confusa
e passando per l’analisi, riesce
ad una sintesi concreta,
determinata, analizzata. La
vita è vita
in quanto si diversifica:
è vita in
quanto si etereogenizecu^ Ma dov'è
la radice primitiva
ond'emerge questa doppia scala
in cui e
per cui la
forza, incarnandosi, diventa vita?
Non si discerne
cotesta radice: non
si verifica; né si
può verificare. Fin
negli strati primigeni
dell' età archeolitica
vi è tracce
di vita animale
e vegetale. Dunque il
fatto, r osservazione,
ci pone sott'
occhio una dualità. Ma
una dualità originaria,
ripetiamolo anche qui,
non è un assurdo?
Dunque l'analisi, il fatto,
suppone già una sintesi
rudimentale, in cui
sia germinalmente contenuta
la doppia forma di
vita vegetale ed
animale. Or questo
comune stipite, che con
felice espressione un
illustre vivente naturalista ha
chiamato unità astratta,
o non esiste
come realtà sensata, ovvero,
esistendo, non può
essere, a dir proprio,
ne vegetabile, né
animale, ma l'una
cosa e l'altra insieme. S' ella
é una realtà,
è destinata a
scomparire dal regno della
vita, appunto perché
non é forza
né vita. S'ella é
una realtà, sarà
un soggetto di
natura indeterminata, fisica e
organica ad un
tempo. In essa
la forza diventa vita;
e quindi, più
che anello di
continuità reale, ci rappresenta
una continuità ideale;
e perciò con l'
intervallo reale ci significa
la virtù e
l'efficacia del conato,
Ved. H. SpBircRR, E$$ay$
$ei€ntifìe, polUicalf (md
9peeulativef ed. cit. Veramente ingegnosa
è l’analisi che quest’autore
fa circa il
modo con che avviene
il procetso zoologico
il quale egli
talora chiama |7roee««o
di di//erenziafzione: e
non meno ingegnosa
è quella sul
processo geologico, etnologico e
paleontologico. Jl difetto
sta neir applicare
la sua legge
al processo èoeiologieOf dov*
egli evidentemente abusa
delle analogie estrinseche col. mondo
zoologico. Si vegga,
per dirne una,
come considera il
fatto de’ fili telegrafici che
abcompagnauo sempre le
vie ferrate, in
relazione a certe leggi biologiche
degli organismi zoologici
inferiori. VoQT, Le
lib. del diritto universale, e
segnatamente nella storia
delle cinque età
del tempo oscuro; dalla
quale storia risulta
la legge storica e sociologica che,
portata a pii largo
sviluppo, costituisce la scienza nuova. Noi
consacreremo apposito
capitolo intorno a
questa teorica del tempo oscuro perchè in
essa troveremo il fondamento
legittimo della sociologia
davvero filosofica e positiva.
L’altro strumento poi
che Vico avea
fra mano e
sapeva maneggiare in guisa
che non ci
ò dato nò
pur sospettare alla
lontana, costituisce
propriamente la parto
geniale, originalissima del
suo metodo isterico; ed
ò quella che
noi dicemmo di
natura psicologica, e
che di fironte alla
prima serba indole
a priori; ma
è un a
priori positivo, positivissimo, perchè
di natura psicologica.
Ella in somma cojitltuisce, se
cosi potessi esprimermi, un
lavoro mentale da geologo,
da paleontologo. Se
infatti lo spirito
dell' uomo in
una data epoca
istorìca somiglia, vorre dire, ad una
caverna ossifera, bisognerà
studiarlo analizzandolo, anatomizzandolo, decomponendolo. Perciò
è necessario dimenticar
noi stossi, e lavorare
attorno ad esso
in modo tutto
ideale dÌ8cendendo da
questa no$tra umana ingentilita
naturaf a queUe
affatto fiere ed
immani, U quali oi affatto negato d^
immaginare, e eolamente
a gran pena ci
i permeeeo cT
intendere, (Sec. Se. Nuo.)
Breremento: bisogna aver
presenti noi stossi,
ma nel medesimo tempo
dimenticarci: bisogna etordire
ogni eeneo «T
uwtanità (sono sue parole)
e ridurei in
uno etato di
eomma ignoranjta di
tutta l’umana e divina
erudizione. Questo è
precisamente ciò eh egli
dice portare ad
un fiato il
vero e il
eerto, la fiioeofia e
la filologia. Questo
è il metodo
isterico davvero positivo,
che è propriamente metodo di natura eduttiva. E questo
dovrebbero mediterò ed applicare i nostri sazievolissimi predicatori
di certi metodi
storici e critici che
al postutto riduconsi
ad un meschino empirismo I perciò
medesimo è scienza
del presente, scienza
dell’oggi, e, fino a
certo segno, anche del
domani. Ma senza quella
filosofia che non
le è incorporata
ma ch'ella presuppone necessariamente, cotesta
Scienza Nuova non sarebbe
niente di tutto ciò. Posta
infatti la doppia
formola metafisica e
cosmologica, i cui
germi giaccion nel libro metafisico; posta
segnatamente la gran
legge del processo cosmico,
ella è davvero
un poema, è un gran poema, un poema
sul serio, ma un poema
sui generis. Perchè? Per
questa ragione principalmente: perchè è una
Storia naturale della
umanità nell'uomo: perchè in
lei si scruta
l'originaria formazione dell'
ultimo sommo genere; perchè eli'
è la celebrazione
solenne dello Spirito che
si crea nel
regno stesso della vita;
perchè è la creazione
parlante, vivente, reale del
pensiero ch'esce dal caos
delle forze brute fisiche,
meccaniche, biologiche ; perchè,
insomma, rivela il
Fatto che, convertitosi con sé
stesso come forza e come
vita, ora convertesi
col Vero come pensiero.
Ecco l'originalità vera
del pensiero vichiano. È un
pensiero d'una grandezza e d'una
potenza, sto per dire,
titanica ! un pensiero nuovo, nuovissimo, anche dopo
due secoli I La
Scienza Nuova, dunque,
rappresentandoci la genesi del
processo storico e
sociologico, fra le altre
cose pronunzia, legittima, compie
e insieme corregge
il darwinismo. Una delle Degnila sulle quali
è innalzato il suo
grandioso edifizio è
lo stato ferino
dell'umanità; cagione
certamente non puerile
delle dispute e
delle sètte de' ferini e
degli antiferini surte
fra noi, come
toccammo, sotto gli occhi del
Papa e de’ cardinali nel
bel mezzo del
secolo passato. Il suo problema
dunque è il gran problema ond'è
agitata e mossa
la scienza odierna.
È lo stesso problema
che, con significato
assai pili comprensivo, assai più
razionale, assai più
sintetico e profondamente sintetico, agita
e muove sotto
gli occhi nostri
la filologia, la zoologia,
la geologia, la
paleontologia, l'antropologia, la sociologia,
la filosofia e la storia
del diritto, la filosofia
e la storia delle
arti, la filosofia
eia storia delle religioni,
come saggiamente ha
detto il De Fèrron. Il
suo problema quindi
si collega con quello stesso di
Lamarck, Couvier, Saint-Hilaire,
Herbert, Mathew, Omalius, Halloy, Rafinesque,
Schaaffausen, Hooker, de' viventi
naturalisti, de’ viventi filologi,
de' viventi mitologi, e
degli storici d' ogni
maniera. Nella Scienza Nuova
infatti il processo
storico-sociologico nasce, sorge
o si produce
nel processo zoologico; ma
nasce, sorge o
si produce creandosi.
Dunque il 6estione,
l’uomo ferino, per
quanto ferino e
bestione vogliasi
immaginare, importa già un intervallo.*
Come ci si rivela
egli cotesto intervallo? In altre
parole: com'è che s'inaugura
il processo isterico?
Com'è che s'inizia il
regno dell' umanità? Al
solito s'inaugura con
la gi an legge delle
polarità, ma nel
medesimo individuo: s'inizia con
la legge della
dualità, ma nella
coscienza stessa dell'individuo. Ciò che nell'ordine psicologico
è senso e intelligenza, potere
e volere. Autorità e
Ragione; qui, nell'ordine sociologico
e storico, è libertà e pudore:
ecco i
due Principii éC
Umanità; principii essenzialmente sociologici. Lo stato
ferino per Vico è an fatto accidentale, ed
è accidentale perchè non è universale;
ma questa dicemmo
essere un* aporta
contraddizione in che cadde
tanto lui, quanto
il suo discepolo DUNI (si veda). Ed
ò contraddizione, perchè fa
contro non solo
ai suoi principii
cosmologici, ma anche all’esigenza
stessa del suo
metodo, fe-una delle
contraddizioni duoque dalla
quale ei pì
libera da so
medesimo. Nessuno prima di Vico
aTcva impresso valore
ed importanza isterica a
questi due iftm
o principìi d’umnnità.
Grozio, per citare un
esempio, parla anch*
eglidel pudore; ma
non sospetta nò
la necessità sociologica e
istorìca di questo
fatto, nò il
significato psicologico di questa
tondenza, e però
non ne fa
uso di sorta'.
(Ved. Dt Jwr.
M. et paeitf "Disse
la libertà madrt
di qualsivoglia diritto
civile; ma perchè
madre? Citiamone un altro
esempio. Anche Platone parla
de* due beni.
Pudore e OiuetÌMÌ€L,
che Giove impartì
agli uomini [Protag., ed.
Cousin): ma pel
filosofo greco tale tendenza
ò partecipata, è
comunicata, mentre pel
Vico è affiatto
naturale. Per Platone riiman»tà
si manifesta nella
CVttèt, nella iSepubò^tca;
dovecbè Qual valore, infatti,
qual significato hanno
queste due parole nella
mente del nostro
filosofo? Considerate sotto il
rispetto storico e
sociologico, Pudore Libertas non
sono idee, concetti, nozioni,
astrazioni; sono bensì
condizioni efficienti
originarie, intime, spontanee,
istintive di nostra natura. Sono
i due principii
che principian l’umanità
nell'uomo; principii ch'ei
pone quasi geni
tutelari alle porte ddla
storia e delle
cose umane. Sono
facoltà, ma facoltà involute,
potenziali; stantechè Tobbietto
di esse non sia
per anche fatto,
noh sia per
anche elaborato. Perciò sono
giudizi, ma, al
solito, giudm sentUij
come direbbe egli stesso; giudm
fatti senza riflessione.
Sono dunque tendenze primigenie,
sono esigenze autogenite; e però
ci rappresentano anch'elle
ima sintesi confusa, entro cui si racchiude infinita
virtù esplicativa. Qual è
infatti il principio d'ogni
socialità? Qual è la radice della
socialità? £ il concetto stesso
d' umanità. £ come
si determina, come si
esplica dapprima questa tendenza
innata e originaria ad
umanarci? Appunto col
gemino sentimento del pudore
e della libertà Questa
originaria dualità costituisce
la natura stessa
dell'uomo, giacché r ente
umano intanto è
animale umano, in
quanto non è una
cosa, ma due:
(ùov fiU7Ttxoy, e
(wov ttoXctcxov. £d egli
è tale fin dalla
sua prima origine,
questa essendo per l'appunto
la invitta necessità
del processo iperzooloper Vico ò originaria, tanto
cho si manifesta
anche nello stato di natura: il quale
perciò, come altrove accennammo, non ò
quello do' giusnaturalìsti. Fra la ReptMdiea del
filosofo ateniese, quindi, e
la SeienMa Nuova, anche
per questo rispetto
t* è un abisso,
checche ne abbiano detto
0 possano dime certi
Hegeliani. Per questa
medesima ragione non ò
da confonder menomamente l’uomo ferino della
Scienza Nuova, con gli
nomini selvaggi di
cui parlavano tanto
spesso gli antichi, segnatamente r A. della
RepubUica, Aristotele, CICERONE e simili. una posizione affatto
diversa, a cui bisogna
por mente. HumaniUu ett
hominU hominum juvandi
affedio, {De Conti, JurUprudenHt,
0. II, l.)
Sed ex latiori
genere Humanitatie heie
a nobU aoupta
a duobue prineijnù ootMtal,
Pudori et Libebtatk.
{Id, eod,) gico, e della
legge di conversione:
rèbus ipsis didantìbus.
Or qual è la relazione
che stringe insieme
i due Principii d'umanità? È
quella medesima che,
posto il processo isterico
e sociale, congiugne
in armonia la
società di ragione (Societas
Veri), e la
società dell'utile (Societas qui
boni). È appunto
la relazione che
corre fra il certo e il vero,
tra la forma
e la materia. Ma se questa
dualità di principii
inauguratori dell'umanità nell'uomo
è originaria, accade che,
appunto perchè originaria, debba
rivestir forma d'unitotalità
e d'incosciente unità. Or come potrebb' essere unità
ove, al solito, non
serbasse natura di
conato? Pudore e Libertà quindi
sono un conato; sono dualità
e unità insieme; sono perciò triplicità.
Se non che, questa
triplicità non è inaugurazione del
processo psicologico teoretico, bensì pratico;
non del processo conoscitivo, bensì operativo. E
dunque una triplicità
originaria di natura pratica,
empirica, istintiva, e dee quindi
serbare, nel medesimo tempo,
valore psicologico e
sociologico. L'ente umano adunque
è di sua
natura un soggetto essenzialmente
relativo. Egli è
in un'ora medesima
in sé stesso, e anche nell'oZ^ro:
è sé stesso,
e insieme debb'essere anche l'altro. Egli insomma,
ripetiamolo, non è
una, ma due
cose in sé stesso:
uomo e cittadino.
E dovendo esser
tale fin Qai
risiede, come Tedremo,
la condanna della
dottrina sociologica del Positivismo,
e della confusione
eh ella fa
tra la storia
e la sociologia, tra la sociologia
e la psicologia, tra la
psicologia e la biologia, nonché l’erroneo concetto
della Statica toeiale
de’positivisti. De Univ. Jwriè
PrineiptOj Ex vi
ip$iu9 humanct natura
de duobu$ hit
HumanitcUit prineipii»
di«8eramìt$f ^orutn unum,
ceu forma, erit
Pudor, alterum, vduti
matebia. erit LiherUtf, {De
CoMt, Jur.) Trasportando questo
concetto dall'ordine
sociologico a quello
delle idee e della scienza, possiamo
affermare che in tal
modo Vico abbia posto
nella stessa coscienza,
nello stesso individuo, la
distinzione, oggi vitalissima,
tra la Morale
e’1 Diritto, salvando così l’autonomia d'entrambe
queste discipline. Perciò
nò la Morale
può dedursi dal Diritto,
come farine i
giusnaturalisti hegeliani e positivisti,
nò il diritto dalla morale,
come usan fare
i teologisti e,
in generale, i filosoft
neoplatonici. Di queste cose
discorreremo nella Sociofogicu dall' origine
sua, fin da
che apparve naturale,
sdvaggio, ferino bestione; perciò
in lui il pudore
è conato, stantechè
col conato incofninciò
in esso a
spuntare la virtù dell’animo, Per
la stessa ragione
è tale anche
la Libertà, la quale
è conato proprio degli agenti
liberi, onde que’ giganti si
ristettero dal veezo
cT andar vagando per
la gran sélva
della terra, e s’aweisearono ad un
costume ttdto contrario, Ma se la relazione che annoda i termini
di questa originaria
dualità è quella
che corre tra la
forma e la
materia in generale,
avviene che il pudore
sia logicamente anteriore
alla Libertà, e la
Libertà, alla sua volta,
sia cronologicamente, empiricamente anteriore al pudore. See, Scienza
Nuova Idtmf eod, Perciò
dice ohe il pudore
l U primo
antiehitnmo principio d’umanità. (Sec. Se,
Nuova) E gaardADdo
agli effetti di
qoesto sentimento, osserva
ohe il Pudore
arreeta la vaga
venere origina la eocictà matrimonÌ€i!e, donde
emerge la eoeietà
(Prim. Se. Nuova);
e come inizia la
società, così pure
inventa la religione:
Pudor inventar religionie. {De Conti.
Jur.) Additando poi la
priorità logica del pudore di fronte alla libertà, dice: Pudor
euetoe jurie naturalie
(De Univ. Jur,);
«Tura a Pudore
oria, ad pudorem redeunt, et
a eontemplatione nata, in
eontemplatione poetremo deeinunt
(Ihi, OC Vili):
Pudor omnie divini kumanique Jurie
parene (Ihi, GIV):
Pudor Jurie naturalie /one {e.
Ili): Pudor exoitator virtutie. Il senso di libertà,
poi, assume dapprima nna
forma affatto empirica
e naturale; assume
forma di potere {poeee) di
volere sfornito di
ragione, d'arbitrio, di
passione; e, come tale,
riesce cronologicamente anteriore
al pudore nò potrebb’esser diversamente ammessa la
relazione intima fra
il processo zoologico
e il processo isterico. L' anello
vero perciò fra
questi due processi,
l’anello reale fra i
due mondi, òr «OMO
stesso; ma l’uomo considerato
come un poro poeee potenza, potestà
naturale. Sennonchò cotesto
ò un momento
indiscernibile; è un intervallo
che tosto ò
superato, e il
potere già diventa
voUre e il volere diventa
oonoeeere sempre per la solita
legge del rehue
ipeie diotantUnu, àéìVipea
rerum natura. Libertà e
Pudore quindi son
come le due facce
del conato umano:
l’una ò intima,
secreta, individuale; l’altra ò
sensata, estrinseca, e perciò
di natura essenzialmente sociologica. Or come tale la
libertà ò il
primo punto di
tutu le eoee
umane (Sec. Se. Nuova);
e perciò ex
libertate eommereiay ex
eommereiie humanitae excuUa, {De
Conet, Jur,) E
poichò ò una
condizione primitiva, perciò la
dice dote proprissima dell’uomo: NihU hcmini magie proprium quam
oo2imto; ed essendo proprissima
proj>rM(o^va del filosofare, quanto le forme negative. Ogni
maniera di speculazione soccorre
al progresso e alla ricostruzione
della metafisica, a
contare dalla piiì grossolana
affermazione dommatica, alla negazione del
più volgare ed em])irico
pirronista; dalla più ardita
formola sistematica, al più
sottile sofisma dello scetticismo sistematico.
Ma neanche qui ci poteva esser concesso
dimostrare, senza trascendere
i confini del nostro disegno, il modo
con che in
mezzo allo svolgersi de'
due estremi indirizzi
siasi venuto incarnando
e pigliando quasi persona
l' indirizzo medio. Mostrare
insomma come le forme
positive della metafisica
siansi venute svolgendo, sarebbe
stato lavoro di
storia, e di crìtica:
al modo istesso
che sarebbe stato
lavoro di esposizione far
vedere la monotonia
con che si
sono succedute le forme
negative del filosofare. Solamente ci
fu mestieri accennare
come nell'età moderna, dopo
le divisioni del
Cartesianismo nel quale ripetesi, con elementi
di novella speculazione,
la vecchia sintesi aristotelica,
l'indirizzo medio ci
sia rappresentato dal
Leibnitz in Germania,
e, più spiccatamente, da VICO
in Italia; e
come ne' tempi a
noi piii vicini siansi
ripetuti gli estremi,
e si ripetan tuttora sotto
novelle forme, così
nell'uno come nell'altro paese. È iperpsicologismo il neoplatonismo italiano moderno: ma
forse che sarà
meno iperpsicologismo il
sistema jdeir assoluta identità?
È empirismo e nullismo metafisico
il positivismo di
Francia ed il
materialismo di Germania: ma
sarà meno empirismo
lo scetticismo sistematico di FERRARI e
certa ibrida forma
di criticismo di FRANCHI e
il nullismo metafisico de'
nostri filosofi dell’avvenire? Vedi
qael che altrove
abbiamo discorso circa
le forme negative
e le forme po»Uìve
del filosofare e
circa la storia
della filosofia in
generale. Lo scetticismo non è
da pigliarsi a
gabbo, come par che
facciano tutto giorno
dommatici e sistematici. La sua
funzione istorica ha
grande importanza, essendo
quasi la molla
efficace, tuttoché negativa, del
progresso in filosofia,
né y*,ha periodo
storico in cui
lo scetticismo non accompagni
sempre lo STolgrersi
del dommatismo. Il dommatismo
è syariatissimo nelle sue
forme, e quindi
possiede una storia. Lo scetticismo invece è
immobile, è immutabile;
e questo è
insieme il suo pregio,
e la sua
condanna. Perciò lo
scetticismo non ha
né può avere una
storia, appunto perchè
non importa un
processo; e non è
processo appunto perchè
è negazione. L’arma dello scettico
infatti è sempre identica
a sé stessa.
Nel nostro Ausonio
rivive Enesidemo, e nel
nostro FERRARI vi è
tutto Sesto Empirico.
Chi si voglia
quindi provare o siasi
provato, come il
Bissolati (Ved. Tntrod.
alle fgtituxioni Pirroniane^ Imola), a
fare una storia
dello scetticismo, altro non fa,
altro non potrà mai
fare, salvochè una
rassegna, un racconto
monotono e sazievole d'argomenti identici.
L'esigenza scettica, il
metodo teettieOf potrà
benissimo cangiare i punti
di m«(a, come
fann'oggi gli schietti
positivisti, ma la sostanza
rimane e rimarrà
sempre la stessa.
Invece l’esigenza dommatica
è un fatto
al pari dell' esigenza scettica:
ma ò un fatto
che si muove; è
un fatto che
sì fa. Hegel
ripete Platone, e
ripete Erigena; ma non
è nò Platone,
né Erigena. ROSMINI
ripete Aristotele o AQUINO,
ma non
è né Aristotele,
né AQUINO. GIOBERTI ripete
Malebranche, ma non è
nient'affatto Malebranche. FERRARI anch'egli
ripete. Ripete Sesto Empirico.
Ma come lo
ripete? Facendone la
fotografia! Ora se il dommatismo conta
una storia essendo
un processo isterico,
e lo scetticismo n'é al
tutto sfornito, com'è
possibile che il
trionfo stia pel
secondo anziché pel primo?
La funzione isterica
dello scetticismo dunque è
necessaria, essendo »na
ruota della macchina;
ma badisi a non
confonder la macchina con la
ruota, ciò che costituisce
appunto l'errore di chi
spera (vana speranza!)
nel trionfo definitivo
del pirronismo. Se non
che, lasciando di Leibnitz
e del moto
filosofico d'Alemagna, peculiar proposito
del nostro saggio e
quello d' additare
la correzione e l’inveramento
delle due estreme
tendenze (scettica e
dommatica) che nascono e
rinascon parennemente nella
storia, e che oggi, assunta
forma pia conseguente e
razionale, s’addimandano
Positivismo e Idealismo
assoluto. Il fondamento di
tal correzione e '1 criterio
di siffatto inveramento, per
ciò che
spetta al nostro
paese, pone radice nelle
dottrine del filosofo
napoletano, interpretate e ricercate con
metodo critico rintegrativo. Ma, a
far questo, che
cosa era d'
uopo mostrare innanzi tutto? Era
d'uopo mostrare la
possibilità di rinvenire in
lui cotal fondamento.
In altre parole, era d'uopo mostrare se in lui per avventura fosse
alcuna originalità di speculazione
razionalmente positiva: il che ci
parve opportuno innanzi
tutto far vedere
in maniera indiretta e
per via storica,
abbozzando una storia de' critici e degli espositori
delle dottrine vichiane.
Che poi davvero esistano
in lui germi
d'originalità metafisica, r abbiam
chiarito nel secondo
libro di quest'
opera, interpretando le sue
teoriche con una
forma di critica che
scaturisce logicamente dalla
stessa triplice paiiizione
de' periodi ne' quali abbiam
diviso quel nostro saggio
istorico. Se pertanto un
rinnovamento del pensiero
filosofico italiano è necessario
e inevitabile perchè
richiesto dalla ragion filosofica
positiva, perchè domandato
dall' esigenza del sapere
moderno, e perchè
imposto dalle rinnovate condizioni politiche,
civili, religiose del
nostro paese; si domanda: come
innovarci? introducendo forse il Positivismo, o perdurando
nello Scetticismo? Evidentemente
contraddiremmo all'indomabile istinto
verso la scienza: contraddiremmo al
bisogno sempre più acuto e
profondo di nostra
ragione: negheremmo la ragione.
Vorremo innovarci seguitando a dirci ed essere
iperpsicologisti? In tal
caso dovremo accettare
due condizioni: costruire la
scienza con la
ipotesi, con Va priorismo;
e disconoscere i
limiti del pensiero
e della scienza stessa,
dando così alla
ragione un valore
dommatico, sistematico, assoluto,
anziché critico e
positivo. Chi vorrà oggimai
accettare siffatte condizioni? Dunque Positivismo e
Idealismo assoluto, negazione
assoluta di sistema e
assoluto sistematismOy son le colonne
d’Ercole che la moderna Francia
e la moderna
Germania ci vogliono imporre: esse
non ci appartengono,
e a noi
sarà lecito abbatterle, non
per vana horia
nazionale, ma si per
necessità di ragione.
Forse che un
rinnovamento in senso hegeliano
non ha ormai
fatto fra noi
le sue prove per
quindici anni, per
vent'anni? Non è
stato favorito con ogni
guarentigia di libertà?
Non è stato e non
è rappresentato così
nel privato come
nel pubblico insegnamento? E
pure l’Idealismo assoluto,
almeno quant^alla peculiare esigenza
che lo distingue,
cioè come Sistema delP
identità assolata non
ci è passato in
sangue, ne poteva; e nonostante gli
sforzi nobilissimi di egregi
scrittori, egli è
rimasto ne' libri, e rimarrà ne'
libri. Altrettanto impossibile riesce
un rinnovamento dsL positivisti.
Piii deir Hegelianismo
il Positivismo è stato
accarezzato, favorito per
ogni verso, predicato privatamente, talora
persino officialmente. Ma
gF ingegni severi vi
han reagito, vi
reagiscono; e l’infinita
moltitudine di que'
filosofanti che han su le
labbra cotesto nome pomposo
e bugiardo, è
lungi dall' averne ponderato il valore,
le conseguenze, le
applicazioni. Rinnovamenti di cotal
genere, dunque, sono impossibili
fra noi: e' non sarebbero legittimi,
coscieuti, naturali, autonomi,
efficaci, intimi, storici. Vogliamo
finalmente ritentare un
rinnovamento d'iperpsicologismo
da ontologisti neoplatonici? Resteremmo quel
che pur troppo
siamo stati, e siamo:
non andremmo avanti;
torneremmo indietro. Se dunque la
necessità del nostro innovamento filosofico deve poter germinare dalla
passata speculazione, noi
dobbiamo rintracciarne gli
elementi nelle opere
e nella mente di
chi è capace
di rappresentare non
pure il passato, ma,
più ancora, il
presente e l’avvenire. È
d'uopo attingere ispirazione nelle opere e nella mente
di chi può soddisfare l’esigenza positiva
e l’esigenza ideale
del sapere, ma correggendole
entrambe. È d' uopo
invocare gli auspici di
chi, incarnando il
medio indirizzo della
speculazione, valga a rannodarci
con la nostra
tradizione scientifica, e con
lo svolgimento dell'intera
storia della filosofia. Chi potrebb'
esser questi, fra
noi, salvo che l’autore della Scienza
Nuova? Ecco l'addentellato piii
sicuro e tutto nostro,
dal quale è
mestieri s' inauguri il
presente rinnovamento
filosofico italiano. Ma, nell'invocame
gli auspicii, noi dobbiamo interpretarlo
con la coscienza
del sapere moderno: noi
dobbiamo correggere anche
lui; e correggendo, lui correggeremo
poi stessi, e gli altri:
correggeremo il
neoplatonismo, l'
hegelianismo, il positivismo. Brevemente: se
rinnovarci è suprema
necessità, di tal necessità
è d'uopo aver
pienezza di sentimento
e di coscienza storica.
Abbiamo dunque bisogno d' una
base per muoverci, d' un
punto a cui
mirare, d' un segno
per orientarci, d' una guida
tutta nostra in
cui la nostra mente
riconosca sé medesima.
Chi potrebbe risponder meglio a cosiffatta
esigenza tranne colui che seppe
concepire il sublime per quanto
rozzo e incompiuto
disegno d'una Scienza Nuova? Il
nostro quesito adunque
era semplice e
chiaro; ed è questo:
Come penserebbe il
nostro filosofo ov' ei
tornasse a vivere
in mezzo a
noi, nelle nuove condizioni politiche, sociali,
religiose, co' nostri
nuovi bisogni, con le
nostre nuove tendenze? In altre
parole: come farebb' egli a
risolvere oggi, col
suo stesso metodo,
i grandi problemi della
scienza? La risposta
riguardante i problemi
speculativi, è nella
seconda parte del
presente libro. La risposta
poi che concerne
i problemi d' ordine storico, politico, religioso
e pedagogico, la
daremo nella Sociologia. È che
sia questa per l'appunto l' esigenza
del suo
pensiero; che sia
questa la necessità
del nostro Rinnovamento, ce
ne porge guarentigia
e conferma la storia,
e il modo con
che s'è venuto
attuando e svolgendo il
nostro pensiero filosofico. Noi non
possiamo intrattenerci a lumeggiare
in qualche maniera
cotesto svolgimento. Non possiamo rilevarne i
caratteri, ritrarne la necessità
ne' passaggi, e dichiararne
il progresso ne' differenti periodi, dando
così forma determinata
e compiuta al nostro
assunto. Questo faremo
quando che sia
con apposito lavoro, di
cui abbiamo già
in pronto la
materia. Ma accennare di
volo al risultamento
del nostro pensiero senza por
tempo in mezzo,
è cosa che
possiamo fare anche ora;
tanto piii, che
tal risultamento, chi
ben guardi, traesi facilmente
dalle cose discorse
in piii luoghi del
nostro libro. La storia
della filosofia italiana,
dunque, a noi
sembra doversi dividere in tre
difiFerenti periodi, de'
quali stringiamo in pochissimo
i caratteri e
le tendenze peculiari: Primo Periodo (Scolast%c(hteologico),
S'inaugura con Boezio
Severino (Marciano Capella,
Cassiodoro ec), e
finisce con San
Tommaso (Tomisti e Scotisti
inclusive). Vi è chi
col Gioberti divide la storia della filosofia italiana in
cinque epoche (Ved. Prìmnto,
ed.); e v'è
chi la divide in
quattro età, cominciando
dal VI sec
avanti Cristo (Babtolom I M RS, Dici,
den teienc philot.)
Divisioni di cotal
fatta evidentemente peccano d'eccesso, in
quanto che abbracciano
più e diverse
civiltà, e però
non riescono ad imprimere
valor razionale e
forma omo^renea allo
svolgimento del nostro pensiero
fllosoftco. La storia
della filosofia italiana
s’inaugura quando il popolo
di Roma, cessando,
secondo il detto
di Hegel, d’essere essenzialmente umanitario
e univertale, comincia
ad essere italiano. Il suo cominciamento amare
il concetto del metodo, cioè
la industria induttiva,
ma ne' fatti d'ordine fisico sensato, e in parte
filologico ed erudito.
L'indirizzo medio perciò s'inaugura
con ricercare e
determinare il metodo, non
già con l'edificare
un sistema. Questo
è il lor merito
comune; e questo
è anche il
loro difetto, stantechè manchi
ad essi la
nozione compiuta del mesi pretende
imprimere ralore a
tutta la storia,
quando s’interpreta, cosi com’es8Ì
fanno, la scuola
platonica toscana, e
le si vuol
dare quel valore ch’ei
le danno. Un
altro esempio sono
gli studi di
Spaventa su Bruno e su Campanella: studi
bellissimi e pieni
di vedute profonde
dalVun capo air altro,
e come monografie
noi H accettiamo,
e ne caviamo
il nostra prò: ma com’elemento di
storia generale, la
Agnra e la
Asonomia del Bruno, per
esempio, ò delineata
siffattamente, che quando
siamo al significato
della storia generale
della filosofla, si toccan
con mano lo Gonsognense sistematiche
e parziali della critica
monografica. In una parola
io; voglio dir qoesto: la
monograAa ò boli e
buona, ò supremamente utile, ma è sommamente
pericolosa; perchò se
come studio monografico ella può
esser vera, come
parte, com’elemento di
storia pu^ riescire falsissima.
Altrove noi proveremo
largamente e con
esempi mostrani tale assunto.
todo com'è applicato oggidì
da metafisici. Se non
che l'indirizzo medio nel
Rinascimento ci può
esser più convenevolmente rappresentato da
que' filosofi che,
travagliandosi attorno alla quistione
dell’anima intesa come problema
puramente psicologico, fanno
ad un tempo
ogni sforzo per interpretare con benigna critica
la dottrina dell’inteletto
possibile e dell’inteletto agente e
fra questi, come altrove
notammo, van rammentati
NISO (si veda), PORZIO (si veda) (il
quale non è
nient' affatto un seguace
di POMPONAZZI (si veda),
come pretende il
nostro collega FIORENTINO (si veda), ZABARELLA (si veda), CASTELLANI (si veda), ed altri
di simil valore.
Costoro sorpassano i confini
del senso; trascendono
in parte la modesta
indagine psicologica introducendo la ricerca cosmologica, e rannodano
così il problema
dell'anima intelligente con r
altro della natura
intelligibile. Nessuno ha I
pensato a rilevar
nettamente questo aspetto,
e segnalare questa tendenza
tanto evidente in
parecchi filosofi di quell'età. E
pur ci sarebbe
tanta mèsse damietere, i quando
non fossimo signoreggiati
dalle prevenzioni sistematiche del Neoplatonismo, o dell' Hegelianismo. Ma l’eterogeneità, il
contrasto, l’opposizione cresce sempre
più. Da una
parte ella si
esagera, per esempio,
con ZIMARA (si veda), CESALPINI (si veda), VANINI (si veda) e simili;
i quali rappresentando, diremmo
quasi, una mischianza
di naturalismo e d' iperpsicologismo, palesano
la. fiacchezza del vecchio
aristotelismo: dall' altra
poi si esagera
con que' filosofi che
presumon d'interpretare convenevolmente Aristotele e
Platone, mentre arabeggiano
la lor parie; e
tali per esempio,
sono LAGALLA (si veda), LICETO
(si veda) ed l’altri di
simil fatta. È
il Platonismo toscano, è
il naturalismo di POMPONAZZI (si
veda), è
l'arabismo padovano che si
prolungano pur sempre
svigoriti e indeterminati. Bruno e
Campanella rappresentano anch'
essi debolmente r Aristotelismo
e '1 platonismo, ma
per una ragione assai
diversa. L'esigenza psicologica,
propria del Rinascimento, nei
due arditissimi frati
assume ben altro valore, e si
allarga a sistema;
e così vediamo
i due estremi modificarsi
di guisa, che
Bruno e Campanella ci paion quasi
filosofi moderni, e modernissimo Galilei
rappresentante dell'indirizzo medio nella scienza fisica, in quanto ci
esprime assai vivacemente l'esigenza induttiva nelle discipline sperimentali.
BRUNO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e BONAIUTI (si veda) Galileo
Galilei, infatti, non ripetono
Aristotele del Lizio e Platone dell’ACCADEMIA, e
neanche intendono ad accordarli. Essi piuttosto
tendono a correggerli, e credono
correggerli, come altrove
mostreremo, in tre diverse
maniere. Perciò non a
torto il filosofo nolano è riguardato
oggi siccome antecedente
isterico di Spinoza; il
filosofo di Stilo
è ritenuto come
antecedente di Cartesio; e
Galilei viene invocato
da' Positivisti come uno ùe'padri
del Positivismo, secondo
che ci han
fatto grazia dirci Comte
ed Littré. Or tutto
questo sarà vero; sarà
vera cotesta novità ne'
tre filosofi: ma
sarà vera nel
senso che a
tutti e tre manchi qualcosa.
Essi ci rappresentano, vorre’dire,
tre esigenze solitarie, esclusive
e quasi inorganiche. In CAMPANELLA, per esempio,
vi è il
concetto della COSCIENZA e
della storia; ma
non vi è
quello dello spirito
come storia. In BRUNO vi
è il gran
concetto della natura; ma è un
concetto sifl'attamente
annebbiato e indeterminato che riesce affatto irrelativo, e nulla
non ha né dietro, né
avanti a sé. Talché
con l'avere affermato
che la prima causa
dove essere insieme
efficiente, formale e
finale, e' si chiarisce
seguace, non già
d'Aristotele del LIZIO, come vuole
Michelet, ma dell'indirizzo naturale
dell'Aristotelismo del LIZIO. Il
metodo di BONAIUTI Galileo Galilei, finalmente,
é quello che dove’essere;
un processo induttivo
e critico, ma
solamente applicato allo studio
delle leggi fisiche.
D'altro canto il filosofo pisano ha grandissimo
valore quando si
pensi com'egli, riducendo le leggi
di natura fisica
o meccanica a
fenomeni piÌL 0 manco
generali, giugnesse a
scacciare dal regno degl’agenti naturali
ogni fantasia astrologica
del falso Aristotehsmo LIZIO
(“Only he wrote his own horoscopes!” – Grice):
ma chi dice
eh' e' pervenne a darei Métaph, us ipsis dictantibus. Però non
più individui predestinati; non più famiglie,
né razze privilegiate. Non più popoli
eletti: ma privilegio
dell' intelligenza, ma trionfo della
libertà in ogni senso
e sotto qualunque
forma, nella famiglia, nello stato,
nella chiesa, nella scuola, nella società. Dunque, formola
suprema della vita e della storia,
della natura e
della speculazione, de'
fatti e delle scienze
e di Dio
stesso: la conversione del vero
cól fatto, e del fatto col vero. Il
terzo periodo della nostra
filosofia ci rappresenta l’età umana:
rappresenta l'età delle
idee, l'età della Bagione
spiegata. Quale sarà
dunque la conclusione? La conclusione
è chiarissima. Questo terzo
periodo importa l' esigenza, la
necessità d' un
Rinnovamento: racchiude
l'esigenza e la necessità
d'una filosofia razionalmente positiva. La
sintesi confusa del
primo periodo si ripete
anche nel terzo;
ed ecco le
contraddizioni evidenti,
manifeste, grossolane, talvolta
puerili di Vico. La medesima sintesi
veggiamo ripetersi ne' nostri
ultimi filosofi
neoplatonici; ed ecco
le contraddizioni di
Rosmini, ecco i controsensi del
Gioberti, ecco le
incongruenze del
neoplatonismo di Mamiani. Ma
cotesta sintesi tien dietro
ad un'analisi, tien
dietro all'analisi del
Rinascimento. Dunque,
tuttoché erronea, ella già
segna un progresso. Perciò
le contraddizioni dei nostri filosofi si risolvono
di per sé medesime;
si risolvono e
correggono per necessità storica:
le risolve e
corregge la storia
ella stessa; rebt4S ipsis
dictantibus. In altre
parole, il terzo periodo
è un ricorso,
dice l’Autore della Scienza Nuova; è
un ricorso d'uà
corso, cioè un ricorso del primo periodo. Ma cotesto
ricorrere non è
già un semplice ripetersi, bensì
é un ripetersi
che si rinnova
necessariamente, ciò è dir
razionalmente : ecco la
ragione del suo verace
progredire. Quale é
dunque il problema
che la storia del
nostro pensiero filosofico
tende a risolvere? È
sempre l'antico, l' antichissimo problema,
or divenuto novissimo: la
correzione e l' accordo
della doppia e
vecchia esigenza naturale
e iperpsicologica, empirica
ed a priori, positiva
e ideale. Quale
n' è poi il
risultamento? È il
trionfo dell'indirizzo medio;
è Finveramento successivo,
progressivo e razionalmente
necessario di tale indirizzo;
ed è quella
perennis philosophia di Leibnitz
la quale non è fatta,
ma si fa,
e sempre più si
farà. Abbiam detto che
in questa terza
età la ragione sommette l'autorità,
trionfa dell' Autorità, e
la riduce ne' suoi
giusti confini. Or
nell'ordine de' fatti
che cosa veggiamo? Ci
è dato osservare
(noi fortunati la medesima legge. Il grande
spirito nazionale trionfa
di Roma; riduce a
ragione l'Autorità; la
fa ragionevole. E
questo gran fatto accade
anch' egli per
necessità e provvidenza storica: rebus
ipsis didantìbus. Accade senz'av vedercene; accade senza
grandi rumori; accade
senza grandi strepiti guerreschi; accade
senza i temuti
fiumi di sangue. Evidentemente il
pensiero filosofico italiano
è provvidenziale I Egli è
già penetrato nella gloriosa ma
altrettanto ardua,
altrettanto spinosa e
travagliosissima età umana!
La legge
de' tre periodi, che
noi abbiamo a
fuggevolissimi tocchi
tratteggiato ne' suoi
caratteri essenziali e differenziali, non
è, al solito,
una legge dia-lettica, non è
legge a priori,
non è legge
sistematicaj non è legge organica
nel significato che
vorrebbero darle gli HegeUani.
È una legge,
ripetiamolo, essenzialmente
storica e psicologica:
e la necessità
a cui ella è
informata, anziché dialettica,
è anch'essa di natura
storica e psicologica. Non è dunque una
tricotomia ideale, dialettica, logica
e trascendentale applicata alla genesi
del nostro pensiero
filosofico; ma è
una divisione risultante dal
fatto stesso della
storia, e qì è
confermata dalla genesi
deUe funzioni psicologiche. Interpretando così
la storia della
filosofia italiana, il nostro rinnovamento speculativo
non pur si
presenterà come un' esigenza
della ragion teoretica, ma
come un profondo bisogno
altresì della Ragione
storica, I fini perciò
a' quali potrà
e dovrà pervenire
lo storico della nostra
filosofia saranno questi: 1"Egli così
avrà dato forma
razionale al movimento filosofico del
pensiero italiano, a contare
dalle sue proprie origini
fino ai dì
nostri: Avrà legittimato la
Scolastica e la riflessione teologica facendole
servire entrambe allo
svolgimento isterico del nostro
pensiero filosofico. Avrà schivato
le pretensioni esclusive,
l’interpretazioni erronee,
infedeli e parziali degli
storiografi hegeliani che altro
non veggono, sì
nella nostra come nella
universale storia della
filosofia, fuorché il
trionfo d'un Aristotelismo o
d'un Platonismo interpretati,
rimaneggiatie rimpastati a
tutto lor comodo
e favore: Potrà giustificare
la rinnovata Filosofia
Positiva Italiana
correggendo l'Arabismo vecchio e
nuovo, correggendoil vecchio
e’1 nuovo positivismo, legittimando la vera
esigenza platonica e
la vera esigenza
aristotelica,e dimostrando col
fatto il progresso
nel corso del nostro
pensiero filosofico mercè
il trionfo dell'indirizzo medio. Finalmente potrà
porger modo alla
storia politica, alla storia
civile e alla
storia letteraria del
nostro paese d' attingere significato
razionale e razionalmente positivo, elevandole
a dignità filosofica
legittima. Fuori di questi
principii è impresa
vana pretendere d' imprimervalore scientifico
alla storia del
popolo italiano. FILOSOFI CHE DI
PROPOSITO O PER INCIDENTE TRATTANO
DELLE DOTTRINE DI VICO
Giornale de’ Letterati oT
Italia, Osserrazioni al primo
libro De Antiqtuissima
Italomm Sapìentia, Venezia, Clbbioo, JBihl
anL e mod.
Concinna, Originia futidamenta
et capiUi prima
JurÌ9 Naturalie. Padova,
Damiano Romano, Difeta
storica delle Leggi
Oreche venute a
Roma contro l’opinione moderna
del signor Vico,
Napoli, Quattordici Lettere
evi terno principio
della Scienza Nuota
ec. Napoli, Ganassoni, Memoria
in difesa dd
principio dd Vico
tu l’origine delle XJI
Tatcle. Opasc. del Galogerà. RoOADEl, Saggio
del Diritto pubblico
o politico del
Regno di Napoli, DdV
antico Stato de’ popoli
d’Italia Cistiberina. Vedi
anche ColanOELO, Biblioteca
analitica ec. 1 Diamo
qui tale indice
tanto in servigio
e compimento della
storia e della critica
fatta nel primo libro
sn gli scrittori
che han parlato
del Vico, quanto per
ehi amasse di
ripetere i medesimi
studi, e far
le medesimo ricerche
da noi fatte. Di
alcuni di questi
autori, come aTrertìmmo, non ahhiam
creduto prezzo deir opera far cenno;
d'altri poi non abbiam
potuto, segnatamente d’alcuni venuti alla
luce quando la
prima parte del
nostro layoro era
già in eorso
di stampa, come per
esempio del Qalatio,
del D§ luca,
del Sarchi (traduz.
del saggio ì Mstafisieo), del
Laurent e di
qualcun altro. Tutti
gli abbiam letti
o consultati 0 studiati
secondo ohe richiedeva
non solo il
proposito di questa
nostra opera, ma piti
ancora quello della
seconda che pubblicheremo
intorno ai Prineipii della Sociologia.
Non abbiam potuto. leggere gli
articoli di Wotf e
dell' Or««t, la Prefatiom del
Wsbsr alla trad.
della Sdenta Nuovuy
ì Fogli $parsi
del QOichet e gli
scritti di MUller
e del Cauer;
ma ne abbiam
dato giudizio traendone notizia da
fonti sicure. Disporremo qnest'
indice, quant' ò
possibile, secondo Vordine cronologico,
affinchè sia fatto
più chiaro il
pensiero a cui
è informato il presente lavoro. G.
Laui, Novelle Letterarie,
Firenze. Vedi pure nelle
note al Meursio. FlKETTi, De PrineipiU
Jurx$ Naturce et Oentiam
adver$tu Bòbbeatum,
Pu/endorjium, Woljium et
alio. Venetiis, Bettinellus, Sommario delle
opposizioni del Sistema
Ferino di Vieo
alla Sacra Scrittura. La
faUità dello Stato
ferino: Appendice al Diritto
di Natura e delle
OentU E. DuNi, Op.,
edi?. completa per
cura del Gennarellì.
Roma Scienza del Coetume.
Saggio sulla Giurisprudenza Universale. Origine e progressi
del Cittadino di
Roma. A. BuoNAFEDR, Istoria
critica del moderno
diritto di Natura
e delle Genti:
la ediz. E fatta
a Perugia in sa
lo scorcio). Stbllini, Opera omnia. Padova (specialmente nell'Opera, Do Ortu
et Progressu morum). M.
Delfico, Ricerche sul
vero carattere della
Giurisprudenza Romana • de’suoi
euUori. Napoli Pagano, Op.
Capolago. I Saggi PoliHei
furon pubblicati in Napoli
neir ultimo decennio
del secolo passato.) Cuoco, Platone
in Italia. Milano,
FiLAKGiBBl, Scienza della
Legislazione. Firenze, Monti,
Prolusione agli ttudii
ddV Università di Pavia. Milano Foscolo, Discorso dell’origine e dell’ ufficio della
letteratura. Vedi nelle Lezioni
d'Eloquenza, ediz. di
Napoli, WoLP, nel
Museum der Alterthumwissenschafi. Berlino, Orblli, Vico
e Niehuhr. Museo
Svizzero, Anonimo, Dell’antichissima Sapienza
degli Italiani, versione
dal latino. Milano, Silvestri,
Iannblli, Sulla natura
e necessità della
Scienza delle cose
e delle Storie umane.
Napoli, Anonimo, nell’Indicatore di
Gottinga COLANOELO, Saggio di
alcune considerazioni suUa
Scienza Nuova del
Vico. Napoli, G. RoifAGKOSi,
Osservazioni sulla Scienza
Nuova. Weber, traduzione
della Scienza Nuova.
Lipsia, G. Db
Cbsarb, Sommario delle
dottrine di Vico, compilato
sull’ediz. della Scienza Nuova
fatta dallo stesso
Vico e pubblicata nell’ediz. dello
stesso saggio in
Napoli. Gallotti, Principii «T una Scienza Nuova
di Vico, prima
edizione pubblicata dall'autore riprodotta
e annotata. Napoli, CHE TBATTANO
DEL VICO Michelet, Prineìpca
de la PkiloBophic
de VHUtoìre, traduits
de la Scienza Nuova, Paris; ripubblicata con le
altre opere a
Bmzelles Ricci, nell’Antoloffia del
Vleussenx, Firenze, stadio
critico su la
tradazione fatta dal
Michelet). lìivitta Enciclopedica
f Fascicolo (art. sa la tradazione
di Michelet). LBBXiinEB,
Initoduction generale à
VBittoire du Vroit.
Paris Bietoire de la Philotophie du
Droit. Bruxelles nel Tom.
II). Ballanchb, Opere. Paris, JouFFBOY, Mélangea
Philo$opMqu€$. Bruxelles
CousiK, Oaurs ec, 2« serio, Paris Introductxon b. VHieioire de la
Phil.f Lea, II, T.
Maviani, Rinnovamento della
Filonofia antica italiana,
Paris, L. T.
(LniQi Tonti), Saggio
aopra la Scienza
Xuova di Vico,
Lugano, PREDABI, Op. del
Vico con traduzioni
e commonti. Milano,
Bravette, Febbabi, Op.
del Vico ordinate
ed illustrate coW
analisi détta MenU del
Vico ec. Milano, Società
Tipografica, Édit. compllte
dee oeuvre* de
Vico, en six
voi. Paris, Vico et r
Italie. Paris, Eeeai
sur le principe
et le$ limites
de la Philoeophie
de VBittoirt Paris, Joubert Vico
et VItcdie (nella
Recue dee Deux
^fond€9, Cattaneo, Vico e V
Italia (nel Politeniico). St. MrLL,
Sifithne de Logique, RosviNT, Il
Rinnovamento della Filosofia
in Italia propoeto
dal Conte Terenzio Mamiani
della Rovere, Milano Vedi
pure nella Filo•ofìa
del Diritto, e
nella Filosofia politica.) G98CHEL, Zerstreute
Bldtter, nella Rivista
Giuridico-filosofica. SchlousSingen, A.
Cosmc, Lettera al Mill
(vedi Littrì, Comte
et la Philosoplie Positive, Paris,
loLA, Studio sul
Vico e sulla
filosofia della Storia,
letto nell’Accade-miafilosofica di
Sassari, Torino Maviani,
LrUere intomo alla
Filosofia del Diritto.
Napoli, Mancini, Intorno
alla Filosofia del
Diritto, Lett. al
conte Terenzio Mamiani. Napoli,
Re.kouvieb, Manuel de PhU, moderne. Paris Gioberti, IiUrocU
allo studio della
Filosofia. Losanna, ToMMAsio,
Stridii critici, Venezia,
Studii filosofici, Venezia, voi.
II. BonCHEZ, Jntrod, à
la Science de VHist,
Paris, Anonimo, La Science
nouvélle par Vico,
trad. par Tautear de
Tessa! sur la formation
da Dogme Catholiqae.
Paris,
Della Valle, Saggi
exdìa Scienza della
storia, ossia Santo
della Seiema Nuova di
Vico. Napoli, Eocoo, Elogio
storico di Vico. Napoli Farina, Storia
(L’Italia, narrata al
popolo italiano. Firenze,
Poligrafia italiana, Prefazione.
S. Centofakti, Una Fortixola
logica della filosofici
della storia, Pisa, TomiASào, Notizie
sulla vita e suUe opere
di Vico. Vedi
nell* edizione della Scienza
Nuova fatta a
Milano dal Silvestri F.
CARyiGNANl, jStona deUe
origini e de’progressi
della Filosofia del
Diritto, Lucca Mancini,
Intorno alla Nazionalità
come fondamento del
Diritto delle Genti. Torino Ondes
Begqio, Introduzione ai
principii deUe umane
società, Genova, Vannucci, Storia
antica d’Italia, Firenze,
Marini, Vico al cospetto, Napoli MUller,
Vico Oleine ^c^/ten Neuhrandehurg. BouLLiKR,
Hlst. de la
Phil, CartUienne, Paris Poli, Manuale
della Storia della
Filosofia del Tenncmann,
Milano. A. De Carlo,
Istituzione filosofica secondo
% principii di
Vico, divisa in quattro
volumi. Napoli, Giani,
DeW unico principio
e deW unico
fine dell’ universo Diritto.
Oper.a di Vico tradotta
e commentata coir
aggiunte di appendici
relative alla materia dell’opera
stessa. Milano, Della
eguàU autorità e
naturale amicizia di
tutte le scienze.
Milano Caubr, nel Museo
tedesco Amari, Critica d’una
Scienza dille Legislazioni
comparate, Genova, Tipografia de’Sordo-Muti, V. FORNARi, Dell’armonia
Universale, Napoli; Firenze, Faonani, Ddla
neeessità e ddT
uso della Divinanione
tettifieata dalla Scienza Nuova
di Vico. Alessandria, Ristampata
a Torino. CHE TRATTANO
DI VICO GIOBERTI, Protoloffia,
Ediz. del Massari
(Saggio ITI), B. ll&zzARELLA, La
Critica dtUa Scienza.
Genova, tipi Lavagnino,
Spavrnta, Carattere e
«viluppo della JUoBoJia
itàliajut d IL Periodo
de' critici e degli
eruditi Continua il periodo de' critici
e degli eruditi. Periodo degl*
interpreti filosofi Continua il
periodo degV interpreti
filosofi. Conseguenze. Forma della mente, e
carattere delle opere
del Vico. Valore della
nostra critica.) Vico, Leibnitz e il Cartesianismo Delle due
moderne filosofie, Germanica e Italiana i INTERPRETAZIONE DELLA
DOTTRINA FILOSOFICA. Preambolo Dottrina
della scienza e del criterio
IL Del criterio
e del metodo
nella scienza Òtà
Posizione e critica
del Principio speculativo n
Platonismo e l’Aristotelismo nel
problema psicologico Organismo e processo psicologico. Fondamento razionale del
processo storico. Genesi e teleologia
psicologica. Del conoscere metafisico.
Critica de’ moderni Neoplatonici.
Vin. Continua lo stesso argomento. Critica del
Neoaristotelismo :
Positivismo ed Hegélianismo, Su la
ricerca dell* Assoluto secondo
la Ragion filosofica positiva Del
Principio metafisico Sul moderno
concetto della Creazione
e della Provvidenza Xn. Deir
attività creativa ne’diversi
momenti del Processo cosmico XnL
Darwinismo, Scienza Nuova
e Sociologia. Idea
su la Storia della
Filosofia Italiana Indice degli
Autori che di
proposito o per
incidente trattano delle dottrine
di Vico operazione
immediata, per operazione
mediata, e^non potrebbe
non rieecire, per e non potrebbe rietcire, quel certo Jiloeofoy
per certo, quelfloeofo. tuo*dirc, per vo^
dire. Crieto quel centro maeeimo,
por Cristo, qvidl centro massimo,
jUosofia fisiologica, per Jìlosofia etisologica, assommano la ragione, per assommano
le ragioni, T&g. Firtz,
per iVr««.v. 13.
degVim-, ponderabili suW esistenza,
per degV imponderabili e
deW esistenza. Sft^rji
vrr(xpx,tt to, per
fyi?:?? V7ra^;^«e to'.
Sovsifiit, per juva/xee. tovto, per
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Jtavoiat;.7rauTt, per Travri.
affermazione promessa, per affermazione
promossa, ù^iirpòi, per
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per xar' auTvjy.
Avto7s tv, per Auto
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sere, per altro
non potrtbV essere..
e perciò era
visione, per e perciò
visione.^ Pag. 351,
v. 20. aXXov
«^eu/xaTOtiv, per aXXwv a?to/iaTwv. tololtyi?,
per Tuvxng. gL Tra/DOff ta,
p«r Tra^ou^ca. che le fa iìUendere, per che la fa intendere. di coglierne concetto,
per di coglierne il
concetto. es egreift, per es
ergreift, dans an sich, per das an sich. Jtvoljixffovt, per ^vva/X8VG(.
e s^ avvilirebbe, ^r e*
s* avvilirebbe. ytuVe?, per f^J7t(. /*v?5>j, per iit$è. ^a£va-5ae,
por yaevjo'^'at. rxpoi^vy' |xaTa, per
7ra^a?£t7fAaTa. del Dio aristotelico, con; per del Dio aristotelico che con,, y. 40,
in due e
cantra- rie sentenze apposite,
per in due apposite
e contrarie sentenze
yjppxsi ro,v^r vnapxst
to. to (^trepov, per TO
5«UTe/)0v. to' rra^Xo,
per tÒ oiWo, dell’atonicità/dell’atomicità,, creare
vuol non dire/creare non
vuol dire; ci son
addate/ci son additate; e
correggendo, lui/e correggendo lui; chi, davvero,
ragion teologica/che, davvero, la
ragion teologica. Pietro Siciliani. Siciliani. Keywords: la psico-genia
di Vico, ateneo felsineo, l’unita organica della filosofia, zoologia
filosofica, psicogenia, “I principii metafisici di Vico”. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Siciliani” – The Swimming-Pool Library. Siciliani.
Luigi Speranza -- Grice e Sidonio: la ragione conversazionale dell’implicaturis
– inplicatura Lewis/Short -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sidonio Appolinare – follows a
political career. He writes a number of letters in which he makes reference to
philosophers and philosophical issues. He claims, for example, that Cleante di
Assus bites his nails. Grice: “Implicature is a natural thing in Roman. You
have -plicare, you add in-plicare, and then you conjugate!” – Keywords:
inplicatura, implicatura, implicature, disimplicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sidonio” – Sidonio.
Luigi Speranza -- Grice e Signa: la ragione
conversazionale della ruota di Venere – la scuola di Signa – filosofia
fiorentina – la scuola di Firenze -- filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Signa). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Signa, Firenze, Toscana. Insegna
retorica (“ars dictaminis”) a Bologna e Padova. Vive ad Ancona, Venezia,
Bologna, Padova, e Firenze. Tra i saggi più significativi si ricordano il
saggio storico “L’assedio d’Ancona” (Viella, Roma), il “Bon Compagno”; “Rethorica
novissima”; “Scacchi e il “Libellus de malo senectutis et senis”, nel quale,
con spirito arguto, prende in giro le affermazioni di Cicerone che idealizzano
la vecchiaia”; la “Rota Veneris” (Salerno), un saggio di epistolo-grafia
amorosa; “Liber de amicitia”; “Ysagoge Boncompagnus; “Tractatus virtutum”; “Palma
Oliva Cedrum Mirra Quinque tabulae salutationum”; “Bonus Socius e Civis Bononiae. Garbini,
Roma, Salerno, Gabrielli, Le epistole di Cola di Rienzo e l'epistolografia,
Archivio della Società romana di storia patria, Gaudenzi, Sulla cronologia
delle opere dei dettatori bolognesi da S. a Bene da Lucca, Bullettino
dell'Istituto storico italiano, G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, Palermo,
Tateo, Enciclopedia dantesca, Treccani Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su ALCUIN, Ratisbona. Wight: S.'s charter doctrine (Bologna), in:
Medieval Diplomatic and the 'ars dictandi', Scrineum. Keywords: Cicerone, “ars dictaminis” – o rettorica --.
Bon Compagno da Signa. Signa. Keywords: rota veneris – erotica – ermafrodita –
erma: mercurio, afrodita, venere, afrodisiaco. Luigi Speranza, “Grice e Signa”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Silio: la ragione conversazionale a Roma – la
maledizione di Dione – Scipione come Ercole – il sacrificio dell’eroe – filosofia
veneta – la scuola di Padova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto.
Vilosofo italiano. Padova, Veneto. Avvocato, console, pro-console de principato
romano. Muore in Campania. Figli: Lucio Silio Deciano. Console, Proconsole in
Asia. Noto semplicemente come S. Italico è anche un poeta, avvocato e politico
romano, autore dei Punicorum libri XVII, il più lungo poema epico latino
pervenutoci. Abbiamo notizie di lui da una lettera di PLINIO il Giovane a
Caninio RUFO, nella quale parla della sua morte. Il nome ‘Asconio’ porta a
ritenere che e legato alla gens patavine. Altre brevi informazioni ci vengono
da TACITO e da Marziale. Di Marziale, S. è il patrono e sappiamo che opera nel foro
come avvocato difensore, probabilmente già al principato di CLAUDIO. Secondo
Plinio, nel principato di Nerone, dove esercitare anche l'avvocatura d'accusa,
ovvero la delazione vera e falsa per il favore del principe. Il beneficio che
ne tratta e il consolato ordinario. Con la caduta e morte di Nerone, in
quanto amico di Vitellio, S. partecipa alle trattative di questi con il
fratello di Vespasiano, Tito Flavio Sabino, che è a Roma con il figlio di
Vespasiano, Domiziano. S. è pro-console in Asia Minore agl’ordini di VESPASIANO.
Testimonianza è un'epigrafe ad Afrodisia, che riporta il suo nome completo. Allo
scadere del mandato pro-consolare S. si ritira dalla vita politica attiva
dedicandosi agli studi e alla stesura del suo “Punicorum libri”. Nel Libro
III vi è un riferimento al titolo di "Germanico" assunto da Domiziano
e Marziale saluta l'opera nel IV libro degl’epigrammi. Anche a causa dello
stato di salute aggiorna a Campania, dove compra la villa di CICERONE, il suo
modello di oratoria, e la terra che custodia la tomba di VIRGILIO, di cui è un
estimatore e ai cui stilemi si rifà abbondantemente nel corso dei Punica. Durante
il principato di Domiziano, ha la paterna soddisfazione di vedere nominato
console il figlio Lucio Silio Deciano, anche se Marziale e Plinio ci informano
che, peraltro, dove subire la perdita del figlio minore. In Campania, provato
da un male incurabile, si lascia morire di fame alla maniera del Portico. S. scrive
i Punica, poema storico, anche se secondo una parte della critica il testo è
incompiuto, in quanto si ipotizza un progetto originario in XVIII libri,
parallelo alle dimensioni degl’annales d’ENNIO. La tomba di Virgilio al
chiaro di luna, con S., dipinto di Wright. I Punica sono la più lunga epica romana
che ci sia pervenuto. Racconta la guerra punica dalla spedizione d’Annibale in
Spagna al trionfo di SCIPIONE dopo Zama. La disposizione annalistica
testimonia la sua volontà di ricollegarsi alla III decade di LIVIO, ne recupera
la cornice architettonica del modello. Colloca dopo il proemio il ritratto di
Annibale e chiude, come LIVIO, con l'immagine del trionfo di Scipione. I Punica
è concepita quale continuazione ed esplicazione dell’Eneide virgiliana. La
guerra d’Annibale è, di fatto, vista come la continuazione di Virgilio,
originata dalla maledizione di Didone contro ENEA, mentre dal poema virgiliano
S. restaura la funzione strutturale dell'apparato mitologico, anche se lo
stravolgimento anti-frastico della provvidenza virgiliana è sostituito da un'EPOPEA
dal finale rassicurante. PLINIO ha delle riserve sulle capacità di S., lo
ritiene più antiquario che artista per il suo gusto per le ricostruzioni
minuziose. Lo stile sembra influenzato dal gusto del tempo:
"barocco", scene macabre unite al modello epico mitologico, con BANALI
RIFLESSIONI ETICHE. L'opera, comunque, risulta frammentaria, poiché dà più
importanza ai particolari piuttosto che non all'unità dell'opera stessa.
Quindi, lo scritto di S. è importante soprattutto per la quantità di
informazioni storiche e mitologiche piuttosto che per la sua poesia. S. in
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. S., in Treccani.it –
Enciclopedie, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su Sapere.it, De
Agostini. Pollidori - Postilla a S., su gionni altervista.org. Giarratano, S.
in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Epist.
III, 7. Patavino: cittadino di Padova (dal latino Patăvium, nome della città di
Padova. Marziale. Vinchesi, Introduzione, in Le guerre puniche, BUR, Milano, Occioni,
S. e il suo poema, Firenze, Monnier, Vinchesi, Introduzione, in Le guerre
puniche, BUR, Milano. S. su Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giarratano, S. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, S. su sapere.it, Agostini. S., Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica. Silio Italico, su ALCUIN, Ratisbona. S., su Musisque Deoque; S. su
PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S., open MLOL, Horizons Unlimited, S., Open
Library, Internet Archive. S. su
Progetto Gutenberg. V · D · M Poeti epici antichi Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Letteratura Categorie: Poeti romani
Avvocati romani Politici romani, Poeti, Consoli imperiali romani. S. has a career in politics
before retiring to his villa near Napoli where he pursues his interests in
philosophy. He is a follower of the Porch, and admired by Pliny Minore. S. is
a philosopher of the Porch.. S. adopts
Virgil's basic concept of seeing in the Punic War a fateful step on the road to
Rome's greatness, pre-ordained and hence supported by the divine. In his epic,
however, S. goes further than Virgilio had done in trying to illustrate how the
actions of the great Romans of the period, such as Marcellus or Scipione -
reveal that harmony between pre-destination and CHOICE which is demanded by the
philosophy of IL PORTICO. Romans like Marcello or Scipione remain loyal to the
ancient values of Rome, which are unknown (and naturally totally foreign) to
the antagonist Hannibal. S. shows both Scipione and Hannibal as trying to
emulate ERCOLE, that hero whom philosophers from both IL PORTICO and IL CINARGO
present as the archetype of a man whose unceasing endeavour and striving make
him able to attain perfection through his own efforts. The Roman ERCOLE is,
moreover, an important figure in popular religion and in Flavian principate
ideology. In S.’s epic only one of the two claimants is Hercules’s legitimate
successor: Scipione, whose individual striving for perfection is sub-ordinate
to the summum bonum (OPTIMVM) of serving Rome, and thus in harmony with the
universal order in which Rome has its divinely given place. By applying the
doctrine of fate of IL PORTICO to explain the tradition of Rome's heroic past
with its many Republican memories S. establishes a meaningtul connection
between that tradition and the state of the principate in which he himself lives.
S.’s aim is to prove that a classicising frame of mind with its orientation
towards the legendary past of Rome leads to an affirmation, instead of a
rejection, of contemporary reality. Tiberio
Cazio Asconio Silio Italico. Keywords: SCIPIONE, l’eroe nudo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Silio, and the labours of Ercole” – per il gruppo di gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. Silio.
Luigi Speranza -- Grice e Silla: la regione conversazionale della ta
meta ta physika -- Roma – lascuola di Roma – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo romano.
Filosofo lazio. Filosofo italiano. Apellicon, a member of the Lizio, acquires
an extensive collection of the works of Aristotle and Teofrasto that had once
belonged to Neleo, della Scessi. S. takes the collection away from him and
transports it to Roma, where TIRANNIO (si veda) is put in charge of sorting it
out and looking after it. Grice: “Tirannio saw a bunch of books which where
obviously on physics. ‘And what are these?’ A bunch of books piled after those
about physics. ‘I don’t know. I call them ‘the books that come after the books
on physics’ – ta meta ta physika.” Lucio Cornelio Silla Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Disambiguazione – "Lucio Silla" rimanda
qui. Se stai cercando altri significati, vedi Lucio Silla (disambigua).
Disambiguazione – "Silla" rimanda qui. Se stai cercando altri
significati, vedi Silla (disambigua). Disambiguazione – Se stai cercando
l'opera di Händel, vedi Lucio Cornelio Silla (Händel). Lucio Cornelio Silla
Console e dittatore della Repubblica romana Ritratto di Silla su un denario
battuto da suo nipote Quinto Pompeo Rufo Nome originale Lucius Cornelius Sulla
Nascita Roma Morte Cuma Coniuge Giulia Elia Clelia Cecilia Metella Dalmatica
Valeria Messalla Figlida Giulia Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Metella
Fausto Cornelio Silla Fausta Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Valeria
Cornelia Postuma GensCornelia PadreLucio Cornelio Silla Questura Pretura
Propretura in Cilicia Consolato Proconsolato in Asia Dittatura Lucio Cornelio
Silla Nascita Roma Morte Cuma Cause della morte cancro Etnia Latino Religione Religione
romana Dati militari Paese servito repubblica romana Forza armata Esercito romano
Grado Dux Guerre Guerra giugurtina Guerre cimbriche Guerra civile romana Prima
guerra mitridatica Battaglie Battaglia dei Campi Raudii Assedio di Atene
Battaglia di Porta Collina Battaglia di Cheronea Battaglia di Orcomeno
Comandante di Esercito romano Altre cariche Dictator voci di militari presenti
su Manuale Lucio Cornelio Silla (in latino Lucius Cornelius Sulla Felix,
pronuncia classica o restituta: ˈluːkɪʊs kɔrˈneːlɪʊs ˈsʉlla ˈfeːlɪks, nelle
epigrafi L·CORNELIVS·L·F·P·N·SVLLA·FELIX; Roma – Cuma) è stato un militare e
dittatore romano. Lucio Cornelio Silla naque a Roma da un ramo della gens
patrizia dei Cornelii caduto in disgrazia. La motivazione è rintracciabile: un
quadrisavolo di Silla, Publio Cornelio Rufino, nonostante fosse stato console,
dittatore in data imprecisata e avesse celebrato il trionfo sui Sanniti, fu
espulso dal Senato perché possedeva più di dieci libbre di argenteria in casa. Il
figlio di Rufino, Publio Cornelio, fu nominato flamen Dialis, posizione di
massima importanza in ambito religioso, ma i cui obblighi lo escludevano di
fatto dalla vita politica.[4] Questi fu il primo a portare il cognomen Sulla. Nelle
sue Memorie, Silla stesso scrive che il primo Sulla fu il flamine, facendo
derivare la parola dal nome della Sibilla: infatti Publio Cornelio, figlio del
sacerdote e bisavolo di Silla, aveva consultato i Libri sibillini per decidere
se celebrare i primi ludi Apollinares; questo tentativo di nobilitare il
cognomen non rispetterebbe però un'antica usanza romana. Tradizionalmente,
infatti, il cognomen descriveva un tratto della famiglia che lo portava: in
questo caso, mentre Rufinus richiamava la capigliatura rossa della famiglia,
Sulla derivava da suilla, «carne di porco», e alludeva alla pelle chiara e
cosparsa di lentiggini. Nonostante il cambiamento del cognomen, la reputazione
della famiglia non migliorò e i successori del flamine non ricoprirono cariche
superiori a quella pretoria. Il bisavolo di Silla, Publio Cornelio, fu
unitamente praetor urbanus e peregrinus e, come già detto, indisse i primi
Giochi di Apollo. Avvicinandosi all'età di Silla le informazioni scarseggiano:
del primogenito e nonno di Silla, omonimo di suo padre, si sa che fu pretore in
Sicilia, mentre il secondogenito, Servio, ricoprì la carica in Sardegna. Del
padre, Lucio Cornelio Silla, si sa ancora meno: è probabile che non fosse il
primogenito di Publio e che fu amico di Mitridate il Grande, per cui potrebbe
essere stato promagistrato in Asia o membro di una delle numerose delegazioni
che venivano frequentemente inviate in Oriente. Ebbe due mogli: la seconda,
matrigna di Silla, era decisamente doviziosa. Gioventù Busto virile detto
Silla, copia del 40 a.C. ca. di un originale dell'età augustea, marmo, alt. 47
cm. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek (in Roma, Palazzo Barberini, collezione
privata). La scultura e identificata con Silla ma, considerata la datazione
(incerta), si può dire che probabilmente non lo ritrae. Poco si sa della
fanciullezza di Silla. Ci rimane solo una leggenda, secondo cui, poco dopo la
sua nascita, una donna lo vide in grembo alla nutrice e le disse «Puer tibi et
reipublicae tuae felix» (Il fanciullo [sarà] fonte di gioia per te e per lo
Stato).Certo è che il crollo del prestigio condizionò la situazione economica
della famiglia, descritta così da Plutarco: «οἱ δὲ μετ’ ἐκεῖνον ἤδη ταπεινὰ
πράττοντες διετέλεσαν, αὐτός τε Σύλλας ἐν οὐκ ἀφθόνοις ἐτράφη τοῖς πατρῴοις.
γενόμενος δὲ μειράκιον ᾤκει παρ’ ἑτέροις ἐνοίκιον οὐ πολὺ τελῶν, ὡς ὕστερον
ὠνειδίζετο παρ’ ἀξίαν εὐτυχεῖν δοκῶν. σεμνυνομένῳ μὲν γὰρ αὐτῷ καὶ
μεγαληγοροῦντι μετὰ τὴν ἐν Λιβύῃ στρατείαν λέγεταί τις εἰπεῖν τῶν καλῶν τε
κἀγαθῶν ἀνδρῶν· «Καὶ πῶς ἂν εἴης σὺ χρηστός, ὃς τοῦ πατρός σοι μηδὲν
καταλιπόντος τοσαῦτα κέκτησαι;» I suoi di Rufino discendenti, fin dal primo,
condussero una vita mediocre e Silla stesso fu allevato in una situazione
patrimoniale niente affatto invidiabile. Da adolescente abitava in casa d'altri
e pagava un affitto basso; questo gli fu rinfacciato in seguito, perché
sembrava aver raggiunto una fortuna superiore al merito. Si dice che, dopo la
campagna in Libia, quando si faceva bello e si vantava, uno dei boni gli si
rivolse con queste parole: «E come potresti essere meritevole di lodi tu, che
ti sei ritrovato tante ricchezze senza che tuo padre ti abbia lasciato
niente?»» (Plutarco, Sull., 1, 2; trad. di Lucia Ghilli) Il
biografo greco probabilmente esagera, perché Silla non crebbe nella povertà più
assoluta: era ricco agli occhi del plebeo, ma povero agli occhi del nobile, una
posizione assimilabile a quella di cavaliere. Nonostante l'ambiente modesto in
cui visse, a Silla fu impartita un'ottima educazione, degna delle sue origini
patrizie: gli furono insegnati la letteratura latina e greca, il diritto, la
retorica, la filosofia e l'arte e fu impregnato dei valori tradizionali del mos
maiorum. Con questi strumenti, Silla poteva certamente rivaleggiare con i più
eruditi della sua epoca, ma per ottenere una carica gli serviva il
denaro. La speranza di ricoprire una magistratura sembrò svanire quando,
verso l'età in cui indossò la toga virilis, il padre Lucio morì senza
lasciargli nulla in eredità. Silla, che godeva di un reddito annuo di 9000
sesterzi, nove volte maggiore rispetto a quello di un operaio, ma decisamente
umile per un aristocratico, prese a frequentare i sobborghi dell'Urbe, che poco
si addicevano a un patrizio, e personaggi ambigui come mimi e istrioni, per cui
scrisse anche alcune atellane. Secondo Plutarco, in occasione delle bevute con
i suoi amici plebei Silla, la cui immagine è passata alla storia come severo
dittatore, mostrava il suo lato migliore: «ἀλλ’ ἐνεργὸς ὢν καὶ σκυθρωπότερος
παρὰ τὸν ἄλλον χρόνον, ἀθρόαν ἐλάμβανε μεταβολὴν ὁπότε πρῶτον ἑαυτὸν εἰς
συνουσίαν καταβάλοι καὶ πότον, ὥστε μιμῳδοῖς καὶ ὀρχησταῖς τιθασὸς εἶναι καὶ
πρὸς πᾶσαν ἔντευξιν ὑποχείριος καὶ κατάντης.» «sebbene fosse attivo e più accigliato per il
resto del tempo, non appena si buttava nella mischia e si metteva a bere
cambiava del tutto, tanto da diventare gentile con mimi cantanti e ballerini,
dimesso e propenso ad accogliere ogni richiesta.» (Plutarco, Sull.; trad.
di Lucia Ghilli) Ormai pronto al matrimonio, Silla sposò una certa Ilia, che
potrebbe corrispondere a una Giulia, sorella di Lucio Giulio Cesare e Cesare
Strabone Vopisco, o una Giulia minore, sorella di Gaio Giulio Cesare, Sesto
Giulio Cesare e Giulia maggiore, moglie di Gaio Mario, o più probabilmente si
tratta di un errore di Plutarco, per cui la figura di Ilia coinciderebbe con
Elia, la seconda moglie di Silla, di famiglia plebea e di cui non si sa altro
che il nome. In ogni caso, da Ilia Silla ebbe la sua prima figlia, Cornelia, e
il primo figlio, Lucio, che morì infante.Ad ogni modo, il legame matrimoniale
non gli impedì di intrattenere relazioni extraconiugali: coltivò una relazione
omosessuale con l'attore Metrobio, un amore giovanile che portò con sé fino
alla morte, così come continuò a frequentare i circoli di buffoni. Amò anche la
facoltosa Nicopoli, liberta più vecchia di lui e sua amante, che, quando spirò,
lasciò al giovane Silla una grande eredità. Nello stesso periodò morì anche la
matrigna, da cui Silla ereditò un'altra ingente somma di denaro.Fu
probabilmente così che Lucio Cornelio Silla, nato da una famiglia decaduta,
poté intraprendere la sua carriera politica: l'inizio della sua Felicitas.
Esordi della carriera e opposizione a Mario Lo stesso argomento in
dettaglio: Guerra giugurtina e Guerre cimbriche. Silla e nominato questore di
Gaio Mario, del quale era cognato avendo sposato la sorella minore della moglie
di Mario, Giulia, nel periodo in cui questi stava assumendo il comando della
spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia. Questa guerra si
protraeva ormai., con risultati addirittura umilianti per l'esercito romano,
tenuto in scacco dalle forze di questo piccolo regno africano. Alla fine
Mario, riuscì a prevalere, soprattutto grazie all'abile e coraggiosa iniziativa
di Silla, che riuscì a catturare Giugurta convincendo il suocero Bocco e gli
altri familiari a tradirlo e consegnarlo ai Romani. La fama che gliene derivò gli
servì da trampolino di lancio per la carriera politica, ma provocò il
risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti. Difatti Silla continuò a
servire nello Stato Maggiore di Mario fino all'elezione al consolato di Quinto
Lutazio Catulo, di antica famiglia aristocratica come lui, e infine passando
nello Stato Maggiore di quest'ultimo nella difficile campagna condotta in
Gallia contro le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Silla si distinse
anche in questa occasione, aiutando il console Quinto Lutazio Catulo e Mario a
sconfiggere i Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli. Al suo
ritorno a Roma, Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano, e i suoi
avversari non mancarono di accusarlo di aver corrotto all'uopo molti degli
elettori. In seguito fu assegnato al governo della Cilicia, regione situata
nell'odierna Turchia. Si assistette a un avvenimento storico per quell'epoca.
La Repubblica romana e il grande Impero dei Parti vennero a contatto in modo
del tutto pacifico. Una delegazione inviata dal sovrano parto, Mitridate II, si
incontrò sulle rive dell'Eufrate con il pretore Lucio Cornelio Silla,
governatore della nuova provincia di Cilicia. Dopo l'anno di pretura, Silla fu
inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di
nuovo sul trono Ariobarzane I. In verità egli aveva il compito di contenere e
controllare l'espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e
potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.» (Plutarco, Vita di
Silla) La missione di Silla, procuratore della Cilicia, nel 96
a.C., quando incontrò un satrapo dei Parti presso Melitene (futura fortezza
legionaria). Rovine di Aeclanum, la città del Sannio irpino conquistata
da Lucio Cornelio Silla. Questo primo incontro fissò sull'Eufrate il confine
tra i due imperi. Una curiosità di quell'incontro fu che Silla cercò, anche in
quella circostanza, di affermare la preminenza di Roma sulla Partia, sedendosi
fra il rappresentante del Gran Re e il re di Cappadocia, come se desse udienza
a dei vassalli. Una volta venuto a conoscenza dell'accaduto, il re dei Parti
fece giustiziare colui che lo aveva così maldestramente sostituito all'incontro
con il comandante militare romano. Ecco come racconta l'episodio Plutarco. Silla
soggiornava lungo l'Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un
parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c'erano mai
stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a
Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti
incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta
che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e
uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione
alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari,
altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte
sua, mise poi a morte Orobazo.» (Plutarco, Vita di Silla. Silla lasciò il
Medio Oriente e rientrò a Roma, dove si unì al partito degli oppositori di Gaio
Mario. In quegli anni la Guerra Sociale era al suo culmine. L'aristocrazia
romana si sentiva minacciata dalle ambizioni di Mario che, vicino alle
posizioni del partito popolare, aveva già retto il consolato per 5 anni di
seguito. Nella repressione di quest'ultimo moto di ribellione delle popolazioni
italiche alleate di Roma, Silla si mise particolarmente in luce come brillante
e geniale stratega, eclissando sia Mario sia l'altro console Gneo Pompeo Strabone
(padre di Gneo Pompeo Magno). Una delle sue imprese più famose fu la cattura di
Aeclanum, città degli Irpini, ottenuta incendiando il muro di legno che
difendeva la città assediata. Come conseguenza, ottenne per la prima volta il
consolato, insieme a Quinto Pompeo Rufo. Occupazione militare di
Roma Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile romana. Silla,
assunta la carica di console, ricevette poco dopo dal Senato l'incarico di
governare la provincia d'Asia. Durante il governatorato organizzò una nuova
spedizione in Oriente e combatté la prima guerra mitridatica. Si lasciò
tuttavia alle spalle, a Roma, una situazione assai turbolenta. Mario era ormai
vecchio, ma nonostante ciò aveva ancora l'ambizione di essere lui, e non Silla,
a guidare l'esercito romano contro il re del Ponto Mitridate VI. Per ottenere
l'incarico, Mario convinse il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo a fare
approvare una legge che sottraesse a Silla la guida, già legittimamente
conferitagli, della guerra contro Mitridate e gliela attribuisse. Appresa
la notizia Silla, accampato in quel momento nell'Italia meridionale in attesa
di imbarcarsi per la Grecia, scelse le 6 legioni a lui più fedeli e, alla loro
testa, marciò su Roma. Nessun comandante, in precedenza, aveva mai osato
violare con l'esercito il perimetro della città (il cosiddetto pomerio). La
cosa era talmente contraria alle tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal
parteciparvi. Spaventati da tanta risolutezza, Mario e i suoi seguaci fuggirono
dalla città. Dopo avere preso una serie di provvedimenti per ristabilire la
centralità del Senato come guida della politica romana, Silla lasciò di nuovo
Roma, e riprese la strada della guerra contro Mitridate. Guerra contro
Mitridate in Oriente Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra
mitridatica. Mitridate (oggi al museo del Louvre). Approfittando
dell'assenza di Silla, Mario riuscì a riprendere il controllo della situazione.
Con il sostegno del console Lucio Cornelio Cinna (suocero di Gaio Giulio
Cesare), ottenne che tutte le riforme e le leggi emanate da Silla fossero
dichiarate prive di validità e che lo stesso Silla fosse ufficialmente
dichiarato «nemico pubblico» e costretto perciò all'esilio. Insieme, Mario e
Cinna eliminarono fisicamente un gran numero di sostenitori di Silla, e furono
eletti consoli Mario morì pochi giorni dopo l'elezione e Lucio Valerio Flacco
fu nominato consul suffectus al suo posto, mentre Cinna rimase a dominare
incontrastato la politica romana, essendo rieletto console negli anni
successivi. Nel frattempo Silla si era recato in Grecia, dove portò alla
caduta Atene. Il comandante romano vendicò quindi l'eccidio asiatico di
Mitridate, compiuto su Italici e cittadini romani, compiendo un'autentica
strage nella capitale attica. Silla proibì, invece, l'incendio della città, ma
permise ai suoi legionari di saccheggiarla. Il giorno seguente il comandante
romano vendette il resto della popolazione come schiavi. Catturato Aristione,
chiese alla città come risarcimento del danno di guerra, circa venti chili di
oro e 600 libbre d'argento, prelevandole dal tesoro dell'Acropoli. Poco dopo fu
la volta del porto di Atene del Pireo. Da qui Archelao decise di fuggire in
Tessaglia, attraverso la Beozia, dove portò ciò che era rimasto della sua
iniziale armata, radunandosi presso le Termopili con quella del condottiero di
origine tracia, Dromichete (o Tassile secondo Plutarco). Con l'arrivo di Silla
in Grecia le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a favore
dei Romani. Espugnata quindi Atene e il Pireo, il comandante romano ottenne due
successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, dove secondo Tito
Livio caddero ben 700.000 armati del regno del Ponto, e infine a Orcomeno.Mappa
dei movimenti delle armate romane, prima e durante la battaglia combattuta
presso Cheronea Mappa dei movimenti delle armate romane, durante la
battaglia combattuta presso Orchomenos Contemporaneamente, il prefetto della cavalleria,
Flavio Fimbria, dopo aver ucciso il proprio proconsole, Lucio Valerio Flacco, a
Nicomedia prese il comando di un secondo esercito romano. Quest'ultimo si
diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte
vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo, e
poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re. Intanto Silla
avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano
opposti. Quando Mitridate seppe della sconfitta a Orcomeno, rifletté
sull'immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e
il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò,
decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori
condizioni possibili. Quest'ultimo ebbe allora un colloquio con Silla in cui
disse: Tuo padre era amico di re Mitridate, o Silla. Fu coinvolto in questa
guerra a causa della rapacità degli altri comandanti romani. Egli chiede di
avvalersi del tuo carattere virtuoso per ottenere la pace, se gli accorderai
condizioni eque. Appiano, Guerre mitridatiche) Dopo una serie di
trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si
accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi nei
confini antecedenti la guerra, ma ottenendo in cambio di essere ancora una
volta considerato «amico del popolo romano». Un espediente per Silla, per poter
tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla
Repubblica romana. Si racconta che Silla, prima di tornare in Italia, ebbe un
secondo incontro con ambasciatori del re dei Parti, i quali gli predissero che
«divina sarebbe stata la sua vita e la sua fama». Allora Silla decise di
tornare in Italia, sbarcando a Brindisi con 300.000 armati.Il ritorno a Roma,
la dittatura e le liste di proscrizione Lo stesso argomento in dettaglio:
Proscrizione sillana. Possibile ritratto di Silla (copia di un originale,
oggi conservata presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen).
L'identificazione è stata avanzata dall'archeologo tedesco Klaus Fittschen. Quando
fu raggiunto dalla notizia della morte di Cinna, nell'84 a.C., lasciò l'Oriente
e si mise in marcia verso Roma, ottenendo l'appoggio, tra gli altri, del
giovane Gneo Pompeo Magno. Dopo un periodo iniziale di stasi delle operazioni
militari, nel novembre dell'82 a.C. Silla ottenne la vittoria decisiva
sconfiggendo nella Battaglia di Porta Collina un grande esercito costituito
dalle legioni della fazione dei populares e dalle agguerrite truppe sannite al
comando di Ponzio Telesino. L'esito di questa battaglia fu determinato in modo
risolutivo dall'azione del futuro triumviro Marco Licinio Crasso che al comando
dell'ala destra sbaragliò le forze nemiche, mentre Silla era in grave
difficoltà sull'ala sinistra. Subito dopo la battaglia, essendo morti
entrambi i consoli, Silla fu eletto dittatore[56] a tempo indeterminato dai
comizi centuriati con la Lex Valeria de Sulla dictatore: i suoi poteri
comprendevano il diritto di vita e di morte, la possibilità di presentare
leggi, di effettuare confische, di fondare città e colonie, di scegliere i
magistrati. Fu sulla base di questi poteri che Silla realizzò
un'articolata serie di riforme, che, nelle sue intenzioni, dovevano risolvere
la crisi in cui si dibatteva da decenni lo Stato romano. Divenuto padrone
assoluto della città, Silla instaurò un vero e proprio regno del terrore,
mettendo al bando e dichiarando fuori legge (prima proscrizione) tutti gli
oppositori politici, offrendo ricompense a chi li avesse uccisi. I più colpiti
furono i cavalieri, che erano sempre stati ostili a Silla e che presero potere
grazie alla riforma del proletariato: ne furono uccisi 2.600 e i loro beni,
messi all'asta a prezzi irrisori, finirono nelle tasche dei Sillani. Il
giovane Gaio Giulio Cesare, come genero di Cinna, fu costretto ad abbandonare
precipitosamente la città, ma ebbe salva la vita grazie all'intercessione di
alcuni amici influenti, soprattutto della cugina Cornelia, figlia di Silla, e
del marito di lei Mamerco Emilio Lepido, princeps senatus. Silla annotò poi
nelle proprie memorie di essersi pentito di averlo risparmiato ("e sia, lo
risparmierò, ma vi avverto, in lui vedo mille volte Mario", frase citata
in Svetonio, Vita di Cesare, edizioni Laterza), viste le ben note ambizioni
politiche del giovane. Una vittima delle sue proscrizioni, con una morte
particolarmente violenta e crudele fu Marco Mario Gratidiano, del quale si
racconta che fosse decapitato da suo cognato Catilina anche se, in un frammento
delle Storie, Sallustio non menziona Catilina nel descrivere la morte: a
Gratidiano, dice, «la vita era sfuggita da lui pezzo per pezzo: le gambe e le
braccia gli sono state spezzate e gli occhi cavati». La circostanza che
l'uccisione avvenisse presso la tomba di Catulo ha fatto pensare gli storici
che si trattasse non di una semplice crudele vendetta ma di un vero e proprio
sacrificio umano rituale per pacificare un antenato morto, riprendendo l'uso di
sacrifici umani a Roma, documentati in tempi storici da Andrew Lintott, seppure
da 15 anni fossero stati vietati. Il nuovo ordine Ormai rimasto senza
vere opposizioni, Silla attuò una serie di riforme tese a mettere il controllo
dello Stato saldamente nelle mani del Senato, allargato per l'occasione da 300
a 600 senatori. La nomina a senatore fu resa, inoltre, automatica al
raggiungimento della carica di questore, mentre prima era demandata alla scelta
dei censori. Per evitare l'accumulo di poteri si stabilì un limite minimo di
età per le varie magistrature: trent'anni per i questori, quaranta per i
pretori, ecc. Il potere dei tribuni della plebe fu inoltre fortemente
ridimensionato: le loro proposte dovevano essere approvate preventivamente dal
Senato e il loro diritto di veto limitato. Il potere giudiziario fu restituito
al Senato, sia per i reati più gravi sia per le cause di corruzione che la
riforma graccana aveva demandato ai cavalieri. In definitiva tutte le sue
azioni erano animate dall'intento di restituire al partito aristocratico il
controllo della città. Introdusse inoltre la legge per cui i vincitori di corone
militari di grado pari o superiore alla civica sarebbero stati ammessi di
diritto in senato indipendentemente dall'età, questo fu il motivo per cui Gaio
Giulio Cesare all'età di vent'anni ebbe accesso al Senato. Il ritiro dalla
vita politica Cronologia Vita di Lucio Cornelio Silla Nasce a Roma a.C.nominato questore di Gaio Mario fine
della Guerra Giugurtina legatus di Mario nella Gallia Ulteriore legatus di
Quinto Lutazio Catulo nella Gallia Ulteriore sconfigge i Cimbri nella Battaglia
dei Campi Raudii (Vercelli) eletto pretore urbano governatore della Cilicia comandante
nelle Guerre Sociali consolato insieme a Quinto Pompeo Rufo e successiva
occupazione di Roma e messa fuori legge di Mario spedizione in Medio Oriente
contro Mitridate VI del Ponto .messo fuori legge da Mario ritorna a Roma e la
occupa con la forza per la seconda volta eletto dittatore consolato insieme a
Quinto Cecilio Metello Pio 79 a.C.si dimette dal consolato e si ritira a vita
privata muore per cause naturali in Campania nella sua villa di Cuma Nella sua
veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta
Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un
suo liberto fu denunciato in un processo, e sconfitto grazie alle arringhe del
giovane Cicerone. Silla, sorprendendo tutti, l'anno successivo decise di
abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con
l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni.
Quando si ritirò a vita privata, pare che attraversando la folla sbigottita uno
dei passanti si mise a ingiuriarlo. Silla si limitò a rispondergli, beffardo:
«Avresti avuto lo stesso coraggio a dirmi queste cose quando ero al potere?. E
alla fine, personaggio dall'indole spietata e ironica allo stesso tempo,
confidò ad uno dei suoi amici: «Imbecille! Dopo questo gesto, non ci sarà
più alcun dittatore al mondo disposto ad abbandonare il potere]» Plutarco
nelle Vite parallele lo rappresenta come il vizio, narrando che fosse circondato
da una variopinta corte di attori, ballerini e prostitute, fra cui un certo
Metrobio, e che gli dei per punizione lo fecero ammalare di lebbra. Dopo aver
terminato le sue riforme, si ritirò a vita privata. In compagnia di questa
allegra brigata, Sulla Felix fino all'ultimo respiro, morì probabilmente di
cancro. Lasciò vedova e incinta la sua ultima moglie, Valeria Messalla, che
qualche mese dopo partorì una figlia, Cornelia Postuma. Com'era allora
d'uso presso i potenti di Roma, lui stesso dettò l'epitaffio che aveva voluto
s'incidesse sul suo monumento funebre: Nessun amico mi ha reso servigio,
nessun nemico mi ha recato offesa, che io non abbia ripagati in pieno.»
Conseguenze dell'operato politico di Silla I problemi politici e sociali che
avevano portato alla guerra civile non erano però affatto risolti. Silla aveva
ristabilito l'ordine oligarchico in virtù della forza derivatagli dagli
eserciti, al cui appoggio avrebbero ricorso sia i sostenitori sia gli avversari
del nuovo corso da lui instaurato. Da Silla in poi la vita politica e civile
dello Stato fu perciò condizionata pesantemente dall'elemento militare:
disporre di un esercito da usare contro gli avversari e, se si rivelasse
necessario, contro le stesse istituzioni romane, divenne l'obiettivo principale
dei più ambiziosi capi politici che aspiravano al potere. Il sistema
costituzionale romano uscì distrutto dalla guerra civile. E l'esempio di Silla
trovò presto un imitatore d'eccezione proprio in un uomo che aveva idee opposte
alle sue: Giulio Cesare. Matrimoni e discendenza Silla si sposò cinque
volte: Giulia, chiamata anche Ilia. Probabilmente una parente di Giulio Cesare,
si sposarono e lei morì., probabilmente di parto. Ebbero una figlia e un
figlio: Cornelia, che fu madre di Pompea Silla, terza moglie di Giulio Cesare.
Lucio Cornelio Silla, che morì giovane. Elia, da cui non ebbe figli. Clelia, da
cui divorziò con l'accusa di sterilità. Cecilia Metella Dalmatica. Si sposarono.
Ebbero due figli e una figlia: Fausto Cornelio Silla. Gemello di Fausta,
questore Fausta Cornelia. Gemella di Fausto, madre di Gaio Memmio, console
suffetto Lucio Cornelio Silla. Morì giovane poco prima della madre.Valeria
Messalla. Si sposarono e fu l'ultima moglie di Silla, che morì nello stesso
anno. Ebbero una figlia: Cornelia Postuma. Nata alcuni mesi dopo la morte del
padre, si presume sia morta prima dell'età da matrimonio. Note Esplicative ^
Chiamata anche Ilia Le figure di Giulia/Ilia ed Elia potrebbero
coincidere (vd. infra). Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard; contra Keaveney,
secondo il quale deriverebbe da sura, «polpaccio»; cfr. Quintiliano, Inst.).
Noto anche semplicemente come Silla, nome che probabilmente deriva dalla
corruzione della grafia originaria del suo cognome (SVILLA). Il cognome
aggiuntivo (in latino agnomen) Felix fu aggiunto quando già era al termine
della carriera, a motivo della sua quasi leggendaria fortuna come condottiero.
Plutarco, Sull., 1, 1; Sallustio, Iug., Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard;
Telford, Brizzi; Hinard Brizzi Livio, Brizzi; Hinard Hinard; Telford, Livio Brizzi;
Hinard; Keaveney Brizzi; Hinard; Appiano, Mith. Plutarco, Sull.; Brizzi;
Hinard; Keaveney Per maggior informazioni sul busto e la sua storia si rimanda
ai seguenti link: The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su
ancientrome.ru. The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su
ancientrome.ru. Keaveney Hinard Sallustio, Iug., Hinar; Keaveney Brizzi;
Keaveney Brizzi; Hinard, suppone anche la partecipazione a un'associazione
bacchica; Keaveney Brizzi; Hinard; Keaveney Plutarco, Sull., Brizzi; Hinard;
Keaveney Telford, Brizzi; Hinard Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard Hinard
Plutarco, Sull.; Hinard 2003, p. 21; Keaveney Sheldon Livio, Periochae ab Urbe
condita Piganiol Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna
Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche Plutarco,
Vita di Silla, Appiano, Guerre mitridatiche Appiano, Guerre mitridatiche,
Appiano, Guerre mitridatiche, Plutarco, Vita di Silla, Floro, Compendio di Tito
Livio, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche,
Plutarco, Vita di Silla, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Plutarco, Vita
di Silla Appiano, Guerre mitridatiche, Appiano, Guerre mitridatiche, Livio,
Periochae ab Urbe condita libri, Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Velleio
Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Livio, Periochae ab Urbe
condita libri, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre
mitridatiche Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Per
ulteriori informazioni: ancientrome.ru/art/artworken/img. La carica di
dittatore non era stata ricoperta da alcun politico romano l'ultimo dittatore
era stato Gaio Servilio Gemino. Appiano, Guerre civili Lucio Cornelio Silla,
romanoimpero. In principio ci fu Silla. È noto che egli fu modello a Cesare per
tanti aspetti del suo agire, dall’uso spregiudicato di un esercito ormai
politicizzato alla marcia su Roma, dalla dittatura (sia pure a tempo
indeterminato, e non perpetua) al mantenimento dell’immissione dei neocittadini
italici in tutte le tribù; così, anche in campo storiografico è difficile
concepire la genesi dei commentarii di Cesare senza il precedente
sillano": Zecchini Giuseppe, Cesare: commentarii, historiae, vitae, Aevum:
rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche: Milano: Vita e
Pensiero, Plutarco, Vita di Silla Dufallo, Basil John Ciceronian oratory and
the ghosts of the past. University of Michigan: UCLA. Bibliografia Fonti
antiche Appiano, Guerre civili, in Storia romana (versione inglese) Appiano,
Guerre mitridatiche, in Storia romana.(QUI la versione inglese Internet
Archive. Dione Cassio, Storia romana. versione inglese. Floro, Flori Epitomae
Liber primus (testo latino) . Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Periochae
(testo latino) . Tito Livio, Periochae (testo latino), in Ab Urbe condita libri
Plutarco, Vita di Silla, in Vite parallele. QUI la versione inglese Plutarco,
Le Vite parallele di Plutarco, volgarizzate da Marcello Adriani il Giovane, a
cura di Francesco Cerroti e Giuseppe Cugnoni, traduzione di Marcello Adriani il
Giovane, III, Firenze, Le Monnier, Plutarco, Lisandro; Silla, introduzione di
Luciano Canfora, traduzione e note di Federicomaria Muccioli (per Lisandro),
introduzione di Arthur Keaveney, traduzione e note di Lucia Ghilli (per Silla),
con contributi di Barbara Scardigli e Mario Manfredini, Milano, BUR. Quintiliano,
Institutio oratoria. Sallustio, Bellum Iugurthinum. Strabone, Geografia, XII.
QUI la versione inglese Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium
libri QUI la versione latina. Velleio Patercolo, Historiae Romanae Ad M.
Vinicium Libri Duo (testo latino) .QUI la versione inglese. Fonti
storiografiche moderne Giuseppe Antonelli, Mitridate, il nemico mortale di
Roma. La vicenda umana e politica del principe orientale che ha avuto il
coraggio di opporsi all'imperialismo di Roma, Roma, Newton Compton, Ernst
Badian, Lucius Sulla: The Deadly Reformer, Sydney, University Press, Giovanni
Brizzi, Storia di Roma, I: Dalle origini ad Azio, Bologna, Patron, Giovanni
Brizzi, Silla, prefazione di François Hinard, Roma, Rai-ERI, Jérôme Carcopino,
Silla o la monarchia mancata, traduzione di Anna Rossi Cattabiani, introduzione
di Mario Attilio Levi, consulenza storica di Federico Ceruti, Milano, Rusconi,
Hinard, Silla, traduzione di Anna Rosa Gumina, Il Giornale, Roma, Salerno,
Keaveney, Silla, traduzione di Katia Gordini, Milano, Bompiani, André Piganiol,
Le conquiste dei Romani, traduzione di Filippo Coarelli, Milano, Il Saggiatore,
Rose Mary Sheldon, Le guerre di Roma contro i Parti, Traduzione dall'inglese di
Pasquale Faccia, Gorizia, LEG, Lynda Telford, Sulla: A Dictator Reconsidered,
Pen et Sword, Voci correlate Catilina Gens Cornelia Console romano Dittatore
romano Pretore (storia romana) Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
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Cornelio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Silla,
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L. Cornelius Sulla, Sylla, su noctes-gallicanae.org. Mario e Silla, su
janusquirinus.org. Predecessore Console romano Successore Gneo Pompeo Strabone,
Lucio Porcio Catone con Quinto Pompeo Rufo Lucio Cornelio Cinna I, Gneo
OttavioI Gneo Cornelio Dolabella, Marco Tullio Decula80 a.C. con Quinto Cecilio
Metello Pio Appio Claudio Pulcro, Publio Servilio Vatia IsauricoII V D M
Plutarco Antica Roma Portale Biografie Portale
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secolo a.C.Militari Romani del II secolo a.C.Romani Morti Nati a Roma Morti a
Cuma Lucio Cornelio Silla Consoli repubblicani romani Dittatori romaniSenatori
romani Cornelii Auguri Tresviri monetales Governatori romani dell'AsiaPersone
delle guerre mitridatiche [altre] Gamerra Mozart, Attori ATTORI Lucio
SILLA, dittatore TENORE GIUNIA, figlia di Cajo Mario, e promessa sposa di
SOPRANO CECILIO, senatore proscritto SOPRANO Lucio CINNA, patrizio romano amico
di Cecilio, e nemico occulto di Lucio Silla SOPRANO CELIA, sorella di Lucio
Silla SOPRANO AUFIDIO, tribuno amico di Lucio Silla TENORE Guardie. Senatori,
Nobili, Soldati, Popolo, Donzelle. La scena è in Roma nel palazzo di L. Silla,
e ne' luoghi contigui al medesimo. Altezze reali Lucio Silla Altezze reali Non
ommetteremmo la possibile diligenza per sperare, che il presente
spettacolo rimeritar possa il generoso gradimento delle aa. vv. rr. Degnatevi
perciò di riguardarlo con quella benignità, di cui ne abbiamo tante prove, ed
animati da tal lusinga con profondissimo ossequio ci protestiamo di aa. vv. rr.
divotiss. obbligatiss. servitori Gli associati nel Regioducal teatro. Gamerra
/Moza Argomento Son note nell'istoria le inimicizie di Lucio Silla, e di Mario.
È palese altresì il modo con cui il primo trionfò del suo emulo. Non può a
Silla negarsi il vanto di gran guerriero felice in tutte le sue marziali
intraprese. Ma co' la crudeltà, coll'avarizia, co' la volubilità, e co' le
dissolutezze adombrò la gloria del proprio valore. I molti suoi amori lo caratterizzarono
per uomo celebre nella galanteria, quanto glorioso nell'armi, e questa
inclinazione, come ci assicura Plutarco, gli fu compagna fino nell'età sua più
avanzata. Lucio Cinna, da esso innalzato a sommi onori co' la promessa di
secondarlo, e d'assisterlo, celò poi contro di lui sotto le sembianze
dell'amicizia un odio il più implacabile. Aufidio tribuno, menzognero
adulatore, fu quello, che precipitar facea Silla negl'eccessi i più vergognosi.
Fra l'incostanza, l'avarizia, e la crudeltà, che lo dominavano, era soggetto
talora a quei rimorsi, che non si allontanano da un core, in cui per anche non
si sono affatto estinti i lumi della ragione, e gl'impulsi della virtù. Odioso
a tutta Roma lo resero le stragi, l'usurpatasi dittatura, la proscrizione, e la
morte di tanti cittadini, ma degna fu d'ogni encomio la volontaria sua
abdicazione, per
cui cedette le insegne di dittatore,
richiamando in Roma tutti
i proscritti, e anteponendo
all'impero, e alle grandezze la tranquillità d'una
oscura vita privata. Dall'istoria non meno rilevasi, che la famiglia dei
Cecili fu sempre affezionatissima al partito di Caio Mario. (Plutarco in Syll.)
Da tali istorici fondamenti è tratta l'azione di questo dramma, la quale è per
verità fra le più grandi, come ha sensatamente osservato il sempre celeste, e
inimitabile sig. abate Pietro Metastasio, che co' la sua rara affabilità s'è
degnato d'onorare il presente drammatico componimento d'una pienissima
approvazione. Allorché questa proviene dalla meditazion profonda, e dalla
lunga, e gloriosa esperienza dell'unico maestro dell'arte, esser deve ad un
giovane autore il maggior d'ogni elogio. Atto primo Lucio Silla ATTO PRIMO
[Ouverture] Molto allegro (re maggiore) / Andante (la maggiore) Archi, 2 oboe, 2
corni, 2 trombe, timpani. Scena prima Solitario recinto sparso di molti alberi
con rovine d'edifizi diroccati. Riva del Tebro. In distanza veduta del monte
Quirinale con piccolo tempio in cima. Cecilio, indi Cinna. Recitativo CECILIO
Ah ciel, l'amico Cinna qui attendo invan. L'impazienza mia cresce nel suo
ritardo. Oh come mai è penoso ogn'istante al core uman se pende fra la speme, e
il timor! I dubbi miei... ma non m'inganno. Ei vien. Lode agli dèi. CINNA
Cecilio, oh con qual gioia pur ti riveggio! Ah lascia, che un pegno io t'offra
or che son lieto appieno, d'amistate, e d'affetto in questo seno. CECILIO
Quanto la tua venuta accelerò coi voti l'inquieta alma mia. Quai non produsse
la tua tardanza in lei smanie, e spaventi, e quali immagini funeste s'affollano
al pensier. L'alma agitata s'affanna, si confonde... CINNA Il mio ritardo altro
motivo asconde. Tutto da me saprai. CECILIO Deh non t'offenda l'impazienza
mia... Giunia, la cara, la fida sposa è sempre tutt'amor, tutta fé? Que' dolci
affetti, ch'un tempo mi giurò, rammenta adesso? È 'l suo tenero core anche
l'istesso? CINNA Ella estinto ti piange... 6 / 52 www.librettidopera.it G. De
Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto primo CECILIO Ah come?... Ah dimmi! Dimmi: e
chi tal menzogna osò d'immaginar? CINNA L'arte di Silla per trionfar del di lei
fido amore. CECILIO A consolar si voli il suo dolore. (in atto di partire)
CINNA Deh, t'arresta. E non sai, che 'l tuo ritorno è così gran delitto, che
guida a morte un cittadin proscritto? CECILIO Per serbarmi una vita, ch'odio
senza di lei, dunque lasciar potrei la sposa in preda a un ingiusto, a un
crudel? CINNA M'ascolta. E dove, di riveder tu speri la tua Giunia fedel? nel
proprio tetto Silla la trasse... CECILIO E Cinna ozioso spettator soffrì?...
CINNA Che mai solo tentar potea? Pur troppo è vano il contrastar con chi ha la
forza in mano. CECILIO Dunque, nemici dèi di riveder la sposa più sperar non
poss'io? CINNA M'odi. Non lungi da questa ignota parte il tacito recinto ergesi
al ciel, che nelle mute soglie de' trapassati eroi le tombe accoglie. CECILIO
Che far degg'io? CINNA Passarvi per quel sentiero ascoso, che fra l'ampie
rovine a lui ne guida. CECILIO E colà che sperar? CINNA Sai che confina col
palazzo di Silla. In lui sovente da' fidi suoi seguita fra 'l dì Giunia vi
scende. Ivi sovente alla mest'urna accanto del genitor, la suol bagnar di
pianto. Continua nella pagina seguente. Atto primo Lucio Silla CINNA
Sorprenderla potrai. Potrai nel seno farle destar la speme, che già s'estinse,
e consolarvi insieme. CECILIO Oh me beato! CINNA Altrove co' molti amici in tua
difesa uniti frattanto io veglierò. Gli dèi oggi render sapran dopo una lunga
vil servitù penosa la libertà a Roma, a te la sposa. [N. 1 Aria] Allegro (si
bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CINNA Vieni ov'amor
t'invita vieni, che già mi sento del tuo vicin contento gli alti presagi in
sen. Non è sempre il mar cruccioso, non è sempre il ciel turbato, ride alfin,
lieto e placato fra la calma, ed il seren. (parte) Scena seconda Cecilio solo.
Recitativo accompagnato Andante (sol maggiore) / Allegro / Andantino / Allegro
/ Adagio Archi. CECILIO Dunque sperar poss'io di pascer gli occhi miei nel
dolce idolo mio? Già mi figuro la sua sorpresa, il suo piacer. Già sento
suonarmi intorno i nomi di mio sposo, mia vita. Il cor nel seno col palpitar mi
parla de' teneri trasporti, e mi predice... Oh ciel sol fra me stesso qui di
gioia deliro, e non m'affretto la sposa ad abbracciar? Ah forse adesso sul
morir mio delusa priva d'ogni speranza, e di consiglio lagrime di dolor versa
dal ciglio! 8 / 52 www.librettidopera.it Gamerra / Mozart, 1772 Atto primo [N.
2 Aria] Allegro aperto (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CECILIO Il
tenero momento premio di tanto amore già mi dipinge il core fra i dolci suoi
pensier. E qual sarà il contento, ch'al fianco suo m'aspetta, se tanto ora
m'alletta l'idea del mio piacer? Scena terza Appartamenti destinati a Giunia,
con statue delle più celebri donne romane. Silla, Celia, Aufidio, e Guardie.
Recitativo SILLA A te dell'amor mio, del mio riposo Celia, lascio il pensier.
Rendi più saggia l'ostinata di Mario altera figlia. E a non sprezzarmi alfin tu
la consiglia. CELIA German sai, che finora tutto feci per te. Vuò lusingarmi di
vederla cangiar. AUFIDIO Quella superba co' le preghiere, e coi consigli invano
sia che si tenti. Un dittator sprezzato, che da Roma, e dal mondo inter
s'ammira, s'altro non vale, usi la forza, e l'ira. SILLA E la forza userò. La
mia clemenza non mi fruttò che sprezzi, e ingiuriose repulse d'una femmina
ingrata. In questo giorno mi segua all'ara, e paghi renda gli affetti miei. O
'l nuovo sol non sorgerà per lei. CELIA Ah Silla, ah mio germano per tua
cagione io tremo, se trasportar ti lasci a questo estremo. Pur troppo, ah sì
pur troppo la violenza è spesso madre fatal d'ogni più nero eccesso. Atto primo
Lucio Silla SILLA Da tentar che mi resta, se ostinata colei mi fugge, e
sprezza? CELIA Adoprar tu sol devi arte, e dolcezza. S'è ver, che sul tuo core
vantai finor qualche possanza, ah lascia, che da Giunia me n' corra. Ella fra
poco da te verrà. L'ascolta forse sia che una volta cangi pensier. SILLA Di mia
clemenza ancora prova farò. Giunia s'attenda, e seco, parli lo sposo in me. Ma
non s'abusi dell'amor mio, di mia bontade, e tremi, se Silla alfine inesorabil
reso favellerà da dittatore offeso. CELIA German di me ti fida. Oggi più saggia
Giunia sarà. Finora una segreta speme forse il cor le nutrì. Se cadde estinto
lo sposo suo, più non le resta omai amorosa lusinga. I preghi tuoi cauto
rinnova. Un amator vicino se d'un lontan trionfa, il trionfare d'un amator, che
già di vita è privo, è più agevole impresa a quel, ch'è vivo. [N. 3 Aria]
Grazioso (do maggiore) / Allegretto / Grazioso Archi. CELIA Se lusinghiera
speme pascer non sa gli amanti anche fra i più costanti languisce fedeltà. Quel
cor sì fido e tenero, ah sì quel core istesso così ostinato adesso quel cor si
piegherà. (parte) 10 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart,
1772 Atto primo Scena quarta Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO
Signor, duolmi vederti ai rifiuti, agl'insulti esposto ancor. Alle preghiere
umili s'abbassi un cor plebeo. Ma Silla, il fiero terror dell'Asia, il vincitor
di Ponto l'arbitro del senato, e che si vide un Mitridate al suo gran piè sommesso,
s'avvilirà d'una donzella appresso? SILLA Non avvilisce amore un magnanimo
core, o se 'l fa vile, infra gli eroi, che le provincie estreme han debellate,
e scosse, un sol non vi saria, che vil non fosse. In questo giorno, amico, sarà
Giunia mia sposa. AUFIDIO Ella sen viene. Mira in quel volto espresso un
ostinato amore, un odio interno, un disperato duolo. SILLA Ascoltarla vogl'io.
Lasciami solo. (Aufidio parte) Scena quinta Silla, Giunia, e Guardie. SILLA
Sempre dovrò vederti lagrimosa e dolente? Il tuo bel ciglio una sol volta
almeno non fia che si rivolga a me sereno? Cielo! tu non rispondi? Sospiri? ti
confondi? ah sì, mi svela perché così penosa t'agiti, impallidisci, e scansi ad
arte d'incontrar gli occhi tuoi negli occhi miei. GIUNIA Empio, perché sol
l'odio mio tu sei. SILLA Ah no, creder non posso, che a danno mio s'asconda sì
fiera crudeltà nel tuo bel core. Hanno i limiti suoi l'odio, e l'amore. Atto
primo Lucio Silla GIUNIA Il mio non già. Quant'amerò lo sposo, tanto Silla
odierò. Se fra gli estinti l'odio giunge, e l'amor, dentro quest'alma che ad
onta tua non cangerà giammai, egli il mio amor, tu l'odio mio sarai. SILLA Ma
dimmi: in che t'offesi per odiarmi così? che non fec'io, Giunia, per te? La
morte il genitor t'invola, ed io ti porgo nelle mie mura istesse un generoso
asilo. Ogni dovere dell'ospitalità qui teco adempio, e pur segui ad odiarmi, e
Silla è un empio? GIUNIA Stender dunque dovrei le braccia amanti a un nemico
del padre? E ti scordasti quanto contro di lui barbaro oprasti? In doloroso
esiglio fra i cittadin più degni languisce, e more alfin lo sposo mio, e chi
n'è la cagione amar degg'io? Per tua pena maggior, di novo il giuro, amo
Cecilio ancor. Rispetto in lui benché morto, la scelta del genitor. Se l'inuman
destino dal fianco mio lo tolse per secondare il tuo perverso amore ah sì,
viverà sempre in questo core. SILLA Amalo pur superba, e in me detesta un
nemico tiranno. Or senti. In faccia di tanti insulti io voglio tempo lasciarti
al pentimento. O scorda un forsennato orgoglio, un inutile affetto, un odio
insano, o a seguir ti prepara nell'Erebo fumante, e tenebroso l'ombra del
genitor, e dello sposo. GIUNIA Coll'aspetto di morte del gran Mario una figlia
presumi d'avvilir? Non avria luogo nell'alma tua la speme ché oltraggia l'amor
mio se provassi, inumano, di che capace è un vero cor romano. Atto primo SILLA
Meglio al tuo rischio, o Giunia, pensa, e risolvi. Ancora un resto di pietade
sol perché t'amo ascolto. Ah sì meglio risolvi... GIUNIA Ho già risolto. Del
genitore estinto ognora io voglio rispettare il comando; sempre Silla aborrire,
sempre adorar lo sposo, e poi morire. [Aria] Andante ma adagio (mi bemolle
maggiore) / Allegro / Adagio / Allegro Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. GIUNIA
Dalla sponda tenebrosa vieni o padre, o sposo amato d'una figlia, e d'una sposa
a raccor l'estremo fiato. Ah tu di sdegno, o barbaro smani fra te, deliri, ma
non è questa, o perfido la pena tua maggior. Io sarò paga allora di non averti
accanto, tu resterai frattanto coi tuoi rimorsi al cor. (parte) Scena sesta
Silla, e Guardie. Recitativo SILLA E tollerare io posso sì temerari oltraggi? A
tante offese non si scuote quest'alma? E che la rese insensata a tal segno? Un
dittatore così s'insulta, e sprezza da folle donna audace?... E pure, oh mio rossor!
e pur mi piace! www.librettidopera.it 13 / 52 Atto primo Lucio Silla Recitativo
accompagnato Allegretto (do maggiore) / Allegro assai Archi. SILLA Mi piace? E
il cor di Silla della sua debolezza non arrossisce ancora? Taccia l'affetto, e
la superba mora. Chi non mi cura amante disdegnoso mi tema. A suo talento
crudel mi chiami. Aborra la mia destra, il mio cor, gli affetti miei, a divenir
tiranno in questo dì comincerò da lei. [N. 5 Aria] Allegro (re maggiore)
Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. SILLA Il desìo di vendetta, e di
morte sì m'infiamma, e sì m'agita il petto, che in quest'alma ogni debole
affetto disprezzato si cangia in furor. Forse nel punto estremo della fatal
partita mi chiederai la vita, ma sarà il pianto inutile, inutile il dolor.
Andante (fa maggiore / la minore) Archi, 2 oboe. Scena settima Luogo sepolcrale
molto oscuro co' monumenti degli eroi di Roma. Cecilio solo. Recitativo
accompagnato Andante (la minore) / Allegro assai / Andante / Presto / Adagio
Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CECILIO Morte, morte fatal della
tua mano ecco le prove in queste gelide tombe. Eroi, duci, regnanti che
devastar la terra, angusto marmo or qui ricopre, e serra. Già in cento bocche,
e cento dei lor fatti echeggiò stupito il mondo. E or qui gl'avvolge un muto
orror profondo. Continua nella pagina seguente. Atto primo CECILIO Oh dèi!...
chi mai s'appressa? Giunia... la cara sposa?... Ah non è sola; m'asconderò, ma
dove? Oh stelle! in petto qual palpito!... qual gioia!... e che far deggio?
Restar?... partire?... oh ciel! Dietro a quest'urna a respirar mi celo. (parte)
Scena ottava S'avanza Giunia col séguito di Donzelle, e di Nobili al lugubre
canto del seguente: [N. 6 Coro e arioso] Andante mosso (mi bemolle maggiore)
Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO Fuor di queste urne dolenti
deh n'uscite alme onorate, e sdegnose vendicate la romana libertà. Molto Adagio
(do minore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA O del padre ombra diletta se
d'intorno a me t'aggiri, i miei pianti, i miei sospiri deh ti movano a pietà.
Allegro (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO
Il superbo, che di Roma stringe i lacci in Campidoglio, rovesciato oggi dal
soglio sia d'esempio ad ogni età. Atto primo Lucio Silla Recitativo
accompagnato ... (mi bemolle maggiore) Archi. GIUNIA Se l'empio Silla, o padre
fu sempre l'odio tuo finché vivesti, perché Giunia è tua figlia, perché il
sangue romano ha nelle vene supplice innanzi all'urna tua sen viene. Tu pure
ombra adorata del mio perduto ben vola, e soccorri la tua sposa fedel. Da te
lontana di questa vita amara odia l'aura funesta... (esce il séguito) Scena
nona Cecilio, e detta. Recitativo CECILIO Eccomi, o cara. GIUNIA Stelle!... io
tremo!... che veggio? Tu sei?... forse vaneggio? Forse una larva, o pur tu
stesso? Oh numi! M'ingannate, o miei lumi?... Ah non so ancor se a questa
illusion soave io m'abbandono!... Dunque... tu sei... CECILIO Il tuo fedele io
sono. [N. 7 Duetto] Andante (la maggiore) / Molto allegro Archi, 2 oboe, 2
corni. GIUNIA D'Eliso in sen m'attendi ombra dell'idol mio, ch'a te ben presto,
oh dio fia, che m'unisca il ciel. CECILIO Sposa adorata, e fida sol nel tuo
caro viso ritrova il dolce Eliso quest'anima fedel. GIUNIA Sposo... oh dèi! tu
ancor respiri? CECILIO Tutto fede, e tutto amor. GIUNIA E CECILIO Fortunati i
miei sospiri, fortunato il mio dolor. GIUNIA Cara speme! Atto primo CECILIO
Amato bene. (si prendon per mano) Insieme GIUNIA Or ch'al mio seno caro tu sei
m'insegna il pianto degl'occhi miei ch'ha le sue lagrime anche il piacer.
CECILIO Or ch'al mio seno cara tu sei m'insegna il pianto degl'occhi miei ch'ha
le sue lagrime anche il piacer. Atto secondo Lucio Silla ATTO SECONDO
Scena prima Portico fregiato di militari trofei. Silla, Aufidio, e Guardie.
Recitativo AUFIDIO Te l' predissi, o signor, che la superba più ostinata saria
quanto più mostri di clemenza, e d'amor? SILLA Poco le resta da insultarmi
così. Risolvi omai. Morir dovrà. L'ho tollerata assai. AUFIDIO L'amico tuo
fedele può libero parlar? SILLA Parla. AUFIDIO Tu sai, ch'eroe non avvi al
mondo senza gli emuli suoi. Gli Emili, e i Scipi n'ebbero anch'essi, e di sue
gesta ad onta il glorioso Silla assai ne conta. SILLA Pur troppo io so. AUFIDIO
Tu porgi nella morte di Giunia a rei nemici l'armi contro di te. D'un Mario è
figlia, e questo Mario ancor ne' propri amici vive a tuo danno. SILLA E che far
deggio? AUFIDIO In faccia al popolo, e al senato sia l'altera tua sposa. Un
finto zelo di sopir gli odi antichi la violenza asconda. Al tuo volere chi
s'opporrà? Di numerose schiere folto stuolo ti cinga. Ognun paventa in te
l'eroe, ch'ogni civil discordia ha soggiogata, e doma e a un sguardo tuo trema
il senato, e Roma. Continua nella pagina seguente. 18 / 52
www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo AUFIDIO
Signor del comun voto t'accerta il tuo voler. La ragion sempre segue il più
forte, e chi fra mille squadre a supplicar si piega? Vuole, e comanda allorché
parla, e prega. SILLA E se l'ingrata ancora mi sprezza, e mi discaccia al
popolo, al senato, a Roma in faccia? Che far dovrò? AUFIDIO L'altera non
s'opporrà. Quell'ostinato core ceder vedrai nel pubblico consenso del popolo
roman. SILLA Seguasi, amico il tuo consiglio. Oh ciel!... sappi... io ti scopro
la debolezza mia. Quando le stragi, le violenze ad eseguir m'affretto è il cor
di Silla in petto da più atroci rimorsi lacerato, ed oppresso. In quei momenti
fieri contrasti io provo. Inorridisco, voglio, tremo, amo, ed ardisco. AUFIDIO
Quest'incostanza tua, lascia, che 'l dica, i tuoi gran merti oscura. Ogni
rimorso della viltade è figlio. Ardito, e lieto il mio consiglio abbraccia, e
suo malgrado la femmina fastosa costretta venga a divenir tua sposa. [Aria]
Allegro (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. AUFIDIO Guerrier, che
d'un acciaro impallidisce al lampo, a dar non vada in campo prove di sua viltà.
Se or cede a un vil timore, se or cede alla speranza, e qual sarà incostanza se
questa non sarà? (parte) Atto secondo Lucio Silla Scena seconda Silla, indi
Celia, e Guardie. SILLA Ah non mai non credea, ch'all'uom tra 'l fasto, e le
grandezze immerso tanto costasse il divenir perverso. CELIA Tutto tentai finor.
Preghi, promesse, e minacce, e spaventi al cor di Giunia, sono inutili assalti.
Ah mio germano immaginar non puoi come per te... SILLA So quel, che dir mi
vuoi. Silla non è men grato a chi per lui anche inutil s'adopra. In man del
caso se pende ogni successo, il proprio merto, all'opere non scema contrario
evento. In questo dì mia sposa Giunia sarà. CELIA Giunia tua sposa? SILLA Il
come non ricercar. Ti basti, che pago io sia. CELIA Perché l'arcan mi celi, e
perché non rischiari un favellar sì oscuro? SILLA (Perché in donna un arcano è
mal sicuro.) Il mio silenzio or non ti spiaccia, e m'odi. Te pur sposa di Cinna
in questo giorno io bramo. CELIA (Oh me felice!) Lascia, ah lascia, ch' a
Cinna, il tuo fido amico io rechi così lieta novella. Il labbro mio gli sveli
alfin, ch'ei solo è il mio tesoro, e che ognor l'adorai come l'adoro. (parte)
SILLA Ad affrettar si vada in Campidoglio la meditata impresa, e la più ascosa
arte s'adopri, onde la mia nemica al talamo mi segua. Ah sì conosco, ch'ad ogni
prezzo io deggio il possesso acquistar della sua mano. Rimorsi miei vi
ridestate invano. (parte con le guardie) Atto secondo Scena terza Cecilio
senz'elmo, senza mento, e con spada nuda, che vuole inseguir Silla, e Cinna,
che lo trattiene. CINNA Qual furor ti trasporta? CECILIO Il braccio mio non
ritener. Su' passi del tiranno si voli. Il nudo acciaro gli squarci il sen...
(in atto di partire) CINNA T'arresta. Ma donde nasce questa improvvisa ira tua?
CECILIO Saper ti basti, che prolungar non deggio un sol momento il colpo...
CINNA E il tuo periglio? CECILIO Non lo temo, e disprezzo ogni consiglio. CINNA
Ah per pietà m'ascolta... svelami... dimmi... oh ciel! Que' tronchi accenti...
que' furiosi sguardi... le disperate smanie tue... gli sforzi d'involarti da
me... l'esporti ardito a un cimento fatal... Mille sospetti mi fan nascere in
sen. Parla. Rispondi... CECILIO Tutto saprai... CINNA No, non sarà giammai, ch'
io ti lasci partir. CECILIO Perché ritardi la vendetta comun? CINNA Sol perché
bramo che dubbiosa non sia. CECILIO Dubbiosa non sarà. CINNA Dunque tu vuoi per
un ardire intempestivo, e vano troncare il fil di tutti i meditati disegni
miei? Giunia rivedi, e quando amar per lei di più devi la vita incauto corri ad
un'impresa ardita? Più non tacer. Mi svela chi furioso a segno tal ti rende? Atto
secondo Lucio Silla CECILIO L'orrida rimembranza in cor m'accende novi stimoli
all'ira. Odi, e stupisci. Poiché quest'alma oppressa della mia sposa al fianco
trovò dolce conforto alla sua pena, dal luogo tenebroso allontanati appena
aveva Giunia i suoi passi, un legger sonno m'avvolse i lumi. Oh cielo! D'orrore
ancor ne gelo! Ecco mi sembra spalancata mirar la fredda tomba, in cui
l'estinte membra giaccion di Mario. In me le cavernose luci raccoglie, e 'l
teschio per tre volte crollando disdegnoso, e feroce sento, che sì mi grida in
fioca voce: «Cecilio a che t'arresti presso la tomba mia? Vanne, ed affretta
della comun vendetta il bramato momento. Ozioso al fianco più l'acciar non ti
penda. Ah se ritardi l'opra a compir, che l'ombra invendicata di Mario oggi
t'impone, e ti consiglia, tu perderai la sposa, ed io la figlia.» Recitativo
accompagnato Allegro assai (re minore) / Presto Archi. CECILIO Al fiero suon
de' minacciosi accenti l'alma si scosse. Il sonno da sbigottiti lumi
s'allontanò. M'accese improvviso furor. Strinsi l'acciaro, né il rimorso piede
io più ritenni, ma 'l reo tiranno a trucidar qua venni. Ah più non
m'arrestar... CINNA Ferma. Per poco dell'ira tua raffrena i feroci trasporti.
Ah sei perduto, se in te Silla s'avvien... 22 / 52 www.librettidopera.it G. De
Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo CECILIO Paventar deggio d'un tiranno
gli sguardi? Un'altra mano trucidarlo dovrà? Non mai. Mi veggio intorno ognor
la bieca ombra di Mario a ricercar vendetta; e degl'accenti suoi ad ogn'istante
or ch'al tuo fianco io sono mi rimbomba all'orecchie il fiero suono.
Lasciami... CINNA Ah se disprezzi tanto i perigli tuoi, deh pensa almeno, che
dalla vita tua pende la vita d'una sposa fedele. Oh stelle! E come per così
cari giorni... CECILIO Oh Giunia!... oh nome!... Il sol pensiero, amico che
perderla potrei, del mio furore ogn'impeto disarma. Ah corri, vola per me svena
il tiranno... Oh numi, e intanto al mio nemico accanto resta la sposa?...
ahimè!... chi la difende... ma s'ei qui giunge?... Oh dio! Qual fier contrasto,
qual pena, eterni dèi! Timore, affanno, ira, speme, e furor sento in seno, né
so di lor chi vincerà! che penso? E non risolvo ancora? Giunia si salvi, o al
fianco suo si mora. [N. 9 Aria] Allegro assai (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2
corni, 2 trombe, timpani. CECILIO Quest'improvviso tremito che in sen di più
s'avanza, non so se sia speranza, non so se sia furor. Ma fra suoi moti interni
fra le mie smanie estreme, o sia furore, o speme, paventi il traditor. (parte)
www.librettidopera.it 23 / 52 Atto secondo Lucio Silla Scena quarta Cinna, indi
Celia. Recitativo CINNA Ah sì, s'affretti il colpo. Il ciel d'un empio se il
castigo prolunga, attenderassi, che de' tarquini in lui gli scellerati eccessi
sian rinnovati a nostri tempi istessi? CELIA Qual ti siede sul ciglio cura
affannosa? CINNA Altrove Celia, passar degg'io. Non m'arrestare... CELIA E
ognor mi fuggi? CINNA Addio. CELIA Per un istante solo m'ascolta, e partirai.
CINNA Che brami? CELIA (Oh dèi! Parlar non posso, e favellar vorrei.) Sappi,
che il mio german... CINNA Parla. CELIA Desìa... (Ah mi confondo, e temo, che
non mi ami il crudel.) Sì, sappi... (Oh stelle! In faccia a lui che adoro
perché mi perdo? Oggi sarà mio sposo, e svelargli non oso?...) CINNA Io non
intendo i tronchi accenti tuoi. CELIA (Finge l'ingrato!) Or che dubbiosa io
taccio non ti favella in seno il cor per me? Che dir poss'io? Pur troppo ne'
languidi miei rai questo silenzio mio ti parla assai. Atto secondo [Aria] Tempo
grazioso (sol maggiore) Archi, 2 flauti. CELIA Se il labbro timido scoprir non
osa la fiamma ascosa per lui ti parlino queste pupille per lui ti svelino tutto
il mio cor. (parte) Scena quinta Cinna, indi Giunia. Recitativo CINNA Di
piegarsi capace a un'amorosa debolezza l'alma non fu di Cinna ancor. Ma se da
folle s'avvilisse così, no, non avria la germana d'un empio usurpatore il
tributo primier di questo core. Giunia s'appressa. Ah ch'ella può soltanto la
grand'opra compir, che volgo in mente. Agitata, e dolente immersa sembra fra
torbidi pensier. GIUNIA Silla m'impone che al popolo, e al senato io mi presenti;
l'empio che può voler? Sai ciò, che tenti? CINNA Forse più, che non credi è la
morte di Silla oggi vicina per vendicar la libertà latina. GIUNIA Tutto dal
ciel pietoso dunque speriam. Ma intanto alla tua cura io lascio l'amato sposo
mio. Deh se ti deggio il piacer di mirarlo, poiché lo piansi estinto, ah sì per
lui veglia, t'adopra, e resti al tiranno nascoso. www.librettidopera.it 25 / 52
Atto secondo Lucio Silla CINNA A me t'affida, non paventar su' giorni suoi.
M'ascolta, ai padri in faccia e al popolo romano Silla sai ciò, che vuol? Vuol
la tua mano. Con il consenso lor la violenza giustificar pretende. Il suo
disegno tutto, o Giunia, io prevedo. GIUNIA Io son la sola arbitra di me
stessa. A un vil timore ceda il senato pur, non questo core. CINNA Da te, se
vuoi, dipende Giunia un gran colpo. GIUNIA E che far posso? CINNA Al letto
segui l'empio tiranno ove t'invita, ma in quello per tua man lasci la vita.
GIUNIA Stelle! che dici mai? Giunia potria con tradimento vil?... CINNA Folle
timore. Deh sovvienti, che ognora fu l'eccidio de' rei un spettacolo grato a'
sommi dèi. GIUNIA S'è d'un plebeo pur sacra fra noi la vita, e come vuoi, che
in sen non mi scenda un freddo orrore nel trafiggere io stessa un dittatore?
Benché tiranno, e ingiusto, sempre al senato, e a Roma Silla presiede, e di sua
morte invano farmi rea tu presumi. Vittima ei sia, ma della man dei numi. CINNA
Se d'offender gli dèi avesse un dì temuto la libertà non dovria Roma a Bruto.
GIUNIA Ma Bruto in campo armato, non con una viltade della latina libertade
infranse la catena servil. No, non fia mai ch'a' dì futuri passi il nome mio
macchiato d'un tradimento vil. Serbami, amico, serbami il caro ben. Deh sol tu
pensa alla salvezza sua. Della vendetta al ciel lascia il pensier. Atto secondo
Recitativo accompagnato Allegro (si bemolle maggiore) / Andante Archi. GIUNIA
Vanne. T'affretta. Forse lungi da te potria lo sposo per un soverchio ardir...
l'impetuosa alma sua ben conosci. Ah, per pietade, fa', che rimanga ad ogni
sguardo ascoso. Digli, che se m'adora; digli che se m'è fido serbi i miei ne'
suoi giorni. A te l'affido. [Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe,
2 corni, 2 trombe. GIUNIA Ah se il crudel periglio del caro ben rammento tutto
mi fa spavento tutto gelar mi fa. Se per sì cara vita non veglia l'amistà da
chi sperare aita da chi sperar pietà? (parte) Scena sesta Cinna solo.
Recitativo accompagnato Vivace (re maggiore) Archi. CINNA Ah sì, scuotasi omai
l'indegno giogo. Assai si morse il fren di servitù tiranna. Se di svenar ricusa
Giunia quell'empio, un braccio non mancherà, che timoroso meno il ferro
micidial l'immerga in seno. Atto secondo Lucio Silla [N. 12 Aria] Molto
allegro (fa maggiore) Archi. CINNA Nel fortunato istante, ch'ei già co' voti
affretta per la comun vendetta vuò, che mi spiri al piè. Già va una destra
altera del colpo suo felice e questa destra ultrice lungi da lui non è. (parte)
Scena settima Orti pensili. Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO
Signor, ai cenni tuoi il senato fia pronto. Egli fra poco t'ascolterà. D'elette
squadre intorno numerosa corona ad arte io disporrò. SILLA L'amico Cinna non
ignori l'arcano. Il suo soccorso è necessario all'opra. Ah che me stesso più
non ritrovo in me! Dov'io mi volga della crudel l'immagine gradita mi dipinge
il pensier. Mi suona ognora il caro nome suo fra i labbri miei, e tutto parla a
questo cor di lei. AUFIDIO Io già ti vedo al colmo di tua felicità. Della
possanza usa, che 'l ciel ti diè. Roma, il senato, e ogn'anima orgogliosa or
che lo puoi fa', che pieghin la fronte a' piedi tuoi. (parte) Atto secondo
SILLA Ah sì, di civil sangue inonderò le vie, se Roma altera alle brame di
Silla, oggi s'oppone; ho nel braccio, ho nel cor la mia ragione. Giunia?...
Qual vista! In sì bel volto io scuso la debolezza mia... ma tanti oltraggi? Ah
che in vederla, oh dèi! il dittatore offeso io più non sono; de' suoi sprezzi
mi scordo, e le perdono. Scena ottava Giunia, Silla, e Guardie. GIUNIA (Silla?
L'odiato aspetto destami orror. Si fugga!) SILLA Arresta il passo. Sentimi per pietade.
Il più infelice d'ogni mortal mi rendi, se nemica mi fuggi... GIUNIA E che
pretendi? Scostati, traditor! (Tremo, m'affanno per l'idol mio!) SILLA Ah no,
non son tiranno come tu credi. È l'anima di Silla capace di virtù. Quel tuo bel
ciglio soffrir più non poss'io così severo... GIUNIA Tu di virtù capace? Ah,
menzognero! (in atto di partire) SILLA Sentimi... GIUNIA Non t'ascolto. SILLA E
vuoi... GIUNIA Sì voglio detestarti, e morir. SILLA Morir? GIUNIA La morte
romano cor non teme. SILLA E puoi?... GIUNIA Sì posso pria d'amarti, morir.
Vanne, t'invola... SILLA Superba, morirai, ma non già sola. Atto secondo Lucio
Silla [N. 13 Aria] Allegro assai (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2
trombe, timpani. SILLA D'ogni pietà mi spoglio perfida donna audace; se di
morir ti piace quell'ostinato orgoglio presto tremar vedrò. (Ma il cor mi
palpita... perder chi adoro?... svenare barbaro, il mio tesoro?...) Che dissi?
Ho l'anima vile a tal segno? Smanio di sdegno; morir tu brami, crudel mi
chiami, tremane, o perfida, crudel sarò. (parte con le guardie) Scena nona
Giunia, indi Cecilio. Recitativo GIUNIA Che intesi, eterni dèi? Qual mai
funesto e spaventoso arcan ne' detti suoi? Sola non morirò? Che dir mi vuoi
barbaro... ahimè! Che vedo?... lo sposo mio?... che fu?... che avvenne?... Ah
dove sconsigliato t'inoltri? In queste mura sai, che non è sicura la tua vita,
e non temi di respirar quest'aure comuni a' tuoi nemici? In quest'istante il
tiranno partì. Tremo... deh, fuggi... Ah se dell'empio il ciglio... CECILIO
Giunia, il tuo rischio è 'l mio maggior periglio. GIUNIA Deh per pietà, se mi
ami, torna, mio bene, ah torna nel tenebroso asilo. Il rimirarti qual martirio
è per me! CECILIO Non amareggi il tuo spavento, o cara, il mio dolce piacer. 30
Atto secondo GIUNIA Piacer funesto, se a un gelido spavento abbandona il mio
cor. Se de' tuoi giorni decider può. T'ascondi. Ah da che vivo no, che angustia
simile... CECILIO Sola vuoi, ch'io ti lasci in preda a un vile? So, ch' al
senato in faccia il reo tiranno con violenza ingiusta al talamo vuol trarti, ed
io, che t'amo restar potrò senza morir d'affanno lungi dal fianco tuo? Se
invano un braccio, un acciaro si cerca per svenare un crudel, ch'odio, e
detesto, quell'acciaro, quel braccio eccolo è questo. GIUNIA Ahimè! Che pensi?
esporti?... Correr tu solo a un periglio estremo?... CECILIO Tu paventi di
tutto, io nulla temo. Frena il timor, mia speme, e ti rammenta, ch'una
soverchia tema in cor romano esser puote viltà. GIUNIA Ma il troppo ardire
temerità s'appella. Ah sì ti cela, né accrescere, idol mio, nel tuo periglio
nuove cagion di pianto a questo ciglio. CECILIO Eterni dèi! Lasciarti, fuggire,
abbandonarti all'empie insidie, all'ira d'un traditor, ch'alle tue nozze
aspira? GIUNIA E che puoi temer, se meco resta la mia costanza, e l'amor mio?
Deh corri, corri donde fuggisti. Al suo dolore, a' suoi spaventi invola il cor
di chi t'adora; se ciò non basta, io tel comando ancora. CECILIO E in questo
giorno correndo se al tiranno io mi celo, chi veglia, o sposa, in tua difesa?
GIUNIA Il cielo! CECILIO Ah che talvolta i numi... GIUNIA A che ti guida cieco
furor? Ad onta de' miei timori ancor mi resti a lato? Partir non vuoi? Corro a
morire, ingrato. Atto secondo Lucio Silla CECILIO Fermati... senti... Oh dèi!
Così mi lasci, e brami?... GIUNIA I passi miei guardati di seguir. CECILIO
Saprò morire, ma non lasciarti. GIUNIA (Oh stelle! Io lo perdo. Che fo?)
CECILIO Cara, tu piangi? Ah che il tuo pianto... GIUNIA Ah sì per questo pianto
per questi lumi miei di speme privi. Parti, parti da me, celati, vivi! CECILIO
A che mi sforzi! GIUNIA Alfine lusingarmi poss'io di questo segno del tuo
tenero affetto? Che rispondi, idol mio? CECILIO Sì tel prometto. GIUNIA Fuggi
dunque, mio bene. Invan paventi, se di me temi. Ah pensa, pensa, che 'l ciel
difende i giusti, e ch'io d'altri mai non sarò. Di mie promesse dell'amor mio
costante ch'aborre a morte un traditore indegno, sposo, nella mia mano eccoti
un pegno. Recitativo accompagnato Allegro (mi bemolle maggiore) Archi. CECILIO
Chi sa, che non sia questa l'estrema volta, oh dio? ch'al sen ti stringo destra
dell'idol mio, destra adorata, prova di fé sincera... GIUNIA No, non temere.
Amami. Fuggi e spera. Atto secondo [N. 14 Aria] Adagio (mi bemolle maggiore)
/ Andante (do minore) / Adagio (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni.
CECILIO Ah se a morir mi chiama il fato mio crudele seguace ombra fedele sempre
sarò con te. Vorrei mostrar costanza cara, nel dirti addio ma nel lasciarti, oh
dio! Sento tremarmi il piè. (parte) Scena decima Giunia, indi Celia. Recitativo
GIUNIA Perché mi balzi in seno affannoso cor mio? Perché sul volto or che lo
sposo io non mi vedo accanto, cade da' rai più copioso il pianto? CELIA Oh
ciel! sì lagrimosa sì dolente io t'incontro? Al suo destino quell'anima ostinata
alfin deh ceda e sposa al dittator Roma ti veda. GIUNIA T'accheta per pietà.
CELIA Se in duro esiglio cade estinto Cecilio, a lui che giova un'inutil
costanza? GIUNIA (A questo nome s'agghiaccia il cor.) CELIA Tu non mi guardi, e
il labbro fra i singhiozzi, e i sospir pallido tace. Segui i consigli miei.
GIUNIA Lasciami in pace. CELIA Bramo lieta vederti. Il mio germano oggi me pur
felice render saprà. La mano mi promise di Cinna. Ah tu ben sai, ch'io l'adoro
fedel. Più non rammento i miei sofferti affanni se sì cangiano alfin gli astri
tiranni. Atto secondo Lucio Silla [Aria] Allegro (la maggiore) Archi. CELIA
Quando sugl'arsi campi scende la pioggia estiva, le foglie, i fior ravviva, e
il bosco, il praticello tosto si fa più bello, ritorna a verdeggiar. Così
quest'alma amante fra la sua dolce speme dopo le lunghe pene comincia a
respirar. (parte) Scena undicesima Giunia sola. Recitativo accompagnato Andante
(re minore) / Molto allegro Archi. GIUNIA In un istante oh come s'accrebbe il
mio timor! Pur troppo è questo un presagio funesto delle sventure mie!
L'incauto sposo più non è forse ascoso al reo tiranno. A morte ei già lo
condannò. Fra i miei spaventi, nel mio dolore estremo che fo? Che penso mai?
Misera io tremo. Ah no, più non si tardi. Il senato mi vegga. Al di lui piede
grazia, e pietà s'implori per lo sposo fedel. S'ei me la nega si chieda al
ciel. Se il ciel l'ultimo fine dell'adorato sposo oggi prescrisse, trafigga me
chi l'idol mio trafisse. 34 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A.
Mozart, 1772 Atto secondo [N. 16 Aria] Allegro assai (do maggiore) Archi.
GIUNIA Parto, m'affretto, ma nel partire il cor si spezza. Mi manca l'anima,
morir mi sento né so morire. E smanio, e gelo, e piango, e peno. Ah se potessi,
potessi almeno fra tanti spasimi, morir così. Ma per maggior mio duolo verso
un'amante oppressa divien la morte istessa pietosa in questo dì. (parte) Scena
dodicesima Campidoglio. S'avanza Silla, ed Aufidio seguìto dai Senatori e dalle
Squadre. [N. 17 Coro] Allegro (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CORO Se
gloria il crin ti cinse di mille squadre a fronte or la temuta fronte qui ti
coroni Amor. Stringa quel braccio invitto lei, che da te s'adora. Se con i
mirti ancora cresce il guerriero allor. Atto secondo Lucio Silla (compar Giunia
fra i senatori) Recitativo SILLA Padri coscritti, io che pugnai per Roma, io,
che vinsi per lei, io che la face della civil discordia col mio valore estinsi.
Io che la pace per opra mia regnar sul Tebro or vedo d'ogni trionfo mio premio
vi chiedo. GIUNIA (Soccorso, eterni dèi!) SILLA Non ignorate l'antico odio
funesto e di Mario e di Silla. Il giorno è questo in cui tutto mi scordo. Alla
sua figlia sacro laccio m'unisca, e il dolce nodo plachi l'ombra del padre. Un
dittatore, un cittadin fra i gloriosi allori altro premio non cerca a' suoi
sudori. GIUNIA (Tace il senato, e col silenzio approva d'un insano il voler?)
SILLA Padri già miro ne' volti vostri espresso il consenso comun. Quei, che
s'udiro festosi gridi risuonar d'intorno son del pubblico voto un certo segno.
Seguimi all'ara omai... GIUNIA Scostati indegno! A tal viltà discende Roma, e
'l senato? Un ingiurioso, un folle timor l'astringe a secondar d'un empio le
violenze infami? Ah che fra voi no, che non v'è chi in petto racchiuda un cor romano...
SILLA Taci, e più saggia a me porgi la mano. AUFIDIO Così per bocca mia tutto
il popol t'impon. SILLA Dunque mi segui... GIUNIA Non appressarti, o in seno
questo ferro m'immergo. (in atto di ferirsi) SILLA Alla superba l'acciar si
tolga, e segua il voler mio. Atto secondo Scena tredicesima Cecilio, con spada
nuda, e detti. CECILIO Sposa, ah no, non temer. SILLA (Chi vedo?) GIUNIA (Oh
dio!) AUFIDIO (Cecilio?) SILLA In questa guisa son tradito da voi? Del mio
divieto e delle leggi ad onta tornò Cecilio, e seco Giunia unita di toglier osa
al dittator la vita? Quell'audace s'arresti! GIUNIA Incauto sposo! Signor...
SILLA Taci, indegna, ch'omai solo ascolto il furore. (a Cecilio) Al novo sole
per mia vendetta, o traditor, morrai. Scena quattordicesima Cinna, con spada
nuda, e detti. SILLA Come? D'un ferro armato, confuso, irresoluto Cinna tu
pur?... CINNA (Oh ciel, tutto è perduto; qualche scampo ah si cerchi nel
cimento fatal!) Con mio stupore col nudo acciaro io vidi Cecilio infra le
schiere aprirsi un varco. La sua rabbia, i fieri minacciosi occhi suoi d'un
tradimento mi fecero temer. Onde salvarti da quella destra al parricidio intesa
corsi, e 'l brando impugnai per tua difesa. SILLA Ah vanne, amico, e scopri se
altri perfidi mai... Atto secondo Lucio Silla CINNA Sulla mia fede signor
riposa, e paventar non déi. (Quasi nel fiero incontro io mi perdei!) (parte)
SILLA Olà quel traditore, Aufidio si disarmi. GIUNIA Oh dio! Fermate! CECILIO
Finché l'acciar mi resta saprò farlo tremar. SILLA E giunge a tanto la tua
baldanza? GIUNIA (Oh dèi!) SILLA Cedi l'acciaro, o ch'io... CECILIO Lo speri
invan. GIUNIA Cecilio, o caro. CECILIO Ad esser vil m'insegna la sposa mia?
GIUNIA Deh, non opporti! CECILIO E vuoi?... GIUNIA Della tua tenerezza una
prova vogl'io. CECILIO Dovrò? GIUNIA Dovrai nella mia fede, e nel favor del
cielo affidarti, e sperar. Se ancor mio bene dubbioso ti mostri, i giusti numi,
e la tua sposa offendi. CECILIO (Fremo.) T'appagherò. Barbaro, prendi! (getta
la spada) SILLA Nella prigion più nera traggasi il reo. Per poco quest'aure a
te vietate respirar ti vedrò. Fra le ritorte del tradimento audace tu pur ti
pentirai, donna mendace. Atto secondo [N. 18 Terzetto] Allegro (si bemolle
maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. SILLA Quell'orgoglioso sdegno oggi
umiliar saprò. CECILIO Non lo sperare, indegno, l'istesso ognor sarò. GIUNIA
Eccoti, o sposo, un pegno, ch'al fianco tuo morrò. SILLA Empi la vostra mano
merita sol catene. Insieme GIUNIA Se mi ama il caro bene lieta a morir me n'
vo. CECILIO Se mi ama il caro bene lieto a morir me n' vo. Insieme SILLA Questa
costanza intrepida questo sì fido amore tutto mi strazia il core tutto avvampar
mi fa. GIUNIA E CECILIO La mia costanza intrepida il mio fedele amore dolce
consola il core né paventar mi fa. www.librettidopera.it 39 / 52 Atto terzo
Lucio Silla ATTO TERZO Scena prima Atrio, che introduce alle carceri.
Cecilio incatenato, Cinna, Guardie a vista, indi Celia. Recitativo CINNA Ah sì
tu solo, amico ritenesti il gran colpo. Eran non lungi al Campidoglio ascosi
gli amici tuoi, gli amici miei. Seguito volea da questi infra le schiere
aprirmi sanguinoso sentier. Ma la prudenza il furor moderò. Di tanti a fronte
che far potea cinto da pochi? Il cielo novo ardir m'ispirò. Gli amici io
lascio, tacito il ferro io stringo, e in Campidoglio m'avanzo. Allorché voglio
vibrare il colpo, in te m'affiso. Il ferro nella man mi tremò. Nel tuo periglio
gelossi il cor. M'arresto, mi confondo non so che dir. Quasi il segreto arcano,
il tiranno svelò. Ma il suo comando, che di partir m'impose, la confusione e il
mio dolore ascose. CECILIO Giacché morir degg'io morasi alfin. Sol mi spaventa,
oh dèi! la sposa mia... CINNA Non paventar di lei. Entrambi io salverò. CELIA
D'ascoltar Giunia men sdegnoso, e men fiero mi promise il german. CECILIO
Giunia al suo piede? E perché mai? CELIA Desìa di placarne lo sdegno. CECILIO
Invan lo brama. CINNA Odimi, Celia. È questo forse il momento, ond'illustrar tu
puoi con opra sublime i giorni tuoi. CELIA Che far degg'io? 40 / 52 www.librettidopera.it
Gamerra / Mozart, 1772 Atto terzo CINNA M'è noto a prova già tutto il poter,
che vanti sul cor di Silla. A lui t'affretta, e digli che aborrito dal cielo,
in odio a Roma, se in sé stesso non torna, e se non scorda un cieco amore
insano l'eccidio suo fatal non è lontano. CELIA Dunque il german... CINNA
Incontrerà la morte se non s'arrende a un tal consiglio. CECILIO Ah tutto,
tutto inutil sarà. CELIA Tentare io voglio la difficile impresa, e se aver
ponno le mie preghiere il lor bramato effetto? CINNA La destra in guiderdone io
ti prometto. CELIA Un così dolce premio più animosa mi fa. Me fortunata, se fra
un orror sì periglioso, e tristo salvo il germano, e 'l caro amante acquisto.
[N. 19 Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe.
CELIA Strider sento la procella né risplende amica stella pure avvolta in tanto
orrore la speranza coll'amore mi sta sempre in mezzo al cor. (parte) Scena
seconda Cecilio, e Cinna. Recitativo CECILIO Forse tu credi, amico che Celia
giunga a raddolcir un core uso alle stragi, e che talor di sdegno ingiustamente
furibondo, ed ebro fe' rosseggiar di civil sangue il Tebro?
www.librettidopera.it 41 / 52 Atto terzo Lucio Silla CINNA So quanto Celia
puote su quell'alma incostante, e Giunia ancora forse placar potria co' le
lagrime sue... CECILIO La sposa mia a qualche insulto amaro invan s'espone. Un
empio, un inumano non si cangia sì presto. Onde abbandoni il sentier del
delitto ch'ei suol calcar per lungo suo costume, ci volle ognor tutto il poter
d'un nume. Ah no più non mi resta né speme, né pietà. L'afflitta sposa ti
raccomando, amico. In pro di lei vegli la tua amistà. Del mio nemico vittima,
ah no, non sia. Nel di lui sangue vendica la mia morte, e 'l mio spirito
sdegnoso nel regno degl'estinti avrà riposo. CINNA Ogni pensier di morte si
allontani da te. Se il cor di Silla contro al dovere, e alla ragion s'ostina,
sulla propria rovina, ne' suoi perigli estremi quell'empio solo impallidisca, e
tremi. [N. 20 Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe.
CINNA De' più superbi il core se Giove irato fulmina, freddo spavento ingombra,
ma d'un alloro all'ombra non palpita il pastor. Paventino i tiranni le stragi,
e le ritorte, sol rida in faccia a morte chi ha senza colpe il cor. (parte) 42
/ 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto terzo Scena
terza Cecilio, indi Giunia. Recitativo CECILIO Ah no, che il fato estremo
terror per me non ha. Sol piango, e gemo fra l'ingiuste catene non per la morte
mia, per il mio bene. GIUNIA Ah dolce sposo... CECILIO Oh stelle! Come tu qui?
GIUNIA M'aperse la via fra quest'orrore la mia fede, il mio pianto, il nostro
amore. CECILIO Ma Silla... Ah parla. E Silla. GIUNIA L'empio mi lascia... Oh
dio! Mi lascia, ch'io ti dia... l'ultimo addio. CECILIO Dunque non v'è per noi
né pietà, né speranza? GIUNIA Al fianco tuo sol di morir m'avanza. Che non
tentai finor? Querele, e pianti, sospiri, affanni, e prieghi sono inutili omai
per quel core inumano che chiede o la tua morte, o la mia mano. CECILIO Della
mia vita il prezzo esser può la tua man? Giunia frattanto che mai risolverà?
GIUNIA Morirti accanto. CECILIO E tu per me vorrai troncar di sì be' giorni...
GIUNIA E deggio, e voglio teco morir. A questo passo, o caro, m'obbliga, mi consiglia
l'amor di sposa, ed il dover di figlia. Atto terzo Lucio Silla Scena quarta
Aufidio con Guardie, e detti. AUFIDIO Tosto seguir tu déi Cecilio i passi miei.
CECILIO Forse alla morte... parla... dimmi... AUFIDIO Non so. CECILIO Prendi,
mia speme, prendi l'estremo abbraccio... GIUNIA (ad Aufidio) Rispondi... oh
ciel! AUFIDIO Sempre obbedisco, e taccio. CECILIO Ah non perdiam, mia vita, un
passeggero istante, che ne porge il destin. Parto, ti lascio, e in sì tenero
amplesso ricevi, anima mia, tutto me stesso. GIUNIA Ah caro sposo... oh dèi! Se
uccider può il martoro, perché vicina a te, perché non moro? CECILIO Quel
pianto, oh dio! Ah sì quel pianto non sai come nel seno... Ahimè! ti basti, o
cara sì ti basti il saper, che in questo istante più d'un morir tiranno quelle
lagrime tue mi son d'affanno. [N. 21 Aria] Tempo di minuetto (la maggiore)
Archi. CECILIO Pupille amate non lagrimate morir mi fate pria di morir.
Quest'alma fida a voi d'intorno farà ritorno sciolta in sospir. (parte con
Aufidio, e guardie) Atto terzo Scena quinta Giunia sola. Recitativo accompagnato
Allegro (do maggiore) / Andante / Allegro / Adagio / Presto Archi, 2 flauti, 2
trombe. GIUNIA Sposo... mia vita... Ah dove, dove vai? Non ti seguo? E chi
ritiene i passi miei? Chi mi sa dir?... ma intorno altro, ahi lassa non vedo
che silenzio, ed orror! L'istesso cielo più non m'ascolta, e m'abbandona. Ah
forse, forse l'amato bene già dalle rotte vene versa l'anima, e 'l sangue... Ah
pria ch'ei mora su quella spoglia esangue spirar vogl'io... che tardo?
Disperata a che resto? Odo, o mi sembra udir di fioca voce languido suon, ch' a
sé mi chiama? Ah sposo se i tronchi sensi estremi de' labbri tuoi son questi
corro, volo a cader dove cadesti. [N. 22 Aria] Andante (do minore) / Allegro
Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA Fra i pensier più funesti di morte
veder parmi l'esangue consorte che con gelida mano m'addita la fumante
sanguigna ferita e mi dice: che tardi a morir? Già vacillo, già manco, già moro
e l'estinto mio sposo, ch'adoro ombra fida m'affretto a seguir. (parte)
www.librettidopera.it 45 / 52 Atto terzo Lucio Silla Scena sesta Salone. Silla,
Cinna, Celia e Senatori. Recitativo SILLA Celia, Cinna, non più. Roma, e 'l
senato di mia giustizia, e del delitto altrui il giudice sarà. CINNA Più che
non credi di Cecilio la vita necessaria esser puote. CELIA I giorni tuoi... la
disperata Giunia... il suo consorte creduto estinto, e alle sue braccia or
reso. SILLA So ch'ognor più l'odio comun m'han reso. Ma un dittator tradito
vuol vendetta, e l'avrà. Stanco son io di temer sempre, e palpitar. La vita
agitata, ed incerta fra un barbaro spavento è un viver per morire ogni momento.
CELIA Ah speri invan, se speri fra un eccidio funesto, e sanguinoso trovar la
sicurezza, ed il riposo. CINNA La furiosa Giunia correre tu vedrai ad assodar
le vie di querele, e di lai. Destare in petto può de' nemici tuoi quel
lagrimoso ciglio... SILLA Vedo più che non pensi il mio periglio. Amor, gloria,
vendetta, sdegno, timore, io sento affollarmisi al cor. Ognun pretende
d'acquistare l'impero. Amor lusinga. Mi rampogna la gloria. Ira m'accende.
Freddo timor m'agghiaccia. M'anima la vendetta, e mi minaccia. De' fieri
assalti in preda, alla difesa accinto, di Silla il cor fia vincitore, o vinto?
Continua nella pagina seguente. Atto terzo SILLA Ma l'atto illustre alfine
decider dée, s'io merto quel glorioso alloro, che mi adombra la chioma, e
giudice ne voglio il mondo, e Roma. Scena settima Giunia con Guardie, e detti.
GIUNIA Anima vil, da Giunia che pretendi? Che vuoi? Roma, e 'l senato nel
tollerare un traditore ingegno è stupido, e insensato a questo segno? Padri
coscritti innanzi a voi qui chiedo e vendetta, e pietà. Pietade implora una
sposa infelice, e vuol vendetta d'un cittadino, e d'un consorte esangue l'ombra,
che nuota ancora in mezzo al sangue. SILLA Calma gli sdegni tuoi, tergi il bel
ciglio. Inutile è quel pianto. È vano il tuo furor. De' miei delitti della mia
crudeltade a Roma in faccia spettatrice ti voglio, e in questo loco di Silla il
cor conoscerai fra poco. Scena ottava Cecilio, Aufidio, Guardie, e detti.
GIUNIA (Lo sposo mio?) CINNA (Che miro?) CELIA (E quale arcan?) CECILIO (Che
fia?) SILLA Roma, il senato e 'l popolo m'ascolti. A voi presento un cittadin
proscritto, che di sprezzar le leggi osò furtivo. Ei, che d'un ferro armato in
Campidoglio alle mie squadre appresso tentò svenare il dittatore istesso.
Continua nella pagina seguente. Atto terzo Lucio Silla SILLA Grazia ei non
cerca. Anzi di me non teme e m'oltraggia, e detesta. Ecco il momento che decide
di lui. Silla qui adopri l'autorità, che Roma al suo braccio affidò. Giunia mi
senta e m'insulti, se può. Quell'empio Silla quel superbo tiranno a tutti
odioso vuol che viva Cecilio, e sia tuo sposo. GIUNIA E sarà ver?... Mia
vita... CECILIO Fida sposa, qual gioia... qual cangiamento è questo? AUFIDIO
(Che fu?) CELIA (Lodi agli dèi.) CINNA (Stupito io resto.) SILLA Padri
coscritti, or da voi cerco, e voglio quanto vergò la mano in questo foglio. De'
cittadin proscritti ei tutti i nomi accoglie; ciascun ritorni alle paterne
soglie. CECILIO Oh, come degno or sei del supremo splendor fra cui tu siedi!
GIUNIA Costretta ad ammirarti alfin mi vedi. AUFIDIO (Ah che la mia rovina
certa prevedo!) SILLA In mezzo al pubblico piacer, fra tante lodi, ch'ogni labbro
sincer prodiga a Silla, e perché Cinna è il solo, che infra occulti pensier
confuso giace, e diviso da me sospira, e tace? Fedele amico... (vuol
abbracciarlo) CINNA Ah lascia di chiamarmi così. Per opra mia tornò Cecilio a
Roma. In Campidoglio per trucidarti io corsi, e armai non lungi di cento anime
audaci e la mano, e l'ardir. Io sol le faci a danni tuoi della discordia
accesi... SILLA Tu abbastanza dicesti, io tutto intesi. CELIA (Dolci speranze
addio!...) 48 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772
Atto terzo SILLA La pena or senti d'ogni trama ascosa. Celia germana mia sarà
tua sposa. GIUNIA (Bella virtù!) CECILIO (Che generoso core!) CINNA E quale, oh
giusto cielo, mi s'accende sul volto vergognoso rossor? Come poss'io... SILLA
Quel rimorso mi basta, e tutto oblio. CELIA (Me lieta!) (a Cinna) Ah premia
alfine il mio costante amor. Della clemenza mostrati degno, e di quel core
umano la virtù, la pietade... CINNA Ecco la mano. SILLA Qual de' trionfi miei
eguagliar potrà questo, eterni dèi? AUFIDIO Lascia, ch'a piedi tuoi grazia
implori da te. De' miei consigli, delle mie lodi adulatrici or sono pentito...
SILLA Aufidio, sorgi. Io ti perdono. Così lodevol opra coronisi da me. Romani,
dal capo mio si tolga il rispettato alloro, e trionfale; più dittator non son,
son vostro uguale. (depone l'alloro) Ecco alla patria resa la libertade. Ecco
asciugato alfine il civil pianto. Ah no, che 'l maggior bene la grandezza non
è. Madre soltanto è di timor, di affanni, di frodi, e tradimenti. Anzi per lei
cieco mortal dalla calcata via di giustizia, e pietà spesso travìa. Ah sì
conosco a prova che assai più grata all'alma d'un menzogner splendore è
l'innocenza, e la virtù del core. Atto terzo Lucio Silla [N. 23 Finale]
Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CORO Il gran Silla a
Roma in seno che per lui respira, e gode d'ogni gloria, e d'ogni lode vincitore
oggi si fa. GIUNIA E CECILIO Sol per lui l'acerba sorte è per me felicità!
CINNA E SILLA E calpesta le ritorte la latina libertà. TUTTI Trionfò d'un basso
amore la virtude, e la pietà. SILLA Il trofeo sul proprio core qual trionfo
uguaglierà? CORO Se per Silla in Campidoglio lieta Roma esulta, gode d'ogni
gloria, e d'ogni lode vincitore oggi si fa. librettidopera G. De Gamerra Mozart
AttoriAltezze realiArgomento Atto [OuvertureScena AriaScena AriaScena AriaScena
Scena Aria] Scena AriaScena Scena Coro e arioso Scena Duetto Atto Scena Aria
Scena Scena AriaScena AriaScena AriaScena AriaScena Scena AriaScena AriaScena AriaScena
AriaScena Coro Scena Scena TerzettoAtto Scena AriaScena AriaScena Scena Aria Scena
AriaScena Scena Scena FinaleBrani significativi Lucio Silla BRANI
SIGNIFICATIVI D'Eliso in sen m'attendi (Giunia e Cecilio) Dalla sponda
tenebrosa (Giunia) Fra i pensier più funesti di morte (Giunia) Fuor di queste
urne dolenti (Coro e Giunia) Parto, m'affretto (Giunia) Pupille amate (Cecilio)
Se lusinghiera speme (Celia). Grice: “At Oxford they put you down. “That IS an original
interpretation of Silla’s behaviour – but of course you would need to challenge
Mommsen’s objection,” my tutor said, righly assuming that I had no idea Mommsen
had an objection!” -- Silla. Keywords: Mommsen. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Silla”. Silla.
Luigi Speranza -- Grice e Sillo: la ragione conversazionale e il voto al
divino -- Roma – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo
italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean, cited by Giamblico. The sect being
very reluctant to take an oath – invoking ‘il divino’ in vain – Sillo refused
to take one, and just hand over money.
Luigi Speranza -- Grice e Simbolo: la ragione conversazionale della
filosofia di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Along with two other
philosophers by the names of Ieroteo and Maxximiniano, he persuades Giuliano to
pave the floor of Hagia Sophia with silver. However, the story is doubted, as
is the existence of these three philosophers. Grice: “It amuses me that the name of this
Italian philosopher is identical with an artificial language invented by J. L.
Austin, Symbolo!”
Luigi Speranza -- Grice e Simichia: la ragione conversazionale dell’élite
di Crotona e la sua diaspora -- Roma – la scuola di Taranto -- filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia.
A Pythagorean, cited by Giamblico. “This is the diaspora from Crotona – as if
we would have an Oxonian diaspora, provided the mayor of Oxford deems us
elitists!” – ‘or the gown elitist towards the town, but surely Boris Johnson
never saw himself as gown!’ – Grice.
Luigi Speranza -- Grice e Simioni: la ragione
conversazionale degl’amanti – filosofia veneziana – la scuola di Venezia –
filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Fiosofo veneziano. Filosofo veneto.
Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Tra i principali studiosi di PIRANDELLO (si
veda), inizia la sua attività politica militando nelle file del socialismo. Venne
espulso dal partito per indegnità morale. Collabora con l’United States Information
Service. Si trasfere a Monaco di iera per approfondire gli studi per poi
ritornare a Milano. Leader di un collettivo operai-studenti, mentre lavora alla
Mondadori, fonda il collettivo politico metro-politano milanese. Teorizza lo
scontro aperto, e si considera il progenitore delle brigate rosse. Insieme a
circa settanta persone, tra cui componenti del collettivo ed elementi del
dissenso, partecipa al convegno di Chiavari nella sala Marchesani, adiacente la
pensione Stella Maris, nel quale un gruppo di partecipanti dichiara la propria
adesione ad una visione politica. La data di questo convegno viene da taluni
considerata come la data di nascita delle brigate rosse. Altri affermano che la
formazionesia nata con il convegno di Pecorile (Reggio Emilia). L'ultima
attività, prima di passare alla completa clandestinità, a compe come redattore
di "Sinistra proletaria", l'ultimo dei quali riporta in copertina uno
sfondo rosso con disegnato al centro un cerchio nero attorniante le sagome di XIV
mitra. Fonda la scuola di lingue Hyperion, la quale secondo alcuni ha la
funzione di una vera centrale internazionale. Si afferma che e anche il capo
del Super-clan, organizzazione nata da una costola delle brigate rosse. Si insere
nella vita cittadina, ricominciando a frequentare gl’ambienti progressisti e divenendo
vicepresidente della fondazione Pierre. E proprio quale accompagnatore di Pierre,
e ricevuto da Giovanni Paolo II in udienza
privata. Si avvicina al buddhismo tibetano. Si apparta nella campagna di
Truinas, nella Drôme, dove geste un B et B. Craxi, alludendo alla esistenza di
un grande delle brigate rosse (l'eminenza grigia ipotizzata da alcuni che
dall'estero avrebbe guidato, come un burattinaio, molte delle azioni sul suolo
italiano), dichiara che costui poteva essere cercato tra quei personaggi che
avevano cominciato a fare politica con noi e poi sono scomparsi, magari sono a
Parigi a lavorare per il partito armato, frase che venne da molti ritenuto
indicasse come grande proprio lui. L'organizzazione di sinistra extra-parlamentare
Lotta Continua lo accusa di essere un confidente della polizia e in contatto
con i servizi segreti.. Durante la fase iniziale di Mani pulite, e accusato da LARINI
di essere il grande, accuse respinte da lui che le ritenne parte di un'azione
contro Craxi, vista la comune militanza nel socialismo. Hyperion e realmente
una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi
segreti? Ferrari, In teleselezione dalla
Francia gli ordini ai italiani? Corriere della Sera. Entrambi gli edifici sono
proprietà della curia Il convegno di
Pecorile in Anni di Piombo. Il nucleo storico delle brigate rosse. E morto il
misterioso grande, La Tribuna di Treviso, Fratini, Hyperion: scuola di lingue chiacchierata,
ANSA, repubblica cronaca news/caso moro_il_bierre_franceschini
moretti una_spia riduttivo si sentiva_lenin. Dalla lotta al buddhismo, in
Critica Sociale, Anni di piombo Superclan Hyperion (Parigi) Venezia Anni di
piombo. Corrado Simioni. Simioni. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Simioni” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza-- Grice e Simmaco: la ragione conversazionale del console
filosofo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of considerable
wisdom, also a consul. Quinto
Aurelio Simmaco.
Luigi Speranza -- Grice
e Simoni – la scuola di Caprese -- filosofia italiana – Luigi Speranza Caprese). Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Caprese, Toscana. Antenato: Simone de Buonarrota.
Nome: S. Grice: “Some call him Michelangelo, but that’s rude!” -- See the study of Buonarroti’s Moses by Freud,
“filosofia” Michelangelo Buonarroti. CDisambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Michelangelo Buonarroti il Giovane, Michelangelo
(disambigua) e Buonarroti (disambigua). Pietro Freccia, statua di
Michelangelo, piazzale degli Uffizi a Firenze. Michelangelo Buonarroti, noto
semplicemente come Michelangelo (Caprese, 6 marzo 1475[1] – Roma), è stato un filosofo
italiano -- pittore, scultore, architetto e poeta italiano. Daniele
da Volterra, Ritratto di Michelangelo Autoritratto (?) come Nicodemo,
Pietà Bandini Michelangelo, disegno di Daniele da Volterra Soprannominato
"Divin Artista" e definito "Artista universale", fu
protagonista del Rinascimento italiano, e già in vita fu riconosciuto dai suoi
contemporanei come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi[3]. Personalità
tanto geniale quanto irrequieta, il suo nome è legato ad alcune delle più
maestose opere dell'arte occidentale, fra cui si annoverano il David, il Mosè,
la Pietà del Vaticano, la Cupola di San Pietro e il ciclo di affreschi nella
Cappella Sistina, tutti considerati traguardi eccezionali dell'ingegno
creativo. Lo studio delle sue opere segnò le generazioni artistiche
successive dando un forte impulso alla corrente del manierismo. Nome
Nelle fonti coeve, Michelangelo è chiamato in latino Michael.Angelus (la firma
dell'autore sulla Pietà vaticana è MICHAEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS]) e
in italiano Michelagnolo, come risulta dalla biografia del 1553 Vita di
Michelagnolo Buonarroti scritta da Condivi, suo discepolo e collaboratore. Lo
stesso Vasari lo chiamava Michelagnolo e il nome rimase tale fino alla metà
dell’Ottocento. Il cambio in Michelangiolo prima e la successiva
italianizzazione in Michelangelo poi, avvengono tra l’800 e il ‘900.
Benché tra le nuove generazioni si sia affermata la versione moderna, a Firenze
resiste la variante ottocentesca di Michelangiolo nel parlato degli anziani e
nella denominazione di luoghi simbolo della città (viale Michelangiolo,
piazzale Michelangiolo, Liceo Classico Michelangiolo, ecc.). Biografia
Gioventù Origini Il ricordo del padre sulla nascita di Michelangelo
Michelangelo Buonarroti nasc a Caprese, in Valtiberina, vicino ad Arezzo, da
Ludovico di Leonardo Buonarroti S., podestà al castello di Chiusi e di Caprese,
e Francesca di Neri del Miniato del Sera. La famiglia è fiorentina, ma il padre
si trova nella cittadina per ricoprire la carica politica di podestà. S. è il
secondogenito, su un totale di cinque figli della coppia. I S. di Firenze
fanno parte del patriziato fiorentino. Nessuno in famiglia ha fino ad allora
intrapreso la carriera artistica, né l'arte meccanica (cioè un mestiere che
richiedeva sforzo fisico) poco consona al loro status, ricoprendo piuttosto
incarichi nei pubblici uffici. Due secoli prima un antenato, Simone di
Buonarrota S., è nel consiglio dei cento savi e ha ricoperto le maggiori
cariche pubbliche. Possedeno uno scudo d'arme e patronano una cappella nella
basilica di Santa Croce. All'epoca della nascita di S., la famiglia
attraversa però un momento di penuria economica. Il padre è talmente impoverito
che sta addirittura per perdere i suoi privilegi di cittadino fiorentino. La
podesteria di Caprese, uno dei meno significativi possedimenti fiorentini, è un
incarico politico di scarsa importanza, da lui accettato per cercare di
assicurare una sopravvivenza decorosa alla propria famiglia, arrotondando le
magre rendite di alcuni poderi nei dintorni di Firenze. Il declino influenza
pesantemente le scelte familiari, nonché il destino di S. e la sua personalità:
la preoccupazione per il benessere economico, suo e dei suoi familiari, è una
costante in tutta la sua vita. Già alla fine di marzo, terminata la carica
semestrale di Ludovico Buonarroti, tornò presso Firenze, a Settignano,
probabilmente alla poi detta Villa Michelangelo, dove il neonato venne affidato
a una balia locale[6]. Settignano era un paese di scalpellini, poiché vi si
estraeva la pietra serena, da secoli utilizzata a Firenze nell'edilizia di
pregio. Anche la balia di Michelangelo era figlia e moglie di scalpellini.
Diventato un artista famoso, Michelangelo, spiegando perché preferiva la
scultura alle altre arti, ricordava proprio questo affidamento, sostenendo di
provenire da un paese di "scultori e scalpellini", dove dalla balia
aveva bevuto «latte impastato con la polvere di marmo»[9]. Nel 1481 la
madre di Michelangelo morì; egli aveva soltanto sei anni. L'educazione
scolastica del fanciullo venne affidata all'umanista Francesco Galatea da
Urbino, che gli impartì lezioni di grammatica. In quegli anni conobbe l'amico
Francesco Granacci, che lo incoraggiò nel disegno[6]. Ai figli cadetti di
famiglie patrizie era di solito riservata la carriera ecclesiastica o militare,
ma Michelangelo, secondo la tradizione, aveva manifestato fin da giovanissimo
una forte inclinazione artistica, che nella biografia di Ascanio Condivi,
redatta con la collaborazione dell'artista stesso, viene ricordata come
ostacolata a tutti i costi dal padre, che non la spuntò però sull'eroica
resistenza del figlio[10]. Formazione presso il Ghirlandaio
(1487-1488) Michelangelo, San Pietro da Masaccio, 1488-1490 circa. Penna
e sanguigna su carta. Staatliche Graphische Sammlung, Monaco. Nel 1487
Michelangelo finalmente approdò alla bottega di Domenico Ghirlandaio, artista
fiorentino tra i più quotati dell'epoca[10]. Ascanio Condivi, nella Vita
di Michelagnolo Buonarroti[11], omettendo la notizia e sottolineando la
resistenza paterna, sembra voler enfatizzare un motivo più che altro letterario
e celebrativo, cioè il carattere innato e autodidatta dell'artista: dopotutto,
l'avvio consenziente di Michelangelo a una carriera considerata "artigianale",
era per il costume dell'epoca una ratifica di una retrocessione sociale della
famiglia. Ecco perché, una volta divenuto famoso, egli cercò di nascondere gli
inizi della sua attività in bottega, parlandone non come di un normale
apprendistato professionale, ma come se si fosse trattato di una chiamata
inarrestabile dello spirito, una vocazione, contro la quale il padre avrebbe
inutilmente tentato di resistere[12]. In realtà sembra ormai quasi certo
che Michelangelo fu mandato a bottega proprio dal padre a causa dell'indigenza
familiare[13]: la famiglia aveva bisogno dei soldi dell'apprendistato del
ragazzo, al quale così non poté essere data un'istruzione classica. La notizia
è data da Vasari, che già nella prima edizione delle Vite (1550)[14], descrisse,
appunto, come fu Ludovico stesso a condurre il figlio dodicenne nella bottega
del Ghirlandaio, suo conoscente, mostrandogli alcuni fogli disegnati dal
fanciullo, affinché lo tenesse con sé, alleviando le spese per i numerosi
figli, e convenendo assieme al maestro un "giusto et onesto salario, che
in quel tempo così si costumava". Lo stesso storico aretino ricorda le sue
basi documentarie, nei ricordi di Ludovico e nelle ricevute di bottega
conservate all'epoca da Ridolfo del Ghirlandaio, figlio del celebre
pittore[10]. In particolare, in un "ricordo" del padre, datato 1º
aprile 1488, Vasari lesse i termini dell'accordo con i fratelli Ghirlandaio,
prevedendo una permanenza del figlio a bottega per tre anni, per un compenso di
venticinque fiorini d'oro[10]. Inoltre in elenco di creditori della bottega
artistica, al giugno 1487, è registrato anche Michelangelo dodicenne[10].
In quel periodo la bottega del Ghirlandaio era attiva al ciclo affrescato della
Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove Michelangelo poté certamente
apprendere una tecnica pittorica avanzata[15]. La giovane età del fanciullo
(che al termine degli affreschi aveva quindici anni) lo relegherebbe a mestieri
da garzone (preparazione dei colori, riempimento di partiture semplici e decorative),
ma è altresì noto che egli era il migliore tra gli allievi e non è da escludere
che gli fossero affidati alcuni compiti di maggior rilievo: Vasari riportò come
Domenico avesse sorpreso il fanciullo a "ritrarre di naturale il ponte con
alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che
lavoravano", tanto che fece esclamare al maestro "Costui ne sa più di
me". Alcuni storici hanno ipotizzato un suo intervento diretto in alcuni
ignudi del Battesimo di Cristo e della Presentazione al Tempio oppure nello
scultoreo San Giovannino nel deserto, ma in realtà la mancanza di termini di
paragone e riscontri oggettivi ha sempre impossibilitato una definitiva
conferma[16]. Sicuro è invece che il giovane manifestò un forte interesse
per i maestri alla base della scuola fiorentina, soprattutto Giotto e Masaccio,
copiando direttamente i loro affreschi nelle cappelle di Santa Croce e nella
Brancacci in Santa Maria del Carmine[15]. Un esempio è il massiccio San Pietro
da Masaccio, copia dal Pagamento del tributo. Condivi scrisse anche di una
copia da una stampa tedesca di un Sant'Antonio tormentato da diavoli: l'opera è
stata recentemente riconosciuta nel Tormento di sant'Antonio, copia da Martin
Schongauer[6], acquistato dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, in
Texas[17]. Al giardino neoplatonico (1488-1490) Copia da Cesare
Zocchi, Michelangelo giovane scolpisce la testa di fauno, Studio Romanelli,
Firenze Molto probabilmente Michelangelo non terminò il triennio formativo in
bottega, a giudicare dalle vaghe indicazioni della biografia del Condivi. Forse
si burlò del proprio maestro, sostituendo un ritratto della mano di Domenico,
che doveva rifare per esercizio, con la sua copia, senza che il Ghirlandaio si
accorgesse della differenza, "con un suo compagno […]
ridendosene"[18]. In ogni caso, pare che su suggerimento di un altro
apprendista, Francesco Granacci, Michelangelo cominciò a frequentare il
giardino di San Marco, una sorta di accademia artistica sostenuta economicamente
da Lorenzo il Magnifico in una sua proprietà nel quartiere mediceo di Firenze.
Qui si trovava una parte delle vaste collezioni di sculture antiche dei Medici,
che i giovani talenti, ansiosi di migliorare nell'arte dello scolpire, potevano
copiare, sorvegliati e aiutati dal vecchio scultore Bertoldo di Giovanni,
allievo diretto di Donatello. I biografi dell'epoca descrivono il giardino come
un vero e proprio centro di alta formazione, forse enfatizzando un po' la
quotidiana realtà, ma è senza dubbio che l'esperienza ebbe un impatto
fondamentale sul giovane Michelangelo[15]. Tra i vari aneddoti legati
all'attività del giardino è celebre nella letteratura michelangiolesca quello
della Testa di fauno, una perduta copia in marmo di un'opera antica. Veduta dal
Magnifico in visita al giardino, venne criticata bonariamente per la perfezione
della dentatura che si intravedeva dalla bocca dischiusa, inverosimile in una
figura anziana. Ma prima che il signore finisse il giro del giardino, il
Buonarroti si armò di trapano e martello per scalfire un dente e bucarne un
altro, suscitando la sorpresa ammirazione di Lorenzo. Pare che in seguito
all'episodio Lorenzo in persona chiese il permesso a Ludovico Buonarroti di
ospitare il ragazzo nel palazzo di via Larga, residenza della sua famiglia[19].
Ancora le fonti parlano di una resistenza paterna, ma le gravose necessità
economiche della famiglia dovettero giocare un ruolo determinante, infatti alla
fine Ludovico cedette in cambio di un posto di lavoro alla dogana, retribuito
otto scudi al mese[19]. Verso il 1490 il giovane artista venne quindi
accolto come figlio adottivo nella più importante famiglia in città. Ebbe così
modo di conoscere direttamente le personalità del suo tempo, come Poliziano,
Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, che lo resero partecipe, in qualche
misura, della dottrina neoplatonica e dell'amore per la rievocazione
dell'antico. Conobbe inoltre i giovani rampolli di casa Medici, più o meno a
lui coetanei, che diventarono negli anni successivi alcuni dei suoi principali
committenti: Piero, Giovanni, poi papa Leone X, e Giulio, futuro Clemente
VII[19]. Un altro fatto legato a quegli anni è la lite con Pietro
Torrigiano, futuro scultore di buon livello, noto soprattutto per il suo
viaggio in Spagna, da dove esportò modi rinascimentali. Pietro era noto per la
sua avvenenza e per un'ambizione pari almeno a quella di Michelangelo. Tra i
due non correva buon sangue e, una volta entrati in contrasto, durante un
sopralluogo alla cappella Brancacci, finirono per azzuffarsi; ebbe la peggio
Michelangelo, che incassò un pugno del rivale in pieno volto, rompendosi il
naso e avendo deturpato per sempre il profilo[20]. In seguito alla rissa,
Lorenzo De Medici esiliò Pietro Torrigiano da Firenze. Prime opere
(1490-1492) Michelangelo, Madonna della Scala, marmo, 1491 circa. Casa
Buonarroti, Firenze. Al periodo del giardino e del soggiorno in casa Medici
risalgono essenzialmente due opere, la Madonna della Scala (1491 circa) e la
Battaglia dei Centauri, entrambe conservate nel museo di Casa Buonarroti a
Firenze. Si tratta di due opere molto diverse per tema (uno sacro e uno
profano) e per tecnica (una in un sottile bassorilievo, l'altro in un
prorompente altorilievo), che testimoniano alcune influenze fondamentali nel
giovane scultore, rispettivamente Donatello e la statuaria classica[19].
Nella Madonna della Scala l'artista riprese la tecnica dello stiacciato,
creando un'immagine di tale monumentalità da far pensare alle steli classiche;
la figura della Madonna, che occupa tutta l'altezza del rilievo, si staglia
vigorosa, tra notazioni di vivace naturalezza, come il Bambino è assopito di
spalle e i putti, sulla scala da cui prende il nome il rilievo, occupati
nell'insolita attività di tendere un drappo[21]. Michelangelo,
Battaglia dei centauri, marmo, 1492 circa. Casa Buonarroti, Firenze Di poco
posteriore è la Battaglia dei centauri, databile tra il 1491 e il 1492: secondo
Condivi e Vasari fu eseguita per Lorenzo il Magnifico, su un soggetto proposto
da Agnolo Poliziano, anche se i due biografi non concordano sull'esatta
titolazione[22]. Per questo rilievo Michelangelo si rifece sia ai
sarcofagi romani, sia alle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano, e guardò
anche al contemporaneo rilievo bronzeo di Bertoldo di Giovanni con una
battaglia di cavalieri, a sua volta ripreso da un sarcofago del Camposanto di
Pisa. Nel rilievo michelangiolesco però viene esaltato soprattutto il dinamico
groviglio dei corpi nudi in lotta e annullato ogni riferimento
spaziale[22]. Michelangelo e Piero de' Medici (1492-1494) Il
Crocifisso di Santo Spirito (1493 circa) Nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico.
Non è chiaro se i suoi eredi, in particolare il primogenito Piero, mantennero
l'ospitalità al giovane Buonarroti: indizi sembrano indicare che Michelangelo
si ritrovò improvvisamente senza dimora, con un difficile ritorno alla casa
paterna[19]. Piero di Lorenzo de' Medici, succeduto al padre anche nel governo
della città, è ritratto dai biografi michelangioleschi come un tiranno
"insolente e soverchievole", con un difficile rapporto con l'artista,
che era di appena tre anni più giovane di lui. Nonostante ciò, i fatti
documentati non lasciano alcun indizio di una rottura plateale tra i due,
almeno fino alla crisi dell'autunno del 1494[23]. Nel 1493 infatti Piero,
dopo essere stato nominato Operaio in Santo Spirito, dovette intercedere coi
frati agostiniani in favore del giovane artista, affinché lo ospitassero e gli
consentissero di studiare l'anatomia negli ambienti del convento, sezionando i
cadaveri provenienti dall'ospedale del complesso, attività che giovò
enormemente alla sua arte[19]. In questi anni Michelangelo scolpì il
Crocifisso ligneo, realizzato come ringraziamento per il priore. Attribuito a
questo periodo è anche il piccolo Crocifisso di legno di tiglio recentemente
acquistato dallo Stato italiano. Inoltre, probabilmente per ringraziare o per
accattivarsi Piero, dovette scolpire, subito dopo la morte di Lorenzo, un
perduto Ercole[19]. Il 20 gennaio 1494 su Firenze si abbatté una violenta
nevicata e Piero fece chiamare Michelangelo per fare una statua di neve nel
cortile di palazzo Medici. L'artista fece di nuovo un Ercole, che durò almeno
otto giorni, sufficienti per fare apprezzare l'opera a tutta la città[24].
All'opera si ispirò forse Antonio del Pollaiolo per un bronzetto oggi alla
Frick Collection di New York. Mentre cresceva lo scontento per il
progressivo declino politico ed economico della città, in mano a un ragazzo
poco più che ventenne, la situazione esplose in occasione della calata in
Italia dell'esercito francese (1494) capeggiato da Carlo VIII, nei confronti
del quale Piero adottò un'impudente politica di assecondamento, giudicato
eccessivo. Appena partito il monarca, la situazione precipitò rapidamente,
aizzata dal predicatore ferrarese Girolamo Savonarola, con la cacciata dei
Medici e il saccheggio del palazzo e del giardino di San Marco[6]. Resosi
conto dell'imminente crollo politico del suo mecenate, Michelangelo, al pari di
molti artisti dell'epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali di
Savonarola[25]. Il frate, con le sue accalorate prediche e il suo rigorismo
formale, accese in lui sia la convinzione che la Chiesa dovesse essere
riformata, sia i primi dubbi sul valore etico da dare all'arte, orientandola su
soggetti sacri[19]. Poco prima del precipitare della situazione,
nell'ottobre 1494, Michelangelo, nella paura di rimanere coinvolto nei
disordini, quale possibile bersaglio poiché protetto dai Medici, fuggì dalla
città di nascosto, abbandonando Piero al suo destino: il 9 novembre venne
infatti scacciato da Firenze, dove si instaurò un governo popolare[19].
Il primo viaggio a Bologna (1494-1495) San Procolo (1494-1495) Per
Michelangelo si trattava del primo viaggio fuori Firenze, con una prima tappa a
Venezia, dove rimase poco, ma abbastanza per vedere probabilmente il monumento
equestre a Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, dal quale trasse forse
ispirazione per i volti eroici e "terribili"[26]. Si diresse
poi a Bologna, in cui venne accolto, trovando ospitalità e protezione, dal
nobile Giovan Francesco Aldrovandi, molto vicino ai Bentivoglio che allora
dominavano la città. Durante il soggiorno bolognese, durato circa un anno,
l'artista si occupò, grazie all'intercessione del suo protettore, del
completamento della prestigiosa Arca di san Domenico, a cui avevano già
lavorato Nicola Pisano e Niccolò dell'Arca, che era morto da pochi mesi, in
quel 1494. Scolpì così un San Procolo, un Angelo reggicandelabro e terminò il
San Petronio iniziato da Niccolò[27]. Si tratta di figure che si allontanano
dalla tradizione di primo Quattrocento delle altre statue di Niccolò dell'Arca,
con una solidità e una compattezza innovative, nonché primo esempio di quella
"terribilità" michelangiolesca nell'espressione fiera e eroica del
San Procolo[28], nel quale pare abbozzata un'intuizione embrionale che si
svilupperà nel famoso David. A Bologna lo stile dell'artista era infatti
velocemente maturato grazie alla scoperta di nuovi esempi, diversi dalla
tradizione fiorentina, che lo influenzarono profondamente. Ammirò i rilievi
della Porta Magna di San Petronio di Jacopo della Quercia. Da essi attinse gli
effetti di "forza trattenuta", data dai contrasti tra parti lisce e
stondate e parti dai contorni rigidi e fratturati, nonché la scelta di soggetti
umani rustici e massicci, che esaltano le scene con gesti ampi, pose eloquenti
e composizioni dinamiche[29]. Anche le stesse composizioni di figure che
tendono a non rispettare i bordi quadrati dei riquadri e a debordare con le loro
masse compatte e la loro energia interna furono motivo di suggestione per le
future opere del fiorentino, che nelle scene della Volta Sistina citerà diverse
volte queste scene vedute in gioventù, sia negli insiemi, sia nei particolari.
Anche le sculture di Niccolò dell'Arca devono essere state sottoposte ad
analisi da parte del fiorentino, come il gruppo in cotto del Compianto sul
Cristo morto, dove il volto e il braccio di Gesù saranno richiamati di lì a
breve nella Pietà vaticana. Inoltre Michelangelo rimase colpito
dall'incontro con la pittura ferrarese, in particolare con le opere di
Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, come il monumentale Polittico
Griffoni, gli espressivi affreschi della cappella Garganelli o la Pietà del de'
Roberti[27]. L'imbroglio del Cupido (1495-1496) Rientrato a Firenze nel
dicembre 1495, quando la situazione appariva ormai calmata, Michelangelo trovò
un clima molto diverso. Nella città dominata dal governo repubblicano di
ispirazione savonaroliana erano nel frattempo rientrati alcuni Medici. Si
trattava di alcuni esponenti del ramo cadetto che, per l'occasione, presero il
nome di "Popolani" per accattivarsi le simpatie del popolo,
presentandosi come protettori e garanti delle libertà comunali. Tra questi
spiccava Lorenzo di Pierfrancesco, bis-cugino del Magnifico, che era da tempo
una figura chiave della cultura cittadina, committente di Botticelli e di altri
artisti. Fu lui a prendere sotto protezione Michelangelo, commissionandogli due
sculture, entrambe perdute, un San Giovannino e un Cupido dormiente[27].
Il Cupido in particolare fu al centro di una vicenda che portò di lì a poco
Michelangelo a Roma, in quello che può dirsi l'ultimo dei suoi fondamentali
viaggi formativi. Su suggerimento forse dello stesso Lorenzo e probabilmente
all'insaputa di Michelangelo, si decise di sotterrare il Cupido, per patinarlo
come un reperto archeologico e rivenderlo sul fiorente mercato delle opere
d'arte antiche a Roma. L'inganno riuscì, infatti di lì a poco, con
l'intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese, il cardinale di San
Giorgio Raffaele Riario, nipote di Sisto IV e uno dei più ricchi collezionisti
del tempo, lo acquistò per la cospicua somma di duecento ducati: Michelangelo
ne aveva incassati per la stessa opera appena trenta[27]. Poco dopo,
tuttavia, le voci del fruttuoso inganno si sparsero fino ad arrivare alle
orecchie del cardinale, che per avere conferma e richiedere indietro i soldi,
spedì a Firenze un suo intermediario, Jacopo Galli, che risalì a Michelangelo e
riuscì ad avere conferma della truffa. Il cardinale andò su tutte le furie, ma
volle anche conoscere l'artefice capace di emulare gli antichi facendoselo
spedire a Roma, nel luglio di quell'anno, dal Galli. Con quest'ultimo, in
seguito, Michelangelo strinse un solido e proficuo rapporto[27]. Primo
soggiorno romano (1496-1501) Arrivo a Roma e il Bacco (1496-1497) Michelangelo
accettò senza indugio l'invito a Roma del cardinale, nonostante questi fosse
nemico giurato dei Medici: di nuovo per convenienza voltava le spalle ai suoi
protettori[30]. Arrivò a Roma il 25 giugno 1496. Il giorno stesso il
cardinale mostrò a Michelangelo la sua manutenzione di sculture antiche,
chiedendogli se se la sentiva di fare qualcosa di simile. Neppure dieci giorni
dopo, l'artista iniziò a scolpire una statua a tutto tondo di un Bacco (oggi al
Museo del Bargello), raffigurato come un adolescente in preda all'ebbrezza, in
cui è già leggibile l'impatto con la statuaria classica: l'opera infatti
presenta una resa naturalistica del corpo, con effetti illusivi e tattili
simili a quelli della scultura ellenistica; inedita per l'epoca è
l'espressività e l'elasticità delle forme, unite al tempo stesso con
un'essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco scolpì un fauno che
sta rubando qualche acino d'uva dalla mano del dio: questo gesto destò molta
ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero
mangiare dell'uva con grande realismo. Il Bacco è una delle poche opere
perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo
ingresso nella maturità artistica[31]. L'opera, forse rifiutata dal
cardinale Riario, rimase in casa di Jacopo Galli, dove Michelangelo viveva. Il
cardinale Riario mise a disposizione di Michelangelo la sua cultura e la sua
collezione, contribuendo con ciò in maniera determinante al miglioramento del
suo stile, ma soprattutto lo introdusse nell'ambiente cardinalizio dal quale
sarebbero arrivate presto importantissime commissioni. Eppure, ancora una volta
Michelangelo mostrò ingratitudine verso il mecenate di turno: a proposito del
Riario fece scrivere dal suo biografo Condivi che era un ignorante e non gli
aveva commissionato nulla[32]. Pietà (1497-1499) Michelangelo,
Pietà, 1497-1499, marmo. Basilica di San Pietro, Città del Vaticano. Grazie
sempre all'intermediazione di Jacopo Galli, Michelangelo ricevette altre
importanti commissioni in ambito ecclesiastico, tra cui forse la Madonna di
Manchester, la tavola dipinta della Deposizione per Sant'Agostino, forse il
perduto dipinto con le Stigmate di san Francesco per San Pietro in Montorio, e,
soprattutto, una Pietà in marmo per la chiesa di Santa Petronilla, oggi nella
Basilica di San Pietro[33]. Quest'ultima opera, che suggellò la
definitiva consacrazione di Michelangelo nell'arte scultorea - ad appena
ventidue anni - era stata commissionata dal cardinale francese Jean de Bilhères
de La Groslaye, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, che
desiderava forse adoperarla per la propria sepoltura. Il contatto tra i due
dovette avvenire nel novembre 1497, in seguito al quale l'artista partì alla
volta di Carrara per scegliere un blocco di marmo adeguato; la firma del
contratto vero e proprio si ebbe poi solo nell'agosto del 1498. Il gruppo,
fortemente innovativo rispetto alla tradizione scultorea delle Pietà
tipicamente nordica, venne sviluppato con una composizione piramidale, con la
Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale,
mediate dal massiccio panneggio. La finitura dei particolari venne condotta
alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido e di
cerea morbidezza. Entrambi i protagonisti mostrano un'età giovane, tanto che
sembra che lo scultore si sia ispirato al passo dantesco "Vergine Madre, Figlia
di tuo Figlio"[34]. La Pietà fu importante nell'esperienza artistica
di Michelangelo non solo perché fu il suo primo capolavoro ma anche perché fu
la prima opera da lui fatta in marmo di Carrara, che da questo momento divenne
la materia primaria per la sua creatività. A Carrara l'artista manifestò un
altro aspetto della personalità: la consapevolezza del proprio talento. Lì
infatti acquistò non solo il blocco di marmo per la Pietà, ma anche diversi
altri blocchi, nella convinzione che - considerato il suo talento - le
occasioni per utilizzarli non sarebbero mancate[35]. Cosa ancora più insolita
per un artista di quei tempi, Michelangelo si convinse che per scolpire le
proprie statue non aveva bisogno di committenti: avrebbe potuto scolpire di
propria iniziativa opere da vendere una volta terminate. In pratica
Michelangelo diventava un imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio
talento senza aspettare che altri lo facessero per lui[35]. Rientro a
Firenze (1501-1504) Passaggio per Siena (1501) Nel 1501 Michelangelo decise di
tornare a Firenze. Prima di partire Jacopo Galli gli ottenne una nuova
commissione, questa volta per il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini,
futuro papa Pio III. Si trattava di realizzare quindici statue di Santi di grandezza
leggermente inferiore al naturale, per l'altare Piccolomini nel Duomo di Siena,
composto architettonicamente una ventina di anni prima da Andrea Bregno. Alla
fine l'artista ne realizzò solo quattro (San Paolo, San Pietro, un San Pio e
San Gregorio), spedendole da Firenze fino al 1504, per di più con un uso
massiccio di aiuti. La commissione delle statue senesi, destinate a nicchie
anguste, iniziava infatti a essere ormai troppo stretta per la sua fama, in
luce soprattutto delle prestigiose opportunità che si stavano profilando a
Firenze[36]. Rientro a Firenze: il David (1501) Michelangelo,
David, 1501-1504, marmo. Galleria dell'Accademia, Firenze. Nel 1501
Michelangelo era già rientrato a Firenze, spinto da necessità legate a
"domestici negozi"[37]. Il suo ritorno coincise con l'avvio di una
stagione di commissioni di grande prestigio, che testimoniano la grande
reputazione che l'artista si era conquistato durante gli anni passati a
Roma. Il 16 agosto del 1501 l'Opera del Duomo di Firenze gli affidò ad
esempio una colossale statua del David da collocare in uno dei contrafforti
esterni posti nella zona absidale della cattedrale. Si trattava di un'impresa
resa complicata dal fatto che il blocco di marmo assegnato era stato
precedentemente sbozzato da Agostino di Duccio nel 1464 e da Antonio Rossellino
nel 1476, col rischio che fossero state ormai asportate porzioni di marmo
indispensabili alla buona conclusione del lavoro[38]. Nonostante la
difficoltà, Michelangelo iniziò a lavorare su quello che veniva chiamato
"il Gigante" nel settembre del 1501 e completò l'opera in tre anni.
L'artista affrontò il tema dell'eroe in maniera insolita rispetto
all'iconografia data dalla tradizione, rappresentandolo come un uomo giovane e
nudo, dall'atteggiamento pacato ma pronto a una reazione, quasi a
simboleggiare, secondo molti, il nascente ideale politico repubblicano, che
vedeva nel cittadino-soldato - e non nel mercenario - l'unico in grado di
difendere le libertà repubblicane. I fiorentini riconobbero immediatamente la statua
come un capolavoro. Così, anche se il David era nato per l'Opera del Duomo e
quindi per essere osservato da un punto di vista ribassato e non certo
frontale, la Signoria decise di farne il simbolo della città e come tale venne
collocata nel luogo col maggior valore simbolico: piazza della Signoria. A
decidere di questa collocazione della statua fu una commissione appositamente
nominata e composta dai migliori artisti della città, tra i quali Davide
Ghirlandaio, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, Antonio
e Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino, Leonardo da Vinci, Pietro
Perugino[39]. Leonardo da Vinci, in particolare, votò per una posizione
defilata del David, sotto una nicchia nella Loggia della Signoria, confermando
le voci di rivalità e cattivi rapporti tra i due geni[40].
Confronto tra il profilo del Louvre e il profilo scultoreo di Palazzo
Vecchio conosciuto come l'Importuno di Michelangelo[41] Contemporaneamente alla
collocazione del David, Michelangelo potrebbe essere stato coinvolto nella
realizzazione del profilo scultoreo inciso sulla facciata di Palazzo Vecchio
conosciuto come L'Importuno di Michelangelo. L'ipotesi[41] su un possibile
coinvolgimento di Michelangelo nella creazione del profilo si fonda sulla forte
somiglianza di quest'ultimo con un profilo disegnato dall'artista, databile
agli inizi del XVI secolo, oggi conservato al Louvre.[42] Inoltre il profilo fu
probabilmente scolpito con il permesso delle autorità cittadine, infatti la
facciata di Palazzo Vecchio era costantemente presieduta da guardie. Quindi il
suo autore godeva di una certa considerazione e libertà d'azione. Lo stile
fortemente caratterizzato del profilo scolpito è vicino a quello dei profili di
teste maschili disegnati da Michelangelo nei primi anni del XVI secolo. Quindi
anche il ritratto scultoreo di Palazzo Vecchio dovrebbe essere datato
all'inizio del XVI secolo,[43] la sua esecuzione coinciderebbe con la
collocazione del David[44] e potrebbe forse rappresentare uno dei membri della
suddetta commissione.[45] Leonardo e Michelangelo Leonardo dimostrò
interesse per il David, copiandolo in un suo disegno (sebbene non potesse
condividere la spiccata muscolarità dell'opera), ma anche Michelangelo fu
influenzato dall'arte di Leonardo. Nel 1501 il maestro da Vinci espose nella
Santissima Annunziata un cartone con la Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e
l'agnellino (perduto), che "fece maravigliare tutti gl'artefici, ma finita
ch'ella fu, nella stanza durarono due giorni d'andare a vederla gl'uomini e le
donne, i giovani et i vecchi"[46]. Lo stesso Michelangelo vide il cartone,
restando forse impressionato dalle nuove idee pittoriche di avvolgimento
atmosferico e di indeterminatezza spaziale e psicologica, ed è quasi certo che
l'abbia studiato, come dimostrano i disegni di quegli anni, dai tratti più
dinamici, con una maggiore animazione dei contorni e con una maggiore
attenzione al problema del legame tra le figure, risolto spesso in gruppi
articolati in maniera dinamica. La questione dell'influenza leonardesca è un
argomento controverso tra gli studiosi, ma una parte di essi ne legge le tracce
nei due tondi scultorei da lui eseguiti negli anni immediatamente
successivi[47]. Ampiamente riconosciute sono indubbiamente due delle
innovazioni stilistiche di Leonardo assunte e fatte proprie nello stile di
Michelangelo: la costruzione piramidale delle figure umane, ampie rispetto agli
sfondi naturali, e il "contrapposto", portato al massimo grado dal
Buonarroti, che rende dinamiche le persone i cui arti vediamo spingersi in
opposte direzioni spaziali. Nuove commissioni (1502-1504) Tondo
Taddei Tondo Doni Il David tenne occupato Michelangelo fino al 1504,
senza impedire però che si imbarcasse in altri progetti, spesso a carattere
pubblico, come il perduto David bronzeo per un maresciallo del Re di Francia
(1502), una Madonna col Bambino per il mercante di panni fiammingo Alexandre
Mouscron per la sua cappella familiare a Bruges (1503) e una serie di tondi.
Nel 1503-1505 circa scolpì il Tondo Pitti, realizzato in marmo su commissione
di Bartolomeo Pitti e oggi al Museo del Bargello. In questa scultura spicca il
diverso rilievo dato ai soggetti, dalla figura appena accennata di Giovanni
Battista (precoce esempio di "non-finito"), alla finitezza della
Vergine, la cui testa ad altorilievo arriva a uscire dal confine della
cornice. Tra il 1503 e il 1504 realizzò un tondo dipinto per Agnolo Doni,
rappresentante la Sacra Famiglia con altre figure. In essa, i protagonisti sono
grandiose proporzioni e dinamicamente articolati, sullo sfondo di un gruppo di
ignudi. I colori sono audacemente vivaci, squillanti, e i corpi trattati in
maniera scultorea ebbero un effetto folgorante sugli artisti contemporanei.
Evidente è qui il distacco netto e totale dalla pittura leonardesca: per
Michelangelo la migliore pittura è quella che maggiormente si avvicina alla
scultura, cioè quella che possedeva il più elevato grado di plasticità
possibile[48] e, dopo le prove a olio non terminate che possiamo vedere a
Londra, realizzerà qui un esempio di pittura innovativa, pur con la
tradizionale tecnica della tempera stesa con fitti tratteggi incrociati.
Curiosa è la vicenda legata al pagamento dell'opera: dopo la consegna il Doni,
mercante molto attento alle economie, stimò l'opera una cifra
"scontata" rispetto al pattuito, facendo infuriare l'artista che si
riprese la tavola, esigendo semmai il doppio del prezzo convenuto. Al mercante
non restò che pagare senza esitazione pur di ottenere il dipinto. Al di là del
valore aneddotico dell'episodio, lo si può annoverare fra i primissimi esempi
(se non il primo in assoluto) di ribellione dell'artista nei confronti del
committente, secondo il concetto allora assolutamente nuovo della superiorità
dell'artista-creatore rispetto al pubblico (e quindi alla
committenza)[49]. Del 1504-1506 circa è infine il marmoreo Tondo Taddei,
commissionato da Taddeo Taddei e ora alla Royal Academy of Arts di Londra: si
tratta di un'opera dall'attribuzione più incerta, dove comunque spicca
l'effetto non-finito, presente nel trattamento irregolare del fondo dal quale
le figure sembrano emergere, forse un omaggio all'indefinito spaziale e
all'avvolgimento atmosferico di Leonardo[50]. Gli Apostoli per il Duomo
(1503) Il 24 aprile 1503, Michelangelo ricevette anche un'impegnativa con i
consoli dell'Arte della Lana fiorentina per la realizzazione di dodici statue
marmoree a grandezza naturale degli Apostoli, destinate a decorare le nicchie
nei pilastri che reggono la cupola della cattedrale fiorentina, da completarsi
al ritmo di una all'anno[47]. Il contratto non poté essere onorato per
varie vicissitudini e l'artista fece in tempo a sbozzare solo un San Matteo,
uno dei primi, vistosi esempi di non-finito[47]. La Battaglia di Cascina
(1504) Copia del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo,
eseguita da Aristotele da Sangallo nel 1542 e conservata presso la Holkham Hall
di Norfolk Tra l'agosto e il settembre 1504, gli venne commissionato un
monumentale affresco per la Sala Grande del Consiglio in Palazzo Vecchio che
doveva decorare una delle pareti, alta più di sette metri. L'opera doveva
celebrare le vittorie fiorentine, in particolare l'episodio della Battaglia di
Cascina, vinta contro i pisani nel 1364, che doveva andare a fare pendant con
la Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo sulla parete vicina[47].
Michelangelo fece in tempo a realizzare il solo cartone, sospeso nel 1505,
quando partì per Roma, e ripreso l'anno dopo, nel 1506, prima di andare
perduto; divenuto subito uno strumento di studio obbligatorio per i
contemporanei, e la sua memoria è tramandata sia da studi autografi sia da
copie di altri artisti. Più che sulla battaglia in sé, il dipinto si
focalizzava sullo studio anatomico delle numerose figure di "ignudi",
colte in pose di notevole sforzo fisico[47]. Il ponte sul Corno d'Oro
(1504 circa) Come riporta Ascanio Condivi, tra il 1504 e il 1506 il sultano di
Costantinopoli avrebbe proposto all'artista, la cui fama iniziava già a
travalicare i confini nazionali, di occuparsi della progettazione di un ponte
sul Corno d'Oro, tra Istanbul e Pera. Pare che l'artista avesse addirittura
preparato un modello per la colossale impresa e alcune lettere confermano
l'ipotesi di un viaggio nella capitale ottomana[51]. Si tratterebbe del
primo cenno alla volontà di imbarcarsi in un grande progetto di architettura,
molti anni prima dell'esordio ufficiale in quest'arte con la facciata per San
Lorenzo a Firenze[52]. Il progetto per il tamburo di Santa Maria del
Fiore (1507) Nell'estate 1507 Michelangelo fu incaricato dagli Operai di Santa
Maria del Fiore di presentare, entro la fine del mese di agosto, un disegno o
un modello per il concorso relativo al completamento del tamburo della cupola
del Brunelleschi[53]. Secondo Giuseppe Marchini, Michelangelo avrebbe inviato
alcuni disegni a un legnaiolo per la costruzione del modello, che lo stesso
studioso ha riconosciuto in quello identificato con il numero 143 nella serie
conservata presso il Museo dell'Opera del Duomo[54]. Questo presenta
un'impostazione sostanzialmente filologica, tesa a mantenere una certa
continuità con la preesistenza, mediante l'inserimento di una serie di
specchiature rettangolari in marmo verde di Prato allineate ai capitelli delle
paraste angolari; era prevista un'alta trabeazione, chiusa da un cornicione
dalle forme analoghe a quello di Palazzo Strozzi. Tuttavia questo modello non
fu accolto dalla commissione giudicatrice, che successivamente approvò il
disegno di Baccio d'Agnolo; il progetto prevedeva l'inserimento di un massiccio
ballatoio alla sommità, ma i lavori furono interrotti nel 1515, sia per lo
scarso favore ottenuto, sia a causa dell'opposizione di Michelangelo, che,
secondo il Vasari, definì l'opera di Baccio d'Agnolo una gabbia per
grilli[55]. Intorno al 1516 Michelangelo eseguì alcuni disegni
(conservati presso Casa Buonarroti) e fece costruire, probabilmente, un nuovo
modello ligneo, identificato, seppur con ampie riserve, col numero 144
nell'inventario del Museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore[56]. Ancora una
volta si registra l'abolizione del ballatoio, a favore di un maggiore risalto
degli elementi portanti; in particolare un disegno mostra l'inserimento di alte
colonne binate libere in corrispondenza degli angoli dell'ottagono, sormontate
da una serie di cornici fortemente aggettanti (un'idea che sarà successivamente
elaborata anche per la cupola della basilica di San Pietro in Vaticano). Le
idee di Michelangelo non furono comunque concretizzate. A Roma sotto
Giulio II (1505-1513) Ricostruzione ipotetica del primo progetto per la
tomba di Giulio II (1505) La tomba di Giulio II, primo progetto (1505) Fu
probabilmente Giuliano da Sangallo a raccontare a papa Giulio II Della Rovere,
eletto nel 1503, gli strabilianti successi fiorentini di Michelangelo. Papa
Giulio infatti si era dedicato a un ambizioso programma di governo che
intrecciava saldamente politica e arte, circondandosi dei più grandi artisti
viventi (tra cui Bramante e, in seguito, Raffaello) nell'obiettivo di
restituire a Roma e alla sua autorità la grandezza del passato
imperiale[47]. Chiamato a Roma nel marzo 1505, Michelangelo ottenne il
compito di realizzare una sepoltura monumentale per il papa[57], da collocarsi
nella tribuna (in via di completamento) della basilica di San Pietro. Artista e
committente si accordarono in tempi relativamente brevi (appena due mesi) sul
progetto e sul compenso, permettendo a Michelangelo, riscosso un consistente
acconto, di dirigersi subito a Carrara per scegliere personalmente i blocchi di
marmo da scolpire[58]. Il primo progetto, noto tramite le fonti,
prevedeva una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, con una
quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale, su tutte e
quattro le facciate dell'architettura[58]. Il lavoro di scelta ed
estrazione dei blocchi richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del
1505[58]. Particolare dell'ipotetico profilo della montagna da
scolpire come un Colosso, Casa Buonarroti, 44 A[59] Ricostruzione
ipotetica del primo progetto per la tomba di Giulio II (1505)[57] Secondo il
fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un
grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa[59], che
potesse guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano
parte dopotutto della personalità dell'artista e non sono ritenuti frutto della
fantasia del biografo, anche per l'esistenza di un'edizione del manoscritto con
note appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l'opera è definita
"una pazzia", ma che l'artista avrebbe realizzato se avesse potuto
vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi
con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la
statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio,
avrebbe voluto modellare nel Monte Athos[51]. Rottura e riconciliazione
con il papa (1505-1508) Durante la sua assenza si mise in moto a Roma una sorta
di complotto ai danni di Michelangelo, mosso dalle invidie tra gli artisti
della cerchia papale. La scia di popolarità che aveva anticipato l'arrivo a
Roma dello scultore fiorentino doveva infatti averlo reso subito impopolare tra
gli artisti al servizio di Giulio II, minacciando il favore del pontefice e la
relativa disposizione dei fondi che, per quanto immensi, non erano infiniti.
Pare che fu in particolare il Bramante, architetto di corte incaricato di
avviare - pochi mesi dopo la stipula del contratto della tomba - il grandioso
progetto di rinnovo della basilica costantiniana, a distogliere l'attenzione
del papa dal progetto della sepoltura, giudicata di cattivo auspicio per una
persona ancora in vita e nel pieno di ambiziosi progetti[60]. La
targa che a Bologna ricorda il soggiorno di Michelangelo del 1506 e la fusione
della perduta statua di Giulio II benedicente (1506-1508) Fu così che nella
primavera del 1506 Michelangelo, mentre tornava a Roma carico di marmi e di
aspettative dopo gli estenuanti mesi di lavoro nelle cave, fece l'amara
scoperta che il suo progetto mastodontico non era più al centro degli interessi
del papa, accantonato in favore dell'impresa della basilica e di nuovi piani
bellici contro Perugia e Bologna[61]. Il Buonarroti chiese invano
un'udienza chiarificatrice per avere la conferma della commissione ma, non riuscendo
a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato (scrisse «s'i' stava a Roma penso
che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa»[61]), fuggì da
Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque
corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono
raggiungendolo a Poggibonsi. Rintanato nell'amata e protettiva Firenze, riprese
alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci
vollero ben tre brevi del papa inviati alla Signoria di Firenze e le continue
insistenze del gonfaloniere Pier Soderini («Noi non vogliamo per te far guerra
col papa e metter lo Stato nostro a risico»), perché Michelangelo prendesse
infine in considerazione l'ipotesi della riconciliazione[61]. L'occasione venne
data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui
l'artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 e, in un incontro
all'interno del Palazzo D'Accursio, narrato con toni coloriti dal Condivi,
ottenne l'incarico di fondere una scultura in bronzo che rappresentasse lo
stesso pontefice a figura intera, seduto e in grande dimensione, da collocare
al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella facciata della
basilica civica di San Petronio.[61] L'artista si fermò quindi a Bologna
per il tempo necessario all'impresa, circa due anni. A luglio 1507 avvenne la
fusione e il 21 febbraio 1508 l'opera venne scoperta e installata, ma non ebbe
vita lunga. Poco amata per l'espressione del papa-conquistatore, più minacciosa
che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento
dalla città e il rientro temporaneo dei Bentivoglio[61]. I rottami, quasi
cinque tonnellate di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso
d'Este, rivale del papa, che li fuse in una bombarda, battezzata per dileggio
la Giulia, mentre la testa bronzea era conservata in un armadio[62]. Una
parvenza di come doveva apparire questo bronzo michelangiolesco possiamo averla
osservando la scultura di Gregorio XIII, ancora oggi conservata sul portale del
vicino Palazzo Comunale, forgiata da Alessandro Menganti nel 1580. La
volta della Cappella Sistina (1508-1512) Lo stesso argomento in
dettaglio: Volta della Cappella Sistina. La volta della Cappella Sistina
(1508-1512) «Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare
un'idea completa di ciò che un uomo è capace di raggiungere.» (Johann
Wolfgang von Goethe) I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre
tempestosi, per il forte temperamento che li accomunava, irascibile e
orgoglioso, ma anche estremamente ambizioso. A marzo del 1508 l'artista si
sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a
Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare quello degli Apostoli
per la cattedrale. Nell'aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di
affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però un breve papale lo
raggiunge aggiungendogli di presentarsi alla corte papale[63]. Subito
Giulio II decise di occupare l'artista con una nuova, prestigiosa impresa, la
ridecorazione della volta della Cappella Sistina[64]. A causa del processo di
assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa
nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi;
rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva
bisogno però di essere ridipinta. L'impresa si dimostrava di proporzioni
colossali ed estremamente complessa, ma avrebbe dato a Michelangelo l'occasione
di dimostrare la sua capacità di superare i limiti in un'arte quale la pittura,
che tutto sommato non sentiva come sua e non gli era congeniale. L'8 maggio di
quell'anno l'incarico venne dunque accettato e formalizzato[64]. Come nel
progetto della tomba, anche l'impresa della Sistina fu caratterizzata da
intrighi e invidie ai danni di Michelangelo, che sono documentati da una
lettera del carpentiere e capomastro fiorentino Piero Rosselli spedita a
Michelangelo il 10 maggio 1506. In essa il Rosselli racconta di una cena
servita nelle stanze vaticane qualche giorno prima, a cui aveva assistito. Il
papa in quell'occasione aveva confidato a Bramante l'intenzione di affidare a
Michelangelo la ridipintura della volta, ma l'architetto urbinate aveva
risposto sollevando dubbi sulle reali capacità del fiorentino, scarsamente
esperto nell'affresco. Nel contratto del primo progetto erano previsti
dodici apostoli nei peducci, mentre nel campo centrale partimenti con
decorazioni geometriche. Di questo progetto rimangono due disegni di
Michelangelo, uno al British Museum e uno a Detroit. Ignudo
Insoddisfatto, l'artista ottenne di poter ampliare il programma iconografico,
raccontando la storia dell'umanità "ante legem", cioè prima che Dio
inviasse le Tavole della Legge: al posto degli Apostoli mise sette Profeti e
cinque Sibille, assisi su troni fiancheggiati da pilastrini che sorreggono la
cornice; quest'ultima delimita lo spazio centrale, diviso in nove
scompartimenti attraverso la continuazione delle membrature architettoniche ai
lati di troni; in questi scomparti sono raffigurati episodi tratti della
Genesi, disposti in ordine cronologico partendo dalla parete dell'altare:
Separazione della luce dalle tenebre, Creazione degli astri e delle piante,
Separazione della terra dalle acque, Creazione di Adamo, Creazione di Eva,
Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre, Sacrificio di Noè, Diluvio
universale, Ebbrezza di Noè; nei cinque scomparti che sormontano i troni lo
spazio si restringe lasciando posto a Ignudi che reggono ghirlande con foglie
di quercia, allusione al casato del papa cioè Della Rovere, e medaglioni
bronzei con scene tratte dall'Antico Testamento; nelle lunette e nelle vele vi
sono le quaranta generazioni degli Antenati di Cristo, riprese dal Vangelo di Matteo;
infine nei pennacchi angolari si trovano quattro scene bibliche, che si
riferiscono ad altrettanti eventi miracolosi a favore del popolo eletto:
Giuditta e Oloferne, Davide e Golia, Punizione di Aman e il Serpente di bronzo.
L'insieme è organizzato in un partito decorativo complesso, che rivela le sue
indubbie capacità anche in campo architettonico,[65][66] destinate a rivelarsi
pienamente negli ultimi decenni della sua attività[67]. Il tema generale
degli affreschi della volta è il mistero della Creazione di Dio, che raggiunge
il culmine nella realizzazione dell'uomo a sua immagine e somiglianza. Con
l'incarnazione di Cristo, oltre a riscattare l'umanità dal peccato originale,
si raggiunge il perfetto e ultimo compimento della creazione divina, innalzando
l'uomo ancora di più verso Dio. In questo senso appare più chiara la
celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. Inoltre
la volta celebra la concordanza fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo
prefigura il secondo, e la previsione della venuta di Cristo in ambito ebraico
(con i profeti) e pagano (con le sibille). Creazione di Adamo[68]
Montato il ponteggio Michelangelo iniziò a dipingere le tre storie di Noè
gremite di personaggi. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato
dall'insoddisfazione di sé tipica dell'artista, dai ritardi nel pagamento dei
compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari[6]. Nelle
scene successive la rappresentazione divenne via via più essenziale e monumentale:
il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre e la Creazione di Eva
mostrano corpi più massicci e gesti semplici ma retorici; dopo un'interruzione
dei lavori, e vista la volta dal basso nel suo complesso e senza i ponteggi, lo
stile di Michelangelo cambiò, accentuando maggiormente la grandiosità e
l'essenzialità delle immagini, fino a rendere la scena occupata da un'unica
grandiosa figura annullando ogni riferimento al paesaggio circostante, come
nella Separazione della luce dalle tenebre. Nel complesso della volta queste
variazioni stilistiche non si notano, anzi vista dal basso gli affreschi hanno
un aspetto perfettamente unitario, dato anche dall'uso di un'unica, violenta
cromia, recentemente riportata alla luce dal restauro concluso nel 1994.
In definitiva, la difficile sfida su un'impresa di dimensioni colossali e con
una tecnica a lui non congeniale, con il diretto confronto coi grandi maestri
fiorentini presso i quali si era formato (a partire da Ghirlandaio), poté dirsi
pienamente riuscita oltre ogni aspettativa[64]. Lo straordinario affresco venne
inaugurato la vigilia di Ognissanti del 1512[67]. Qualche mese dopo Giulio II
moriva. Il secondo e terzo progetto per la tomba di Giulio II
(1513-1516) Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di Giulio II.
Mosè (1513-1515 circa) Nel febbraio 1513, con la morte del papa, gli eredi
decisero di riprendere il progetto della tomba monumentale, con un nuovo
disegno e un nuovo contratto nel maggio di quell'anno. Si può immaginare
Michelangelo desideroso di riprendere lo scalpello, dopo quattro anni di
estenuante lavoro in un'arte che non era la sua prediletta. La modifica più
sostanziale del nuovo monumento era l'addossamento a una parete e
l'eliminazione della camera mortuaria, caratteristiche che vennero mantenute
fino al progetto finale. L'abbandono del monumento isolato, troppo grandioso e
dispendioso per gli eredi, comportò un maggiore affollamento di statue sulle
facce visibili. Ad esempio le quattro figure sedute, invece che disporsi sulle
due facciate, erano adesso previste in prossimità dei due angoli sporgenti
sulla fronte. La zona inferiore aveva una partitura analoga, ma senza il
portale centrale, sostituito da una fascia liscia che evidenziava l'andamento
ascensionale. Lo sviluppo laterale era ancora consistente, poiché era ancora
previsto il catafalco in posizione perpendicolare alla parete, sul quale la
statua del papa giacente era retta, da due figure alate. Nel registro inferiore
invece, su ciascun lato, restava ancora spazio per due nicchie che riprendevano
lo schema del prospetto anteriore. Più in alto, sotto una corta volta a tutto
sesto retta da pilastri, si trovava una Madonna col Bambino entro una mandorla
e altre cinque figure[61]. Tra le clausole contrattuali c'era anche
quella che legava l'artista, almeno sulla carta, a lavorare esclusivamente alla
sepoltura papale, con un termine massimo di sette anni per il
completamento[69]. Lo scultore si mise al lavoro di buona lena e sebbene
non rispettò la clausola esclusiva per non precludersi ulteriori guadagni extra
(come scolpendo il primo Cristo della Minerva, nel 1514), realizzò i due
Prigioni oggi al Louvre (Schiavo morente e Schiavo ribelle) e il Mosè, che poi
venne riutilizzato nella versione definitiva della tomba[69]. I lavori vennero
spesso interrotti per viaggi alle cave di Carrara. Nel luglio 1516 si
giunse a un nuovo contratto per un terzo progetto, che riduceva il numero delle
statue. I lati vennero accorciati e il monumento andava assumendo così
l'aspetto di una monumentale facciata, mossa da decorazioni scultoree. Al posto
della partitura liscia al centro della facciata (dove si trovava la porta)
viene forse previsto un rilievo bronzeo e, nel registro superiore, il catafalco
viene sostituito da una figura del papa sorretto come in una Pietà da due
figure sedute, coronate da una Madonna col Bambino sotto una nicchia[61]. I
lavori alla sepoltura vengono bruscamente interrotti dalla commissione da parte
di Leone X dei lavori alla basilica di San Lorenzo[52]. Michelangelo e
Sebastiano del Piombo In quegli stessi anni, una competizione sempre più accesa
con l'artista dominante della corte papale, Raffaello, lo portò a stringere un
sodalizio con un altro talentuoso pittore, il veneziano Sebastiano del Piombo.
Occupato da altri incarichi, Michelangelo spesso forniva disegni e cartoni al
collega, che li trasformava in pittura. Tra questi ci fu ad esempio la Pietà di
Viterbo[70]. Nel 1516 nacque una competizione tra Sebastiano e Raffaello,
scatenata da una doppia commissione del cardinale Giulio de' Medici per due
pale destinate alla sua sede di Narbona, in Francia. Michelangelo offrì un
cospicuo aiuto a Sebastiano, disegnando la figura del Salvatore e del
miracolato nella tela della Resurrezione di Lazzaro (oggi alla National Gallery
di Londra). L'opera di Raffaello invece, la Trasfigurazione, venne completata
solo dopo la scomparsa dell'artista nel 1520[71]. A Firenze per i papi
medicei La facciata di San Lorenzo (1516-1519) Il modello ligneo del
progetto di Michelangelo per San Lorenzo Nel frattempo il figlio di Lorenzo il
Magnifico, Giovanni, era salito al soglio pontificio col nome di Leone X e la
città di Firenze era tornata ai Medici nel 1511, comportando la fine del
governo repubblicano con alcune apprensioni in particolare per i parenti di
Michelangelo, che avevano perso incarichi d'ordine politico e i relativi
compensi[72]. Michelangelo lavorò per il nuovo papa fin dal 1514, quando rifece
la facciata della sua cappella a Castel Sant'Angelo (dal novembre, opera
perduta); nel 1515 la famiglia Buonarroti ottenne dal papa il titolo di conti
palatini[73]. In occasione di un viaggio del papa a Firenze nel 1516, la
facciata della chiesa "di famiglia" dei Medici, San Lorenzo, era
stata ricoperta di apparati effimeri realizzati da Jacopo Sansovino e Andrea
del Sarto. Il pontefice decise allora di indire un concorso per realizzare una
vera facciata, a cui parteciparono Giuliano da Sangallo, Raffaello, Andrea e
Jacopo Sansovino, nonché Michelangelo stesso, su invito del papa. La vittoria
andò a quest'ultimo, all'epoca impegnato a Carrara e Pietrasanta per scegliere
i marmi per il sepolcro di Giulio II[72]. Il contratto è datato 19 gennaio
1518[73]. Il progetto di Michelangelo, per il quale vennero eseguiti
numerosi disegni e ben due modelli lignei (uno è oggi a Casa Buonarroti)
prevedeva una struttura a nartece con un prospetto rettangolare, forse ispirato
a modelli di architettura classica, scandito da potenti membrature animate da
statue in marmo, bronzo e da rilievi. Si sarebbe trattato di un passo
fondamentale in architettura verso una concezione nuova di facciata, non più
basata sulla mera aggregazione di elementi singoli, ma articolata in modo
unitario, dinamico e fortemente plastico[74]. Il lavoro procedette però a
rilento, a causa della scelta del papa di servirsi dei più economici marmi di
Seravezza, la cui cava era mal collegata col mare, rendendo difficile il loro
trasporto per via fluviale fino a Firenze. Nel settembre 1518 Michelangelo
sfiorò anche la morte per una colonna di marmo che, durante il trasporto su un
carro, si staccò colpendo micidialmente un operaio accanto a lui, un evento che
lo sconvolse profondamente, come raccontò in una lettera a Berto da Filicaia
datata 14 settembre 1518[75]. In Versilia Michelangelo creò la strada per il
trasporto dei marmi, ancora oggi esistente (anche se ampliata nel 1567 da
Cosimo I). I blocchi venivano calati dalla cava di Trambiserra ad Azzano,
davanti al Monte Altissimo, fino al Forte dei Marmi (insediamento sorto proprio
in quell'occasione) e da lì imbarcate in mare e spedite a Firenze tramite
l'Arno. Nel marzo 1520 il contratto fu rescisso, per la difficoltà
dell'impresa e i costi elevati. In quel periodo Michelangelo lavorò ai Prigioni
per la tomba di Giulio II, in particolare ai quattro incompiuti oggi alla
Galleria dell'Accademia. Scolpì probabilmente anche la statua del Genio della
Vittoria di Palazzo Vecchio e alla nuova versione del Cristo risorto per
Metello Vari (opera portata a Roma nel 1521), rifinita da suoi assistenti e posta
nella basilica di Santa Maria sopra Minerva[72]. Tra le commissioni ricevute e
non portate a termine c'è una consulenza per Pier Soderini, per una cappella
nella chiesa romana di San Silvestro in Capite (1518)[76]. La Sagrestia
Nuova (1520-1534) Lo stesso argomento in dettaglio: Sagrestia
Nuova. Sagrestia Nuova Il mutamento dei desideri papali venne causato dai
tragici eventi familiari legati alla morte degli ultimi eredi diretti della
dinastia medicea: Giuliano Duca di Nemours nel 1516 e, soprattutto, Lorenzo
Duca d'Urbino nel 1519. Per ospitare degnamente i resti dei due cugini, nonché
quelli dei fratelli Magnifici Lorenzo e Giuliano, rispettivamente padre e zio
di Leone X, il papa maturò l'idea di creare una monumentale cappella funebre,
la Sagrestia Nuova, da ospitare nel complesso di San Lorenzo. L'opera venne
affidata a Michelangelo prima ancora del definitivo annullamento della
commissione della facciata; dopotutto l'artista poco tempo prima, il 20 ottobre
1519, si era offerto al pontefice per realizzare una sepoltura monumentale per
Dante in Santa Croce, manifestando quindi la sua disponibilità a nuovi
incarichi[72]. La morte di Leone sospese il progetto solo per breve tempo,
poiché già nel 1523 venne eletto suo cugino Giulio, che prese il nome di Clemente
VII e confermò a Michelangelo tutti gli incarichi[72]. Il primo progetto
michelangiolesco era quello di un monumento isolato al centro della sala ma, in
seguito a discussioni con i committenti, lo cambiò prevedendo di collocare le
tombe dei Capitani addossate al centro delle pareti laterali, mentre quelle dei
Magnifici, addossate entrambe alla parete di fondo davanti all'altare.
L'opera venne iniziata nel 1525 circa: la struttura in pianta si rifaceva alla
Sagrestia Vecchia, sempre nella chiesa di San Lorenzo, del Brunelleschi: a
pianta quadrata e con piccolo sacello anch'esso quadrato. Grazie alle
membrature, in pietra serena e a ordine gigante, l'ambiente acquista un ritmo
più serrato e unitario; inserendo tra le pareti e le lunette un mezzanino e
aprendo tra queste ultime delle finestre architravate, dà alla sala un potente
senso ascensionale concluso nella volta a cassettoni di ispirazione
antica. Le tombe che sembrano far parte della parete, riprendono nella
parte alta le edicole, che sono inserite sopra le otto porte dell'ambiente,
quattro vere e quattro finte. Le tombe dei due capitani si compongono di un
sarcofago curvilineo sormontato da due statue distese con le Allegorie del
Tempo: in quella di Lorenzo il Crepuscolo e l'Aurora, mentre in quella di
Giuliano la Notte e il Giorno. Si tratta di figure massicce e dalle membra
poderose che sembrano gravare sui sarcofagi quasi a spezzarli e a liberare le
anime dei defunti, ritratti nelle statue inserite sopra di essi. Inserite in
una nicchia della parete, le statue non sono riprese dal vero ma idealizzate
mentre contemplano: Lorenzo in una posa pensierosa e Giuliano con uno scatto
repentino della testa. La statua posta sull'altare con la Madonna Medici è
simbolo di vita eterna ed è fiancheggiata dalle statue dei Santi Cosma e
Damiano (protettori dei Medici) eseguite su disegno del Buonarroti,
rispettivamente da Giovanni Angelo Montorsoli e Raffaello da Montelupo.
All'opera, anche se non continuativamente, Michelangelo lavorò fino al 1534,
lasciandola incompiuta: senza i monumenti funebri dei Magnifici, le sculture
dei Fiumi alla base delle tombe dei Capitani e, forse, di affreschi nelle
lunette. Si tratta comunque di uno straordinario esempio di simbiosi perfetta
tra scultura e architettura[77]. Nel frattempo Michelangelo continuava a
ricevere altre commissioni che solo in piccola parte eseguiva: nell'agosto 1521
inviò a Roma il Cristo della Minerva, nel 1522 un certo Frizzi gli commissionò
una tomba a Bologna e il cardinale Fieschi gli chiese una Madonna scolpita,
entrambi progetti mai eseguiti[76]; nel 1523 ricevette nuove sollecitazioni da
parte degli eredi di Giulio II, in particolare Francesco Maria Della Rovere, e
lo stesso anno gli venne commissionata, senza successo, una statua di Andrea
Doria da parte del Senato genovese, mentre il cardinal Grimani, patriarca di
Aquileia, gli chiese un dipinto o una scultura mai eseguiti[76]. Nel 1524 papa
Clemente gli commissionò la biblioteca Medicea Laurenziana, i cui lavori
avviarono a rilento, e un ciborio (1525) per l'altare maggiore di San Lorenzo,
sostituito poi dalla Tribuna delle reliquie; nel 1526 si arrivò a una
drammatica rottura coi Della Rovere per un nuovo progetto, più semplice, per la
tomba di Giulio II, che venne rifiutato[72]. Altre richieste inevase di
progetti di tombe gli pervengono dal duca di Suessa e da Barbazzi canonico di
San Petronio a Bologna[72]. L'insurrezione e l'assedio (1527-1530)
Copia dalla Leda e il cigno di Michelangelo, alla National Gallery di Londra Un
motivo comune nella vicenda biografica di Michelangelo è l'ambiguo rapporto con
i propri committenti, che più volte ha fatto parlare di ingratitudine
dell'artista verso i suoi patrocinatori. Anche con i Medici il suo rapporto fu
estremamente ambiguo: nonostante siano stati loro a spingerlo verso la carriera
artistica e a procurargli commissioni di altissimo rilievo, la sua convinta
fede repubblicana lo portò a covare sentimenti di odio contro di essi,
vedendoli come la principale minaccia contro la libertas fiorentina[77].
Fu così che nel 1527, arrivata in città la notizia del Sacco di Roma e del
durissimo smacco inferto a papa Clemente, la città di Firenze insorse contro il
suo delegato, l'odiato Alessandro de' Medici, cacciandolo e instaurando un
nuovo governo repubblicano. Michelangelo aderì pienamente al nuovo regime, con
un appoggio ben oltre il piano simbolico. Il 22 agosto 1528 si mise al
servizio del governo repubblicano, riprendendo la vecchia commissione
dell'Ercole e Caco (ferma dal 1508), che propose di mutare in un Sansone con
due filistei[72]. Il 10 gennaio 1529 venne nominato membro dei "Nove di
milizia", occupandosi di nuovi piani difensivi, specie per il colle di San
Miniato al Monte[72]. Il 6 aprile di quell'anno riceve l'incarico di "Governatore
generale sopra le fortificazioni", in previsione dell'assedio che le forze
imperiali si apprestavano a cingere[77]. Visitò appositamente Pisa e Livorno
nell'esercizio del proprio ufficio, e si recò anche a Ferrara per studiarne le
fortificazioni (qui Alfonso I d'Este gli commissionò una Leda e il cigno, poi
andata perduta[76]), rientrando a Firenze il 9 settembre[72]. Preoccupato per
l'aggravarsi della situazione, il 21 settembre fuggì a Venezia, in previsione
di trasferirsi in Francia alla corte di Francesco I, che però non gli aveva
ancora fatto offerte concrete. Qui venne però raggiunto prima dal bando del
governo fiorentino che lo dichiarò ribelle, il 30 settembre. Tornò allora nella
sua città il 15 novembre, riprendendo la direzione delle fortezze[72]. Di
questo periodo rimangono disegni di fortificazione, realizzate attraverso una
complicata dialettica di forme concave e convesse che sembrano macchine
dinamiche atte all'offesa e alla difesa. Con l'arrivo degli Imperiali a
minacciare la città, a lui è attribuita l'idea di usare la platea di San
Miniato al Monte come avamposto con cui cannoneggiare sul nemico, proteggendo
il campanile dai pallettoni nemici con un'armatura fatta di materassi
imbottiti. Le forze in campo per gli assedianti erano però soverchianti e
con la sua disperata difesa la città non poté altro che negoziare un trattato,
in parte poi disatteso, che evitasse la distruzione e il saccheggio che pochi
anni prima avevano colpito Roma. All'indomani del ritorno dei Medici in città
(12 agosto 1530) Michelangelo, che sapeva di essersi fortemente compromesso e
temendo quindi una vendetta, si nasconde rocambolescamente e riuscì a fuggire
dalla città (settembre 1530), riparando a Venezia[77]. Qui restò brevemente,
assalito da dubbi sul da farsi. In questo breve periodo soggiornò all'isola
della Giudecca per mantenersi lontano dalla vita sfarzosa dell'ambiente
cittadino e leggenda vuole che avesse presentato un modello per il ponte di
Rialto al doge Andrea Gritti. La sala di lettura della Biblioteca
Medicea Laurenziana Lo scalone nel vestibolo della Biblioteca Medicea
Laurenziana La Biblioteca Medicea Laurenziana (1530-1534) Il perdono di
Clemente VII non si fece però attendere, a patto che l'artista riprendesse
immediatamente i lavori a San Lorenzo dove, oltre alla Sagrestia, si era
aggiunto cinque anni prima il progetto di una monumentale libreria. È chiaro
come il papa fosse mosso, più che dalla pietà verso l'uomo, dalla
consapevolezza di non poter rinunciare all'unico artista capace di dare forma
ai sogni di gloria della sua dinastia, nonostante la sua indole
contrastata[77]. All'inizio degli anni trenta scolpì anche un Apollino per
Baccio Valori, il feroce governatore di Firenze imposto dal papa[72]. La
biblioteca pubblica, annessa alla chiesa di San Lorenzo, venne interamente
progettata dal Buonarroti: nella sala di lettura si rifece al modello della
biblioteca di Michelozzo in San Marco, eliminando la divisione in navate e
realizzando un ambiente con le mura scandite da finestre sormontate da mezzanini
tra pilastrini, tutti con modanature in pietra serena. Disegnò anche i banchi
in legno e forse lo schema di soffitto intagliato e pavimento con decorazioni
in cotto, organizzati in medesime partiture. Il capolavoro del progetto è il
vestibolo, con un forte slancio verticale dato dalle colonne binate che cingono
il portale timpanato e dalle edicole sulle pareti. Solo nel 1558
Michelangelo fornì il modello in argilla per lo scalone, da lui progettato in
legno, ma realizzato per volere di Cosimo I de' Medici, in pietra serena: le
ardite forme rettilinee e ellittiche, concave e convesse, vengono indicate come
una precoce anticipazione dello stile barocco. Il 1531 fu un anno
intenso: eseguì il cartone del Noli me tangere, proseguì i lavori alla
Sagrestia e alla Liberia di San Lorenzo e per la stessa chiesa progettò la
Tribuna delle reliquie; Inoltre gli vennero chiesti, senza esito, un progetto
dal duca di Mantova, il disegno di una casa da Baccio Valori, e una tomba per
il cardinale Cybo; le fatiche lo condussero anche a una grave
malattia[72]. Nell'aprile 1532 si ebbe il quarto contratto per la tomba
di Giulio II, con solo sei statue. In quello stesso anno Michelangelo conobbe a
Roma l'intelligente e bellissimo Tommaso de' Cavalieri, con il quale si legò appassionatamente,
dedicandogli disegni e composizioni poetiche[72]. Per lui approntò, tra
l'altro, i disegni col Ratto di Ganimede e la Caduta di Fetonte, che sembrano
precorrere, nella potente composizione e nel tema del compiersi fatale del
destino, il Giudizio universale[78]. Rapporti molto tesi ebbe, invece, con il
guardarobiere pontificio e Maestro di Camera Pietro Giovanni Aliotti, futuro
vescovo di Forlì, che Michelangelo, considerandolo troppo impiccione, chiamava
il Tantecose. Il 22 settembre 1533 incontrò a San Miniato al Tedesco
Clemente VII e, secondo la tradizione, in quell'occasione si parlò per la prima
volta della pittura di un Giudizio universale nella Sistina[72]. Lo stesso anno
morì il padre Ludovico[72]. Nel 1534 gli incarichi fiorentini procedevano
ormai sempre più stancamente, con un ricorso sempre maggiore di
aiuti[79]. L'epoca di Paolo III (1534-1545) Il Giudizio universale
(1534-1541) Giudizio universale Cristo, dettaglio del Giudizio
universale L'artista non approvava il regime politico tiranneggiante del duca
Alessandro, per cui con l'occasione di nuovi incarichi a Roma, tra cui il
lavoro per gli eredi di Giulio II, lasciò Firenze dove non mise mai più piede,
nonostante gli accattivanti inviti di Cosimo I negli anni della vecchiaia[79].
Clemente VII gli aveva commissionato la decorazione della parete di fondo della
Cappella Sistina con il Giudizio universale, ma non fece in tempo a vedere
nemmeno l'inizio dei lavori, perché morì pochi giorni dopo l'arrivo
dell'artista a Roma. Mentre l'artista riprendeva la Sepoltura di papa Giulio,
venne eletto al soglio pontificio Paolo III, che non solo confermò l'incarico
del Giudizio, ma nominò anche Michelangelo pittore, scultore e architetto del
Palazzo Vaticano[72]. I lavori alla Sistina poterono essere avviati alla
fine del 1536, per proseguire fino all'autunno del 1541. Per liberare l'artista
dagli incarichi verso gli eredi Della Rovere Paolo III arrivò a emettere un
motu proprio il 17 novembre 1536[72]. Se fino ad allora i vari interventi alla
cappella papale erano stati coordinati e complementari, con il Giudizio si
assistette al primo intervento distruttivo, che sacrificò la pala dell'Assunta
di Perugino, le prime due storie quattrocentesche di Gesù e di Mosè e due
lunette dipinte dallo stesso Michelangelo più di vent'anni prima[79]. Al
centro dell'affresco vi è il Cristo giudice con vicino la Madonna che rivolge
lo sguardo verso gli eletti; questi ultimi formano un'ellissi che segue i
movimenti del Cristo in un turbine di santi, patriarchi e profeti. A differenza
delle rappresentazioni tradizionale, tutto è caos e movimento, e nemmeno i
santi sono esentati dal clima di inquietudine, attesa, se non paura e sgomento
che coinvolge espressivamente i partecipanti. Le licenze iconografiche,
come i santi senza aureola, gli angeli apteri e il Cristo giovane e senza
barba, possono essere allusioni al fatto che davanti al giudizio ogni singolo
uomo è uguale. Questo fatto, che poteva essere letto come un generico richiamo
ai circoli della Riforma Cattolica, unitamente alla nudità e alla posa
sconveniente di alcune figure (santa Caterina d'Alessandria prona con alle
spalle san Biagio), scatenarono contro l'affresco i severi giudizi di buona
parte della curia. Dopo la morte dell'artista, e col mutato clima culturale
dovuto anche al Concilio di Trento, si arrivò al punto di provvedere al
rivestimento dei nudi e alla modifica delle parti più sconvenienti. Una
statua equestre Nel 1537, verso febbraio, il duca d'Urbino Francesco Maria I
Della Rovere gli chiese un abbozzo per un cavallo destinato forse a un
monumento equestre, che risulta completato il 12 ottobre. L'artista però si
rifiutò di inviare il progetto al duca, poiché insoddisfatto. Dalla
corrispondenza si apprende anche che entro i primi di luglio Michelangelo gli
aveva progettato anche una saliera: la precedenza del duca rispetto a tante
commissioni inevase di Michelangelo è sicuramente legata alla pendenza dei
lavori alla tomba di Giulio II, di cui Francesco Maria era erede[76].
Quello stesso anno a Roma riceve la cittadinanza onoraria in
Campidoglio[76]. Piazza del Campidoglio Piazza del Campidoglio in
una stampa di Étienne Dupérac (1568) Paolo III, al pari dei suoi predecessori,
fu un entusiasta committente di Michelangelo[79]. Con il trasferimento
sul Campidoglio della statua equestre di Marco Aurelio, simbolo dell'autorità
imperiale e per estensione della continuità tra la Roma imperiale e quella
papale, il papa incaricò Michelangelo, nel 1538, di studiare la
ristrutturazione della piazza, centro dell'amministrazione civile romana fin
dal Medioevo e in stato di degrado[76]. Tenendo conto delle preesistenze
vennero mantenuti e trasformati i due edifici esistenti, già ristrutturati nel
XV secolo da Rossellino, realizzando di conseguenza la piazza a pianta
trapezoidale con sullo sfondo il palazzo dei Senatori, dotato di scala a doppia
rampa, e delimitata ai lati da due palazzi: il Palazzo dei Conservatori e il
cosiddetto Palazzo Nuovo costruito ex novo, entrambi convergenti verso la
scalinata di accesso al Campidoglio. Gli edifici vennero caratterizzati da un
ordine gigante a pilastri corinzi in facciata, con massicce cornici e
architravi. Al piano terra degli edifici laterali i pilastri dell'ordine
gigante sono affiancati da colonne che formano un insolito portico
architravato, in un disegno complessivo molto innovativo che rifugge
programmaticamente dall'uso dell'arco. Il lato interno del portico presenta
invece colonne alveolate che in seguito ebbero una grande diffusione[80]. I
lavori furono compiuti molto dopo la morte del maestro, mentre la
pavimentazione della piazza fu realizzata solo ai primi del Novecento,
utilizzando una stampa di Étienne Dupérac che riporta quello che doveva essere
il progetto complessivo previsto da Michelangelo, secondo un reticolo
curvilineo inscritto in un'ellisse con al centro il basamento ad angoli
smussati per la statua del Marc'Aurelio, anch'esso disegnato da
Michelangelo. Verso il 1539 iniziò forse il Bruto per il cardinale
Niccolò Ridolfi, opera dai significati politici legata ai fuorusciti
fiorentini[72]. La Crocifissione per Vittoria Colonna (1541) La
copia della Crocifissione per Vittoria Colonna di Marcello Venusti Dal 1537
circa Michelangelo aveva iniziato la vivida amicizia con la marchesa di Pescara
Vittoria Colonna: essa lo introdusse al circolo viterbese del cardinale
Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da Vittore Soranzo, Apollonio
Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise Priuli e la
contessa Giulia Gonzaga. In quel circolo culturale si aspirava a una
riforma della Chiesa cattolica, sia interna sia nei confronti del resto della
Cristianità, alla quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie
influenzarono Michelangelo e altri artisti. Risale a quel periodo la Crocifissione
realizzata per Vittoria, databile al 1541 e forse dispersa, oppure mai dipinta.
Di quest'opera ci restano solamente alcuni disegni preparatori di incerta
attribuzione, il più famoso è senz'altro quello conservato al British Museum,
mentre buone copie si trovano nella concattedrale di Santa Maria de La Redonda
e alla Casa Buonarroti. Inoltre esiste una tavola dipinta, la Crocefissione di
Viterbo, tradizionalmente attribuita a Michelangelo, sulla base di un
testamento di un conte viterbese datato al 1725, esposta nel Museo del Colle
del Duomo di Viterbo, più ragionevolmente attribuibile ad ambiente
michelangiolesco[81]. Secondo i progetti raffigurava un giovane e
sensuale Cristo, simboleggiante un'allusione alle teorie riformiste cattoliche
che vedevano nel sacrificio del sangue di Cristo l'unica via di salvezza
individuale, senza intermediazioni della Chiesa e dei suoi
rappresentanti. Uno schema analogo presentava anche la cosiddetta Pietà
per Vittoria Colonna, dello stesso periodo, nota da un disegno a Boston e da
alcune copie di allievi. In quegli anni a Roma Michelangelo poteva quindi
contare su una sua cerchia di amici ed estimatori, tra cui oltre alla Colonna,
Tommaso de' Cavalieri e artisti quali Tiberio Calcagni e Daniele da
Volterra[79]. Cappella Paolina (1542-1550) La Conversione di Saulo,
dettaglio Nel 1542 il papa gli commissionò quella che rappresenta la sua ultima
opera pittorica, dove ormai anziano lavorò per quasi dieci anni, in
contemporanea ad altri impegni[79]. Il papa Farnese, geloso e seccato del fatto
che il luogo ove la celebrazione di Michelangelo pittore raggiungesse i suoi
massimi livelli fosse dedicato ai papi Della Rovere, gli affidò la decorazione
della sua cappella privata in Vaticano che prese il suo nome (Cappella
Paolina). Michelangelo realizzò due affreschi, lavorando da solo con faticosa
pazienza, procedendo con piccole "giornate", fitte di interruzioni e
pentimenti. Il primo a essere realizzato, la Conversione di Saulo
(1542-1545), presenta una scena inserita in un paesaggio spoglio e irreale, con
compatti grovigli di figure alternati a spazi vuoti e, al centro, la luce
accecante che da Dio scende su Saulo a terra; il secondo, il Martirio di san
Pietro (1545-1550), ha una croce disposta in diagonale in modo da costituire l'asse
di un ipotetico spazio circolare con al centro il volto del martire.
L'opera nel suo complesso è caratterizzata da una drammatica tensione e
improntata a un sentimento di mestizia, generalmente interpretata come
espressione della religiosità tormentata di Michelangelo e del sentimento di
profondo pessimismo che caratterizza l'ultimo periodo della sua vita. La
conclusione dei lavori alla tomba di Giulio II (1544-1545) La Tomba di
Giulio II Dopo gli ultimi accordi del 1542, la tomba di Giulio II venne posta
in essere nella chiesa di San Pietro in Vincoli tra il 1544 e il 1545 con le
statue del Mosè, di Lia (Vita attiva) e di Rachele (Vita contemplativa) nel
primo ordine. Nel secondo ordine, al fianco del pontefice disteso con
sopra la Vergine col Bambino si trovano una Sibilla e un Profeta. Anche questo
progetto risente dell'influsso del circolo di Viterbo; Mosè uomo illuminato e
sconvolto dalla visione di Dio è affiancato da due modi di essere, ma anche da
due modi di salvezza non necessariamente in conflitto tra di loro: la vita
contemplativa viene rappresentata da Rachele che prega come se per salvarsi
usasse unicamente la Fede, mentre la vita attiva, rappresentata da Lia, trova
la sua salvezza nell'operare. L'interpretazione comune dell'opera d'arte è che
si tratti di una specie di posizione di mediazione tra Riforma e Cattolicesimo
dovuta sostanzialmente alla sua intensa frequentazione con Vittoria Colonna e
il suo entourage. Nel 1544 disegnò anche la tomba di Francesco Bracci,
nipote di Luigi del Riccio nella cui casa aveva ricevuto assistenza durante una
grave malattia che l'aveva colpito in giugno[72]. Per tale indisposizione, nel
marzo aveva rifiutato a Cosimo I de' Medici l'esecuzione di un busto[76]. Lo
stesso anno avviarono i lavori al Campidoglio, progettati nel 1538[76].
Vecchiaia (1546-1564) Gli ultimi decenni di vita di Michelangelo sono
caratterizzati da un progressivo abbandono della pittura e anche della
scultura, esercitata ormai solo in occasione di opere di carattere privato. Prendono
consistenza invece numerosi progetti architettonici e urbanistici, che
proseguono sulla strada della rottura del canone classico, anche se molti di
essi vennero portati a termine in periodi seguenti da altri architetti, che non
sempre rispettarono il suo disegno originale[79]. Palazzo Farnese
(1546-1550) La facciata di Palazzo Farnese A gennaio 1546 Michelangelo si
ammalò, venendo curato in casa di Luigi del Riccio. Il 29 aprile, ripresosi,
promise una statua in bronzo, una in marmo e un dipinto a Francesco I di
Francia, che però non riuscì a fare[76]. Con la morte di Antonio da
Sangallo il Giovane nell'ottobre 1546, a Michelangelo vennero affidate le
fabbriche di Palazzo Farnese e della basilica di San Pietro, entrambe lasciate
incompiute dal primo[72]. Tra il 1547 e il 1550 l'artista progettò dunque
il completamento della facciata e del cortile di Palazzo Farnese: nella
facciata variò, rispetto al progetto del Sangallo, alcuni elementi che danno
all'insieme una forte connotazione plastica e monumentale ma al tempo stesso
dinamica ed espressiva. Per ottenere questo risultato accrebbe in altezza il
secondo piano, inserì un massiccio cornicione e sormontò il finestrone centrale
con uno stemma colossale (i due ai lati sono successivi). Basilica di San
Pietro in Vaticano (1546-1564) Progetto per la basilica vaticana
nell'incisione di Étienne Dupérac Per quanto riguarda la basilica vaticana, la
storia del progetto michelangiolesco è ricostruibile da una serie di documenti
di cantiere, lettere, disegni, affreschi e testimonianze dei contemporanei, ma
diverse informazioni sono in contrasto tra loro. Infatti, Michelangelo non
redasse mai un progetto definitivo per la basilica, preferendo procedere per
parti[82]. In ogni caso, subito dopo la morte dell'artista toscano furono
pubblicate diverse stampe nel tentativo di restituire una visione complessiva
del disegno originario; le incisioni di Étienne Dupérac si imposero subito come
le più diffuse e accettate[83]. Michelangelo pare che aspirasse al
ritorno alla pianta centrale del Bramante, con un quadrato inscritto nella
croce greca, rifiutando sia la pianta a croce latina introdotta da Raffaello
Sanzio, sia i disegni del Sangallo, che prevedevano la costruzione di un
edificio a pianta centrale preceduto da un imponente avancorpo. Demolì
parti realizzate dai suoi predecessori e, rispetto alla perfetta simmetria del
progetto bramantesco, introdusse un asse preferenziale nella costruzione,
ipotizzando una facciata principale schermata da un portico composto da colonne
d'ordine gigante (non realizzato). Per la massiccia struttura muraria, che
doveva correre lungo tutto il perimetro della fabbrica, ideò un unico ordine
gigante a paraste corinzie con attico, mentre al centro della costruzione
costruì un tamburo, con colonne binate (sicuramente realizzato dall'artista),
sul quale fu innalzata la cupola emisferica a costoloni conclusa da lanterna
(la cupola fu completata, con alcune differenze rispetto al presunto modello
originario, da Giacomo Della Porta). Tuttavia, la concezione
michelangiolesca fu in gran parte stravolta da Carlo Maderno, che all'inizio
del XVII secolo completò la basilica con l'aggiunta di una navata longitudinale
e di un'imponente facciata sulla base delle spinte della Controriforma.
Nel 1547 morì Vittoria Colonna, poco dopo la scomparsa dell'altro amico Luigi
del Riccio: si tratta di perdite molto amare per l'artista[72]. L'anno
successivo, il 9 gennaio 1548 muore suo fratello Giovansimone Buonarroti. Il 27
agosto il Consiglio municipale di Roma propose di affidare all'artista il
restauro del ponte di Santa Maria. Nel 1549 Benedetto Varchi pubblicò a Firenze
"Due lezzioni", tenute su un sonetto di Michelangelo[72]. Nel gennaio
del 1551 alcuni documenti della cattedrale di Padova accennano a un modello di
Michelangelo per il coro[76]. La serie delle Pietà (1550-1555
circa) La Pietà Bandini La Pietà Rondanini Dal 1550 circa iniziò a
realizzare la cosiddetta Pietà dell'Opera del Duomo (dalla collocazione attuale
nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze), opera destinata alla sua tomba e
abbandonata dopo che l'artista frantumò, in un accesso d'ira due o tre anni più
tardi, il braccio e la gamba sinistra del Cristo, spezzando anche la mano della
Vergine. Fu in seguito Tiberio Calcagni a ricostruire il braccio e rifinire la
Maddalena lasciata dal Buonarroti allo stato di non-finito: il gruppo
costituito dal Cristo sorretto dalla Vergine, dalla Maddalena e da Nicodemo è
disposto in modo piramidale con al vertice quest'ultimo; la scultura viene
lasciata a diversi gradi di finitura con la figura del Cristo allo stadio più
avanzato. Nicodemo sarebbe un autoritratto del Buonarroti, dal cui corpo sembra
uscire la figura del Cristo: forse un riferimento alla sofferenza psicologica
che lui, profondamente religioso, portava dentro di sé in quegli anni. La
Pietà Rondanini venne definita, nell'inventario di tutte le opere rinvenute nel
suo studio dopo la morte, come: "Un'altra statua principiata per un Cristo
et un'altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non
finite". Michelangelo nel 1561 donò la scultura al suo servitore
Antonio del Francese continuando però ad apportarvi modifiche sino alla morte;
il gruppo è costituito da parti condotte a termine, come il braccio destro di
Cristo, e da parti non finite, come il torso del Salvatore schiacciato contro
il corpo della Vergine quasi a formare un tutt'uno. Successivamente alla
scomparsa di Michelangelo, in un periodo imprecisato, questa scultura fu
trasferita nel palazzo Rondanini di Roma e da questi ha mutuato il nome.
Attualmente si trova nel Castello Sforzesco, acquistata nel 1952 dalla città di
Milano da una proprietà privata[84]. Le biografie Nel 1550 uscì la prima
edizione delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di
Giorgio Vasari che conteneva una biografia di Michelangelo, la prima scritta di
un artista vivente, in posizione conclusiva dell'opera che celebrava l'artista
come vertice di quella catena di grandi artefici che partiva da Cimabue e
Giotto, raggiungendo nella sua persona la sintesi di perfetta padronanza delle
arti (pittura, scultura e architettura) in grado non solo di rivaleggiare ma
anche di superare i mitici maestri dell'antichità[85]. Nonostante le
premesse celebrative ed encomiastiche, Michelangelo non gradì l'operazione, per
le numerose scorrettezze e soprattutto per una versione a lui non congeniale
della tormentata vicenda della tomba di Giulio II. L'artista allora in quegli
anni lavorò con un suo fedele collaboratore, Ascanio Condivi, facendo
pubblicare una nuova biografia che riportava la sua versione dei fatti (1553).
A questa attinse Vasari, oltre che in seguito a una sua diretta frequentazione
dell'artista negli ultimi anni di vita, per la seconda edizione delle Vite,
pubblicata nel 1568[85]. Queste opere alimentarono la leggenda
dell'artista, quale genio tormentato e incompreso, spinto oltre i propri limiti
dalle condizioni avverse e dalle mutevoli richieste dei committenti, ma capace
di creare opere titaniche e insuperabili[79]. Mai avvenuto fino ad allora era
poi che questa leggenda si formasse quando ancora l'interessato era in
vita[79]. Nonostante questa invidiabile posizione raggiunta dal Buonarroti in
vecchiaia, gli ultimi anni della sua esistenza sono tutt'altro che tranquilli,
animati da una grande tribolazione interiore e da riflessioni tormentate sulla
fede, la morte e la salvezza, che si trovano anche nelle sue opere (come le
Pietà) e nei suoi scritti[79]. Altri avvenimenti degli anni cinquanta Nel
1550 Michelangelo aveva terminato gli affreschi alla Cappella Paolina e nel
1552 era stato completato il Campidoglio. In quell'anno l'artista fornì anche
il disegno per la scala nel cortile del Belvedere in Vaticano. In scultura
lavorò alla Pietà e in letteratura si occupa delle proprie biografie[72].
Nel 1554 Ignazio di Loyola dichiarò che Michelangelo aveva accettato di
progettare la nuova chiesa del Gesù a Roma, ma il proposito non ebbe
seguito[76]. Nel 1555 l'elezione al soglio pontificio di Marcello II compromise
la presenza dell'artista a capo del cantiere di San Pietro, ma subito dopo
venne eletto Paolo IV, che lo confermò nell'incarico, indirizzandolo
soprattutto ai lavori alla cupola. Sempre nel 1555 morirono suo fratello
Gismondo e Francesco Amadori detto l'Urbino che lo aveva servito per ventisei
anni[72]; una lettera a Vasari di quell'anno gli dà istruzioni per il
compimento del ricetto della Libreria Laurenziana[76]. Nel settembre 1556
l'avvicinarsi dell'esercito spagnolo indusse l'artista ad abbandonare Roma per
riparare a Loreto. Mentre faceva sosta a Spoleto venne raggiunto da un appello
pontificio che lo obbligò a tornare indietro[72]. Al 1557 risale il modello
ligneo per la cupola di San Pietro e nel 1559 fece disegni per la basilica di
San Giovanni Battista dei Fiorentini, nonché per la cappella Sforza in Santa
Maria Maggiore e per la scalinata della Biblioteca Medicea Laurenziana. Forse
quell'anno avviò anche la Pietà Rondanini[72]. Porta Pia a Roma
(1560) Porta Pia Nel 1560 fece un disegno a Caterina de' Medici per la
tomba di Enrico II. Inoltre lo stesso anno progetto la tomba di Giangiacomo de'
Medici per il Duomo di Milano, eseguita poi da Leone Leoni[72]. Verso il
1560 progettò anche la monumentale Porta Pia, vera e propria scenografia urbana
con la fronte principale verso l'interno della città. Il portale con frontone
curvilineo interrotto e inserito in un altro triangolare è fiancheggiato da
paraste scanalate, mentre sul setto murario ai lati si aprono due finestre
timpanate, con al di sopra altrettanti mezzanini ciechi. Dal punto di vista del
linguaggio architettonico, Michelangelo manifestò uno spirito sperimentale e
anticonvenzionale tanto che si è parlato di
"anticlassicismo"[86]. Santa Maria degli Angeli (1561)
Santa Maria degli Angeli; praticamente del progetto di Michelangelo sono
visibili solo le volte Ormai vecchio, Michelangelo progettò nel 1561 una
ristrutturazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli all'interno delle
Terme di Diocleziano e dell'adiacente convento dei padri certosini, avviati a
partire dal 1562. Lo spazio della chiesa fu ottenuto con un intervento che, dal
punto di vista murario, oggi si potrebbe definire minimale[87], con pochi setti
di muro nuovi entro il grande spazio voltato del tepidarium delle terme,
aggiungendo solo un profondo presbiterio e dimostrando un atteggiamento moderno
e non distruttivo nei confronti dei resti archeologici. La chiesa ha un
insolito sviluppo trasversale, sfruttando tre campate contigue coperte a
crociera, a cui sono aggiunte due cappelle laterali quadrate. Console
dell'Accademia delle Arti del Disegno Il 31 gennaio 1563 Cosimo I de' Medici
fondò, su consiglio dell'architetto aretino Giorgio Vasari, l'Accademia e
Compagnia dell'Arte del Disegno di cui viene subito eletto console proprio il
Buonarroti. Mentre la Compagnia era una sorta di corporazione cui dovevano
aderire tutti gli artisti operanti in Toscana, l'Accademia, costituita solo
dalle più eminenti personalità culturali della corte di Cosimo, aveva finalità
di tutela e supervisione sull'intera produzione artistica del principato
mediceo. Si trattava dell'ultimo, accattivante invito rivolto a Michelangelo da
parte di Cosimo per farlo tornare a Firenze, ma ancora una volta l'artista
declinò: la sua radicata fede repubblicana doveva probabilmente renderlo
incompatibile col servizio al nuovo duca fiorentino[79]. La morte
La tomba di Michelangelo in Santa Croce A un solo anno dalla nomina, il 18
febbraio 1564, quasi ottantanovenne, Michelangelo morì a Roma, nella sua
modesta residenza di piazza Macel de' Corvi (distrutta quando venne creato il
monumento a Vittorio Emanuele II), assistito da Tommaso de' Cavalieri. Si dice
che fino a tre giorni prima avesse lavorato alla Pietà Rondanini[79]. Pochi
giorni prima, il 21 gennaio, la Congregazione del Concilio di Trento aveva
deciso di far coprire le parti "oscene" del Giudizio
universale. Nell'inventario redatto qualche giorno dopo il decesso (19
febbraio) sono registrati pochi beni, tra cui la Pietà, due piccole sculture di
cui si ignorano le sorti (un San Pietro e un piccolo Cristo portacroce), dieci
cartoni, mentre i disegni e gli schizzi pare che fossero stati bruciati poco
prima di morire dal maestro stesso. In una cassa viene poi ritrovato un
cospicuo "tesoretto", degno di un principe, che nessuno si sarebbe
immaginato in un'abitazione tanto povera[76]. Le solenni esequie a
Firenze La morte del maestro venne particolarmente sentita a Firenze, poiché la
città non era riuscita a onorare il suo più grande artista prima della morte,
nonostante i tentativi di Cosimo. Il recupero dei suoi resti mortali e la
celebrazione di esequie solenni divenne quindi un'assoluta priorità
cittadina[88]. A pochi giorni dalla morte, suo nipote Lionardo Buonarroti
arrivò a Roma col preciso compito di recuperare la salma e organizzarne il
trasporto, un'impresa forse ingigantita dal resoconto del Vasari nella seconda
edizione delle Vite: secondo lo storico aretino i romani si sarebbero opposti
alle sue richieste, desiderando inumare l'artista nella basilica di San Pietro,
al che Lionardo avrebbe trafugato il corpo di notte e in gran segreto prima di
riprendere la strada per Firenze[89]. Appena arrivata nella città toscana
(11 marzo 1564), la bara venne portata in Santa Croce e ispezionata secondo un
complesso cerimoniale, stabilito dal luogotenente dell'Accademia delle Arti del
Disegno, Vincenzo Borghini. Si trattò del primo atto funebre (12 marzo) che,
per quanto solenne, venne presto superato da quello del 14 luglio 1564 in San
Lorenzo, patrocinato dalla casata ducale e degno più di un principe che di un
artista. L'intera basilica venne addobbata riccamente con drappi neri e di
tavole dipinte con episodi della sua vita; al centro venne predisposto un
catafalco monumentale, ornato di pitture e sculture effimere, dalla complessa
iconografia. L'orazione funebre venne scritta e letta da Benedetto Varchi, che
esaltò "le lodi, i meriti, la vita e l'opere del divino Michelangelo
Buonarroti"[89]. L'inumazione avvenne infine in Santa Croce, in un
sepolcro monumentale disegnato da Giorgio Vasari, composto da tre figure
piangenti che rappresentano la pittura, la scultura e l'architettura[89].
I funerali di Stato suggellarono lo status raggiunto dall'artista e furono la
consacrazione definitiva del suo mito, come artefice insuperabile, capace di
raggiungere vertici creativi in qualunque campo artistico e, più di quelli di
qualunque altro, capaci di emulare l'atto della creazione divina. Arma
Stemma Blasonatura Cimiero D'azzurro a due cotisse d'oro, e il capo
d'Angiò cucito, abbassato sotto un altro capo d'oro, caricato di una palla
d'azzurro marcata di un giglio d'oro in mezzo alle lettere L. X. per
concessione di papa Leone X. Un cane uscente con un osso in bocca. Rime
Frontespizio delle Rime, edizione 1960 Un sonetto sulle fatiche alla
volta della Sistina, copiato in bella e con uno schizzo autografo Da lui
considerata come una "cosa sciocca", la sua attività poetica si viene
caratterizzando, a differenza di quella usuale nel Cinquecento influenzata dal
Petrarca, da toni energici, austeri e intensamente espressivi, ripresi dalle
poesie di Dante. I più antichi componimenti poetici datano agli anni
1504-1505, ma è probabile che ne abbia realizzati anche in precedenza, dato che
sappiamo che molti suoi manoscritti giovanili andarono perduti. La sua
formazione poetica avvenne probabilmente sui testi di Petrarca e Dante,
conosciuti nella cerchia umanistica della corte di Lorenzo de' Medici. I primi
sonetti sono legati a vari temi collegati al suo lavoro artistico, a volte
raggiungono il grottesco con immagini e metafore bizzarre. Successivi sono i
sonetti realizzati per Vittoria Colonna e per Tommaso de' Cavalieri; in essi
Michelangelo si concentra maggiormente sul tema neoplatonico dell'amore, sia
divino sia umano, che viene tutto giocato intorno al contrasto tra amore e
morte, risolvendolo con soluzioni ora drammatiche, ora ironicamente
distaccate. Negli ultimi anni le sue rime si focalizzano maggiormente sul
tema del peccato e della salvezza individuale; qui il tono diventa amaro e a
volte angoscioso, tanto da realizzare vere e proprie visioni mistiche del
divino. «Di giorno in giorno insin da' mie prim'anni, Signor, soccorso tu
mi fusti e guida, onde l'anima mia ancor si fida di doppia aita ne' mie doppi
affanni[90].» Le rime di Michelangelo incontrarono una certa fortuna
negli Stati Uniti, nell'Ottocento, dopo la loro traduzione da parte del grande
filosofo Ralph Waldo Emerson. La tecnica scultorea di Michelangelo
Schizzo esplicativo per cavatori con blocchi e misure, Casa Buonarroti Da un
punto di vista tecnico, Michelangelo scultore, come d'altronde spesso accade
negli artisti geniali, non seguiva un processo creativo legato a regole fisse;
ma in linea di massima sono comunque tracciabili dei principi consueti o più
frequenti[91]. Innanzitutto Michelangelo fu il primo scultore che, nella
pietra, non tentò mai di colorire né di dorare alcune parti delle statue; al
colore preferiva infatti l'esaltazione del "morbido fulgore"[92]
della pietra, spesso con effetti di chiaroscuro evidenti nelle statue rimaste
prive dell'ultima finitura, con i colpi di scalpello che esaltano la
peculiarità della materia marmorea[91]. Gli unici bronzi da lui eseguiti
sono distrutti o perduti (il David De Rohan e il Giulio II benedicente);
l'esiguità del ricorso a tale materiale mostra con evidenza come egli non
amasse gli effetti "atmosferici" derivati dal modellare l'argilla.
Egli dopotutto si dichiarava artista "del levare", piuttosto che
"del mettere", cioè per lui la figura finale nasceva da un processo
di sottrazione della materia fino al nucleo del soggetto scultoreo, che era
come già "imprigionato" nel blocco di marmo. In tale materiale finito
egli trovava il brillio pacato delle superfici lisce e limpide, che erano le
più idonee per valorizzare l'epidermide delle solide muscolature dei suoi
personaggi[91]. Studi preparatori Studio per un dio fluviale nel
blocco di marmo, 1520-1525, British Museum Il procedimento tecnico con cui
Michelangelo scolpiva ci è noto da alcune tracce in studi e disegni e da
qualche testimonianza. Pare che inizialmente, secondo l'uso degli scultori
cinquecenteschi, predisponesse studi generali e particolari in forma di schizzo
e studio. Istruiva poi personalmente i cavatori con disegni (in parte ancora
esistenti) che fornissero un'idea precisa del blocco da tagliare, con misure in
cubiti fiorentini, talora arrivando a delineare la posizione della statua entro
il blocco stesso. A volte oltre ai disegni preparatori eseguiva dei modellini
in cera o argilla, cotti o no, oggetto di alcune testimonianze, seppure
indirette, e alcuni dei quali si conservano ancora oggi, sebbene nessuno sia
sicuramente documentato. Più raro è invece, pare, il ricorso a un modello nelle
dimensioni definitive, di cui resta però l'isolata testimonianza del Dio
fluviale[91]. Col passare degli anni però dovette assottigliare gli studi
preparatori in favore di un attacco immediato alla pietra mosso da idee
urgenti, suscettibili tuttavia di essere profondamente mutate nel corso del
lavoro (come nella Pietà Rondanini)[91]. Preparazione del blocco Il
Giorno, dettaglio Il Crepuscolo, dettaglio Tondo Pitti, dettaglio
Il primo intervento sul blocco uscito dalla cava avveniva con la
"cagnaccia", che smussava le superfici lisce e geometriche a seconda
dell'idea da realizzare. Pare che solo dopo questo primo appropriarsi del marmo
Michelangelo tracciasse sulla superficie resa irregolare un rudimentale segno
col carboncino che evidenziava la veduta principale (cioè frontale) dell'opera.
La tecnica tradizionale prevedeva l'uso di quadrati o rettangoli proporzionali
per riportare le misure dei modellini a quelle definitive, ma non è detto che
Michelangelo facesse tale operazione a occhio. Un altro procedimento delle fasi
iniziali dello scolpire era quello di trasformare la traccia a carboncino in
una serie di forellini che guidassero l'affondo via via che il segno a matita
scompariva[91]. Sbozzatura A questo punto aveva inizio la vera e propria
scolpitura, che intaccava il marmo a partire dalla veduta principale, lasciando
intatte le parti più sporgenti e addentrandosi man mano negli strati più
profondi. Questa operazione avveniva con un mazzuolo e con un grosso scalpello
a punta, la subbia. Esiste una preziosa testimonianza di B. de Vigenère[93],
che vide il maestro, ormai ultrasessantenne, accostarsi a un blocco in tale
fase: nonostante l'aspetto "non dei più robusti" di Michelangelo,
egli è ricordato mentre butta giù «scaglie di un durissimo marmo in un quarto
d'ora», meglio di quanto avrebbero potuto fare tre giovani scalpellini in un
tempo tre o quattro volte maggiore, e si avventa «al marmo con tale impeto e
furia, da farmi credere che tutta l'opera dovesse andare in pezzi. Con un solo
colpo spiccava scaglie grosse tre o quattro dita, e con tanta esattezza al
segno tracciato, che se avesse fatto saltar via un tantin più di marmo correva
il rischio di rovinar tutto»[91]. Sul fatto che il marmo dovesse essere
"attaccato" dalla veduta principale restano le testimonianze di
Vasari e Cellini, due devoti a Michelangelo, che insistono con convinzione sul
fatto che l'opera dovesse essere lavorata inizialmente come se fosse un
rilievo, ironizzando sul procedimento di avviare tutti i lati del blocco,
trovandosi poi a constatare come le vedute laterali e tergale non coincidano
con quella frontale, richiedendo quindi "rattoppi" con pezzi di
marmo, secondo un procedimento che «è arte da certi ciabattini, i quali la
fanno assai malamente»[94]. Sicuramente Michelangelo non usò
"rattoppamenti", ma non è da escludere che durante lo sviluppo della
veduta frontale egli non trascurasse le vedute secondarie, che ne erano diretta
conseguenza. Tale procedimento è evidente in alcune opere non finite, come i
celebri Prigioni che sembrano liberarsi dalla pietra[91]. Scolpitura e
livellatura Dopo che la subbia aveva eliminato molto materiale, si passava alla
ricerca in profondità, che avveniva tramite scalpelli dentati: Vasari ne
descrisse di due tipi, il calcagnuolo, tozzo e dotato di una tacca e due denti,
e la gradina, più fine e dotata di due tacche e tre o più denti. A giudicare
dalle tracce superstiti, Michelangelo doveva preferire la seconda, con la quale
lo scolpire procede «per tutto con gentilezza, gradinando la figura con la
proporzione de' muscoli e delle pieghe»[95]. Si tratta di quei tratteggi ben
visibili in varie opere michelangiolesche (si pensi al viso del Bambino nel
Tondo Pitti), che spesso convivono accanto a zone appena sbozzate con la subbia
o alle più semplici personalizzazioni iniziali del blocco (come nel San
Matteo)[91]. La fase successiva consisteva nella livellatura con uno
scalpello piano, che eliminava le tracce della gradina (una fase a metà
dell'opera si vede nel Giorno), a meno che tale operazione non venisse fatta
con la gradina stessa[91]. Rifinitura Appare evidente che il maestro,
nell'impazienza di vedere palpitare le forme ideate, passasse da un'operazione
all'altra, attuando contemporaneamente le diverse fasi operative. Restando
sempre evidente la logica superiore che coordinava le diverse parti, la qualità
dell'opera appariva sempre altissima, pur nei diversi livelli di finitezza,
spiegando così come il maestro potesse interrompere il lavoro quando l'opera
era ancora "non-finita", prima ancora dell'ultima fase, spesso
approntata dagli aiuti, in cui si levigava la statua con raschietti, lime,
pietra pomice e, in ultimo, batuffoli di paglia. Questa levigatura finale,
presente ad esempio nella Pietà vaticana garantiva comunque quella
straordinaria lucentezza, che si distaccava dalla granulosità delle opere dei
maestri toscani del Quattrocento[91]. Il non finito di Michelangelo
Non-finito nella Pietà Bandini Una delle questioni più difficili per la
critica, nella pur complessa opera michelangiolesca, è il nodo del non finito.
Il numero di statue lasciate incompiute dall'artista è infatti così elevato da
rendere improbabile che le uniche cause siano fattori contingenti estranei al
controllo dello scultore, rendendo alquanto probabile una sua volontà diretta e
una certa compiacenza per l'incompletezza[96]. Le spiegazioni proposte
dagli studiosi spaziano da fattori caratteriali (la continua perdita di
interesse dell'artista per le commissioni avviate) a fattori artistici (l'incompiuto
come ulteriore fattore espressivo): ecco che le opere incompiute paiono lottare
contro il materiale inerte per venire alla luce, come nel celebre caso dei
Prigioni, oppure hanno i contorni sfocati che differenziano i piani spaziali
(come nel Tondo Pitti) o ancora diventano tipi universali, senza
caratteristiche somatiche ben definite, come nel caso delle allegorie nelle
tombe medicee[96]. Alcuni hanno collegato la maggior parte degli
incompiuti a periodi di forte tormento interiore dell'artista, unito a una
costante insoddisfazione, che avrebbe potuto causare l'interruzione prematura
dei lavori. Altri si sono soffermati su motivi tecnici, legati alla particolare
tecnica scultorea dell'artista basata sul "levare" e quasi sempre
affidata all'ispirazione del momento, sempre soggetta a variazioni. Così una
volta arrivati all'interno del blocco, a una forma ottenuta cancellando via la
pietra di troppo, poteva capitare che un mutamento d'idea non fosse più
possibile allo stadio raggiunto, facendo mancare i presupposti per poter
portare avanti il lavoro (come nella Pietà Rondanini)[96]. La
personalità Lo stesso argomento in dettaglio: Aspetti psichici nell'opera
di Michelangelo. Una delle versioni del ritratto di Michelangelo di
Daniele da Volterra La leggenda dell'artista geniale ha spesso messo in seconda
luce l'uomo nella sua interezza, dotato anche di debolezze e lati oscuri.
Queste caratteristiche sono state oggetto di studi in anni recenti, che,
sfrondando l'aura divina della sua figura, hanno messo a nudo un ritratto più
veritiero e accurato di quello che emerge dalle fonti antiche, meno
accondiscendente ma sicuramente più umano[89]. Tra i difetti più evidenti
della sua personalità c'erano l'irascibilità (alcuni sono arrivati a ipotizzare
che avesse la sindrome di Asperger[97]), la permalosità, l'insoddisfazione
continua. Numerose contraddizioni animano il suo comportamento, tra cui
spiccano, per particolare forza, l'atteggiamento verso i soldi e i rapporti con
la famiglia, che sono due aspetti comunque intimamente correlati[89].
Michelangelo si autoritrasse forse come pelle senza corpo nel Giudizio
universale Sia il carteggio, sia i libri di Ricordi di Michelangelo fanno
continue allusioni ai soldi e alla loro scarsità, tanto che sembrerebbe che
l'artista vivesse e fosse morto in assoluta povertà. Gli studi di Rab Hatfield
sui suoi depositi bancari e i suoi possedimenti hanno tuttavia delineato una
situazione ben diversa, dimostrando come durante la sua esistenza egli riuscì
ad accumulare una ricchezza immensa. Basta come esempio l'inventario redatto
nella dimora di Macel de' Corvi all'indomani della sua morte: la parte iniziale
del documento sembra confermare la sua povertà, registrando due letti, qualche
capo di vestiario, alcuni oggetti di uso quotidiano, un cavallo; ma nella sua
camera da letto viene poi rinvenuto un cofanetto chiuso a chiave che, una volta
aperto, dimostra un tesoro in contanti degno di un principe. A titolo di
esempio con quel contante l'artista avrebbe potuto benissimo comprarsi un
palazzo, essendo una cifra superiore a quella sborsata in quegli anni (nel
1549) da Eleonora di Toledo per l'acquisto di Palazzo Pitti[89]. Ne
emerge quindi una figura che, benché ricca, viveva nell'austerità spendendo con
grande parsimonia e trascurandosi fino a limiti impensabili: Condivi ricorda ad
esempio come fosse solito non togliersi gli stivali prima di andare a letto,
come facevano gli indigenti[89]. Questa marcata avarizia e l'avidità, che
continuamente gli fanno percepire in maniera distorta il proprio patrimonio,
sono sicuramente dovute a ragioni caratteriali, ma anche a motivazioni più
complesse, legate al difficile rapporto con la famiglia[96]. La penosa
situazione economica dei Buonarroti doveva averlo intimamente segnato e forse aveva
come desiderio quello di lasciar loro una cospicua eredità per risollevarne le
sorti. Ma ciò è contraddetto apparentemente dai suoi rifiuti di aiutare il
padre e i fratelli, giustificandosi con un'immaginaria mancanza di liquidi,
mentre in altre occasioni arrivava a chiedere la restituzione di somme prestate
in passato, accusandoli di vivere delle sue fatiche, se non di approfittarsi
spudoratamente della sua generosità[96]. La presunta omosessualità
La tomba di Cecchino Bracci nella basilica di Santa Maria in Aracoeli a Roma,
realizzata su disegno di Michelangelo Diversi storici[98] hanno affrontato il
tema della presunta omosessualità di Michelangelo esaminando i versi dedicati
ad alcuni uomini (Febo Dal Poggio, Gherardo Perini, Cecchino Bracci, Tommaso
de' Cavalieri). Si veda, ad esempio, il sonetto dedicato a Tommaso de'
Cavalieri - scritto nel 1534 - in cui Michelangelo denunciava l'abitudine del
popolo di vociare sui suoi rapporti amorosi: «E se 'l vulgo malvagio,
isciocco e rio, di quel che sente, altrui segna e addita, non è l'intensa
voglia men gradita, l'amor, la fede e l'onesto desìo.[99]» Sul disegno
della Caduta di Fetonte, al British Museum, Michelangelo scrisse una dedica a
Tommaso de' Cavalieri. Molti sonetti furono dedicati anche a Cecchino
Bracci, di cui Michelangelo disegnò il sepolcro nella Basilica di Santa Maria
in Aracoeli. In occasione della morte prematura di Cecchino, Buonarroti scrisse
un epitaffio (pubblicato la prima volta solo nel 1960) dalla forte ambiguità
carnale[101]: «La carne terra, e qui l'ossa mie, prive de' lor begli
occhi, e del leggiadro aspetto fan fede a quel ch'i' fu' grazia nel lecto, che
abbracciava e 'n che l'anima vive.[102]» In realtà, l'epitaffio non dice
nulla su tale presunta relazione tra i due. Del resto, gli epitaffi di
Michelangelo furono commissionati da Luigi Riccio e da questi retribuiti
mediante doni di natura gastronomica, mentre la conoscenza tra il Buonarroti e
il Bracci fu solo marginale[103]. I numerosi epitaffi scritti da
Michelangelo per Cecchino furono pubblicati postumi dal nipote, che però,
spaventato dalle implicazioni omoerotiche del testo, avrebbe modificato in più
punti il sesso del destinatario, facendone una donna[104]. Le edizioni
successive avrebbero ripreso il testo censurato, e solo l'edizione Laterza
delle Rime, nel 1960, avrebbe ristabilito la dizione originaria. Il tema
del nudo maschile in movimento è comunque centrale in tutta l'opera
michelangiolesca, tanto che è celebre la sua attitudine a rappresentare anche
le donne coi tratti spiccatamente mascolini (un esempio su tutti, le Sibille
della volta della Cappella Sistina)[100]. Non è una prova inconfutabile di
attitudini omosessuali, ma è innegabile che Michelangelo non ritrasse mai una
sua "Fornarina" o una "Violante", anzi i protagonisti della
sua arte sono sempre vigorosi individui maschili. Nel 1536 o 1538 è da
collocarsi il primo incontro con Vittoria Colonna. Nel 1539 la donna rientrò a
Roma e lì crebbe l'amicizia con Michelangelo, che la amò (almeno dal punto di
vista platonico) enormemente e su cui ebbe una grande influenza, verosimilmente
anche religiosa. A lei l'artista dedicò alcuni tra i più profondi e potenti
componimenti poetici della sua vita[100]. Il biografo Ascanio Condivi
ricordò anche come l'artista dopo la morte della donna si rammaricava di non
aver mai baciato il viso della vedova nello stesso modo in cui aveva stretto la
sua mano. Michelangelo non prese mai moglie e non sono documentate sue
relazioni amorose né con donne né con uomini. In tarda età si dedicò a
un'intensa e austera religiosità[100]. Le fonti su Michelangelo
Ritratto di Michelangelo nella seconda edizione delle Vite di Vasari
Michelangelo è l'artista che, forse più di qualunque altro, incarna il mito di
personalità geniale e versatile, capace di portare a termine imprese titaniche,
nonostante le complesse vicende personali, le sofferenze e il tormento dovuto
al difficile momento storico, fatto di sconvolgimenti politici, religiosi e
culturali. Una fama che non si è affievolita coi secoli, restando più che mai
viva anche ai giorni nostri[85]. Se il suo ingegno e il suo talento non
sono mai stati messi in discussione, nemmeno dai più agguerriti detrattori, ciò
da solo non basta a spiegarne l'aura leggendaria, né sono sufficienti la sua
irrequietezza, o la sofferenza e la passione con cui partecipò alle vicende
della sua epoca: sono tratti che, almeno in parte, sono riscontrabili anche in
altri artisti vissuti più o meno nella sua epoca[85]. Sicuramente il suo mito
si alimentò anche di sé stesso, nel senso che Michelangelo fu il primo e più
efficace dei suoi promotori, come emerge dalle fonti fondamentali per
ricostruire la sua biografia e la sua vicenda artistica e personale: il
carteggio e le tre biografie che lo riguardarono al suo tempo[85]. Il
carteggio Nella sua vita Michelangelo scrisse numerose lettere che in larga
parte sono state conservate in archivi e raccolte private, tra cui spicca il
nucleo collezionato dai suoi discendenti a casa Buonarroti. Il carteggio
integrale di Michelangelo è stato pubblicato nel 1965[85] e dal 2014 è
interamente consultabile online[106]. Nei suoi scritti l'artista descrive
spesso i propri stati d'animo e si sfoga delle preoccupazioni e i tormenti che
lo affliggono; inoltre nello scambio epistolare approfitta spesso per riportare
la propria versione dei fatti, soprattutto quando si trova accusato o messo in
cattiva luce, come nel caso dei numerosi progetti avviati e poi abbandonati
prima del completamento. Spesso si lamenta dei committenti che gli volgono le
spalle e lancia pesanti accuse contro chi lo ostacola o lo contraddice[85].
Quando si trova in difficoltà, come nei momenti più oscuri della lotta con gli
eredi della Rovere per il monumento sepolcrale a Giulio II, il tono delle
lettere si fa più acceso, trovando sempre una giustificazione della propria
condotta, ritagliandosi la parte di vittima innocente e incompresa. Si può
arrivare a parlare di un disegno ben preciso, attraverso le numerose lettere,
teso a scagionarlo da tutte le colpe e a procurarsi un'aura eroica e di grande
resistenza ai travagli della vita[107]. La prima edizione delle Vite di
Vasari (1550) Nel marzo del 1550, Michelangelo, quasi settantacinquenne, si
vide pubblicata una sua biografia nel volume delle Vite de' più eccellenti
pittori, scultori e architettori scritto dall'artista e storico aretino Giorgio
Vasari e pubblicato dall'editore fiorentino Lorenzo Torrentino. I due si erano
conosciuti brevemente a Roma nel 1543, ma non si era instaurato un rapporto
sufficientemente consolidato da permettere all'aretino di interrogare
Michelangelo. Si trattava della prima biografia di un artista composta quando
era ancora in vita, che lo indicava come il punto di arrivo di una progressione
dell'arte italiana che va da Cimabue, primo in grado di rompere con la
tradizione "greca", fino a lui, insuperabile artefice in grado di
rivaleggiare con i maestri antichi[85]. Nonostante le lodi l'artista non
approvò alcuni errori, dovuti alla mancata conoscenza diretta tra i due, e
soprattutto ad alcune ricostruzioni che, su temi caldi come quello della
sepoltura del papa, contraddicevano la sua versione costruita nei
carteggi[107]. Vasari dopotutto pare che non avesse cercato documenti scritti,
affidandosi quasi esclusivamente ad amicizie più o meno vicine al Buonarroti,
tra cui Francesco Granacci e Giuliano Bugiardini, già suoi collaboratori, che
però esaurivano i loro contatti diretti con l'artista poco dopo dell'avvio dei
lavori alla Cappella Sistina, fino quindi al 1508 circa[108]. Se la parte sulla
giovinezza e sugli anni venti a Firenze appare quindi ben documentata, più
vaghi sono gli anni romani, fermandosi comunque al 1547, anno in cui dovette
essere completata la stesura[108]. Tra gli errori che più ferirono
Michelangelo c'erano le disinformazioni sul soggiorno presso Giulio II, con la
fuga da Roma che era stata attribuita all'epoca della volta della Cappella
Sistina, dovuta a un litigio col papa per il rifiuto a svelargli in anticipo
gli affreschi: Vasari conosceva i forti disappunti tra i due ma all'epoca ne
ignorava completamente le cause, cioè la disputa sulla penosa vicenda della
tomba[109]. La biografia di Ascanio Condivi (1553) Non è un caso che
appena tre anni dopo, nel 1553, venne data alle stampe una nuova biografia di
Michelangelo, opera del pittore marchigiano Ascanio Condivi, suo discepolo e
collaboratore. Il Condivi è una figura di modesto rilievo nel panorama
artistico e anche in campo letterario, a giudicare da scritti certamente
autografi come le sue lettere, doveva essere poco portato. L'elegante prosa
della Vita di Michelagnolo Buonarroti è infatti assegnata dalla critica ad
Annibale Caro, intellettuale di spicco molto vicino ai Farnese, che ebbe almeno
un ruolo di guida e revisore[107]. Per quanto riguarda i contenuti, il diretto
responsabile dovette essere quasi certamente Michelangelo stesso, con un
disegno di autodifesa e celebrazione personale pressoché identico a quello del
carteggio. Lo scopo dell'impresa letteraria era quello espresso nella
prefazione: oltre a fare d'esempio ai giovani artisti, doveva "sopplire al
difetto di quelli, et prevenire l'ingiuria di questi altri", un chiaro
riferimento agli errori di Vasari[107]. La biografia del Condivi non è
quindi scevra da interventi selettivi e ricostruzioni di parte. Se si dilunga
molto sugli anni giovanili, essa tace ad esempio sull'apprendistato alla
bottega del Ghirlandaio, per sottolineare il carattere impellente e autodidatta
del genio, avversato dal padre e dalle circostanze. Più rapida è la rassegna degli
anni della vecchiaia, mentre il cardine del racconto riguarda la "tragedia
della sepoltura" (l'interminabile iter per la tomba di Giulio II),
ricostruita molto dettagliatamente e con una vivacità che ne fa uno dei passi
più interessanti del volume. Gli anni immediatamente precedenti all'uscita
della biografia furono infatti quelli dei rapporti più difficili con gli eredi
Della Rovere, minati da duri scontri e minacce di denuncia alle pubbliche
autorità e di richiesta degli anticipi versati, per cui è facile immaginare quanto
premesse all'artista fornire una sua versione della vicenda[107]. Altra
pecca della biografia del Condivi è che, a parte rare eccezioni come il San
Matteo e le sculture per la Sagrestia Nuova, essa tace sui numerosi progetti
non finiti, come se con il passare degli anni il Buonarroti fosse ormai turbato
dal ricordo delle opere lasciate incompiute[108]. La seconda edizione
delle Vite di Vasari (1568) A quattro anni dalla scomparsa dell'artista e a
diciotto dal primo lavoro, Giorgio Vasari pubblicò una nuova edizione delle
Vite per l'editore Giunti, riveduta, ampliata e aggiornata. Quella di
Michelangelo in particolare era la biografia più rivisitata e la più attesa dal
pubblico, tanto da venire pubblicata anche in un libretto a parte dallo stesso
editore. Con la morte la leggenda dell'artista si era infatti ulteriormente
accresciuta e Vasari, protagonista delle esequie a Michelangelo svoltesi
solennemente a Firenze, non esita a riferirsi a lui come al "divino"
artista. Rispetto all'edizione precedente appare chiaro come in quegli anni
Vasari si sia maggiormente documentato e come abbia avuto modo di accedere a
informazioni di prima mano, grazie a un forte legame diretto che si era
stabilito tra i due. Il nuovo racconto è quindi molto più completo e
verificato anche da numerosi documenti scritti. Le lacune vennero colmate con
la sua frequentazione dell'artista negli anni del lavoro presso Giulio III
(1550-1554) e con l'appropriazione di interi brani della biografia del Condivi,
un vero e proprio "saccheggio" letterario: identici sono alcuni
paragrafi e la conclusione, senza alcuna menzione della fonte, anzi l'unica
citazione del marchigiano si ha per rinfacciargli l'omissione dell'apprendistato
presso la bottega del Ghirlandaio, fatto invece noto da documenti riportati
dallo stesso Vasari[109]. La completezza della seconda edizione è motivo
di vanto per l'aretino: "tutto quel [...] che si scriverrà al presente è
la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più
amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci
sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui
proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me". I Dialoghi romani
di Francisco de Hollanda L'opera che da alcuni storici è stata considerata
testimonianza delle idee artistiche di Michelangelo sono i Dialoghi romani
scritti da Francisco de Hollanda come completamento del suo trattato sulla
natura dell'arte De Pintura Antiga, scritto verso il 1548[110] e rimasto
inedito fino al XIX secolo. Durante il suo lungo soggiorno italiano,
prima di tornare in Portogallo, l'autore, allora giovanissimo, aveva
frequentato, intorno al 1538, Michelangelo allora impegnato nell'esecuzione del
Giudizio universale, all'interno del circolo di Vittoria Colonna. Nei Dialoghi
fa intervenire Michelangelo come personaggio a esprimere le proprie idee
estetiche confrontandosi con lo stesso de Hollanda. Tutto il trattato,
espressione dell'estetica neoplatonica, è comunque dominato dalla gigantesca
figura di Michelangelo, come figura esemplare dell'artista genio, solitario e
malinconico, investito di un dono "divino", che "crea"[112]
secondo modelli metafisici, quasi a imitazione di Dio. Michelangelo diventò
così, nell'opera di De Hollanda e in genere nella cultura occidentale, il primo
degli artisti moderni. Caratteristiche fisiche Nel 2021 il paleopatologo
Francesco M. Galassi e l'antropologa forense Elena Varotto del FAPAB Research
Center di Avola, in Sicilia, hanno esaminato le scarpe e una pantofola
conservate a Casa Buonarroti, che la tradizione ritiene appartenute al genio
rinascimentale, ipotizzando che l'artista fosse alto circa 1 metro e 60[113]:
un dato concorde con quanto sostenuto dal Vasari, il quale nella sua biografia
dell'artista sostiene che il maestro fosse "di statura mediocre, di spalle
largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo. Opere Lo
stesso argomento in dettaglio: Opere di Michelangelo. Opere letterarie Rime di
Michelangelo Buonarroti raccolte da Michelangelo suo Nipote, in Firenze,
appresso i Giunti, 1623. Rime di Michelangelo Buonarroti il Vecchio, con il commento
di G. Biagioli, Parigi, presso l'editore in via Rameau nº 8, 1821. Rime e
lettere, precedute dalla vita dell'autore scritta da Ascanio Condivi, Firenze,
Barbèra, Le rime di Michelangelo Buonarroti, a cura di Cesare Guasti, Le
Monnier, Firenze, 1863. Le lettere di Michelangelo Buonarroti, a cura di
Gaetano Milanesi, Le Monnier, Firenze, 1875. Die Dichtungen des Michelagniolo
Buonarroti, a cura di C. Frey, Berlino, 1897 Edizioni moderne: Rime,
Prefazione di A. Castaldo, Roma, Oreste Garroni Editore, 1910. Le rime e le
lettere, precedute dalla vita di Michelangelo per Luigi Venturi, Collana
Classici Italiani, Milano, Istituto Editoriale Italiano; Milano, Bietti, 1933.
Poesie, Prefazione di Giovanni Amendola, Lanciano, Carabba, 1920. Le rime,
Prefazione e note di Foratti, Milano, R. Caddeo, 1921. Lettere e rime, per cura
di Guido Vitaletti, Torino, SEI, 1925. Le rime, Introduzione, note e cura di
Valentino Piccoli, Collezione Classici Italiani, Torino, UTET. Rime, a cura di
Gustavo Rodolfo Ceriello, Collana BUR, Rizzoli, Milano, 1954. Rime, a cura di
Enzo Noè Girardi, Laterza, Bari, 1960. Il carteggio di Michelangelo, edizione
postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, 5 voll.,
Firenze, S.P.E.S., 1965-83. Rime, premessa, note e cura di Ettore Barelli,
Introduzione di Giovanni Testori, Milano, Rizzoli, 1975; Fabbri Editore,
1995-2001. Rime e lettere, a cura di Paola Mastrocola, UTET, Torino, 1992-2015;
De Agostini, 2015. Rime, a cura di Matteo Residori, Introduzione di Mario
Baratto, con un saggio di Thomas Mann, Collana Oscar Classici, Milano,
Mondadori, 1998. Rime, a cura di Stella Fanelli, Prefazione di Cristina
Montagnani, Garzanti, Milano, 2006. Le rime di Michelangelo, a cura di Marzio
Pieri e Luana Salvarani, La Finestra Editrice, Trento, 2006, ISBN
978-88-880-9771-8. [riproduce l'edizione delle Rime stampate a Firenze nel
1623] Rime, a cura di T. Gurrieri, Collana Classici, Firenze, Barbès. Rime, a
cura di Paolo Zaja, Collana Classici, Milano, BUR-Rizzoli, Canzoniere, a cura
di Maria Chiara Tarsi, Biblioteca di scrittori italiani, Milano, Guanda, Rime e
lettere, A cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Collezione Classici della
letteratura europea, Milano, Bompiani, 2016, ISBN 978-88-452-8291-1. Omaggi
Michelangelo è stato raffigurato sulla banconota da 10.000 lire italiane dal
1962 al 1977. Film e documentari cortometraggio - Rolla e Michelangelo di
Romolo Bacchini (1909) documentario - Michelangelo di Kurt Oertel (1938)
documentario - Il titano, storia di Michelangelo di Kurt Oertel (1950) film tv
- Vita di Michelangelo di Silverio Blasi (1964) lungometraggio - Il tormento e
l'estasi di Carol Reed (1965) documentario - Michelangelo: The Last Giant di
Tom Priestley (1966) documentario - The Secret of Michelangelo di Milton
Fruchtman (1968) film tv - La primavera di Michelangelo di Jerry London (1990)
cortometraggio - Lo sguardo di Michelangelo di Michelangelo Antonioni (2004)
documentario - The Divine Michelangelo di Tim Dunn e Stuart Elliott (2004) film
tv - Michelangelo Superstar di Wolfgang Ebert e Martin Papirowski lungometraggio
- Michelangelo - Infinito con Enrico Lo Verso (2018) film lungometraggio -
"Il peccato - Il furore di Michelangelo" di A. Konchalovsky Opere
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Nella nota è riportata la data 6 marzo 1474, la mattina «inanzi di 4 o 5 ore».
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villa Hainaux nel borgo di Ripa presso Seravezza. Nella pieve della Cappella ad
Azzano Michelangelo scolpì il rosone e forse anche un colonnato, opere perdute
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Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Michelangelo Buonarroti, su
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Scultura Categorie: Pittori italiani Pittori italiani Scultori italiani
Scultori italiani Architetti italiani
Architetti italiani NNati a Caprese Michelangelo Morti a Roma Michelangelo
Buonarroti Buonarroti Poeti italiani Sepolti nella basilica di Santa CrocePoeti
italiani del XV secolo Architetti rinascimentaliArtisti di scuola
fiorentinaPittori italiani del RinascimentoPoeti italiani trattanti tematiche
LGBTPersonalità celebrate nel calendario liturgico luterano[altre]. Michelangelo
Buonarroti Simoni. Keywords: the theory of everything. Refs.: “Grice e Simoni.”
Simoni.
Luigi Speranza -- Grice e Simoni: la ragione
conversazionale degl’ ‘eretici’ reazionari italiani – gl’acuti – i nobili – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucca). Filosofo italiano. Lucca, Toscana. Studia
con BENDINELLI e PALEARIO, due umanisti in dore d’eresia. Il secondo fine sul
rogo a Roma. Legge sostenuto dal padre e dal patrizio veneziano MOCENIGO e peregrina
nei maggiori studi d'Italia: Bologna, Pavia, Ferrara, e Napoli. Si laurea a Padova.
Diversi ma tutti autorevoli i suoi professori: da MAGGI a CARDANO, da BOLDONI a
BRASAVOLA. La sua formazione e di stampo del LIZIO, come s'insegna nello studio
padovano, con una forte esigenza razionalistica che ha riflessi nel campo
religioso, tale da mettere in dubbio l'immortalità dell'anima e a creare
sospetti di eresia tra i professori e gl’studenti di quella università. Con
questa preparazione, S. fa ritorno a Lucca, dove scrive saggi di argomento
filosofico. Lucca ha vissuto un periodo concitato d’aperti conflitti
sociali e poi di tentativi di riforme politiche, portate avanti dal
gonfaloniere BURLAMACCHI e dal circolo di filosofi riuniti intorno a VERMIGLI. Quando
ritorna a Lucca, quella fervida attività è già stata spenta dalla reazione
cattolica guidata da GUIDICCIONI, ma certo quelle idee di riforma circolano
ancora sotterraneamente, e forse lui stesso le ha già raccolte durante i suoi
trascorsi nelle diverse università da lui frequentate. Sta di fatto che è chiamato
dall’autorità lucchesi a dare spiegazioni sulle proprie opinioni. Per tutta
risposta non fidandosi troppo delle sue forze, cerca la salvezza con la fuga. Munito
solo di un cavallo e dei propri risparmi, dopo aver preso commiato dalla
famiglia, fugge, accompagnato da un servitore, alla volta di Ginevra. Negl’atti
ufficiali della repubblica di Lucca, la sua condanna per eresia si formalizza. A
Ginevra, patria del calvinismo, si forma una numerosa colonia di emigrati
italiani e tra questi non pochi sono i lucchesi. La comunità italiana è
inserita in una propria chiesa e S. vi ha l'incarico di catechista. Preso a
benvolere dall'influente teologo BEZA, ottenne di insegnare filosofia: un
incarico dapprima senza compenso, poi retribuito insieme con la nomina a professore.
Anche il padre Giovanni si stabilì a Ginevra. In quello stesso periodo gli
venne aumentato lo stipendio, ottenne un alloggio gratuito e, nell'accademia è istituita
appositamente per lui la cattedra. Pubblica saggi. Presso Crespin apparve
il suo “In librum Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum
cadunt commentarius unus” è il commento al “De sensu et sensibilibus” di
Aristotele. In esso define la verità filosofica -- una premessa tipica del
lizio padovano ma poi cerca di dimostrare che la ragione, indagando la natura,
può giungere al divino, rivelando le verità di fede. In tal modo, sostiene che
anche ogni questione ha natura razionale e, qualora sorgano contrasti, la
ragione è in grado di comporli, indicando la via da seguire per una corretta
interpretazione. Una conseguenza, seppure non esplicita nel commento, della
prevalenza della ragione sulla fede, è che il dogma espressione della
tradizionale sub-ordinazione della ragione alla fede non ha motivo di esistere.
Il suo LIZIO che poco concede alla teologia si conferma con i successivi
commenti all'Etica Nicomachea e al De anima, mentre S. condusse una lunga e
dura polemica contro il filosofo Schegk. Questi, proprio all'opposto del S. usa
argomenti tratti dalla scolastica per dimostrare la realtà della teoria, allora
caldeggiata in ambienti luterani, della ubiquità del corpo di Cristo. S.
risponde con argomenti di carattere fisico dimostrando l'irrealtà di tale
assunto. Un olo corpo fisico non può che occupare, nello stesso tempo, un unico
spazio determinato. Anche Cristo, in vita, e soggetto alla legge naturale. Dopo
la morte, Cristo mantenne soltanto una natura divina. Non è sostenibile l'idea
che il divinopossa mutare una legge naturale in legge trans-naturale o
sovra-naturale. Ente perfetto e primo motore immobile come lo delinea
Aristotele il divino agisce sulla natura unicamente attraverso la sua
perfezione che indirizza al bene gl’esseri naturali. Il suo carattere
collerico e l'alta considerazione che ha di sé lo porta a una lite clamorosa
con BALBANI, un altro lucchese. Durante il matrimonio della figlia di questi, S.
lo copre d'insulti, con grave scandalo delle autorità di Ginevra, che fanno
imprigionare S. e lo espulsero dall'accademia. A nulla valsero le suoi scuse
presentate -- è del resto probabile che la severità del consiglio e del
Concistoro ginevrino e motivata anche dalla freddezza e dallo suo spirito
d'indipendenza dimostrato che pure si dichiara calvinista in materia di
religione. Tuttavia BEZA gli mantenne ancora la sua amicizia e lo forne di una
lettera di raccomandazione con la quale si dirige alla volta di Parigi. A
Parigi ottenne una buona accoglienza. I calvinisti qui chiamati ugonotti sono ancora
tollerati e le lusinghiere referenze gli fanno ottenere una cattedra di
filosofia al collège royal, dove le sue lezioni ottenneno subito un grande
concorso di pubblico. Come scrisve a BEZA, alle sue lezioni assistevano sei o
settecento uomini barbati, dottori, professori, et altri di robba lunga, preti,
frati, giesuiti et altra simil razza d'uomini. Si ha congratulazioni di RAMO,
che volle incontrarlo e lo chiama “felicissimum et praestantissimum ingenium
italicum”, non però quelle del collega CHARPENTIER, che teme che fosse stato
mandato da Ginevra per turbare questa scuola. Sa che la sua permanenza a Parigi
è precaria. Il nome di Ginevra mi nuoce più che il nome di ugonotto -- né puo
valere molto la protezione del cardinale COLIGNY, passato al calvinismo. Rifere
di aver rifiutato offerte sostanziose da parte cattolica per insegnare in loro
collegi, a prezzo di una sua conversione, e di attendersi un prossimo editto
che affronta il problema della convivenza tra cattolici e ugonotti. Un
editto effettivamente ci e, emanato da Carlo IX, con il quale si proibe ai
protestanti l'insegnamento pubblico. Così, perduti anche i suoi saggi che gli
furono sequestrati, e costretto ad abbandonare la Francia. Si apre un
nuovo periodo di difficoltà. Non potendo insegnare a Ginevra, cerca di ottenere
un incarico a Zurigo e a Basilea, sollecitando in tal senso altr’emigrati italiani
come l'editore PERNA e il filosofo umanista CURIONE, ma invano. I sospetti di
anti-trinitarismo che gravano sul suo conto, da quando fa visita nel carcere di
Berna all'eretico GENTILE poco prima che
questi venisse giustiziato, e il recente scandalo provocato a Ginevra non
agevolavano il suo inserimento nelle élite filosofica delle città
svizzere. Ottenne bensì una raccomandazione da BULLINGER per un posto di
insegnante a Heidelberg, ma anche qui rimane poco tempo. La sua amicizia con
l'anti-trinitario ERASTO, il suo a LIZIO senza compromessi dal nulla, nulla si
crea, sostenne in una pubblica lezione, cosicché anche Cristo era stato creato
dal divino Padre e il suo carattere spigoloso gl’alienarono ogni simpatia e
dove riprendere la via di Basilea. Ottenne una cattedra straordinaria di
filosofia a Lipsia. Se puo fregiarsi della stima d’Augusto I, non eguale
considerazione ottenne dai suoi colleghi, che fanno gruppo a sé e lo isolarono.
Non si perde d'animo. Molto popolare tra gli studenti per la vivacità delle sue
lezioni e lo spirito critico che infonde negl’allievi, fonda, all'interno
dell'Università, un'accademia sul modello umanistico italiano, battezzandola degl’acuti.
Degl’acuti, entra a far parte un gruppo di suoi studenti. Le discussioni
dovevano vertere sulla interpretazione di passi del LIZIO i filosofi così
raggruppati intorno a lui dettero ben presto dello spirito critico e dell'idea
di esser superiori agl’altri, che il vivace professore finisce per insinuare
nei loro animi. Pasquinate anonime contro un professore, e un litigio clamoroso
tra questo e S., iniziano una serie di incidenti che ha termine con la
soppressione degl’acuti. La soppressione degl’acuti, decisa dal senato
universitario, testimonia i difficili rapporti intercorrenti tra l'università e
lui, che per altro in città era reputato ospite illustre, professionista
affermato e ricercato, uomo di mondo e di cultura dalla posizione prestigiosa,
che gode della stima e del rispetto dei suoi concittadini, e la cui fama
oltrepassa la frontiera del paese che gli dava ospitalità. Infatti, oltre a
insegnare filosofia e ad avere allievi anche illustri, come il prìncipe RADZIWIŁL,
esercita la professione medica, vantando clienti di riguardo. Pubblica il suo saggio
filosofico più originale, la “De vera nobilitate”, dedicato ad Augusto I. La
vera nobiltà è la virtù (ANDREIA) dell'anima umana, la quale è intesa alla
maniera del LIZIO, come forma del corpo. La virtù dell'anima è perciò
strettamente legata alla particolare costituzione del corpo, trasmessa
nell'individuo di generazione in generazione dal seme del padre, che
costituisce la causa efficiente del singolo essere. Non per nulla da ‘genere’ deriva
‘generoso’. Se pure non ogni nobile è generoso, chi è generoso è considerato
nobile. Le differenze sociali tra gl’uomini e le conformazioni dei loro corpi
sono egualmente corrispondenti per necessità naturale. La natura vuole infatti
fare diversamente il corpo dei liberi da quelli dei servi. Questi robusti e con
deformità necessarie al loro particolare utilizzo. Quelli diritti e belli,
perché non desti tali fatiche, ma alla vita civile. L’educazione svolge una
funzione per la formazione dell'uomo, ma resta inferiore a quella naturale. Di
due uomini, di diversa estrazione sociale ma educati allo stesso modo, il
nobile risulta meglio formato, in quanto la natura lo ha costituito di una
materia superiore. L'educazione ha lo stesso effetto della medicina. Fa recuperare
la propria condizione di salute, ma non può migliorarla oltre il limite fissato
dalla natura. Viene da sé che le famiglie nobili d’Italia diano lustro
alla nazione italiana, formando l'élite della società civile sotto l'aspetto
culturale e politico. Questo avviene nella nazione italiana, di antica civiltà in
sostanza. Presso i barbari non può esistere nobiltà. Il barbaro e giustamente
detto servo per natura e in quanto servo non porta in lui nessuna virtù,
essendo nato per servire sotto una tirannia e non in un regio e civile governo.
La virtù dei nobili non possono consistere nell'accumulare ricchezze, ma essa e
ugualmente attiva e pratica. E la virtù civili del politico, che si occupa del
benessere dei cittadini, quelle del medico, che si occupa della salute degl’individui,
del fisiologo, che studia la natura e infine del metafisico, che studia le cose
divine. Queste ultime, insieme alla virtù della contemplazione, è però meglio
riservarle nella vita che ci attende dopo la morte, quando quei problemi
saranno facilmente risolti. Queste cose sono irrise dai politici, tra i quali,
non tra gl’angeli, si discute di nobiltà. Nel frattempo, è opportuno dedicarsi
alle cose di questo mondo ed essere utili alla società degl’uomini. Si loda
Socrate il quale, trascurate le altre parti della filosofia, coltiva quella
sola che era più adatta ai costumi degl’uomini e alle istituzioni civili. Che
la vera nobiltà si debba esprimere nell'attività pratica e civile è ribadito
più volte. La nobiltà spunta fuori dalla società civile, non dalla solitudine e
la virtù spirituale, come quelle mostrate dai mistici e dai contemplativi,
non e virtù nobile propria dell'essere umano. Questa virtù discende direttamente
dal divino e perciò non derivano da generazione spermatica naturale del padre,
non sono frutto della carne e del sangue il fondamento della vera nobiltà e non
essendo ereditarie non puo essere considerata virtù nobile. Naturalmente, ai innobili
non possono essere affidati incarichi di responsabilità nel governo della
società, ma al più solo l'esercizio di magistrature minori. Derivando dal
sangue la nobiltà, non si può diventare autenticamente nobili attraverso
conferimenti onorifici, anche se concessi d’un sovrano mentre, al contrario, un
autentico nobile non può essere privato della fama e dell'onore, perché in lui
opera sempre quella forza e quell'efficacia naturale ricevuta dai suoi antenati.
Dopo questa applicazione dei principi del LIZIO al vivere civile e al governo
dello stato, che deve essere affidato a chi per natura fa parte degl’ottimati,
si dedica a trattare temi propriamente medici. Appare a Lipsia il suo “De
partibus animalium” ove descrive la conformazione del feto, la “De vera ac
indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium
humoralium”; l'”Artificiosa curandae pestis methodus” ; la “Synopsis brevissima
novae theoriae de humoralium febrium natura” -- temi di drammatica attualità, a
Lipsia, investita da un'epidemia di peste. Ottene il permesso di
esercitare la professione medica all'interno dell'università, pur senza
ottenere, oltre quella straordinaria di filosofia, anche una cattedra di
medicina. Presenta ad Augusto I una proposta di riforma universitaria. S'indica
la necessità di una maggiore cura nell'assunzione dei professori, che dovevano
dimostrare non solo di possedere la necessaria scienza, ma anche capacità
didattiche. Dovevano anche essere obbligati a tenere un maggior numero di
lezioni s'imponevano multe ai professori inadempienti mentre la durata
dell'anno accademico venne prolungata. Particolare cura dedica
all'insegnamento. Dovevano tenere lezioni V professori, tra i quali un chirurgo
che avrebbe tenuto esercitazioni di anatomia e fatto dimostrazioni pratiche di
cura delle diverse affezioni. La qualità dell'insegnamento teorico anda migliorata.
Ritene che corressero troppe affermazioni dogmatiche, che sarebbero dovute
essere verificate dalla pratica e dal rigore della dimostrazione dialettica. A
questo proposito opina che avrebbe giovato un'accurata conoscenza delle opere del
LIZIO. Non mancano poi critiche severe sull'attuale andamento a Lipsia. I
rettori sono scelti grazie alle loro aderenze, si promuovevano studenti
immeritevoli, vi è scarsa pulizia, la farmacia universitaria è mal tenuta. Tali
proposte e simili critiche non potevano che alimentare ancor più l'ostilità dei
colleghi. Egli non sembra preoccuparsene. La stima dell'Elettore Augusto si
mantene immutata, se lo fa nominare Professore di filosofia e lo promuove a suo
primo medico personale. Avvenne tuttavia che, su sollecitazione della chiesa
luterana, la quale prepara una confessione di fede che in particolare tutti
funzionari e gl’impiegati, a vario titolo, dello stato avrebbero dovuto
firmare, l'elettore pretese tale sottoscrizione anche dal professor S.,
ottenendone un netto rifiuto. Racconta lo stesso S. che, avendo rifiutato
costantemente di sotto-scrivere quella che i teologi sassoni denominarono
Formula di Concordia, il Principe Elettore rivolge il suo sdegno contro di me. Al
che S. decide di andarsene e, nonostante l'Elettore cerca d'impedirlo, da
l'ultimo saluto a quelle popolazioni. Si trasfere a Praga, dove venne assunto
quale medico personale di Rodolfo II. Tale incarico e il carattere cattolico
dell'Impero di cui era ora suddito rendeva necessario un chiarimento sulle sue
posizioni religiose, poiché è nota la rottura avvenuta a Ginevra con i
calvinisti e a Lipsia con i luterani. S. si adegua facilmente alla nuova situazione
e abiura pubblicamente le passate convinzioni, ritratta quanto nei suoi scritti
poteva esservi di eretico e abbraccia formalmente il cattolicesimo. Si tratta
di una scelta di convenienza, seppure comprensibile nel clima torbido delle
persecuzioni e dell'intolleranza. Lo scrive lui stesso all'amico Selnecker, un
teologo luterano. Confesso di aver abiurato, anche se non avrei voluto farlo
neppure a costo del mio sangue. Di tale mio atto altri comunque sono i
responsabili. In nessun altro modo avrei potuto infatti salvare la mia vita,
quella di mia moglie e dei miei figli che speravo di poter condurre con me. La
moglie muore poco dopo e i tre figli rimasero affidati a Lipsia al nonno
materno. Io, un italiano perseguitato a causa della religione luterana,
dichiarato nemico della patria, esposto per decreto del senato all'agguato di
sicari. E ricorda la sorte di chi non si è piegato a compromessi. I che vidi
con questi occhi il Paleologo, esule per causa di religione, condotto su
richiesta del legato pontificio dalla Moravia a Vienna, e di qui trascinato in
catene a Roma (si sente dire che ormai è stato crudelmente arso sul rogo), io
che sono circondato da ogni parte da infinite difficoltà e pericoli di ogni
genere, che cosa avrei dovuto fare? Questa lettera non venne agl’occhi dei
gesuiti, che vantarono il successo ottenuto con la presunta conversione del
filosofo famoso, il quale avrebbe promessoa dir lorodi collaborare nella lotta
agl’eretici. La loro soddisfazione non dovette però durare a lungo, o forse
essi stessi credettero poco alla conversione del S., se lo storico gesuita SACCHINI
puo qualificarlo di miserabile uomo che in disprezzo di ogni religione sprofonda
nell'empietà, mentre tra i protestanti BEZA, alla notizia della sua
conversione, commenta di essere sempre stato convinto che l'unico divino è in
realtà Aristotele, del Lizio. Monau, dopo aver ricordato i suoi continui
trascorsi da cattolico si è fatto calvinista, da calvinista anti-trinitario, da
anti-trinitario luterano, e ora di nuovo papista. Lo stratteggia da uomo
profano ed empio, come indicano sia i suoi costumi, sia i suoi discorsi, sia
tutta la sua vita. Forse egli stesso sente di essere circondato da un clima di
diffidenza se non di disprezzo, perché prende la risoluzione di lasciare le
terre dell'impero per trasferirsi in Polonia. Sembra che sia stato un
altro italiano, BUCCELLA, medico personale del re Stefano Báthory, a
raccomandarlo come medico della corte di Cracovia. BUCCELLA, di fede
anabattista, gode di notevole considerazione, né la sua fama d’eretico gl’aveva
pregiudicato l'esercizio della professione in quella Polonia che era ancora un
paese tollerante. Il prestigioso incarico e la fama stessa di cui da tempo gode
gl’apre le porte della migliore società. Riprese a pubblicare alcuni saggi: la “Disputatio
de putredine” è una confutazione, sulla scorta di Aristotele del Lizio, delle
teorie d’Erasto, mentre la “Historia aegritudinis ac mortis magnifici et
generosi domini a Niemsta” è una relazione sulla morte di un borgomastro. Sulla
malattia di quest'ultimo torna nel “Simonius supplex” insieme con una delle
solite polemiche che lo videro ora opporsi al medico di SQUARCIALUPI. Una nuova
svolta nella sua si verifica con la
malattia e la morte del re Stefano. Báthory si sente male nel suo castello di
Grodno, e nel consulto tenuto da BUCCELLA e da S. emersero serie divergenze. BUCCELLA
giudica molto grave le condizioni di Stefano. S. ritenne che non ci è nessun
pericolo. Due giorni dopo le condizioni del re si aggravarono e i due medici si
trovarono d'accordo nell'imporre un salasso al re ma in contrasto sulla dieta. S.
e favorevole a fargli bere del vino, che BUCCELLA intende invece proibire.
Nemmeno nella diagnosi si trovarono d'accordo. Per BUCCELLA, il re soffre di
asma. Per S., d’epilessia. Sopravvenne una nuova grave crisi e il re perde
conoscenza. Pur giudicando molto gravi le sue condizioni di salute, S.
rassicura i circostanti, perché, a suo dire, non c'è ancora pericolo di morte.
Appena pronunzia queste parole che il re spira. Lascia il castello e non volle
assistere all'autopsia, sostenendo che è inutile, poiché l'epilessia “ab
infernis partibus ducit originem” e non lascia tracce nel cadavere. Coordinata
da BUCCELLA, l'autopsia è effettuata da Zigulitz, che accerta una grave
alterazione dei due reni. La ri-cognizione dello scheletro di Báthory conferma
che la morte avvenne per de-generazione renale, uremia e calcolosi. Cracovia:
chiesa di San Francesco pubblica a sua difesa lo “Stephani primi sanitas, vita medica,
aegritudo, mors” che e violentemente contestato dal “De morbo et obitu
serenissimi magni Stephani” scritto da Chiakor su ispirazione di BUCCELLA. La
polemica prosegue a lungo, coinvolgendo altr’amici di BUCCELLA, e degenerando
in insulti e attacchi sulle convinzioni filosofiche dei due protagonisti. Contro
S., tra gl’altri, e indirizzato l'opuscolo “Simonis Simoni lucensis, primum
romani, tum calviniani, deinde lutherani, denuo romani, semper autem athei
summa religio”. Alla fine, Sigismondo III ri-conferma BUCCELLA nella carica di
medico curante, escludendo S. da ogni incarico di corte. Da allora, le
notizie su lui si fanno scarse. Pur senza avere incarichi ufficiali, mantenne
una ricca clientela e gode della considerazione di Rodolfo, dei principi Radziwiłł, di Pavlowski e
dei gesuiti, dai quali si fa ri-ilasciare un salva-condotto per rientrare in
Italia e recarsi a Roma. Precauzione necessaria, con i suoi trascorsi: una
precauzione maggiore e però quella di rinunciare al viaggio. La sua vita
agitata ha così fine a Cracovia, come lo ricorda la lapide posta sulla sua
tomba nella chiesa di S. Francesco. La data di nascita si deduce dalla lapide
sepolcrale, poi andata distrutta in un incendio, posta nella chiesa di S. Francesco,
a Cracovia, nella quale era scritto che il Simoni «ultimum diem clausit III.” Il
testo della lapide è in S. Ciampi, Viaggio in Polonia, Queste notizie biografiche
si apprendono da saggio di S., “Scopae, quibus verritur confutation”. Per
secoli gli storici discuteno del luogo della sua nascita. Verdigi, “S. filosofo
e medico”, Madonia, “S. da Lucca”; Lucchesini, Come scrive egli stesso: S., “Synopsis
brevissima” Madonia, S. da Lucca, Tommasi, “Sommario della storia di Lucca”; Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi
sull'emigrazione religiosa lucchese”; Fabris, “La filosofia di S.” n Verdigi, S.,
S. S. a Teodoro di Beza, in Pascal, Da
Lucca a Ginevra, e in Verdigi, S. S. a Beza, in Verdigi, S., Madonia, S. Pierro,
La vita errabonda di uno spirito einquieto. S. S. S., “Simonius supplex” in Madonia, S. da Lucca, Firpo, Alcuni
documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese. Il paleo-logo
e decapitato in carcere e il cadavere
arso pubblicamente a Roma, nel campo de' fiori. Firpo, Alcuni documenti sulla
conversione al cattolicesimo di un eretico lucchese; Sacchini, Historia
Societatis Jesu, in Verdigi, S., Beza, lettera a Gwalther, in Pascal, Da Lucca
a Ginevra, Monau, lettera a Crato, in Caccamo, “Eretici italiani” Pierro, La
vita errabonda di uno spirito inquieto. S., Madonia, S. da Lucca. Altre saggi:
“In librum Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt
commentarius unus” (Geneva, Crispinum); “Commentariorum in Ethica Aristotelis
ad Nicomachum, liber primus” (Geneva, apud Ioannem Crispinum); “Interpretatio
eorum quae continentur in praefatione Simonis Simonij Lucensis, Doct. Med. et
Philosophiae cuidam libello affixa, cuius inscriptio est: Declaratio eorum quae
in libello D. D. Iacobi Schegkii, et c.” (Geneva, Crispinum); “Phisiologorum
omnium principiis Aristotelis De anima libri III” (Lipsiae, Võgelin); Anti-schegkianorum
liber I, in quo ad obiecta Schegkii respondetur, vetera etiam non nulla,
dialectica et phisiologica praesertim, errata eiusdem, male defensa et excusata
inculcantur, novaque quam plurima peiora prioribus deteguntur” (Basilea, Perna);
“Responsum ad elegantissimam illam modestissimamque praephationem Schegkii, cui
titulum fecit Prodromus antisimonii”; “Ad amicum quendam epistola, in qua vere
ostenditur, quid causae fuerit, quod responsum illud, quo maledicus, et multis
erroribus refertus Schegkij doctoris et professoris Tubingensis liber plene
refellitur, nondum in lucem prodierit” (Pariggi, in vico Jacobaeo); “De vera
nobilitate” (Lipsiae, Rhamba); “De partibus animalium, proprie vocatis Solidis,
atque obiter de prima foetus conformatione” (Lipsiae, Rhamba); “De vera ac
indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium
humoralium” (Lipsiae, Bervaldi); “Artificiosa curandae pestis methodus,
libellis duobus comprehensa” (Lipsiae, Steinmann); “Synopsis brevissima novae
theoriae de humoralium frebrium natura, periodis, SIGNIS, et curatione, cuius
paulo post copiosissima et accuratissima consequentur hypomnemata; annexa
eiusdem autoris brevi de humorum differentiis dissertatione. Accessit eiusdem
Simonis examen sententiae a Brunone Seidelio latae de iis, quae Jubertus ad
axplicandam in paradoxis suis disputavit” (Basilea, Perna); “Historia
aegritudinis ac mortis magnifici et generosi domini a Niemsta” (Cracovia,
Lazari); “Disputatio de putredine” (Cracovia, Lazari); “Commentariola medica et
physica ad aliquot scripta cuiusdam Camillomarcelli SQUARCIALUPI nunc medicum
agentis in Transilvania” (Vilna, Velicef); “Simonius supplex ad incomparabilem
virum, praeclarisque suis facinoribus de universa republica literaria egregie
meritum Marcellocamillum quendam Squarcilupum Thuscum Plumbinensem triumphantem”;
“Pars in qua de peripneumoniae nothae
dignitione curationeque in domino a Niemista, de subiecto febris, de rabie
canis, de starnutamento, de infecundis nuptiis agitur” (Cracovia, Rodecius); “D.
Stephani primi Polonorum regis magnique Lithuaniae ducis vita medica,
aegritudo, mors” (Nyssae, Reinheckelii); “Responsum ad epistolam cuiusdam G.
Chiakor Ungari, de morte Stephani primi”; “Responsum ad Refutationem scripti de
sanitate, victu medico, aegritudine, obitu, D. Stephani Polonorum regis,
Olomutii, Scopae, quibus verritur confutatio, quam advocati Nicolai Buccellae
Itali chirurgi anabaptistae innumeris mendaciorum, calumniarum, errorumque
purgamentis infartam postremo emiserunt (Olomutii, Milichtaler); Appendix
scoparum in N. BUCCELLAM, Sacchini, Historiae Societatis Iesu” (Antverpiae, Nutii);
Ciampi, “Viaggio in Polonia” (Firenze, Gallett); Lucchesini” (Lucca, Giusti); Tommasi,
Sttoria di Lucca” (Firenze, Vieusseaux); Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi
sull'emigrazione religiosa lucchese” -- Rivista storica italiana, Cantimori, “Un
italiano a Lipsia” Studi Germanici -- Pierro, La vita errabonda di uno spirito inquieto,
Minerva, Torino; Caccamo, “Eretici italiani” (Firenze, Sansoni); Firpo, “Alcuni
documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese S.”, “Annali
della Scuola normale superiore di Pisa, Madonia, Rinascimento, Firenze, Sansoni, Madonia,
Il soggiorno in Polonia, in «Studi e ricerche I», Verdigi, Lucca, Tiraboschi su
S., in Biblioteca Modenese, Modena, Ciampi,
Viaggio in Polonia, Lucchesini, Della storia letteraria del Ducato lucchese, Tommasi, Sommario della storia di Lucca, su S. Antischegkianorum liber I. S., De vera
nobilitate; S/ Artificiosa curandae pestis methodus. Simone Simoni. Simoni.
Keywords: nobilitaà, eretici italiani. Luigi Speranza, “Grice e Simoni” – The
Swimming-Pool Library. Simoni.
Luigi Speranza -- Grice e Simonide: la ragione conversazionale e la
filosofia sotto il principato di Valente. la filiale dell’Accademia – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A member of the Accademia, well known for living a principled and
disciplined life. He is, unfortunately, accused of involvement in a plot
against the prince VALENTE (si veda). S.’s
refusal to betray any secret lets to him being burnt alive.
Luigi Speranza -- Grice e Sini: la ragione
conversazionale e la filosofia del segno – la scuola di Bologna -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bologna).
Filosofo romagnuolo.
Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Sini; especially his
“I segni dell’anima,” since this is, in a nutshell, what my philosophy has been
all about: the signs of the soul!” Studia
a Milano sotto BARIÉ e PACI, con il quale si laurea. Insegna ad Aquila e Milano.
Membro per del Collegium phaenomenologicum di Perugia, della Società filosofica
italiana e socio dei Lincei, dell'Istituto lombardo di scienze e lettere. Insignito
per una sua opera del premio della presidenza del consiglio dello stato italiano.
Collabora al Corriere della Sera e la Rai. Dirige per Versorio la collana
"Pragmata", membro del comitato scientifico del festival La Festa
della Filosofia. Premiato da Milano con l'Ambrogino d'oro. Con Grice, tra i
primi a segnalare all'attenzione l'importanza della teoria del segno di Peirce.
Propone un filone di ricerca sulla convergenza dei percorsi di Peirce e
Heidegger sul filo dell'ermeneutica benché la sua formazione didattica fosse di
orientamento prevalentemente fenomenologico. La sua proposta teoretica si
concentra sul tema della scrittura e sulla centralità dell' abecedario come
forma logica della filosofia nella lingua del Lazio. In “Figure
dell'enciclopedia filosofica” rende conto della radicalità del gesto istitutivo
di LUCREZIO e della nascita della filosofia romana in modo da illuminare la
genealogia della nostra civiltà e le figure del suo destino. Questo saggio si
misura con nodi problematici e profondi della nostra cultura. Si mostra la
verità del gesto filosofico di LUCREZIO nel tratto tecnologico dell’abecedario
che trasforma la relazione al mondo in cosità – “de rerum natura”. La pratica
del concetto, infatti, in-forma il paradigma dell'oggettività – “in rerum
natura” -- e traduce la sterminate antichità dell'umano all'interno dell'ambito
crono-topico della visione logica elaborata dalla scansione dell’abecedario del
mondo con la conseguente nascita del tempo e del sapere storico. All'educazione
mitologica dei corpi dei uomini si sostituisce l'educazione dei animi nella ri-mozione
delle qualità sensibili della vita vissuta. Prima operazione di ingegneria
genetica che comporta sia la nascita del soggetto morale nella paideia del bio-politico
-- come Nietzsche intuisce -- sia il conseguente destino nichilista rivelato
dal dis-incanto. Ma l'intreccio, che dalla pre-istoria conduce ai nostri
giorni, rinvia al desiderio e all'iscrizione originaria che danza nelle figure
del sesso e della morte. La soglia così dischiusa, annunciata dalla verità
analogica dell'evento mimato nella generazione, permette il passaggio del
movente desiderante nel desiderio di vita eternal. L’ACCADEMIA e la logica
disgiuntiva hegeliana rappresentano i due poli più rilevanti di questa
consapevolezza lancinante. Addirittura, tutta la filosofia dell’ACCADEMIA è
probabilmente da pensare come la domanda più alta e profonda che sia mai stata
posta alla sapienza di BACCO. E così,
dagli ominidi alla società dell'informazione, sul filo delle pratiche che ne
circoscrivono le traiettorie, la trama del senso transita al SEGNO disegnando
le co-ordinate del nostro tempo e il predominio della visione scientifica e
delle sue figure che dileguano la consistenza dell'inter-soggetivito,
profilando nel rituale pubblico del potere finanziario, e nella conseguente
imposizione dell'universalità oggettiva, un paradosso costitutivo che nasconde
nuove e positive opportunità ancora tutte da scoprire -- e attualmente
mascherate dalla deleteria mercificazione imperante. Delineando nuove occasioni
di senso, le figure dell'enciclopedia invitano a sognare più vero, vale a dire
ad abitare la conoscenza filosofica nell'esercizio dell'evento del significato
nella concretezza delle sue pratiche. Ethos di una nuova scrittura della
soggezione del mortale al desiderio, nell'apertura al transito della vita.
Approfondisce la questione del logos -- parola, ragione -- e della tecnica
facendo del primo il fondamento ultimo, della seconda l'essenza. Una posizione
di rilievo e in controtendenza all´interno del panorama di questa specifica
area della filosofia. Altre saggi: “I greci” ((Accademia di Belle Arti,
Milano), “La funzione della filosofia” (Marsilio, Padova); “La fenomenologia”
(Nigri, Milano); “Storia della filosofia” (Morano, Napoli); “Il pragmatismo
(Laterza, Roma); “Segno” (Mulino, Bologna); “Passare il segno” (Saggiatore,
Milano); “Kinesis: saggio d'interpretazione (Spirali, Milano)”; “Il metodo”
(Unicopli, Milano); “Parola e silenzo” (Marietti, Genova); “Segni dei animi” (Laterza,
Bari); “Segno ed immagine” (Spirali, Milano); “Segni dei uomini” (Egea, Milano):
“L'espressione e il profondo” (Lanfranchi, Milano)”, Etica della scrittura (Il
Saggiatore, Milano, Mimesis, Milano); “Pensare il Progetto” (Tranchida, Milano);
“Filosofia teoretica” (Jaca, Milano) Variazioni sul foglio-mondo. Peirce,
Wittgenstein, la scrittura” (Hestia, Como), “L'incanto del ritmo” (Tranchida,
Milano Filosofia e scrittura (Laterza, Roma); “Scrivere il silenzio:
Wittgenstein e il problema del linguaggio” (Egea, Milano); “Teoria e pratica
del foglio-mondo (Laterza, Roma-Bari) Gli abiti, le pratiche, i saperi (Jaca,
Milano) Scrivere il fenomeno: fenomenologia e pratica del sapere (Morano,
Napoli) Ragione (Clueb, Bologna) Idoli della conoscenza (Cortina, Milano La
libertà, la finanza, la comunicazione (Spirali, Milano) La scrittura e il
debito: conflitto tra culture e antropologia” (Jaca, Milano); “Il comico e la
vita” (Jaca, Milano); “Figure dell'enciclopedia filosofica. Transito verità” (Jaca,
Milano), “L'analogia della parola: filosofia e metafisica; La mente e il corpo: filosofia e psicologia; Origine
del significato: filosofia ed etologia; La virtù politica: filosofia e
antropologia; Raccontare il mondo: filosofia e cosmologia; Le arti dinamiche:
filosofia e pedagogia La materia delle
cose: filosofia e scienza dei materiali (Cuem, Milano); “La verità e la vita” (Ghibli,
Milano) Del viver bene: filosofia ed economia (Cuem, Milano); “Distanza un
segno: filosofia e semiotica” (Cuem, Milano); “Il gioco del silenzio (Mondadori,
Milano); “Il segreto di Alicia” (AlboVersorio, Milano); “Eracle al bivio:
semiotica e filosofia” (Bollati Boringhieri, Torino); “Da parte a parte.
Apologia del relativo (ETS, Pisa) L'uomo, la macchina, l'automa: lavoro e
conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto (Boringhieri, Torino) L'Eros
dionisiaco (Versorio, Milano); “Figure d'Occidente” (Versorio, Milano); “La
nascita di Eros” (Versorio, Milano); “Spinoza” (Time, Milano ); Redaelli, Il
nodo dei nodi. L'esercizio della filosofia” (Ets, Pisa); “Il filosofo e le
pratiche. In dialogo con S. (E.Redaelli,
BrovelliCrippa, Valle, Redaelli),
Milano, CUEM. Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di S., Milano, Mimesis. Cristiano, La filosofia di S.: semiotica ed
ermeneutica (Milano, Mimesis) Collana
Pragmata, in AlboVersorio, Cfr. Copia archiviata, su unimi). Logos e techne,
tecnologia e filosofia, S. Noema, Treccani Enciclopedie o Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Nòema la
rivista di filosofia diretta da Fabbrichesi e S., su riviste. Archivio S. il
luogo ove i materiali relativi ai corsi di S. ed altro ancora. Lectio
Magistralis di S. su La Différance, Arcoiris TV, Riflessioni sul Senso della
Vita. Intervista di Nardi, Riflessioni
Collana Pragmata, Versorio. Carlo Sini. Sini. Keywords: segno, da Lucrezio a
Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza Grice e Siracusa: FILOSOFIA
SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola – la ragione conversazionale del tutore di
filosofia del principe ai bagni di Pozzuoli – la scuola di Siracusa -- filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Grice: “We know
William is from Ockham but we call him Ockham, not William; similarly,
Alcaldino is from Siracusa, and I call him Siracusa!” Vissuto vicino alla corte degl’Hohenstaufen. Studia
a Salerno. Si cimenta negli studi di filosofia, raccogliendo attorno a sé una
serie di seguaci. Quindi, in seguito alla conclusione del corso regolare degli
studi, e scelto per fare da insegnante filosofia presso la stessa scuola
salernitana. Divenuto uno dei più stimati filosofi della scuola, e chiamato
alla corte d’Enrico VI, che nel frattempo è entrato in possesso del regno di
Sicilia, ed e assunto come filosofo del sovrano. Dopo la morte d’Enrico,
divenne il filosofo di lui figlio,
Federico II, che lo rese degno di confidenza e apprezzamento. Fra gl’attività
legate ai saggi filosofici, scrive e un saggio sui bagni minerali di Pozzuoli,
il “De balneis puteolanis”. In questo poema filosofico rimato vengono descritti
con precisione il luogo, le qualità e le virtù dei suddetti bagni. Scrive
inoltre II opere nelle quali celebra le gesta d’Enrico VI e Federico II. “De triumphis
Henrici imperatoris de his quae a Friderico II imperatore praeclare ac fortifer
gesta sunt”. Panvini di S. Caterina Salvatore De Renzi, Panvini di S. Caterina,
Biografia degl’uomini illustri della Sicilia, Ortolani, Napoli, S. De Renzi, “Storia
documentata della scuola medica di Salerno” (Napoli). Alcaldino di Siracusa. Siracusa.
Keywords: i bagni di Pozzuoli. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Siracusa” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Sirenio: la ragione conversazionale del
‘libero’ arbitrio – la scuola di Brescia. filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Insegna a Bologna. Altri
saggi: De fato, Venezia, Ziletti. H. P. Grice, “Sugar-gree”, free fall and freedom, in
Actions and events. Sirenio. Keywords: libero arbitrio, contingetia,
possibilitas, necessitas, ‘secundum philosophorum opinionem” fatum, casum, il
fato, il caso -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sirenio” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Siro: la ragione conversazionale dell’orto a
Napoli – Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo italiano.
Napoli, Campania. S. founds a fililale of L’ORTO at Napoli. VIRGILIO attends it, as does
ORAZIO. L’ORTO enjoys a great success, as S. succeeds in attracting a number of
influential followers. VIRGILIO lives in the casino of L’ORTO -- but the
subsequent fate of The Garden is unknown.
Luigi Speranza -- Grice e Sisenna: la ragione conversazionale dell’orto
romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He achieves acclaim as a historian.
Cicerone suggests that S. is a member of L’ORTO, ‘but not a very consistent
one.’ Lucio Cornelio Sisenna.
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